La ruminazione è una forma di analisi astratta del proprio malessere. Le persone che ruminano cercano di analizzare ripetutamente la propria sofferenza emotiva (es: ansia, depressione) al fine di comprenderne cause e ragioni. Lo scopo è trovare una soluzione e riuscire a stare meglio. La ruminazione però prolunga il disagio e mantiene l’attenzione su segnali negativi.
Studi Recenti hanno suggerito che la ruminazione possa indurre un forte desiderio (craving) di consumare alcolici in persone con disturbo da uso di alcool.
La ricerca mostra che l’induzione di uno stile di pensiero ruminativo aumenta il livello di craving in pazienti con disturbo di dipendenza da alcool rispetto ad al tentativo di distrarsi dal proprio malessere. Questo effetto è indipendente da caratteristiche di tratto e di personalità e non si manifesta in consumatori di alcool sociali o non cronici. Inoltre questo effetto della ruminazione tende a mantenersi nel tempo anche al termine dell’induzione sperimentale. La tendenza a usare uno stile di pensiero ruminativo ha quindi un impatto causale sull’esperienza di desiderio incontrollato (craving) in una popolazione di individui con dipendenza da alcool.
Highlights
Rumination is a detrimental cognitive response that may be associated to craving
We explored the causal impact of rumination on craving across different populations
Rumination, relative to distraction, increased craving, in alcohol-dependent drinkers
The effect of rumination was independent of baseline depression and rumination
The effect of rumination on craving was maintained after a resting phase
Abstract
Background
Rumination is an abstract, persistent, and repetitive thinking style that can be adopted to control negative affect. Recent studies have suggested the role of rumination as direct or indirect cognitive predictor of craving experience in alcohol-related problems.
Aims
The goal of this study was to explore the effect of rumination induction on craving across the continuum of drinking behaviour.
Methods
Participants of three groups of alcohol-dependent drinkers (N = 26), problem drinkers (N = 26) and social drinkers (N = 29) were randomly allocated to two thinking manipulation tasks: distraction versus rumination. Craving was measured before and after manipulation and after a resting phase.
Results
Findings showed that rumination had a significant effect on increasing craving in alcohol-dependent drinkers, relative to distraction, but not in problem and social drinkers. This effect was independent of baseline depression and rumination and was maintained across the resting phase. Conclusions: Rumination showed a direct causal impact on craving that is specific for a population of alcohol-dependent drinkers.
In che modo pensiero desiderante e craving si associano a un uso eccessivo e patologico del cyberporn? Esistono differenze di genere in tale associazione?
Attraverso il pensiero desiderante ogni favola si realizza, ma che succede se costruiamo nella nostra mente un cambiamento che è operativamente impossibile?
La Stimolazione Transcranica a Correnti Dirette (tDCS) è una tecnica ricca di potenziale, soprattutto nel campo dei disturbi da uso di sostanze e addiction.
Dipendenza affettiva, quando l’amore impregna il quotidiano, esacerba comportamenti non controllati, fino a divenire un vero e proprio disagio psicologico
La seconda giornata del Forum di Riccione ha inizio con la Lectio Magistralis di Gabriele Caselli: Terapia metacognitiva per il Disturbo da Uso di Alcool
Studi scientifici hanno evidenziato la natura eterogenea del craving descrivendo tre tipologie, distinte sulla base di differenti disregolazioni dei sistemi neurotrasmettitoriali e considerando inoltre come discriminanti le componenti psicologiche e la familiarità per l'abuso di alcol.
La ricerca, esposta al Forum di Riccione, indaga il ruolo del Pensiero Desiderante nel mantenere soggetti con Disturbo da Uso di Alcol in stato di craving
Nel seminario G. Caselli e M. Spada hanno esposto i principi cardine del modello metacognitivo e i suoi effetti sul modo di pensare e agire verso l’ alcol
La ricaduta in chi soffre di alcolismo sembra avere una sua storia, dei correlati psicologici, biologici e non si tratta quasi mai un evento puntiforme
Per la prima volta la realtà virtuale viene utlizzata all’interno della fase di assessment con pazienti con dipendenza da alcool.
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Catastrofizzazione del dolore nel paziente obeso
L’obesità è correlata allo sviluppo di una compromissione funzionale e di mobilità fisica, a dolore muscolo-scheletrico, a problemi ortopedici, a sofferenza psicologica. Indipendentemente dall’età, bambini e adulti obesi peggiorano la loro capacità di camminare, di spostarsi, di muoversi nello spazio che li circonda.
L’obesità è legata anche ad un conseguente deficit di forza muscolare, al fattore kinesiophobia, alla bassa auto-efficacia e ad una generale diminuzione della qualità della vita.
Una recente review condotta dai ricercatori del Dipartimento di Ortopedia e Riabilitazione – Centro Interdisciplinare per la Formazione e la Ricerca muscolo scheletrico della University of Florida, fornisce un aggiornamento sull’evidenza dell’efficacia della riabilitazione ambulatoriale nei programmi per il trattamento dell’obesità che includono esercizi aerobici, esercizi di resistenza, una restrizione ipocalorica accompagnati da interventi di ristrutturazione cognitiva sui pazienti. Tali programmi elicitano nei pazienti il miglior outcome nelle riabilitazioni funzionali, per un periodo di tempo notevolmente più prolungato rispetto ai tradizionali programmi d’intervento.
Secondo tale analisi, il rischio di sviluppare patologie da dolore muscolo scheletrico, come l’Osteoartrite, aumenta del 36% all’aumentare di sole due unità di BMI (Body Mass Index). I bambini con un elevato BMI presentano una elevata prevalenza di condizioni muscolo scheletriche dolorose, con dolore relativamente alto, rispetto ai coetanei con peso nella norma. Adulti obesi o gravemente obesi mostrano una probabilità fino a 4 volte maggiore di sviluppare una patologia da dolore cronico rispetto a coetanei non obesi. Le malattie muscolo scheletriche degenerative accompagnano tipicamente l’obesità, influenzando ad ogni età la capacità funzionale dell’individuo, provocando disagio fisico durante il movimento, limitando la capacità di esercizio e contribuendo negativamente all’insorgenza e poi al mantenimento della malattia ortopedica. Infatti, l’obesità grave impatta significativamente sulla colonna vertebrale e i siti alle estremità inferiori, come l’anca, il ginocchio e la caviglia, provocando disallineamento scheletrico, compressione articolare e una progressione nella malattia ortopedica degenerativa. Tale condizione spesso si associa inoltre a disabilità cardiorespiratorie, ed un abbassamento grave della qualità della vita generale.
Piede, ginocchio, anca e dolore alla schiena, i muscoli tendono ad atrofizzarsi, la forza a diminuire, il dolore fisico a farsi strada nella vita dei pazienti: fare una passeggiata a piedi, fare shopping o sport, impegnarsi in qualunque banale attività quotidiana che richieda lo spostamento del proprio corpo, diventano progressivamente un problema. Inoltre, il dolore indotto da obesità colpisce a livello transculturale: le donne giapponesi obese segnalano la difficoltà a sedersi sul pavimento con le gambe sotto di loro, in un gesto che normalmente era frequente nel loro quotidiano.
Sono numerose le sfide da vincere per i pazienti obesi con condizioni ortopediche, mentre affrontano il loro percorso di riabilitazione: il dolore articolare e la conseguente paura del movimento (kinesiophobia) possono interferire molto negativamente sul percorso di guarigione, specie se accompagnate dalla comparsa di credenze di catastrofizzazione del dolore e da condotte di alimentazione compensativa.
L’intervento di psicoeducazione sul dolore permette al paziente d’impegnarsi pienamente nelle sedute di riabilitazione, così come l’intervento sul riconoscimento delle emozioni troppo negative possono aiutare i pazienti a sviluppare un punto di vista positivo dell’attività fisica. La presenza di kinesiophobia nei pazienti obesi che si trovano a dover affrontare una riabilitazione al ginocchio o alla schiena risulta spesso elevata. Tale paura del movimento dovuta al dolore è un fattore problematico, perché quando risulta elevata correla con un’alta percezione di disabilità da parte dei pazienti, soprattutto in attività quali correre, saltare, camminare in salita, alzarsi da una sedia, nelle persone con valori di BMI superiori a 40 kg/m2, impedendo di fatto loro un percorso di recupero di successo. E’ interessante notare che valori elevati di kinesiophobia sono stati riscontrati anche in soggetti obesi che non presentavano impedimenti funzionali nella gamma dei movimenti, o deficit di forza, suggerendo quanto sia importante aiutare i pazienti a superare la loro paura del movimento per permettergli di esprimere le loro potenzialità. I protocolli di esposizione graduale al movimento, permettono di vincere la paura e di acquisire fiducia, in un progresso psicologico e fisico che procedono di pari passo.
Altro elemento negativo da tenere in considerazione è la tendenza a concentrarsi sul dolore, ad amplificare la sensazione di dolore ed a sentirsi impotenti in presenza di dolore: la catastrofizzazione del dolore. L’obesità unitamente al dolore osteoartrosico può dare origine a tale fenomeno cognitivo comportamentale, e ad una elevata percezione di disabilità. Frustrantemente, i pazienti che mostrano tale catastrofizzazione, diventano molto sedentari e attivano modalità di binge eating, fattori entrambi responsabili del perpetuarsi di aumenti di peso. I pazienti obesi con patologie osteoartrosiche preferiscono generalmente mangiare cibi ricchi di grassi e saccarosio, in quanto questi elementi possono aumentare la tolleranza al dolore e attenuare il disagio del dolore. Inoltre, gli obesi gravi con maggiore tendenza alla catastrofizzazione del dolore attivano più frequentemente condotte di binge eating e hanno meno controllo delle abbuffate.
Dal cosidetto punto di vista sociale, la catastrofizzazione del dolore è associata alla disabilità sul lavoro e ad una maggiore richiesta di assistenza sanitaria: tale credenza contribuisce alla disabilità fisica perché riduce l’autoefficacia nell’esecuzione dei movimenti. I comportamenti di evitamento della paura e la sedentarietà favoriscono aumenti di peso e il rafforzamento di pensieri irrazionali o pensieri negativistici. Questi processi di pensiero lavorano in maniera esattamente contraria agli obiettivi dei programmi di riabilitazione. Appare fondamentale in chiave riabilitativa un intervento di ristrutturazione cognitiva di tali patterns disfunzionali, e la necessità di passare ad una modalità di pensiero positivo. Istruire i pazienti con dolore cronico che il dolore è un sintomo che può essere gestito, e non una malattia grave dalla quale bisogna costantemente proteggersi è fondamentale per potenziare il recupero ottimale delle funzionalità dei pazienti.
Guidare un paziente attraverso il passaggio fisico ed emotivo dal dolore limitante ad un dolore gestito, è essenziale per il successo a lungo termine delle terapie.
Da tempo è noto come esistono due macrofattori di rischio che possono sostenere lo sviluppo di abitudini poco salutari come la tendenza a rimuginare. Si tratta del temperamento e dell’esperienza. L’esperienza infantile è particolarmente influenzata dallo stile educativo dei genitori.
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Una recente ricerca condotta in Italia (Manfredi et al., 2011) ha evidenziato che la tendenza a rimuginare è influenzata da un temperamento timoroso che incontra genitori particolarmente apprensivi, iperprotettivi o invadenti.
Il rimuginio è una strategia che l’individuo adotta quando si trova innanzi a situazioni di difficoltà. Talvolta viene attivata per sentirsi più sicuri o per analizzare al meglio un problema ma tende a mantenere l’individuo in una condizione di ansia senza attuare un azione concreta per risolvere un problema (Sassaroli & Ruggiero, 2003).
Esistono due vie attraverso le quali il genitore iperprotettivo può portare all’educazione di un figlio rimuginatore (per quanto questa associazione non rappresenta un nesso causale e assoluto).
Innanzitutto il comportamento iperprotettivo insegna al bambino ad essere eccessivamente preoccupato riguardo ciò che di negativo può accadere in futuro o come conseguenza delle proprie scelte.
Secondariamente, un genitore che fa le scelte al posto del bambino riguardo la sua vita non permette a quest’ultimo di allenarsi ad esplorare, fare scelte e sbagliare.
Imparare a sbagliare è fondamentale per costruire personali criteri decisionali ed è molto utile che avvenga in un periodo di vita in cui si è comunque tutelati dall’azione riparativa e di cura dei genitori che possono limitare i danni.
Il rischio di un genitore iperprotettivo è l’ostacolo allo sviluppo di decisioni autonome, innanzi a un problema il bambino tende quindi a non agire e a rimuginare su una molteplicità di ipotetiche alternative, incerto su quale tentare.
Una ricerca condotta dall’ Università di Liverpool ha scoperto che la stessa attività cerebrale sarebbe responsabile sia della produzione di linguaggio che della costruzione di utensili complessi, sostenendo la teoria secondo cui linguaggio e attività motoria di costruzione di utensili si sarebbero evoluti allo stesso tempo.
I ricercatori hanno testato l’ attività cerebrale di 10 esperti produttori di utensili in pietra di mentre erano impegnati proprio nella fabbricazione di utensili in pietra e in un secondo momento sottoposti a un compito di abilità linguistica standard.
Utilizzando la tecnica funzionale di Doppler transcranico (FTCD) è stata scoperta una forte similarità tra i pattern di attivazione cerebrale per entrambi i compiti di costruzione manuale e di linguaggio.
Il linguaggio e la costruzione di utensili sono caratteristiche uniche del genere umano che si sono evoluti nel corso di milioni di anni.
Darwin fu il primo a suggerire la coevoluzione dell’ utilizzo di artefatti-utensili e del linguaggio poiché entrambi implicano una pianificazione complessa e il coordinamento delle azioni.
Secondo lo studio dunque, che ha valutato che cosa accade in tempo reale nel cervello umano mentre fabbrica utensili e mentre produce linguaggio, entrambe le attività dipendono da aree cerebrali comuni sostenendo dunque l’ipotesi coevolutiva delle due abilità.
Kesey descrive con stile asciutto e precisione narrativa la dignità umana dei malati, il loro diritto a vivere emozioni che non sono intrinsecamente diverse da quelle degli individui giudicati sani, bensì seguono percorsi esistenziali differenti.
“Qualcuno volò sul nido del cuculo”, romanzo pubblicato nel 1962 dallo scrittore americano Ken Kesey, è noto soprattutto per la trasposizione cinematografica di Milos Forman esaltata da un sontuoso Jack Nicholson, ma merita di essere rivisitato anche per il suo valore letterario.
La storia è ambientata in un ospedale psichiatrico i cui pazienti, suddivisi fra acuti e cronici, vengono tenuti sotto una rigida disciplina dagli operatori della struttura e dai metodi di cura allora utilizzati dalla scienza medica.
I personaggi principali sono il Grande Capo indiano Chief Bromden, l’io narrante, Miss Ratched, infermiera dura e maligna nonché esecutrice spietata delle direttive dell’amministrazione, e McMurphy, giocatore d’azzardo di sangue irlandese dal temperamento rissoso e istrionico, sopravvissuto a un’esistenza caotica e violenta.
La rivolta dei pazienti, condotta da McMurphy, è un crescendo di episodi memorabili. Dal punto di vista psicologico il valore dell’opera, pensata in un periodo in cui il tema delle condizioni dei soggetti psichiatrici si affacciava con sempre maggiore urgenza sulla scena sociale, è ancora oggi immutato; Kesey descrive con stile asciutto e precisione narrativa la dignità umana dei malati, il loro diritto a vivere emozioni che non sono intrinsecamente diverse da quelle degli individui giudicati sani, bensì seguono percorsi esistenziali differenti.
Kesey sta dalla loro parte, sente la loro sofferenza e la fa toccare al lettore insieme alla trasformazione dello sguardo narrante che progressivamente si accorge di una realtà prima trascurata, di una verità insopprimibile tenuta lontana dalle coscienze della società contemporanea e dalla loro possibilità di provare disagio.
La malattia mentale è sì un sentiero alternativo concesso alla fantasia e da essa alimentato, ma anche dolore, esclusione; il libro non fornisce un’immagine edulcorata della patologia psichica, non la tratta come una condizione che in quanto oggetto di pregiudizio sociale deve essere riconsiderata attraverso una sterile lotta ideologica, bensì la avvicina alle passioni e ai tormenti, agli slanci dignitosi, insieme disperati che le più comuni esistenze conosciute sperimentano senza essere classificate dalla scienza medica.
I dialoghi del libro sono rapidi, efficaci, la prospettiva si delinea formandosi nei gesti dei personaggi, nella loro storia che a poco a poco ritrova la dimensione dell’impegno a vivere, la consistenza del bisogno e del desiderio, l’epica quotidiana del sentimento. “Qualcuno volò sul nido del cuculo” è un’opera di denuncia, d’amore, di rispetto per l’umanità e la fragilità delle sue espressioni; quando il colonnello Matterson, uno dei cronici, solleva la lunga mano gialla scolpita di rughe, la osserva tornando con la vita al ricordo dei campi militari solcati per quarant’anni, quando la sua voce, profonda come la materia che non riesce a raccontare a chi non la comprende, fissa davanti agli occhi il Messico e la noce, così gli appare pensando alla sua forma e risentendo la durezza di quella terra assolata, l’io narrante si sorprende di riuscire per la prima volta a dare un significato a quelle parole, fino a quel momento udite e mai ascoltate, per anni, sempre uguali, come non ci fosse bisogno di penetrare nel loro contenuto visionario eppure reale, irreversibilmente reale.
Molte scene come questa raccontano la sensibilità di Kesey nell’accostarsi a un mondo che va recuperato alla dignità di ogni essere vivente e pulsante, ma che per troppo tempo è stato emarginato nel tentativo di proteggere un’umanità spaventata dalla percezione della propria potenziale debolezza, dalla certezza della propria inevitabile imperfezione.
“Qualcuno volò sul nido del cuculo” è ancora oggi una lezione di impegno individuale e civile, di apertura verso una sostanza uguale alla nostra di lettori e osservatori, solo più ferita.
Understanding the Link Between Spatial Distance and Social Distance
Justin L. Matthews and Teenie Matlock – Cognitive and Information Sciences, University of California, Merced, CA, USA
ABSTRACT:
Why do people use spatial language to describe social relationships? In particular, to what extent do they anchor their thoughts about friendship in terms of space? Three experiments used drawing and estimation tasks to further explore the conceptual structure of social distance using friendship as a manipulation. In all three experiments, participants read short narratives and then drew what they imagined happened during the narrative and estimated passing time. Overall, the results of these exploratory studies suggest that the conceptual structure of friendship is linked to thought about space in terms of path drawing. Results are discussed in light of social distance and intercharacter interaction.
Con i lettori di State of Mind, questa volta ho pensato di condividere una lezione di mindfulness. Forse sarebbe più opportuno chiamarla “un’esperienza di mindfulness”. Si tratta di una lezione tenuta da Jon Kabat-Zinn nella sede centrale di Google nel 2007.
Dopo una introduzione ai temi centrali della mindfulness, tra cui il “doing mode”, la “modalità del fare”, Kabat-Zinn invita i molti partecipanti a sperimentare la pratica di mindfulness insieme a lui. Il tema centrale della prima parte della lezione di Kabat-Zinn è la contrapposizione tra la modalità dell’essere e la modalità del fare.
Un secondo tema affrontato è la pratica, come praticare abitualmente senza farsi agganciare dai giudizi e dalle idealizzazioni rispetto alla pratica (come ad esempio: “devo assolutamente trovare un’ora al giorno per praticare”).
La parte centrale della lezione, in buona tradizione mindfulness, è la conduzione di una pratica da parte di Kabat-Zinn in persona.
Un’ottima occasione per concedersi un’ora per seguire il video e praticare insieme ai dipendenti di Google…
Terapie di fantasia: Affrontare, in maniera coerente e positiva, i piccoli o grandi momenti di disagio che ciascun individuo può trovarsi a vivere? Si può, se si acquisisce, o si rafforza, l’abilità del problem solving, grazie ad un processo cognitivo teso ad identificare il problema, analizzarlo, e individuarne la soluzione.
E se strumento per “imparare” a pensare e agire in modo più funzionale, per migliorare la nostra qualità di vita, fosse la musica? E se, autore dei testi, e delle evocative melodie, fosse un dottore in Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica e Psicosociale? Si tratterebbe, verrebbe spontaneo rispondere, di vere e proprie “terapie” musicali a forte impatto emozionale, veicolo di messaggi maggiormente “attendibili” proprio perché frutto di approfonditi studi e pratiche sperimentazioni sul valore terapeutico della musica.
Ma eliminiamo il condizionale, perché a luglio 2012 il Cantautore/Musicoterapeuta Ventruto ha trasfuso in dieci brani, il suo bagaglio musicale e professionale, regalandoci un cd di grande spessore, produzione Latlantide e distribuzione Edel: “Terapie di fantasia”. Questo il titolo dell’ultimo lavoro di Ventruto, artista a trecentosessanta gradi, cantautore, musicista, virtuoso chitarrista ritmico e solista di impostazione Rock-Blues-Folk, perfezionatosi presso la scuola Jazz “Il pentagramma”. Ma Ventruto è molto di più. Ha nel suo bagaglio una solida preparazione che va oltre la musica, e vi si interseca.
Laureatosi, con lode, presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia di L’Aquila, stupisce discutendo – con la Tesi “La comunicazione attraverso la musica: spot Aci per la vita “questa vita è mia” – orientamento psicoeducativo delle persone alla guida” – un suo brano, divenuto Spot nazionale Aci nella campagna di Sicurezza Stradale, inserito nell’Antologia della canzone Vol. 3 e nel Cantatutto Vol. 4 (Universal/Ricordi).
Si innestano in questo percorso, in netta ascesa, le sue “Terapie di Fantasia”. Il cofanetto si apre con le raffinate note di “Fantasie”, che invitano ad una rinascita emotiva, spezzando una lancia in favore di un sentimento denso, capace di restituirci “un’emozione sommersa” per saper “amare di più” chi ci è accanto, con le sue particolarità, le sue “manie” e le sue “follie”, segni di una specialità da apprezzare.
Segue il “Il Diario”, pezzo ritmico di contrappeso a un testo profondo, centrato sull’esigenza di fermarsi a riflettere, e liberarsi delle intime “debolezze”, affidandole ad “un nero su bianco dipinto di pianto”. Istante nostalgico che, sul chiudersi del brano scandito da note festose, esalta la forza di un Cuore che “se vuole, resiste al dolore”, riscoprendo la voglia di “sognare, vivere, andare”.
Ad incalzare, poi, è “Dove sei” che, narrando di una storia finita, insegna a superare quel “bisogno totale” dell’altro, scavando a fondo nella relazione che si è conclusa “per capire, la Verità” e scoprire, magari, che la persona che ci manca, in realtà, non è quella che ci ha lasciato, ma quella che avevamo idealizzato.
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Motivazione valida, per aprirci a nuove prospettive. Sulla Verità, questa volta da pretendere a noi stessi, è centrata anche “La mia vanità”, ballata dalla melodia suggestiva, fortemente evocativa di quei momenti in cui ci “scende un’emozione al cuore” e si fanno i conti con i rimpianti e con l’orgoglio, che “è solo un tormento”, ma ne trarremmo lezione, e sapremo dirci “in ciò che ho sbagliato potrò capire quel che sarò”.
Percorso inside, che caratterizza “L’Autostima”, brano a puro sfondo terapeutico, che ci suggerisce come fronteggiare, con “pensieri semplici da fare”, gli “sbalzi di umore” provocati da chi “ti mette in discussione”. Basterà “credere in qualcosa”, “non sentirsi mai banali” e apprezzare le nostre abilità!
Dinamiche prettamente sentimentali, accendono “Saprei cosa fare”, pezzo che, su un cantato brioso, esorta la coppia ad un dialogo costante, collante che consente di elaborare le proprie “colpe”, e proiettarle su “un futuro immaginato migliore” ma coerente, perché “dietro una favola, c’è sempre un po’ di Verità”. Si respira, invece, atmosfera fiabesca, in “Un angelo”, inno, per nulla scontato, ad un amore che “è pura poesia”, “film al lieto fine”, intesa totale, alchimia mentale, racchiusa in un “il guardarci negli occhi, anche se non mi tocchi e la tua anima sento che mi porta via”.
Anima che continua a sognare su “Strade di baci” su cui ritrovarsi per vivere le emozioni più trasparenti, “gioia infinita”, che si prova, del resto, quando ci si relaziona con una persona “Semplice e pura”. Questo, il titolo della track n. 9, che accende i riflettori su un valore sempre più raro: la semplicità e la purezza di chi, libero da “pregiudizi” o “assurdi vizi”, vive “in un mondo che cambia la gente e non TE”, proseguendo il suo percorso senza subire condizionamenti da un contesto “sbagliato”.
Chiude il lavoro, racchiudendone l’essenza, il suggestivo “Comprendo”. Il brano, muovendosi da dimensioni religiose (“Tu che sei la Passione, con Giuseppe e Maria voglio scegliere te”), ne estrapola Valori universali, comuni a chi desidera un Mondo che sappia comprendere “l’amore per un bambino” o di chi ti “sta vicino”, per “cambiare la vita” e godere del piacere trasmesso da chi “ti guarda negli occhi e dice non è finita”.
È comunicazione a forte impatto, dunque, densa di contenuti sociali e terapeutici, quella che l’artista ci consegna, e che sperimenta – sia attraverso i suoi brani, che quelli di noti cantautori – durante gli incontri di Musicoterapia, individuale e di gruppo, che effettua nel capoluogo abruzzese. Ma parliamone con lui.
Pascasi: Ci può spiegare in che modo la Musica può “fare” Terapia?
Ventruto: “La musica ha, sull’individuo, un forte effetto terapeutico. Il mio ruolo, di Cantautore e Operatore Psichiatrico con orientamento in Musicoterapia, me lo conferma. Da anni, difatti, svolgo la mia attività, oltre che nella prevenzione primaria (scuole per l’infanzia e di secondo grado), anche in strutture quali il Servizio Psichiatrico Universitario Diagnosi & Cura di L’Aquila, dove entro in contatto con utenti affetti da disturbi Psichiatrici (Depressione Maggiore, Schizofrenia, Disturbo Bipolare). Ebbene, il mio intervento consiste nell’individuare (e conseguire) obiettivi di tipo Terapeutico – coinvolgendo la Sfera Emotiva (Emozioni/Umore e Sentimenti) e le Funzioni Cognitive – e di tipo Psicoeducativo. Il fine, è quello di rendere l’utente consapevole del concetto di stress, spiegandogli anche le modalità di coping, dunque di concreto fronteggiamento di tale stress, da adottare per superare momenti “no”.
V: Gli incontri, individuali e di gruppo, si svolgono con modalità studiate in base ad un metodo specifico. Durante le sedute è presente l’Operatore/Conduttore (il sottoscritto) che presenta canzoni d’autore, eseguendole dal vivo, solitamente voce e chitarra, e, di seguito, ne commenta il testo con il gruppo o l’utente singolo. In linea di massima, opto per brani dotati di melodie evocative di stati d’animo ed emozioni, e testi in grado di trasmettere messaggi positivi. Così, ogni pezzo, appositamente scelto nel panorama cantautorale, diviene input e molla per discutere di situazioni di vita, esperienze e sentimenti, siano essi di fratellanza, amore, amicizia.
P: Durante gli incontri, utilizza anche i suoi brani, visto l’indubbio supporto che riescono a fornire nell’ambito di un percorso Terapeutico e Riabilitativo multidisciplinare?
V: Certamente si, per due motivi. In primis, si tratta di testi (supportati da melodie evocative dei temi trattati) che invitano ad elaborare gli eventi in maniera costruttiva. In secondo luogo, perché le mie canzoni nascono da storie di vita reali (vissute in prima persona o da familiari, amici, conoscenti) o immaginate, in cui ciascuno può identificarsi, ritrovarsi, e riflettere su quale potrebbe essere la strada migliore da percorrere per superare “un calo di energie”.
P: In che senso, la strada migliore?
V: Nel senso che ogni esperienza, anche “negativa”, va letta e interpretata in maniera funzionale e non disfattista. È il mio approccio, del resto, quando veicolo i pensieri nella giusta direzione, sia nella vita di ogni giorno, che quando scrivo canzoni.
V: Solitamente c’è un’idea musicale che mi viaggia nella mente (legata agli stati d’animo del momento) che trova veste comunicativa attraverso i testi. Un legame naturale tra tema e melodia.
P: I suoi, mi permetta il termine, interventi musicali, sono stati d’ausilio anche in seno ai percorsi terapeutici dedicati alla popolazione colpita dal sisma del 2009, che ha pressoché distrutto la città dove vive e lavora. Mi spiega in che modo?
V: Si. Iniziamo con il dire che L’Aquila, a seguito del terremoto, ha perso punti di aggregazione e di riferimento per i cittadini, disorientati e catapultati in una realtà completamente diversa. Di qui, l’esigenza di intervenire per tentare di dare una risposta positiva a questa fonte di disagio. È nell’interfacciarsi con gli utenti, che torna il concetto di coping di cui le parlavo, inteso come gestione concreta dello stress subito. A livello accademico, poi, in occasione del Congresso Sirp 2010, ho esposto due Poster, e coordinato due progetti universitari, tesi alla promozione della rete di aggregazione degli studenti aquilani nel post-sisma.
P: A proposito di congressi, ho appreso della consegna di una targa conferita – durante il recente congresso nazionale di Psichiatria, svoltosi a Perugia – al reparto dove opera, proprio per l’attività di Musicoterapia da lei svolta. E’ così?
V: Si. Durante il congresso dal titolo ”Progetto Musica Mente”, è stata presentata (anche attraverso un video) e premiata, l’attività di Musicoterapia individuale e di gruppo che effettuo all’interno del reparto, in collaborazione con i Tutor ed i professionisti del reparto.
P: Un’ultima domanda: lei ama esibirsi coprendo il volto con una maschera veneziana. Quale messaggio vuole trasmettere?
V: La scelta della maschera non è casuale, né è una velleità artistica. Indossare una maschera è un po’ come interpretare un copione, e avere la possibilità di dar voce a istanze interne, come il senso di giustizia, la ricerca dell’amore, la forza, il coraggio, la combattività, il potere, tutti fattori che rappresentano costanti dell’animo umano. Costanti che, a mio parere, possono essere liberamente espresse sotto un’altra identità. La maschera, con sotteso riferimento a Kubrick, ha un significato ben preciso, provocatorio, legato al mio ruolo e al Progetto Ventruto/Musicoterapia. Purtroppo viviamo in una società priva di abilità sociali, dove la gente si sente in diritto di sopraffare gli altri, dove vige la maleducazione, specie nei confronti delle persone buone e sensibili cui, però, a lungo andare, le prevaricazioni possono creare fastidio. È, quindi, un modo per far capire che ciascuno di noi, ha anche “un lato” del carattere capace di affrontare questo stato di disagio e di violenza verbale, che procura stress psicologico. È come dire “state al posto vostro” (di qui, la scelta di una maschera rigida).
P: Bene. La ringrazio per la disponibilità.
V: Grazie a lei, e alla redazione di State of Mind.
I risultati di una nuova ricerca, condotta su un campione di roditori, offrono una nuova spiegazione di come lo stress possa portare a disturbi dell’umore.
Sembra infatti che, nell’interazione dinamica tra mente e corpo, durante l’interpretazione di stress prolungato, le cellule del sistema immunitario – i monociti – siano richiamati al cervello, favorendo l’insorgenza di sintomi ansiosi.
A differenza di una infezione, traumi o altri problemi che attraggono le cellule immunitarie al corpo, questo reclutamento di monociti non danneggia il tessuto del cervello, ma induce sintomi di ansia. I monociti potrebbero quindi diventare bersaglio di farmaci per il trattamento di disturbi dell’umore.
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La ricerca, condotta alla Ohio State University, ha mostrato che il cervello, sotto stress prolungato, invia segnali al midollo osseo, richiamando monociti. Le cellule migrano in regioni specifiche del cervello – in diverse aree legate alla paura e all’ansia, tra cui la corteccia prefrontale, l’amigdala e l’ippocampo – generando l’infiammazione che causa sintomi ansiosi.
Nei roditori è stato indotto uno stato di stress simile a quello che le persone provano in risposta a fattori stressanti della vita quotidiana. Ai topi maschi che vivono insieme è stato dato il tempo di stabilire una gerarchia, poi un maschio aggressivo è stato aggiunto al gruppo per due ore. Questo cambiamento ha provocato nei topi una risposta del tipo “fight or flight”, come se venissero ripetutamente sconfitti.
L’esperienza della sconfitta sociale porta a comportamenti di sottomissione e allo sviluppo di sintomi ansiosi. L’esperienza della sconfitta sociale veniva ripetuta ciclicamente, una, tre sei volte, e ogni volta il campione veniva testato per i sintomi ansiosi.
Come previsto più cicli di sconfitta sociale elicitano maggiori sintomi ansiosi, che a loro volta corrispondono a livelli più alti di monociti migrati al cervello degli animali attraverso il sangue. Ulteriori esperimenti hanno mostrato che queste cellule non hanno origine nel cervello, ma migrano dal midollo osseo. In studi precedenti, questo stesso gruppo di ricerca ha dimostrato che le cellule del cervello chiamate microglie, la prima linea di difesa immunitaria del cervello, sono attivate da stress prolungato e sono in parte responsabili dei segnali che richiamano i monociti dal midollo osseo.
Esattamente quello che succede a questo punto nel cervello non si sa, ma la ricerca offre degli indizi. I monociti che migrano al cervello non rispondono agli steroidi antinfiammatori naturali del corpo e hanno caratteristiche peculiari quando sono in uno stato infiammatorio. Questi risultati indicano che l’espressione genica infiammatoria si verifica nel cervello in risposta al fattore di stress.
Questi risultati non sono applicabili a tutte le forme di ansia, dicono i ricercatori, ma sono rivoluzionari nel campo della ricerca sui disturbi dell’umore legati allo stress.
“I nostri dati alterano l’idea della neurobiologia dei disturbi dell’umore“, ha detto Eric Wohleb, primo autore dello studio, “e indicano che un sistema bidirezionale, piuttosto che le vie tradizionali del neurotrasmettitore, può modulare alcune forme di reazioni ansiose: qualcosa al di fuori del sistema nervoso centrale, qualcosa nel sistema immunitario, ha un profondo effetto sul comportamento“.
Scienze Cognitive: La percezione delle distanze spaziali in relazione alla presenza di amici
Quale relazione sussiste tra la percezione di distanza affettiva e distanza spaziale?
Sappiamo che in molte culture le relazioni sociali sono definite attraverso l’utilizzo di metafore spaziali (ad esempio il lampante close friends in inglese).
In questo interessante esperimento Justin L. Matthews e Teenie Matlock, ricercatori della University of California Merced, scoprono come la percezione della lunghezza spaziale di un ponte da attraversare diminuisca quando dall’altra parte del ponte, ad aspettarci, ci sono i nostri amici più “vicini”.
Questo esperimento, presentato in una poster session al 35° Congresso Annuale della Cognitive Science Society (COGSCI 2013), fa parte di un corpus di ricerca di più ampio respiro i cui risultati sono pubblicati nell’articolo:
Understanding the Link Between Spatial Distance and Social Distance
Justin L. Matthews and Teenie Matlock – Cognitive and Information Sciences, University of California, Merced, CA, USA
ABSTRACT:
Why do people use spatial language to describe social relationships? In particular, to what extent do they anchor their thoughts about friendship in terms of space? Three experiments used drawing and estimation tasks to further explore the conceptual structure of social distance using friendship as a manipulation. In all three experiments, participants read short narratives and then drew what they imagined happened during the narrative and estimated passing time. Overall, the results of these exploratory studies suggest that the conceptual structure of friendship is linked to thought about space in terms of path drawing. Results are discussed in light of social distance and intercharacter interaction.
Tribolazioni 12 – La sindrome del Titanic – Psicologia
Il condizionamento dei pari in adolescenza e il Progetto ProYouth
I condizionamenti da parte del gruppo dei pari sono una forza onnipresente, il cui potere può essere osservato pressoché in ogni dimensione del comportamento adolescenziale.
Nel corso dello sviluppo psicologico, le interazioni con i gruppi dei pari, ovvero quei bambini e adolescenti che hanno pressoché lo stesso livello di età e/o di maturazione fisica e psicologica, assumono una importanza fondamentale.
I condizionamenti da parte del gruppo dei pari sono una forza onnipresente, il cui potere può essere osservato pressoché in ogni dimensione del comportamento adolescenziale, come la decisione di come vestirsi, quale musica ascoltare, quale linguaggio adottare, a quali valori aderire, come gestire il tempo libero … (Santrock, 2007)
I condizionamenti da parte dei pari possono avere effetti positivi sul benessere degli adolescenti; possono ad esempio portare a sviluppare comportamenti pro-sociali come iscriversi ad una associazione di volontariato, oppure semplicemente aiutarsi a fare i compiti scolastici. Inoltre, il condizionamento da parte dei pari potrebbe prevenire (ma anche rinforzare) comportamenti disadattivi, come fumare o bere alcolici, grazie alla manifesta (dis)approvazione da parte di amici e compagni di classe.
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Tuttavia, il gruppo dei pari rinforza molto più frequentemente i comportamenti disadattavi, rispetto a quelli positivi. Questi, a loro volta, potrebbero tradursi in comportamenti antisociali quali furti e vandalismo, abuso di droghe e alcolici, utilizzo di un linguaggio scurrile, prendersi gioco degli insegnanti o dei familiari.
Quali sono gli adolescenti maggiormente a rischio di rimanere vittime delle influenze negative da parte dei pari? La risposta sembrerebbe essere: tutti sono a rischio, poiché ogni adolescente, nel corso dello sviluppo, incontrerà forme di pressione al conformismo da parte dei pari. Tuttavia, ci sono alcune condizioni che rendono gli adolescenti particolarmente vulnerabili all’adozione di comportamenti negativi, quali ad esempio:
Provenire da una famiglia con un solo genitore
Avere genitori estremamente permissivi, o all’opposto molto autoritari
Una bassa stima di sé
Dinamiche familiari disfunzionali
Esposizione a comportamenti antisociali da parte dei pari o della famiglia
Inoltre, gli adolescenti potrebbero non essere pienamente consapevoli che determinati atteggiamenti, o comportamenti, vengano messi in atto a seguito delle pressioni ricevute dal gruppo dei pari.
Infatti, il mondo adolescenziale tende ad essere connotato dal conformismo, ovvero dal processo in cui un individuo assume atteggiamenti o comportamenti di altri, a causa di una pressione (reale o immaginaria) ad adottarli (Santrock, 2007). È esperienza comune quanto spesso il modo di vestirsi degli adolescenti subisca una trasformazione al momento del passaggio alla scuola superiore, con il contatto con un mondo relazionale nuovo, popolato da nuovi compagni e da nuove regole.
La scuola gioca un ruolo molto delicato nella gestione delle influenze dei pari: qui gli adolescenti trascorrono gran parte del loro tempo, e in questo contesto hanno la possibilità di incontrarsi e socializzare con altri pari; inoltre, le interazioni con i coetanei continuano spesso anche al di fuori degli spazi scolastici, poiché spesso vi nascono amicizie che vengono coltivate nel tempo libero.
La scuola si configura quindi come un luogo in cui hanno origine molte delle pressioni al conformismo da parte dei pari, ma anche come il luogo maggiormente deputato ad intervenirvi, rinforzando atteggiamenti positivi e ostacolando lo sviluppo di comportamenti negativi o antisociali.
Cercando di ottimizzare il tempo che i ragazzi trascorrono a scuola e la qualità delle attività svolte, la nostra proposta per contrastare la pressione tra pari e l’eventualità che questa porti alla diffusione di disagio e difficoltà psicologiche è il progetto ProYouth.
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Il Progetto ProYouth è co-finanziato dalla Executive Agency for Health and Consumers nell’Health Programme della Commissione Europea, vede la partnership di 7 Paesi Europei, ha avuto inizio il 1 Aprile 2011 e terminerà nel marzo 2014. In Italia il progetto è implementato dalla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale “Studi Cognitivi”, che lo sta promuovendo all’interno della Regione Emilia Romagna e di alcune singole province esterne (Firenze, Milano e Alessandria).
Il progetto si sta espandendo tra gli adolescenti e i pre-adolescenti attraverso il contatto con scuole secondarie superiori e centri di aggregazione giovanili per diffondere presso i ragazzi informazioni utili sul benessere in adolescenza, sulle possibili difficoltà e sui problemi che si possono incontrare, con un focus particolare sui Disturbi Alimentari.
In un’ottica di continuità e di disponibilità al dialogo e alla psicoeducazione approfondita, il progetto fornisce gratuitamente la consulenza da parte di psicologi e psicoterapeuti formati disponibili a incontri virtuali con i ragazzi in forma anonima attraverso chat individuali e di gruppo sulla piattaforma www.proyouth.eu.
Santrock, John (2007). Adolescence. New York: The McGraw-Hill Companies, Inc. (DOWNLOAD)
Liberamente tratto e adattato dall’opuscolo “A teacher’s guide to peer pressure” pubblicato dalla Northern Illinois University con il permesso del Prof. Lee Shumow. (DOWNLOAD)
Il Neuroimaging al servizio di Cal Lightman: Le neuroscienze per scoprire le menzogne.
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Dall’università Bicocca di Milano nuovi studi che tornerebbero molto comodi a Cal Lightman, il super-esperto di espressioni facciali e smascheramento di menzogne della fortunata serie televisiva Lie to Me. Lightman, che altri non è che la versione romanzata di Paul Ekman, è già praticamente infallibile da solo, ma un aiuto dalle neuroscienze elimenerebbe ogni dubbio all’investigatore della bugia.
Lo studio, “Can You Catch a Liar? How Negative Emotions Affect Brain Responses when Lying or Telling the Truth”, è stato realizzato da Alice Proverbio, associato di psicobiologia a Milano, Maria Elide Vanutelli e Roberta Adorni. Le aree del cervello più attive dal punto di vista “elettrico” quando una persona sta mentendo sarebbero la regione frontale e prefrontale dell’emisfero sinistro e la corteccia cingolata anteriore.
«Attraverso un approccio di studio basato sull’elettrofisiologia cognitiva – spiega Alice Proverbio, professoressa associata di Psicobiologia e coordinatrice della ricerca – siamo in grado di vedere come reagisce il cervello di una persona quando riconosce qualcosa di familiare. È come se l’attività bioelettrica (derivante dall’attività cerebrale) esclamasse un “aha!”».
Un recente studio ha riscontrato nei bambini adottati minor precisione nella distinzione delle espressioni facciali di tristezza e paura rispetto ad altri
I bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale hanno difficoltà di giudizio sociale e scarse capacità di riconoscere emozioni e stati d’animo altrui
L’interezza dell’emozione provata da qualcuno può essere descritta solo prendendo in considerazione sia le espressioni facciali sia il linguaggio del corpo
Il disturbo depressivo maggiore è associato a una compromissione del funzinamento sociale, compromettendo la qualità di vita e il funzionamento globale
La capacità di elaborare le espressioni facciali, uno dei processi alla base dell’empatia, potrebbe essere influenzato e alterato dall'utilizzo di cannabis.
La Mindful Interbeing Mirror Therapy fa parte delle psicoterapie di ultima generazione e lavora sull'asse integrazione/dissociazione della personalità.
I Disturbi dell'umore, depressione o disturbo bipolare, hanno una maggiore incidenza nella popolazione femminile. Tale dato, associato ad un'alterazione di questi soggetti nella valutazione degli stati emotivi altrui, potrebbe comportare una serie di difficoltà alle madri nell'interazione con il proprio bambino.
Persone con alti livelli di tratti di psicopatia mostrano una ridotta capacità di discriminare le espressioni di disagio autentiche da quelle finte. In particolare sembrerebbe che questi soggetti abbiano maggiori difficoltà nel discriminare l'autenticità delle emozioni di tristezza e paura.
Secondo un recente studio della Binghamton University State di New York, i figli di genitori molto critici mostrano meno attenzione alle emozioni espresse e comunicate attraverso le espressioni facciali. Ciò influenzerebbe le loro relazioni sociali e sembra essere legato a un maggiore rischio di sintomi psicopatologici
Dopo un interesse per la psicologia sociale e per gli studi transculturali, Paul Ekman si è focalizzato sullo studio delle emozioni e delle espressioni facciali ad esse collegate. Il rigoroso approccio scientifico e sperimentale lo ha portato a ricevere numerosi riconoscimenti e a sviluppare strumenti all'avanguardia.
Le esperienze di attaccamento, secondo i diversi stili identificati e descritti in letteratura, influenzano lo sviluppo dell'individuo in numerosi aspetti: dalla propria identità, alla capacità di regolare le proprie emozioni, di interagire con gli altri e, non da ultimo, anche nella postura.
Secondo una ricerca pubblicata sul Journal of Personality and Social Psychology le persone con un atteggiamento disposizionale positivo hanno una forte tendenza ad apprezzare le cose, mentre le persone con un atteggiamento disposizionale negativo hanno una forte tendenza a non apprezzarle.
Il costrutto “atteggiamento disposizionale” rappresenta una nuova prospettiva in cui gli atteggiamenti non sono semplicemente una funzione delle proprietà degli stimoli in esame, ma sono anche una funzione delle proprietà del valutatore.In altre parole alcune persone possono semplicemente essere più inclini a concentrarsi su aspetti positivi e altre su aspetti negativi, indipendentemente dallo stimolo in questione.
Per scoprire se le persone differiscono nella tendenza ad apprezzare o a non apprezzare le cose, Justin Hepler, Dolores Albarracín, autori dello studio, hanno costruito una scala per raccogliere gli atteggiamenti delle persone verso una grande varietà di stimoli non correlati, come l’architettura, le docce fredde, la politica e il calcio.
L’idea è che se gli individui differiscono nella tendenza generale ad apprezzare le cose, gli atteggiamenti verso oggetti indipendenti possono effettivamente essere correlati. I ricercatori hanno scoperto che le persone con atteggiamenti disposizionali generalmente positivi sono più aperte rispetto alle persone con atteggiamenti disposizionali generalmente negativi e quindi potenzialmente più sensibili a un gran numero di situazioni, come ad esempio il rispetto di regole sociali (raccolta differenziata, la guida prudente ecc) o le campagne pubblicitarie.
“Questa scoperta sorprendente dimostra che un atteggiamento non è semplicemente una funzione della proprietà di un oggetto, ma è anche in funzione delle proprietà del soggetto che valuta l’oggetto e che l’atteggiamento disposizionale, come costrutto di significato, ha importanti implicazioni per la teoria e la ricerca dell’atteggiamento e delle decisioni“, concludono i ricercatori.
Psicologia delle Emozioni – La rivincita di Darwin?
Gli studi più curiosi che hanno fatto la storia della Scienza delle Emozioni.
Natura o cultura? Questo è il dilemma. Da sempre.
Chissà se Charles Darwin era consapevole della bagarre che avrebbe scatenato nei secoli a venire, quando in The expression of emotion in man and animals (1872) avanzò l’ipotesi che le espressioni facciali emotive fossero universali, biologicamente innate e adattive dal punto di vista evolutivo.
Darwin fu tacciato di scarsa scientificità dai neopositivisti “hard”, che trovavano inaccettabile una teoria inferita da meri dati osservativi. Fu così che per diversi decenni l’idea predominante rimase quella sulle origini culturali delle espressioni emotive: così come ogni cultura ha il proprio linguaggio verbale, allo stesso modo ha anche un proprio linguaggio delle espressioni facciali.
Si dovette aspettare Tomskin per riabilitare il povero Darwin: partendo dalla teoria che le emozioni sono alla base della motivazione umana e che la loro sede principe è il volto, Tomskin e McCarter (1964) dimostrarono che le espressioni facciali erano associate in maniera affidabile a determinati stati emotivi.
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La loro ricerca fece da apripista a quelli che furono successivamente definiti gli “universality studies”. Questi studi rilevarono, per esempio, un elevato accordo nella valutazione delle espressioni emotive facciali sia nelle culture letterate che pre-letterate, e documentarono come membri appartenenti a culture differenti producessero spontaneamente, di fronte a video emotivi, le medesime espressioni facciali.
Da quel dì è stato un impressionante susseguirsi di ricerche svolte in tutto il mondo, in diversi laboratori, con metodologie differenti, su soggetti appartenenti a svariate culture, che hanno confermato l’universalità di sette espressioni facciali emotive: rabbia, tristezza, disprezzo, disgusto, paura, felicità e sorpresa.
Ma non è finita qui! Per la gioia di Darwin diversi studi hanno portato prove a favore dell’ipotesi dell’origine biologica e genetica delle espressioni: per esempio,persone cieche dalla nascita producono spontaneamente le stesse espressioni facciali emotive di persone vedenti; inoltre le loro espressioni sono molto più simili a quelle dei loro familiari rispetto a quelle di estranei.
La teoria che le espressioni emotive siano innate, universali e abbiano origine biologica sembra pertanto fondarsi su un solido corpus di ricerche scientifiche (per una panoramica più esaustiva vedi Matsumoto & Hwang, 2011).
Ciò però non significa che la cultura non giochi anch’essa un ruolo importante! Secondo Paul Ekman esistono una serie di “display rules”, regole di esibizione culturalmente apprese che prescrivono come manifestare le espressioni emotive in base al contesto sociale: intensificandole, attenuandole, inibendole o mascherandole.
A tal proposito, è passato alla storia l’esilarante studio condotto da Friesen (1972) in cui ad un gruppo di Americani e ad un gruppo di Giapponesi furono mostrati dei filmati di raccapriccianti operazioni chirurgiche. Se gli individui erano da soli, non vi erano differenze tra i gruppi circa l’espressione di disgusto mostrata. Ma in presenza dello sperimentatore era tutto un altro discorso: i Giapponesi mascheravano l’espressione di disgusto stampandosi un finto sorrisone sul volto, mentre sullo schermo comparivano scene non adatte a stomaci sensibili. La spiegazione di questo comportamento sembra risiedere nell’influenza che la cultura esercita sulla manifestazione delle emozioni: mostrare emozioni negative in pubblico in Giappone è considerato disdicevole e viene mascherato tramite un sorriso.
Dato un substrato biologico (per la gioia di Darwin) “praticamente tutti gli aspetti della comunicazione delle emozioni, dall’accuratezza del riconoscimento delle emozioni universali fino alle differenze nell’attribuzione di intensità dell’espressioni emozionali o ai diversi significati associati a certe emozioni, sono influenzati da aspetti culturali specifici” (Matsumoto & Crtini, 2001) che non possono essere trascurati, anche solo per evitare gaffes o incidenti diplomatici. Infatti, persino un sorriso può acquisire significati diversi a seconda del contesto culturale (Furo, 2009). Insomma, se vi trovate in Giappone a cena, non sorridete troppo di fronte ad un bel pezzo di sashimi: voi sarete anche felicissimi di strafogarvi di sushi, ma loro potrebbero pensare che vi faccia veramente schifo!
Friesen, W. V. (1972). Cultural differences in facial expressions in a social situation: An experimental test of the concept of display rules. Doctoral dissertation, University of California, San Francisco. (DOWNLOAD)
Tomkin, S. S., & McCarter, R. (1964). What and where are the primary affects? Some evidence for a theory. Perceptual and Motor Skills, 18(1), 119-158. (DOWNLOAD)
La singolarità come matrice di differenze: teoria del big bang e funzione relazionale del sintomo.
Nell’ambito della letteratura sistemica, grande importanza viene attribuita alla funzione del sintomo/problema a cui si conferisce l’attributo relazionale.
Infatti questa qualifica consente al terapeuta che abbia questa forma mentis di avere come vademecum osservativo e metodologico l’idea che il disagio della persona si alimenti “in relazione a….”.
In virtù di questo, grande importanza riveste il concetto di “relazione” (di importanza primaria quella familiare) che consente al clinico di usufruire di una lente che favorisca una lettura delle dinamiche relazionali complesse.
Rivedendo, anche se in modo sintetico, la teoria del “big bang” circa le origini dell’universo, secondo la quale a partire da una singolarità (la famosa particella di Dio) si è originata un fenomenologia variegata (pianeti, stelle, galassie) diversa per forma, contenuto e funzione, ma accomunata da una stessa presunta origine, ho pensato ad una sorta di relazione, a mio avviso presente, tra questa teoria e la funzione relazionale del sintomo come matrice, per certi versi, della nascita di nuovi equilibri familiari.
Volendo, in seconda istanza, estendere il concetto sistemico di “circolarità” alla teoria del big bang, verrebbe da chiedersi quale sia il feedback che le galassie, i pianeti, le stelle, rimandano alla loro “ particella di Dio”? Beh, credo che proprio “la differenza” di questi non possa che confermare come un qualcosa forse non del tutto definito nei suoi costituenti, in virtù di un big bang (un sintomo in chiave di teoria sistemica) possa favorire un processo di definizione e differenziazione (pianeti, galassie; sistemi familiari con pattern relazionali diversi), podromo di nuove possibili realtà.
Il terapeuta, così come lo scienziato fisico, si barcamenano nell’arduo compito di ricerca di una plausibile spiegazione di questo mare magnum con il quale si trovano a doversi relazionare e, in virtù di questo, ciò che, a mio avviso, dovrebbe essere elemento indispensabile nel loro kit personale, non è la mera speranza di scorgere la vera origine delle cose (a mio avviso non facile da ricercare) bensì di usufruire delle risorse con le quali interagiscono (famiglia, contesto sociale per il terapeuta e elementi astrofisici per il fisico) al fine di cogliere la dinamica dell’incastro e comprendere come la diversità (personalitàdiverse; stelle, pianeti) possa coesistere in una danza relazionale promotrice di significati illuminanti circa l’equilibrio del loro essere.
Rapporto dal congresso APA 2013 – Honolulu, Hawaii
APA 2013
American Psychological Association
Honolulu, Hawaii
Un congresso mastodontico che volutamente non segue un filo comune. È un contenitore universale e il luogo di incontro degli psicologi americani.
Come sapete, (Leggi: APA 2013 – Il congresso annuale della American Psychological Association) all’inizio di agosto ho partecipato al congresso annuale dell’APA, l’American Psychological Association. Ci ero andato per contribuire a un simposio dedicato alla diffusione della REBT, la terapia razionale emotiva comportamentale fondata da Albert Ellis, nel mondo.
Il mio simposio, si è svolto sabato mattina e ha visto una buona partecipazione. La REBT da sempre è una sorta di alter ego della CBT, una versione più ibrida e più flessibile, con maggiori apporti provenienti dalla client centered therapy di Rogers e maggiori punti di contatto con aspetti cognitivi di “terza ondata”. L’importanza del pensiero secondario, definito non a caso meta-emotivo nelle ultime formulazioni, facilita la scambio tra REBT e modelli metacongitivi.
Nel simposio si è riflettuto su come la REBT si sia evoluta emigrando dagli USA in paesi per alcuni aspetti molto differenti: in India, Sudamerica, Inghilterra, Italia o Romania.
La REBT è molto centrata sulla critica razionale dei pensieri disfunzionali, in un stile molto pragmatico e -a tratti- aggressivo. Presuppone un atteggiamento franco e poco cerimonioso. In paesi come India o in paesi europei questo aspetto va temperato. Un altro aspetto che va incontro a modifiche culturali è la gravità dei pensieri disfunzionali.
Le doverizzazioni a quanto pare sono una caratteristica dei clienti dei paesi occidentali, mentre in India prevale per gravità l’autosvalutazione e l’inferiorità.
Il resto del congresso era caratterizzato dall’estrema varietà di interessi.Teniamo conto che L’APA è un congresso generalista, che non privilegia un’area particolare, ma l’intera psicologia. C’erano così la psicologia del lavoro o la psicologia dello sport, la ricerca di base più sperimentale e la ricerca clinica naturalistica.
Se c’era un argomento dominante forse era la guerra. Nelle plenarie ho visto spesso lavori sulle conseguenze psicologiche e sui problemi psicologici della guerra. Una centralità della guerra inimmaginabile per noi europei. Una delle presentazioni più interessanti era dedicata all’inserimento sociale delle famiglie dei militari.
Hazel Atuel, dell’University of Southern California, in una sessione dal titolo “Trattamento di bambini e coniugi di personale militare” ha descritto una ricerca condotta raccogliendo informazioni sulla percezione che hanno i genitori che stanno nell’esercito del clima scolastico, dell’impegno scolastico, della qualità dei programmi scolastici e dei problemi scolastici come il bullismo.
Le famiglie dei militari percepiscono il clima della scuola meno favorevolmente, e le scuole incoraggiano meno il coinvolgimento dei genitori militari. Insomma, intorno ai militari si crea un’atmosfera di lontananza e di diffidenza, che potrebbe essere pagata dai bambini.
Questi è solo un esempio dei problemi trattati all’APA. Il ventaglio degli interessi era molto ampio, dalla violenza sessuale al ruolo degli psicologi nella gestione dei disastri naturali, dalle infedeltà coniugali agli atteggiamenti di dominanza e sottomissione sociale, passando per l’efficacia dei feedback per limitare lo spreco di energia all’eterno problema del razzismo e dei suoi risvolti psicologici.
Una delle presentazioni più popolari è stata quella di sull’intelligenza dei cani condotta da Stanley Coren, della University of British Columbia. L’intelligenza dei cani è soprattutto di tipo imitativo e per interagire con loro dobbiamo soprattutto effettuare operazioni di modelling, mostrare le cose da fare, piuttosto che indurli a fare indicandole. Qui ci sono dei video teneri e divertenti proiettati da Coren durante la sua presentazione:
Personalmente ho seguito attentamente alcune sessioni di psicoterapia. La prima era una sorta di report sulla situazione della psicoterapia negli USA. La sessione era presieduta da Ray DiGiuseppe. Accanto ai dati positivi sulla sempre crescente diffusione e domanda di psicoterapia e sulla diminuzione costante dello stigma, della vergogna di andare in psicoterapia, c’erano anche le notizie negative.La principale è che il livello di frammentazione sta aumentando e ha colpito, dopo la psicoanalisi e le terapia psicodinamiche, anche le altre terapie.
In particolare la terapia cognitiva, che pareva immune alla piaga della frammentazione e della moltiplicazione delle etichette e delle sottoscuole. Un tempo c’era (apparentemente) solo una terapia cognitiva, o al massimo due: al CBT classica alla Beck, poi c’era la REBT, la sorella terribile fondata da Ellis, e poi il progenitore comportamentale, la BT. Oggi, con la terza ondata si assiste a un proliferare di sigle: ACT, compassione therapy, terapie metacognitive di vario genere, mindfullness, solo per citarne alcune.
Nella seconda sessione a cui ho assisto si visionava e si commentava una seduta videotrasmessa. La seduta era condotta da Stevan L. Nielsen dell’Università dello Utah. Nielsen è un terapista REBT ortodosso, forse anche troppo. Un “child” di Ellis, lo ha definito Raymond DiGiuseppe, che era uno dei discussant insieme a Michael Lambert, il cui prestigio è salito alle stelle dopo il successo universale del suo OQ 45, ed Elizabeth Williams, psicoterapeuta di orientamento femminista e multiculturale.
Il paziente era un ragazzo timido e depresso, un po’ isolato socialmente e affettivamente. Nielsen lo ha aiutato a darsi una scossa, utilizzando un tipico stile REBT stimolante e incoraggiante. Perfino troppo, attirandosi le critiche di DiGiuseppe, terapista REBT anche lui ma più propenso a lasciare spazio al paziente e a tacere. Ancor più scettico Lambert, che ha molto sottolineato invece la bontà degli interventi di validazione e accoglimento. Lambert, infatti, è un seguace della emotion focused therapy di Greenberg a sua volta figlia della client centered therapy di Rogers. Infine la Williams ha mantenuto un atteggiamento intermedio. Ha in parte criticato l’eccesso di zelo di Nielsen, che effettivamente a tratti avrebbe fatto bene a parlare un po’ meno e a lasciare il tempo al paziente di riflettere. Dall’altra però la Williams ha anche apprezzato la capacità motivante di Nielsen, che ha saputo trasmettere un po’ della sua energia al ragazzo sofferente.
Una sessione su cui riflettere e in cui, ancora una volta, è emerso quanto sia differente una seduta reale dalle sue descrizioni teoriche. Insomma, un congresso mastodontico che volutamente non segue un filo comune. È un contenitore universale e il luogo di incontro degli psicologi americani.
Chiudo con una nota di colore. Ho conosciuto molti colleghi “Italian-american”, tutti commossi nell’incontrare un “Italian-italian”, come dicevano loro. In particolare ho trascorso molto tempo con Bernardo Carducci, professore di psicologia alla Indiana University e studioso esperto di timidezza, argomento interessantissimo sul quale ha rilasciato un’intervista a State of Mind. Carducci, infine, è presidente e fondatore della Italian-American Psychology Assemby, un’associazione che riunisce i colleghi psicologi italo-americani e di cui sono diventato membro onorario. Da buon paisà.
La relazione tra Medico e Paziente: sullo stesso fronte. Psicologia
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Oggi il modo migliore per passare i messaggi importanti è metterli su pellicola, farci un film o un corto.
Così è per Insieme, film presentato a Venezia. Film sul cancro e sulla battaglia di una donna che ha al suo fianco persone con le quali può non nascondersi. Dalla sorella che le sta a fianco quasi come fosse anche lei a vivere questa malattia, al medico al quale può dire anche i dubbi più banali e trovare risposte alle sue sofferenze.
Lo scopo di questo film è proprio quello di far emergere un pò quelle che sono le credenze spesso sbagliate di chi vive una situazione del genere.
Avere supporto di amici e parenti quindi non nascondersi ma condividere, di poter PARLARE con il medico di tutto, lui è l’esperto ma in quel momento anche chi ascolta non solo chi dice cosa fare.
Si sa il supporto adeguato e le cure possono insieme sconfiggere la battaglia.
Bisogna interrompere quel circolo vizioso secondo il quale l’oncologo non chiede e il paziente non parla perché convinto che la chemio, per funzionare, debba per forza farlo star male.
Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e liberamente ispirato a una storia vera, racconta la quotidianità e i problemi di una giovane donna colpita da tumore (…)
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Le malattie aumentano i bisogni spirituali degli individui: la spiritualità alimenterebbe le speranze e la capacità di trovare un significato alla malattia.
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Vista l’emergenza sanitaria Covid-19, è stata condotta un’indagine conoscitiva per valutare lo stato psicologico del personale che opera in area oncologica
L’intolleranza all'incertezza potrebbe avere un ruolo significativo nell'esacerbare il disagio e ridurre il benessere psicologico nei casi di tumore ovarico
La chemioterapia può dare effetti collaterali come nausea, vomito, affaticamento e alopecia, impattando anche sull'immagine di sé dei pazienti oncologici
Un bambino con malattia oncologica costituisce una realtà spaventosa soprattutto per i genitori per cui è fondamentale la possibilità di ricevere supporto
La psiconcologia si sta orientando sul trattare eventuali disturbi psicologici legati alla patologia oncologica con interventi di terza onda come ACT e MCT