Il fenomeno del mind wandering, in italiano “il vagabondare della mente”, è un’esperienza che consiste nell’avere dei pensieri che non rimangono fissi su un unico contenuto ma vagano, appunto, in diverse direzioni e senza una meta precisa.
L’attenzione si sposta dai pensieri focalizzati sul compito in corso e/o eventi nell’ambiente esterno, a pensieri autogenerati senza che vi sia alcuna forma di controllo.
Il fenomeno del mind wandering ha cominciato ad essere oggetto di studio nella prima metà degli anni ’90, periodo in cui l’ambito delle neuroscienze cognitive si affermava progressivamente nel panorama scientifico. Nacque dunque un interesse per ciò che fino a quel momento, soprattutto nei contesti sperimentali, veniva considerato rumore di fondo generato nei momenti in cui il soggetto non era impegnato in alcun compito cognitivo (Christoff, 2016). Immaginando un continuum, il mind wandering si pone all’esatto opposto di quello che è il pensiero volontario che nasce in seguito alla presentazione di uno stimolo o durante lo svolgimento di un compito.
William James nella sua opera “Principi di Psicologia” (1890), descrisse il pensiero e il flusso di coscienza paragonandolo metaforicamente al volo di un uccello: così come gli uccelli alternano il volare all’appollaiarsi su un ramo, così fa il pensiero. È come se la mente fosse continuamente soggetta a un movimento oscillatorio tra uno stato di attenzione esternalizzata e uno in cui l’attenzione è rivolta ai propri stati interni (Goncalves, 2018); questa seconda condizione è una forma di pensiero svincolata dall’ambiente circostante che corrisponde al fenomeno del mind wandering.
Mind wandering e day-dreaming sono sinonimi?
In letteratura non è raro trovare affiancati i termini mind wandering e day-dreaming (traducibile con “sogno ad occhi aperti”), due termini apparentemente simili che erroneamente vengono usati talvolta come sinonimi. Il primo fenomeno, come illustrato precedentemente, consiste in una sequenza di pensieri incontrollata che si sposta da un oggetto all’altro, il secondo, invece, può essere considerato come un processo di pensiero caratterizzato da una forte componente intenzionale che consiste nella proiezione volontaria di determinati scenari o rappresentazioni mentali sorrette spesso da una struttura narrativa.
Di solito la sequenza erratica di pensieri che si ha durante il mind wandering non è molto lunga, tuttavia in un primo momento non sono immediatamente accessibili tutti i vari passaggi, che possono essere visti come nodi di una rete che hanno portato dalla fine di un pensiero alla nascita del successivo. Questi pensieri possono essere identificati attraverso una ricostruzione a posteriori da parte del soggetto, ovvero una rievocazione monitorata che permetta di risalire alle origini di ogni singolo pensiero episodico (Dorsch, 2014).
Mind wandering: le aree cerebrali coinvolte
Nel corso degli ultimi anni il mind wandering è stato oggetto di numerosi studi condotti nell’ambito delle neuroscienze cognitive che hanno tentato di risalire alle aree cerebrali coinvolte in questo tipo di attività (Mittner et al., 2016). La Default Mode Network (DMN) comprende una serie di aree quali la corteccia cingolata posteriore e la corteccia prefrontale mediale, il precuneo ed entrambe le circonvoluzioni angolari (Mason, 2007; Raichle, 2001). Alcune di queste aree cerebrali sono anche coinvolte in alcuni processi mentali associati al pensiero creativo, ad esempio si attivano di più durante la creazione di storie a partire da una lista di parole sconnesse (Wiggins, 2014). In uno studio di Takeuchi et al. (2011) si è osservata un’attivazione maggiore del precuneo durante prestazioni maggiormente creative in un compito di memoria di lavoro. La DMN, inoltre, è strettamente legata ai processi di rievocazione della memoria episodica, al pensiero autobiografico rivolto al futuro e alla mentalizzazione (Mittner et al., 2016; Christoff, 2016; Beaty, 2015). Anche il lobo temporale, e in particolare l’ippocampo, sembra avere un ruolo fondamentale nel mind wandering. Infatti, sembra che la sua attivazione sia associata all’immaginazione di nuovi scenari o possibili esperienze future (Schacter, 2008).
Mind wandering e creatività
Sia il mind wandering che il pensiero creativo più in generale sfruttano la capacità di immaginare attraverso il cosiddetto “occhio della mente”. Quando l’attenzione viene rivolta unicamente all’osservazione dei processi interni, la codifica degli stimoli provenienti dall’ambiente esterno è momentaneamente sospesa riducendo le potenziali distrazioni circostanti; il risultato è quello di una maggior concentrazione dell’attenzione verso i propri pensieri.
Nella vita di tutti i giorni questo tipo di attività mentale si può riscontrare in una varietà di situazioni. Ad esempio mentre si guida l’auto, o si è assorti nell’osservare il panorama fuori dal finestrino di un treno, o quando si è alle prese con una lettura noiosa (Dorsch, 2014).
Sebbene l’attività del mind wandering sembri avere origine dalle normali fluttuazioni nell’attività cerebrale e nei processi cognitivi degli esseri umani, alcuni ricercatori hanno individuato degli aspetti potenzialmente negativi legati ad essa. Ad esempio, sembra che il mind wandering possa essere spesso associato a stati dell’umore depressivi, può rendere più difficile comprendere il significato di un testo, e provocare dei rallentamenti nella rievocazione dei ricordi e nei riflessi con conseguenze potenzialmente dannose nel caso di attività che necessitano di elevate risorse attentive, come guidare l’auto in mezzo al traffico (Smallwood, 2015; Yamaoka, 2019).
In conclusione, dai dati emersi in letteratura sembra evidente che vagabondare con la mente possa promuovere nelle persone la creazione di nuove idee. Ciononostante, al fine di limitare i potenziali effetti collaterali di un eccessivo mind wandering, potrebbe essere utile apprendere abilità di mindfulness o di meta-consapevolezza utili ad osservare ed a regolare l’attività mentale spontanea (Smallwood, 2015).