expand_lessAPRI WIDGET

Leadership negli Sport di Squadra #6: Leader istituzionale o intimo

 

Leadership negli Sport di Squadra #6:

Leader istituzionale e leader intimo

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

 

Leadership negli sport di squadra: Leader istituzionale o intimo. -Immagine: © Sergey Nivens - Fotolia.comLa caratteristica propria dello sport di squadra, è la possibilità di distinguere un leader istituzionale da un leader intimo. Il primo viene definito a priori mentre il secondo si determina a livello inconscio all’interno di quella che Mazzali [1995] definisce: anima gruppale.

LEGGI TUTTI GLI ARTICOLI DI STATE OF MIND SU: PSICOLOGIA DELLO SPORT

Nel capitolo precedente sono stati analizzati i processi e i modelli di riferimento alla base della assunzione e gestione del ruolo di leader. A questo punto, concentrando l’attenzione sull’ambito sportivo si può osservare come la condizione di leader risulti particolare all’interno di un gruppo di questo tipo.

La caratteristica propria dello sport di squadra, è la possibilità di distinguere un leader istituzionale da un leader intimo.

Il "segreto" di Andrea Pirlo. - Immagine: fonte - napolinetwork.it
Articolo Consigliato: Il “segreto” di Andrea Pirlo: Calcio & Funzioni Esecutive

Il primo viene definito a priori mentre il secondo si determina a livello inconscio all’interno di quella che Mazzali [1995] definisce: anima gruppale.

Difficilmente quindi si può parlare di una singola figura di leader anche se in alcuni casi rari l’assenza di un giocatore dotato delle necessarie capacità può far sobbarcare tutte le responsabilità del capitano sul ruolo dell’allenatore. Molto spesso, al contrario,  si possono distinguere queste due diverse posizioni nella gerarchia di status (l’allenatore e il capitano) la cui armonia gioca un ruolo fondamentale sia a livello di prestazione che a quello di soddisfazione per tutti i componenti del gruppo. Molte ricerche ne hanno messo in evidenza alcune differenze, le quali influenzano anche le aspettative e le funzioni che svolgono all’interno della squadra. Nella tabella seguente vengono riassunte le più importanti:

TAB. 1 LEADERSHIP SPORT DI SQUADRAE’ importante sottolineare che queste due categorie rappresentano solo degli idealtipi, chiari, semplici e utili a livello teorico, ma altrettanto irreali nelle dinamiche quotidiane intragruppi dove, solitamente, si pongono entrambe lungo un continuum in ciascuna delle dimensioni prese in considerazione.

Lo stesso Mazzali [1995], pur riconoscendo all’allenatore un principale orientamento al raggiungimento degli obiettivi imposti dalla dirigenza e al capitano un principale orientamento alle relazioni, non nega la necessità di un atteggiamento intermedio da parte di entrambi perché si possa raggiungere la stabilità interna, necessaria ad affrontare senza esagerate esultanze i momenti di vittorie e senza disgregazioni interne in periodi di sconfitte, e per mantenere elevato l’impegno del gruppo. Questa tipologia di leader che sa utilizzare la propria autorità ma che la trae dall’accettazione del gruppo (guadagnandola quando la sua origine non dipende da questa)  è definito dall’autore un leader “catalizzatore”.

Tutte queste caratteristiche risultano elementi determinanti per la soddisfazione e la prestazione della squadra secondo il modello multidimensionale, presentato nell’articolo precedente, di Chelladurai [1990]. Questo concetto è ribadito dall’idea esposta da Mazzali che la gestione dello spogliatoio, e quindi delle problematiche socio-emotive e prestazionali della squadra, è sempre un momento transitorio in cui non esistono comportamenti universalmente validi poiché ogni gruppo rappresenta una realtà a sé stante.

E’ indispensabile quindi che il leader possegga abilità che gli permettano di adattare il proprio comportamento per affrontare nel modo migliore le più svariate situazioni problematiche. Alla luce, quindi, di quello che si è osservato essere la caratteristica principale per il successo del leader (la versatilità comportamentale), questa associazione tra il tipo di leader e gli stili comportamentali ideati da Bales e Slater [1955], pur mantenendo un fondo di verità, appare eccessivamente rigida. Sia l’allenatore che il leader interno alla squadra devono risultare in grado di attivare l’uno o l’altro stile comportamentale.

Detto questo rimangono due differenze sostanziali tra questi ruoli, che riguardano la loro posizione rispetto al collettivo e la loro origine.

Rispetto al primo punto è necessario ricordare che l’allenatore appartiene alla sub-struttura ufficiale dello spogliatoio [Giovannini e Savoia, 2002] e per questo mantiene sempre un certo distacco rispetto alla collettività; possiede un ruolo importante e correlato con le dinamiche della squadra ma esterno ad esse. In relazione al comportamento dell’allenatore questa distanza dalla collettività può essere più o meno colmata ma non può essere mai esaurita poiché è una qualità fondante la posizione a cui appartiene; l’allenatore prescrive l’allenamento ma non lo esegue, prepara le partite ma non le gioca assieme agli altri. Ciò che non riesce a colmare dipende quindi da quelle esperienze comuni che quotidianamente condividono i giocatori alle quali non appartiene.

Monografia: Leadership nello Sport - Introduzione. - Immagine ©-iko-Fotolia.com
Articolo Consigliato: Leadership negli Sport di Squadra – Introduzione #1

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: LEADERSHIP NELLO SPORT

Esattamente l’opposto si può dire per il leader intimo, che fa parte della sub-struttura ufficiosa dello spogliatoio, in quanto il suo ruolo non è determinato ufficialmente ma emerge dalle dinamiche di gruppo. Al contrario dell’allenatore il leader intimo condivide con i compagni di squadra tutte le dinamiche dell’allenamento e della partita vivendo in prima persona il gioco di squadra.

Per quanto riguarda l’origine esiste una differenza importante già segnalata nella Tab1. L’allenatore, essendo un ruolo istituzionalmente determinato, viene imposto, come figura, ai membri della squadra, dalla dirigenza. I giocatori, di norma, non hanno alcun potere nella sua elezione, il che può indicare che, al di là della professionalità di ciascun atleta, il rapporto inizialmente è del tutto superficiale anche se si potrà costruire con il tempo.

Il capitano, pur essendo difficile determinare quali sono gli esatti processi che portano alla sua elezione, viene scelto dai membri del gruppo che lo riconoscono come legittimo possessore di questo status. Il processo di costruzione del ruolo di leader segue quindi delle dinamiche diametralmente opposte: per l’allenatore l’elezione è istituzionale e in un secondo momento può essere riconosciuta e accettata dalla collettività; per il capitano, al contrario, la posizione viene assegnata dal gruppo ed eventualmente, e in un secondo tempo, riconosciuta e accettata ufficialmente dall’allenatore.

Come è già stato accennato risulta piuttosto semplice riconoscere chi detiene il ruolo di leader interno alla squadra, mentre è alquanto complesso individuare i motivi e i processi decisionali che hanno portato il gruppo a eleggerlo, soprattutto perché questa scelta, il più delle volte, non è dettata da raziocinio ma da processi inconsci appartenenti all’anima gruppale della squadra.

Con questo concetto Mazzali [1995] si riferisce a “una sorta di <impalpabile rete> che si crea spontaneamente quando un insieme di individui continua a vivere esperienze comuni e si percepisce solo quando se ne è parte” [Mazzali, 1995, p.24].  Secondo l’autore è da queste rete di rapporti emozionali che emerge l’assegnazione del ruolo di leader, non tanto per doti fisiche o intellettive particolarmente eclatanti o positive, quanto perché possiede una sensibilità intuitiva (per lo più innata) che gli permette di comprendere e influenzare la stessa anima inconscia del gruppo.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: RAPPORTI INTERPERSONALI

Influenzare l’anima gruppale vuol dire, prima di tutto, essere in grado di “stimolare in modo produttivo o negativo il sentimento collettivo” [Mazzali,1995]. Prunelli [2000] sottoscrive un decalogo comportamentale a proposito del buon capitano che sottolinea in che direzione quest’influenza deve essere orientata. Le norme comportamentali che descrive sono riportate di seguito.

I “dieci comandamenti”del buon capitano

  • Pensa per te e per gli altri e non sentirti sminuito se devi metterti a disposizione dei compagni.
  • Cerca di essere tranquillo ed equilibrato, trasmetti sicurezza, rivolgiti all’arbitro nelle dovute maniere.
  • Intervieni a sostegno di un compagno in difficoltà o incapace di sottostare alle regole del gruppo. Mostrati positivo.
  • Non defilarti se non sei in giornata, se l’avversario è più forte e il risultato compromesso.
  • Se occorre fai le veci dell’allenatore: assumi responsabilità. Prendi decisioni.
  • Nei momenti di difficoltà della squadra sforzati di essere creativo e coraggioso, diffondi ottimismo.
  • Tieni conto delle esigenze e dei problemi di ogni compagno.
  • Armonizza i rapporti all’interno dello spogliatoio.
  • Diventa leader, ma proponiti in modo tale che ogni componente del gruppo, in determinate situazioni sia leader a sua volta.
  • Fai in modo di essere credibile senza aver bisogno del sostegno dell’allenatore.

Prunelli [2000]

 

E’ importante ricordare che all’interno della squadra esiste anche un leader tecnico rappresentato da colui che occupa il ruolo sportivo centrale negli schemi tattici del team (il centromediano nel calco, il playmaker nella pallacanestro ecc…) che rappresenta un punto di riferimento nel corso delle prestazioni della squadra in quanto è colui che detta i ritmi del gioco.

Questa figura, assolutamente importante, può coincidere con quella del leader intimo della squadra ma il più delle volte risulta essere una posizione distinta da questa in quanto richiedono diverse abilità. In sostanza la squadra può possedere un leader tecnico esperto e estremamente abile (che tutti gli altri giocatori vorrebbero avere al proprio fianco in momenti critici di una partita) ma non avere le qualità sociali e psicologiche per essere riconosciuto come leader intimo.

E’ facile osservare, a questo punto, come la leadership interna ad una squadra sia un fenomeno variegato e con una struttura diversa e unica per ogni team sportivo che viene preso in considerazione. Spesso infatti possono esistere più leader in aperta ostilità tra loro, magari ciascuno supportato da una parte della squadra, la cui convivenza diviene un problema importante per far si che non si ripercuota sulle prestazioni di tutti.

LEGGI:

PSICOLOGIA DELLO SPORT – RAPPORTI INTERPERSONALI –  LEADERSHIP NELLO SPORT

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Empatia: più forte con i nostri cari

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una delle caratteristiche distintive dell’essere umano è la capacità di provare empatia. Un nuovo studio della University of Virginia suggerisce che il riuscire a mettersi nei panni degli altri dipenda dalla forte associazione che creiamo tra noi e le persone care che ci stanno intorno nel quotidiano, come se con la familiarità queste diventassero parti di noi, come se “il nostro sè includesse le persone che sentiamo vicine”, per usare le parole del ricercatore James Coan, a capo dello studio.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: EMPATIA

L’effetto paradossale del mettersi nei panni dell’altro. - Immagine: © Pona - Fotolia.com
Articolo Consigliato: L’Effetto Paradossale del Mettersi nei Panni dell’Altro.

James Coan, professore di psicologia al U.Va.’s College of Arts & Sciences, usando la risonanza magnetica funzionale ha scoperto, infatti, una forte correlazione tra le scansioni cerebrali di persone familiari tra loro. 

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: NEUROPSICOLOGIA

Coan e il suo team hanno condotto lo studio su 22 soggetti adulti; l’esperimento prevedeva che i 22 partecipanti venissero monitorati con la fMRI mentre correvano il rischio che delle lievi scosse elettriche colpissero loro stessi, degli amici o degli sconosciuti.

I risultati indicano, come previsto dai ricercatori, che le regioni del cervello coinvolte nella risposta alle minacce – insula anteriore, putamen e giro sopramarginale – si sono attivate sotto la minaccia di shock per il sé. Nel caso in cui, invece, era un’estraneo ad essere minacciato, le scansioni hanno mostrato poca attivazione in quelle stesse aree cerebrali.

Tuttavia, quando la minaccia di shock era rivolta ad un amico l’attività cerebrale dei partecipanti è risultata essenzialmente identica all’attività visualizzata sotto la minaccia al sé.

 “La scoperta dimostra la notevole capacità del cervello di modellare il sé su quello degli altri, che le persone vicine a noi diventano una parte di noi stessi e che questo non è solo metaforico o poetico, ma è molto reale. Ci sentiamo letteralmente minacciati quando un amico è in pericolo, ma non è la stessa cosa quando lo è uno sconosciuto“, ha detto Coan “Questa probabilmente è la fonte dell’empatia, è parte del processo evolutivo: una minaccia per noi è una minaccia per le nostre risorse. Quando ci facciamo degli amici, possiamo fidarci e affidarci a chi, in sostanza, è diventato parte di noi, le nostre risorse si espandono, ci guadagnamo. L’obiettivo dell’altro diventa il mio obiettivo. È’ parte della nostra capacità di sopravvivenza.

 

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: RAPPORTI INTERPERSONALI

LEGGI ANCHE:

EMPATIA – NEUROPSICOLOGIA – RAPPORTI INTERPERSONALI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Post-vacation blues, la sindrome da rientro al lavoro

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Per alcuni è diventata patologia: lo stress da rientro vacanze, la ripresa della quotidianità, del lavoro, degli impegni è da considerarsi fonte di “depressione”. Oggi colpisce circa 6 milioni di persone.

Così quando si rientra in città l’ umore cambia con un misto di emozioni, dalla tristezza per il cambio di stato da “vacanziero” a lavoratore, alla frustrazione o nervosismo per l’incombere di impegni e scadenze da rispettare.

Tutto il buon umore e relax che si acquisisce in vacanza svanisce in un secondo.

Si presentano quindi sintomi quali ansia, tristezza, nervoso, insonnia, spossatezza etc..difficili da gestire.

Ecco allora qualche accortezza e suggerimento per combattere o rendere gestibile lo stress da rientro vacanze.


“Fisiologicamente tendiamo a tracciare una linea tra un passato trionfale, quello del periodo vacanziero, e un futuro problematico e conflittuale, quello del rientro al lavoro. Si tratta di una linea – spiega – che va in picchiata, da un trionfo a un declino, e che rappresenta solo la nostra paura e le nostre ansie”, spiega Piero Barbanti, neurologo dell’Irccs San Raffaele Pisana di Roma

 

Post-vacation blues, come combattere lo stress da rientro in ufficioConsigliato dalla Redazione

Umore in picchiata. Stanchezza, sonnolenza, stress. Tornare a lavoro e agli impegni di tutti i… (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Ultimi articoli pubblicati
“Huda Parla Veloce” – Cosa devo ai miei genitori? – Online il nuovo episodio col commento di Sandra Sassaroli
"Huda parla veloce" con inTHERAPY: online un nuovo episodio del podcast commentato dalla Dr.ssa Sandra Sassaroli
Come valutano le porzioni di cibo i pazienti con disturbi alimentari?
Una revisione sistematica ha analizzato come i pazienti con disturbi alimentari percepiscono le porzioni di cibo, con implicazioni per il trattamento
Come lo psicologo può supportare i pazienti tiroidei
Lo psicologo, possiede un ruolo fondamentale nel promuovere la corretta funzionalità tiroidea e quindi nel supportare i pazienti con problematiche tiroidee
Miti del trauma (2024) di Joel Paris – Recensione
Il libro Miti del trauma (2024) di Joel Paris offre una riflessione sull'uso eccessivo del concetto di trauma nella psicologia contemporanea
Supervisione e Psicoterapia, un’alleanza vitale (2024) – Intervista a Leonardo Abazia
Leonardo Abazia ci parla del suo nuovo libro pubblicato da Franco Angeli, Supervisione e Psicoterapia, un’alleanza vitale (2024)
Restituzione e formulazione condivisa del caso – Inside Therapy
La rubrica Inside Therapy approfondisce l’importanza del momento della restituzione e della formulazione condivisa del caso
Tra sogni e incubi: la rappresentazione dei disturbi del sonno nel cinema
Il cinema esplora spesso i disturbi del sonno contribuendo a modellare la percezione pubblica di queste condizioni
Il timore di danno
Il timore di danno è una forma di ansia che può manifestarsi nella vita quotidiana e può rientrare nel Disturbo Ossessivo Compulsivo
“Huda Parla Veloce” – Chi sono sui social? – Online il nuovo episodio col commento di Sandra Sassaroli
"Huda parla veloce" con inTHERAPY: online un nuovo episodio del podcast commentato dalla Dr.ssa Sandra Sassaroli
Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali – Aprile 2025
L’Osservatorio dei Disturbi Emotivi e Mentali è un aggiornamento periodico sulla situazione della sofferenza psicologica in Italia e nel mondo
Quando un genitore si ammala di tumore: ripercussioni del vissuto di malattia del genitore sul benessere psicologico dei figli
Quando un genitore riceve una diagnosi di tumore, anche i figli ne risentono. Come aiutarli ad affrontare l’impatto emotivo della malattia?
Ecoparenting: genitori e figli/e di fronte al cambiamento climatico – Survey
Survey online per indagare quali caratteristiche del benessere psicologico e familiare sono influenzate maggiormente dal cambiamento climatico
La genitorialità “anima gemella” può ritorcersi contro i genitori?
Oggi emergono nuovi stili genitoriali come la genitorialità anima gemella. Ma quali sono i benefici e i rischi di un coinvolgimento così profondo?
Solitudine digitale e Intelligenza Artificiale: i chatbot possono davvero sostituire le relazioni umane?
Tra empatia simulata e dipendenza emotiva, i chatbot basati sull’intelligenza artificiale per contrastare la solitudine sono una soluzione o solo un'illusione?
Il potere terapeutico della musica
La musicoterapia utilizza il linguaggio sonoro per facilitare espressione emotiva, connessione interpersonale e benessere psicologico
“Huda Parla Veloce” – Online il nuovo episodio col commento di Sandra Sassaroli
"Huda parla veloce" con inTHERAPY: online un nuovo episodio del podcast commentato dalla Dr.ssa Sandra Sassaroli
Sentirsi attraenti dopo il parto
La transizione alla genitorialità influisce su autostima, attrazione fisica e vita sessuale: uno studio indaga i vissuti dei neo genitori dopo la nascita
Intrappolati nei pensieri – Survey
Survey online per indagare l’effetto dell'umorismo e della comunicazione assertiva sul rimuginio legato all’ansia sociale
La donna neurodivergente – Report
Riflessioni dal corso “Profili diagnostici e bias clinici in Asperger/Autismo livello 1, ADHD, DSA e APC (Alto Potenziale Cognitivo)” - 6-7 e 8 marzo 2025
Quando scegliamo uno psicoterapeuta, chi ci garantisce che la psicoterapia sarà efficace? – David Clark dal World CBT Day
Il Prof. David Clark ha parlato dei modelli di psicoterapia efficace in occasione del World CBT Day 2025
Carica altro

Teoria e Clinica del Perdono: intervista a Francesco Mancini su Rai 1

Intervista a Francesco Mancini su RAI 1
Pubblichiamo con piacere il link a questa intervista a Francesco Mancini sul nuovo volume “Teoria e clinica del perdono”, curato da Barbara Barcaccia e Francesco Mancini, edito da Raffaello Cortina.

 

Nel libro Teoria e clinica del perdono, si affronta il perdono, ovviamente da un punto di vista psicologico, non religioso o filosofico. Che cosa è il perdono? Se si considera la parola “perdono”, si nota come sia composta di un prefisso rafforzativo “per”, cioè super, e dalla parola “dono” cioè regalo. Il perdono dunque come grande regalo, come atto di magnanimità con cui la vittima rimette il debito a chi lo ha offeso o ingiustamente danneggiato e, allo stesso tempo, riconosce al colpevole la sua dignità di essere umano e dunque il suo diritto a non essere escluso e disprezzato.
E’ importante chiarire che cosa non è il perdono. Il perdono non è oblio, non è negazione del torto, non è giustificazione, non è rassegnazione a subire. Il perdono non implica necessariamente riconciliazione piena, la ripresa di un rapporto sentimentale o di amicizia. Il perdono è la fase conclusiva di un processo che è spesso molto lungo e difficile, a volte psicologicamente troppo difficile, e che inizia con il riconoscersi vittima di un torto e dunque con rabbia, risentimento e desiderio di vendetta.
Non esistono modelli del tutto soddisfacenti di questo processo, tuttavia è possibile indicare alcuni fattori che lo facilitano: la richiesta del perdono da parte della vittima, la capacità di mettersi empaticamente nei panni del colpevole, il desiderio di pacificazione, il timore che la vendetta faccia passare dalla parte del torto, il desiderio di liberarsi dalla ruminazione rancorosa, la capacità di trovare attenuanti e dunque di contrastare l’outrage heuristic tipica di colui che a subito un torto.

Il perdono fa bene a chi perdona, naturalmente va salvaguardata la prudenza, cioè perdonare non significa correre i rischi di riavvicinarsi a persone pericolose, vendicarsi, al contrario, sembra che non aiuti a chiudere la ruminazione rancorosa, non sempre fa bene al perdonato che può sentirsi ancora più in colpa o umiliato  dalla magnanimità del perdonatore.

 

Il perdono può essere la strada per uscire dalle conseguenze di abusi maltrattamenti e ingiustizie, dal ruolo di vittima rancorosa.

 

Francesco Mancini cerca di rispondere a queste domande. L’intervista è andata in onda su Rai 1 ieri mattina, ed è disponibile cliccando questo link: INTERVISTA

ATTENZIONE: Per andare direttamente all’intervista saltando le altri parti del programma posizionarsi al minuto 10:25.

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

 

BIBLIOGRAFIA: 

COGSCI 2013 Report dal Congresso della Cognitive Science Society. Di Bruno Bara

Dal 31 luglio al 3 agosto 2013 si è svolto a Berlino il 35esimo congresso della Cognitive Science Society, una delle principali società scientifiche della scienza cognitiva. Pubblichiamo con piacere le istruttive e divertenti mail del prof. Bruno Bara, che ha partecipato al congresso.

 

COGSCI 2013

Cronache dal Congresso della Cognitive Science Society

(31 luglio – 3 agosto 2013)

COGSCI 2013

REPORTAGES DAI CONGRESSI – SCIENZE COGNITIVE

 

1 agosto 2013

Eccomi a Berlino per il megaconvegno di Cognitive Science, 1.300 partecipanti, battuti tutti i record precedenti. Tradizionalmente i convegni in Europa sono il meglio. Mentre negli USA ci vanno solo post-doc vestiti da surfisti californiani, qui sono presenti gli scienziati di punta, i direttori di laboratorio assieme alle promesse future. Tutti carini, gentili ed eleganti, niente braghette corte e molti vestitucci in fiore.

Inizia John Duncan, del Medical Research Council di Cambridge. Per me è un ritorno a casa: ci sono stato per mesi e mesi quando lavoravo con Johnson-Laird. Duncan ha vinto il premio Heineken 2013, il Nobel della scienza cognitiva, e ascoltandolo si capisce perché. Parla del MD, il Multiple Demand System, un sistema neurale distribuito che spiega l’intelligenza fluida, splendido nome per indicare la nostra capacità di risolvere problemi difficili o in sequenze complesse.

Quando la complessità della situazione aumenta, perdiamo le componenti cognitive più vulnerabili, oppure se la richiesta attentiva diventa troppo forte, dimentichiamo alcune porzioni di informazione. La mente chiara, la clear mind, è secondo lui quella capace di rivolgere l’attenzione alle sottoparti utili, trascurando le parti non significative, e spiega come riesce il cervello a realizzare questo.

Segue un delizioso simposio su “Evoluzione di Linguaggio e Gesti”, tutto il meglio dei primatologi sulla piazza, gente che ha passato minimo 5 anni nelle foreste pluviali:  Call, Liebal, Hobaiter, Tomasello, con l’aggiunta di Susan Goldin-Meadow, la grande esperta di sordi.
Su una cosa concordano tutti: gorilla e scimpanzé sono straordinari, ma l’uomo è un’altra cosa. I video di baby chimp che per giocare svegliano la madre addormentata e di gorillone seduttive che fingendo di negarsi provocano sessualmente il maschio tonto sono irresistibili, difficile non riconoscervi figli e fidanzate. La tentazione antropomorfa colpisce senza pietà. Conclusione: non è il linguaggio la strada per l’evoluzione della comunicazione, ma la capacità di condividere, cosa che manca ai nostri competitivi cugini.

A pranzo ci sono 210 poster da guardare, e ogni giorno ce ne saranno altri 200 nuovi, vi racconto il top.
Monica Bucciarelli coi suoi collaboratori ne presenta uno innovativo sulla versione scritta del linguaggio dei segni, nessuno ci aveva pensato prima: lavoro intelligente e utile socialmente.

Amory Danek, una studiosa che nega l’esistenza dello insight nei problemi di insight, sostiene sulla base di ingegnosa evidenza sperimentale che l’esperienza di insight si riferisce solo al solutore e al suo atteggiamento mentale, mentre non sta nel problema e tantomeno nella sua soluzione. È molto incinta e la bacerei, ancora una volta tutto sta nella nostra mente e non nel mondo esterno.

Il mio favorito è Justin Matthews, che fa vedere immagini inquietanti di ponti sospesi e ti fa stimare quanto sono lunghi, immaginando di essere soli, o con qualcuno, o con un amico che ti aspetta all’altro capo del ponte. In inglese suona meglio, perché il close friend, l’amico stretto, ti fa percepire il ponte più close, più breve. Vicinanza affettiva e spaziale si mescolano, una gioia per noi terapeuti incarnati.

Berlino è esattamente come la immaginate: facile, libera, giovane, rispettosa. Tutto è concesso, basta non dare fastidio. Uso come misura le coppie gay, con figli e senza, che affollano le ordinate strade piene di locali all’aperto dove puoi mangiare, bere e fare qualunque cosa desideri.

Il ricevimento a inviti è una delusione, una sorta di aperitivo leggero per tedeschi chic, clamorosamente insoddisfacente, si salutano i colleghi e si va via. A cena con Monica debuttiamo in una grande birreria con il tradizionale maiale in ogni sua forma, ma poi lasciamo quasi tutto, troppo impegnativo se il giorno dopo tocca lavorare. Ma è un rito dovuto, da domani si cercano ristoranti migliori.
Non fa troppo caldo, il riposo è il benvenuto.

2 agosto 2013

Il secondo giorno inizia con Michael Bratman, che in plenaria parla di condivisione. Ha una posizione controcorrente, di sfida a Searle e Gilbert, sostiene che non ci sono stati mentali primitivi collettivi, ma che tutto è riducibile a stati individuali. Dopo 30 anni che seguo Searle, sia in Italia sia a Berkeley, proprio non ce la faccio a mandare tutto all’aria.

Il punto critico sono i bambini: se ha ragione Bratman, come fanno a condividere tutto ben prima che la potenza cerebrale li metta in grado di gestire stati mentali complessi? Domanda fatta, e la candida risposta è stata che non ne ha la minima idea. Vabbé che i filosofi giocano in libertà, ma proprio trascurare ogni evidenza sperimentale!

Dopo un ansiogeno coffee break, i miei valorosi dottorandi Francesca Capozzi e Tiziano Furlanetto mi accompagnano nella Room 1, dove si tiene il simposio sulle intenzioni comunicative nella mente e nel cervello.
La sequenza è Michael Tomasello su bambini e scimpanzé, Nick Chater su scelte economiche, Rosemary Varley sulle intenzioni negli afasici, e ultimo io sul circuito neurale della intenzionalità. Teniamo mezz’ora per la discussione finale, sala piena, dibattito vero, domande cattive e risposte perfide. A sorpresa ci troviamo d’accordo su una serie di punti critici tipo l’interazione fra gesti e linguaggio, e le domanda dedicate a me sono una delizia, so miracolosamente cosa rispondere. Ci divertiamo, Wayne Gray (editor di Topics) vorrebbe ne facessimo un numero speciale di Topics on Cognitive Science, a tutti piace l’idea ma nessuno si prende l’onere di proporsi come special editor, peccato.

Dovrei essere più nonchalant? E quando mi capita più di essere con cotanti scienziati, a Berlino, di fronte a qualche centinaio di miei colleghi europei?

Fra i 200 poster del giorno vi segnalo quello sull’impegno congiunto studiato attraverso le emozioni e il comportamento extralinguistico, presentato da Francesca Morganti, con fra gli autori nientemeno che Antonella Carassa e Giorgio Rezzonico!
Mi colpisce più di tutti Josh Hemmerich, che studia conoscenza e soddisfazione nei pazienti che devono prendere una decisione su come trattare il proprio cancro ai polmoni. La maggioranza vuole avere voce in capitolo, mentre il 20% più anziano preferisce affidarsi totalmente al chirurgo. Non indaga le differenze individuali, ma qualcosa che serve davvero fa piacere ascoltarlo.

Andiamo a cena nel più antico ristorante di Berlino, dove troviamo miracolosamente posto, e ci godiamo ottimi birroni e polpettone. Ancora un mojito prima di andare a dormire, e una giornata che non dimenticherò termina in gloria.

 

3 agosto 2013

Terza giornata di questa maratona ricca e impegnativa. La plenaria del mattino è affidata a Elizabeth Spelke, uno spettacolo di bravura e intelligenza. È famosa per i suoi studi sulla matematica e la geometria nei bambini, si è spostata sulla cognizione sociale confermando le sue doti di scienziata aperta e capace di rinnovarsi.

Mostra le meraviglie che i bambini di 3 mesi sono già in grado di fare in termini di azioni efficaci, e sostiene che a 4 mesi iniziano a comportarsi da agenti sociali, a patto che si stabilisca con loro un contatto oculare: ciò che ogni genitore sa, vale a dire che suo figlio è un genio, viene confermato sperimentalmente.
A 8 mesi si accorgono delle somiglianze sociali, amano imitare ed essere imitati (questo dura tutta la vita per molti), pian piano diventano più selettivi sulle persone con cui interagire, in quanto comprendono come le azioni abbiano effetto sulle relazioni sociali.
Si chiede cosa rende gli umani così intelligenti, e cosa permette la rivoluzione del primo anno, in concomitanza coll’insorgere del linguaggio. Secondo lei il vantaggio umano sta nelle nostre capacità cognitive sociali, perché molte altre abilità non sociali si trovano anche in altri animali.
Il dibattito se sia il linguaggio o la cognizione a determinare la svolta del primo anno attraversa il congresso. L’idea della cognizione sociale è la più convincente a mio interessato parere. E non vi venga in mente di dire che tutto importa, linguaggio, cognizione e cognizione sociale, perché fareste la figura di un cerchiobottista.
Spelke conclude che se siamo così intelligenti socialmente non si capisce come mai usiamo tanto male le nostre capacità sociali, riducendoci sull’orlo della catastrofe planetaria a ogni crisi. In effetti non è facile nemmeno capire la questione, forse riflettere seriamente sulle patologie della cognizione sociale dovrebbe diventare primario per gli scienziati.

Salto ancora una volta il pranzo, che mi dicono peraltro modesto, perché presento un poster con Rosalba Morese primo nome, Daniela Rabellino, Angela Ciaramidaro e Francesca Bosco, sulla punizione altruistica. Me lo sistema alla perfezione l’ottima Francesca Capozzi, un po’ perché i miei dottorandi sono gentili, un po’ perché non si fidano di me.
È un eccellente lavoro in risonanza magnetica sul fatto che siamo disposti a investire risorse per punire chi non si comporta correttamente, in particolare se lo scorretto è uno del nostro gruppo e tratta male uno del nostro stesso gruppo. Parecchie domande, critiche tecniche cui non so rispondere, me la cavo meglio sulle questioni teoriche.
In tema vi cito un elegantissimo poster di Giulia Andrighetto, Francesca Giardini e Rosaria Conte del CNR di Roma, tutto teorico sulla differenza fra vendetta e punizione, e uno divertente di Maryam Tabatabaeian sulla disonestà come tendenza umana automatica. I temi morali contano, cominciamo ad affrontarli finalmente.

Vado infine a un simposio sulla cooperazione, il meglio è Valentina Cardella che parla delle società animali e umane. Molto speculativa, lei punta sul linguaggio come strumento tecnico di differenziazione umana, ma in un convegno molto attento all’evoluzionismo risulta non del tutto convincente, il linguaggio cui si riferisce lei è quello evoluto di homo sapiens, come la mettiamo col paio di milioni di anni precedenti? Comunque è giovane e competente, dibatte con precisione. Ne sentiremo parlare se non la comprano all’estero come stanno facendo con tutti i dottorandi italiani di qualità.
Incontro Herbert Clark alla stessa sessione, il primo a impostare il tema della conoscenza di background nella comunicazione, gentile come sempre e come sempre capace di critiche affilate. Ci troviamo a ogni congresso, e siamo stati spesso insieme nei simposi, il nostro microcosmo è davvero micro.

Basta, neppure gli organizzatori vanno alla cerimonia finale, troppo caldo e troppi eventi. Tutti esausti, andiamo a vedere Nefertiti, per controllare se è davvero straordinaria come dicono.
Lo è, lo è, questa affascinante principessa nera merita ogni ammirazione, un prototipo di bellezza difficile, non banale, non sexy ma seducente da tremila anni. A cena ora, statemi bene e riflettete sul fatto che è stato un ebreo a donare alla città di Berlino la sua opera d’arte più famosa.

Bruno Bara.

LEGGI ANCHE:  

REPORTAGES DAI CONGRESSI 

SCIENZE COGNITIVE 

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE

BAMBINI

MONDO ANIMALE

ETICA E MORALE

SITO UFFICIALE DEL CONGRESSO COGSCI 2013

Il counseling in adolescenza

 

Counseling in adolescenza . - Immagine: © auremar - Fotolia.comL’adolescenza si configura come una fase della vita complessa, sfaccettata, eterogenea, caratterizzata da importanti cambiamenti e acquisizioni cognitive, affettive e socio-relazionali.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: ADOLESCENTI

La letteratura in proposito (Palmonari, 1997; 2001; Pietropolli Charmet, 2000) propone come concetto cardine attorno a cui strutturare l’analisi dello sviluppo in adolescenza, quello di developmental task o compito di sviluppo.

Tutto il ciclo di vita dell’individuo è costellato da compiti e sfide che devono essere affrontati e risolti nella maniera più funzionale e adattiva allo scopo di favorire lo sviluppo e l’adattamento dell’individuo al proprio ambiente. Se questo non avviene nei tempi e nei modi adeguati, lo sviluppo e il benessere dell’individuo sono potenzialmente compromessi.

Una lettura recente dei compiti di sviluppo propone l’analisi degli stessi in relazione allo stretto rapporto esistente tra individuo, ambiente e appartenenza socio-culturale (Palmonari, 2001). Nelle società occidentali i compiti di sviluppo specifici della fase adolescenziale investono potentemente tutte le aree di sviluppo salienti per l’individuo: corpo, cognizione e metacognizione, affettività, emozioni, relazioni, identità (Erikson, 1968).

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: RAPPORTI INTERPERSONALI

Risulta evidente da questa breve disamina che i compiti evolutivi sono potenzialmente portatori di benessere e adattamento psicosociale così come di disagio e malessere a seconda delle modalità e delle strategie che l’adolescente adotta per affrontarli.

Il disagio adolescenziale, concordemente alla letteratura sia in ambito psicodinamico sia psicosociale, trae origine dalle difficoltà e dal dolore mentale che l’individuo sperimenta nel dover affrontare queste sfide evolutive così importanti e decisive per i successivi processi di sviluppo. La messa in atto di strategie di fronteggiamento e di coping facilmente accessibili ma potenzialmente dannose e pericolose per la salute e il benessere, come ad esempio l’uso di sostanze e alcol, i comportamenti aggressivi, o la guida spericolata, possono compromettere l’adattamento dell’individuo ai suoi contesti di vita e la possibilità per lui di apprendere altre strategie maggiormente costruttive e protettive (Bonino, Cattelino e Ciairano, 2007).

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: IMPULSIVITA’

L’attività di counseling rivolta agli adolescenti si inserisce proprio in questo frangente, e, nello specifico, allo scopo di evitare che un momento di crisi o di stallo evolutivo si trasformi in una vera e propria stagnazione (Hendry & Kloep, 2003) o in quello che Pietropolli Charmet (2000) definisce “scacco evolutivo”. Il counseling si pone l’obiettivo di evitare la paralisi delle competenze adattive dell’individuo e la cristallizzazione di un’identità negativa, favorendo al contrario l’esplorazione e l’attivazione di modalità costruttive e adattive di fronteggiamento dei compiti di sviluppo (Maggiolini, 1997).

L’adolescenza ai tempi della crisi. -Immagine: © olly - Fotolia.com
Articolo Consigliato: L’adolescenza ai tempi della crisi

Secondo Pietropolli Charmet (2000), “nel caso dell’adolescente non è il tipo di patologia a rappresentare una controindicazione all’analisi, ma è la fisiologia stessa dello sviluppo adolescenziale a costituire una controindicazione, in quanto è la parte sana dell’adolescente a rifiutare la regressione, la dipendenza, l’intrusività dell’adulto, per quanto benevolo, e a cercare nell’azione una soluzione del conflitto e non nella parola”.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: FAMIGLIA

Il colloquio con l’adolescente da parte di un professionista quindi può funzionare solo se ci si allontana da una domanda di cura e da un’idea di malattia; l’adolescente deve essere considerato non come paziente ma come una persona che ha un problema e che, sulla base di una libera scelta, decide attivamente di parlarne con una persona competente (Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004).

Seguendo queste premesse, il counseling si configura dunque come la modalità ideale di colloquio e di ascolto con l’adolescente, in quanto è un intervento breve nel tempo, che riconosce all’adolescente un ruolo attivo, che presuppone un rapporto alla pari con l’adulto e che promuove le capacità decisionali e relazionali.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: COLLOQUIO PSICOLOGICO

In Italia, si assiste da qualche decennio alla costituzione e all’ampliamento di spazi di ascolto per adolescenti non solo all’interno di luoghi istituzionali come la Scuola e i Servizi socio-sanitari, ma anche, e sempre più frequentemente, in contesti di natura informale ed aggregativa, come i centri di aggregazione giovanile, gli oratori o i progetti di educazione di strada e territoriale. Questi spazi di ascolto si sono progressivamente sviluppati e hanno sempre più abbracciato un’idea di prevenzione olistica, in grado di intercettare e affrontare tutte le forme e le sfaccettature del disagio adolescenziale. Non solo quindi la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili e l’informazione sulla contraccezione, obiettivi centrali dei primi CIC (Centri di Informazione e Consulenza, predisposti a norma di legge in Italia per la prima volta con il “Testo unico delle Leggi in materia di disciplina degli stupefacenti, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza” – DPR 309/90) negli anni 90 in risposta all’emergenza delle infezioni da HIV, ma anche la prevenzione dell’uso di tabacco, alcol e sostanze stupefacenti, la guida sicura, l’accettazione del proprio corpo, la promozione delle competenze socio-relazionali, il benessere in famiglia, a scuola e con i coetanei.

Le richieste e le domande che gli adolescenti pongono agli adulti competenti sono molteplici e abbracciano indistintamente tutte le aree che per loro sono emotivamente e cognitivamente salienti: il proprio corpo, la famiglia, la scuola, le relazioni con i coetanei del proprio e dell’altro sesso (Maggiolini, 1997; Fuligni e Romito, 2002; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004). L’obiettivo principe del counseling è tuttavia trasversale alle diverse richieste: fornire agli adolescenti strumenti e strategie di coping per fronteggiare difficoltà relative ai compiti di sviluppo prima dell’insorgere di un vero e proprio disagio, facilitando cambiamenti nel comportamento e migliorando le capacità di relazioni interpersonali.

Pietropolli Charmet (2000) rintraccia nella consultazione con l’adolescente diverse richieste che quest’ultimo avanza all’adulto; secondo l’autore, il colloquio è un momento importante in cui l’adolescente chiede simbolicamente all’adulto il permesso di abbandonare le vesti infantili e di nascere socialmente e pubblicamente come persona che sta crescendo: “Quando gli adolescenti vengono a chiedere una consultazione è come se, metaforicamente, chiedessero il permesso di crescere o chiedessero scusa di non averlo ancora fatto, o di essere messi alla prova per verificare le loro capacità di stare ai patti. È come se l’adulto competente rappresentasse agli occhi dell’adolescente una sorta di protesi mentale per valutare realisticamente come stiano le cose […]. Spera di intercettare un allenatore che sa quali siano i percorsi per rifornirsi delle competenze necessarie a realizzare gli obiettivi”.

Il counseling si configura a questo proposito come un efficace strumento di prevenzione in adolescenza (Maggiolini, 1997; Di Fabio, 2000; Martellucci e Spaltro, 2006), in quanto è in grado di rilevare precocemente sintomi di disagio o malessere psicologico e psicosociale, consente di indagare la trama di fattori di rischio e di fattori protettivi per ogni singolo soggetto e permette di incrementare e perfezionare nell’adolescente quelle competenze socio-cognitive e di coping mediante cui affrontare tale disagio e superarlo efficacemente.

Dal punto di vista epistemologico e teorico assumono più che mai importanza i concetti di empowerment, autoefficacia, locus of control e coping, centrali nelle più recenti formulazioni teoriche di stampo socio-costruzionista e negli interventi di prevenzione in ambito psico-sociale. Come bene evidenziano Martellucci e Spaltro (2006) questi concetti esprimono in termini operativi “il potenziamento del senso di padronanza e di controllo sulla propria vita attraverso la conoscenza di sé, dei propri punti di forza, ed anche la conoscenza dei vincoli e delle opportunità offerti dalla famiglia, dal gruppo classe, dalla scuola e dalla comunità territoriale più ampia”.

Il concetto di self-empowerment esprime la capacità di percepirsi come potenzialmente in grado di mobilitare risorse personali per fronteggiare in modo adeguato i problemi, di sentirsi competenti e consapevoli del legame esistente fra le azioni e i risultati ottenuti (Zani e Cicognani, 2000). I fattori che potenziano la percezione di empowerment sui quali è necessario fare leva in sede di colloquio d’aiuto, sono secondo Martellucci (2005), il locus of control interno, la hopefulness, l’autostima e la percezione di autoefficacia. L’autoefficacia percepita (Bandura, 1995) è intesa come la percezione che la persona ha di essere in grado di portare a termine un compito e la consapevolezza di avere aspettative realistiche circa le proprie possibilità di successo in una data situazione problematica. Favorire e potenziare il senso di autoefficacia in adolescenza, mediante attività di counseling significa rendere i ragazzi consapevoli delle proprie potenzialità e maggiormente preparati a mettere in campo le competenze adeguate per affrontare con successo le sfide di sviluppo, attivando strategie di protezione verso i comportamenti a rischio (Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003) e favorendo attivamente resilience e adattamento.

 

LEGGI ANCHE:

ADOLESCENTI –  IMPULSIVITA’ – COLLOQUIO PSICOLOGICO – RAPPORTI INTERPERSONALI – FAMIGLIA

 

BIBLIOGRAFIA:

Schizofrenia: i nuovi risultati della genetica

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un nuovo GWAS ha individuato 22 sedi, di cui 13 di recente scoperta, che si ritiene abbiano un ruolo nel causare la schizofrenia.

Un genome-wide association study (GWAS) in epidemiologia genetica è un esame di molte varianti genetiche comuni a individui diversi per vedere se qualunque tra queste è associata a un tratto.

Un nuovo GWAS ha individuato 22 sedi, di cui 13 di recente scoperta, che si ritiene abbiano un ruolo nel causare la schizofrenia.

Cervello, Neuroni Specchio. - Immagine: © V. Yakobchuk - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Da Freud ai Neuroni Specchio: Schizofrenia e social perception.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: SCHIZOFRENIA

Patrick F. Sullivan, professore nei dipartimenti di genetica e psichiatria e direttore del Center for Psychiatric Genomics alla University of North Carolina School of Medicine, che ha diretto lo studio, sostiene che “Se trovare le cause della schizofrenia è come risolvere un puzzle, allora questi nuovi risultati ci danno gli angoli e alcuni dei pezzi sui bordi. Questo studio ci fornisce l’immagine più chiara fino ad oggi su due diversi percorsi che potrebbero fallire nelle persone con schizofrenia e ora abbiamo urgente bisogno di concentrare la nostra ricerca su questi due percorsi per capire che cosa provoca questa invalidante malattia mentale.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: GENETICA & PSICHE

I risultati si basano su un’analisi multi-fase che ha avuto inizio con un campione nazionale svedese di 5.001 casi di schizofrenia e 6243 controlli, seguita da una meta-analisi di precedenti studi GWAS, e, infine, dalla replica di polimorfismi a singolo nucleotide (SNP) in 168 regioni genomiche in campioni indipendenti. Il numero totale delle persone in studio era più di 59.000.

Una delle due vie individuate dallo studio è un canale via calcio. Questo percorso include i geni CACNA1C e CACNB2, le cui proteine ​​si toccano come parte di un processo importante nelle cellule nervose. L’altra via è quella del micro-RNA 137. Questo percorso comprende il suo gene omonimo, MIR137 – che è un noto regolatore di sviluppo neuronale – e almeno una dozzina di altri geni regolati da MIR137.

La cosa veramente interessante, ha detto Sullivan, è che adesso è possibile utilizzare le tecnologie standard per riempire i pezzi mancanti del genoma. Ora esiste un percorso chiaro e ovvio per ottenere una conoscenza abbastanza completa sugli aspetti genetici della schizofrenia. Tutto questo non sarebbe stato possibile cinque anni fa”.

LEGGI:

SCHIZOFRENIA –  GENETICA & PSICHE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Stephan Ripke, Colm O’Dushlaine, Kimberly Chambert, Jennifer L Moran, Anna K Kähler, Susanne Akterin, Sarah E Bergen, Ann L Collins, James J Crowley, Menachem Fromer, Yunjung Kim, Sang Hong Lee, Patrik K E Magnusson, Nick Sanchez, Eli A Stahl, Stephanie Williams, Naomi R Wray, Kai Xia, Francesco Bettella, Anders D Borglum, Brendan K Bulik-Sullivan, Paul Cormican, Nick Craddock, Christiaan de Leeuw, Naser Durmishi et al.,  Genome-wide association analysis identifies 13 new risk loci for schizophreniaNature Genetics (2013) doi:10.1038/ng.2742, Received 09 December 2012 Accepted 01 August 2013 Published online 25 August 2013

 

La terapia Cognitivo-Comportamentale efficace contro la depressione

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Due nuove ricerche dell’Università del Texas Southwestern Medical Centrer di Dallas e dell’Ospedale Pediatrico di Boston, pubblicate sulla rivista scientifica JAMA Psychiatry confermano nuovamente la grande efficacia della Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale nel trattamento della depressione anche come alternativa preferibile al solo uso dei farmaci.

Esistono dunque alternative valide ai farmaci antidepressivi? Secondo due nuovi studi, sì. E si trovano nella terapia cognitivo-comportamentale che ha dimostrato in diversi casi di essere di pari o superiore efficacia rispetto agli antidepressivi.

 

Depressione: la terapia cognitiva può essere meglio dei farmaciConsigliato dalla Redazione

Secondo due nuovi studi, l’alternativa agli psicofarmaci, o antidepressivi, è la terapia cognitivo-comportamentale che, in molti casi è efficace allo stesso modo, senza effetti collaterali (…)

Tratto da: LaStampa.it

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Stigma: un grande ostacolo per la prevenzione del suicidio – Workshop – Roma

Stigma: un grande ostacolo per la prevenzione del suicidio

10 – 11 settembre 2013, Azienda Ospedaliera Sant’Andrea – Roma

 

ARTICOLI SU: STIGMA

 

Istinto di sopravvivenza e spinta anticonservativa

 

Paolo Cianconi, medico specialista in psichiatria, Casa Circondariale di Regina Coeli di Roma, RMa

 

Con il termine istinto si intendono due concetti: la spinta e la sua qualità innata. L’istinto è la tendenza intrinseca di un organismo vivente a eseguire delle istruzioni comportamentali non deliberate ponderatamente. Gli istinti sono comportamenti automatici che non sono frutto di apprendimento e di scelta personale. Peculiare dell’azione istintiva è la mancanza di base esperenziale su cui giustificare l’azione, come se il tutto derivasse da una caratteristica insita nel patrimonio genetico.

Un istinto deve essere presente negli individui della stessa specie. Le azioni complesse derivate da una spinta istintuale sono così primigenie per il portatore che esse spesso avvengono senza che sia sempre evidente uno scopo.

L’istinto di sopravvivenza è un mistero con cui non solo le neuroscienze si confrontano oggi. Non abbiamo una spiegazione di cosa sia che ci mantiene in vita.

Secondo la teoria darwinista discussa da Dawkins nel libro il “Gene egoista” l’istinto di sopravvivenza sarebbe il prodotto di una volontà di alcuni geni istruttori. La tesi che sostiene Dawkins è che i geni non sono trasmessi a caso o selezionando ciò che serve alla specie (noi o un altro essere vivente), al contrario essi si auto-selezionano secondo ciò che è utile per i loro stessi interessi (interesse del DNA) e non necessariamente seguendo l’interesse dell’organismo. Secondo questa versione il vero organismo vivente è il DNA, non noi; un organismo replicante che vive da millenni in condizioni di concorrenza spietata per le risorse, insieme ad altri proto-replicatori.

I fenotipi, ovvero noi, che viviamo una realtà materiale e percorriamo una vita di alcune decine di anni, siamo dei semplici portatori. Vale a dire che noi siamo strutture virtuali che servono a trasportare il DNA attraverso i millenni. I nostri gruppi, le nostre società, tutta la cultura che è stata prodotta, le centenarie concezioni filosofiche e religiose che abbiamo creato non sono altro che strumenti per assicurare la replicazione della vera realtà, quella genetica.

Visto in questo modo l’istinto di sopravvivenza non solo non sarebbe dell’individuo, ma non sarebbe nemmeno un prodotto del nostro mondo reale. L’istinto di sopravvivenza svela la sua natura di collante che affiora dal livello molecolare, una proprietà emergente che ci costringe al nostro compito, ovvero traghettare di generazione in generazione un entità viva non autocosciente: il DNA della specie.

La definizione che abbiamo di istinto di sopravvivenza è fortunatamente meno distopica: si tratta di un istinto naturale che comprende fenomeni mentali (attività cognitiva ed emotiva, il formulazione di pensieri, creare significati, organizzare moralità) e comportamentali complessi tesi alla conservazione della vita del soggetto. La spinta alla sopravvivenza è detta spinta conservativa1. Contro questa condizione di permanenza in vita si sviluppano, nelle specie, le spinte anticonservative (lo scontro, l’autolesionismo, il sacrificio). La principale spinta all’annullamento, elevata simmetricamente contro la vita, è comunemente nota con il nome di pulsione al suicidio. Ma il suicidio umanisticamente parlando è un fenomeno che irrompe nella vita con una eterogeneità disarmante.

Ieri due ragazze si sono chiuse in macchina in una pietraia e hanno tentato di uccidersi insieme. Nelle loro parole è presente la pericolosa istantaneità dei tempi postmoderni2, in cui ci si gioca tutto per ciò che si sente, impulsivamente, nel vuoto, senza scopi. La crisi economica è stata associata al suicidio di molti piccoli imprenditori, la prigione è connessa a un tasso di pericolo molto alto. Persino il bullismo ha fatto delle vittime. E ancora: il suicidio è una forma di protesta o lotta contro il potere (Tibet), è parte di pratiche culturali per conservare l’onore, ha caratterizzato alcuni fenomeni di massa (veterani, millenarismi). E infine i disturbi psichici sono notoriamente connessi con il suicidio. La psichiatria è stata spesso chiamata in causa per fornire spiegazioni su questi eventi limite. Ma non solo la psichiatria si confronta con fenomeni così eterogenei; non è solo la follia che conduce ai suoi gesti estremi un’esistenza. Il suicidio è un fenomeno alquanto complesso i cui confini sociali, antropologici e medici sono continuamente costretti a confrontarsi con realtà decorrenti e ineguali, a ogni singolo nuovo episodio.

 

 

Bibliografia

  • Cianconi, P.; Addio ai confini del mondo, FrancoAngeli, 2011
  • Dawkins, R.; (1979), Il gene egoista, Mondadori, Milano.
  • Gazzaniga M.; (2011), Chi comanda? ed Codice Torino, 2012

ARTICOLI SUL SUICIDIO

“Do you speak Facebook? Guida per genitori e insegnanti al linguaggio del social network” – Recensione

Recensione del libro

“Do you speak Facebook?

Guida per genitori e insegnanti al linguaggio del social network”

di Anna Fogarolo

Edizioni Erickson (2013)

 

Do you speak Facebook? - RecensioneLa maggior parte di noi ha dimestichezza con tutto quello che offre la Rete, sia in termini di fruizione di informazioni che in termini di “social”, macro categoria che racchiude tutti gli strumenti a disposizione del web che ci consentono di comunicare, interagire e gestire degli scambi sociali.

Smartphone, Tablet, PC: ormai siamo connessi ovunque e

comunque.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: SOCIAL NETWORK

Impossibile non pensare immediatamente a Facebook, la piattaforma sociale più utilizzata e il secondo sito internet più visitato al mondo (secondo solo al motore di ricerca Google), e a come continui ad influenzare, in qualche modo, la nostra vita.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA

Il testo di Anna Fogarolo è un piccolo ma preciso manuale che introduce i profani all’utilizzo di Facebook, spiegando passo passo come creare un account, come impostare i paramentri di privacy, come creare un gruppo o una pagina, con particolare attenzione a chi volesse utilizzare questo strumento come risorsa per l’educazione.

Le premesse di questo testo sono duplici: si parte dall’assunto che Facebook, ormai, rappresenti una parte piuttosto consistente della vita dei così denominati “nativi digitali”, quelle generazioni – cioè – che sono nate e cresciute con internet e per questo, alcuni ritengono, siano in grado naturalmente di padroneggiare i suoi strumenti. In realtà nascere in un determinato contesto non significa saperlo gestire o conoscere a fondo, ecco perché i docenti rappresentano un punto di riferimento, o potrebbero rappresentarlo, anche nell’educazione al mondo virtuale e di internet, che non è scevro né da pericoli né da regole, né da limiti in realtà.

Condividere, postare, taggare, sono tutti termini che i pre adolescenti e gli adolescenti di oggi (ma non solo) maneggiano con naturalezza, come parte integrante del loro mondo emotivo, sociale e cognitivo.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: BAMBINI E ADOLESCENTI

Chi volesse, dunque, riuscire ad entrare in contatto con loro, non può esimersi dall’utilizzare e padroneggiare sia gli strumenti a loro disposizione, sia il linguaggio ormai diffuso e comune.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE

La seconda premessa, a mio avviso incoraggiante, viene dallo stesso Facebook che fornisce la disponibilità di creare delle pagine o dei gruppi specifici per le scuole. Interpretando molto bene la tendenza attuale di professori ed educatori che sfruttano le potenzialità di condivisione e di comunicazione della piattaforma, per poter avvicinarsi agli alunni ma anche – e soprattutto – per fare sì che gli stessi alunni si avvicinino ad un mondo variegato e spesso contestato come la Scuola.

L' Invidia del post. - Immagine:©-tarasov_vl-Fotolia.com_1
Articolo Consigliato: Facebook e l’ Invidia del Post – Psicologia & Emozioni

Proporre contenuti didattici attraverso Facebook è possibile e rappresenta una svolta nel rapporto alunno-insegnante, ecco perché vale la pena riflettere su questa dinamica e le implicazioni che comporta.

Far sì che i contenuti e le informazioni scolastiche assumano una veste più vicina a quelle che sono le esigenze e i ritmi di apprendimento (ma anche di vita) delle nuove generazioni, significa consentire ad un grande numero di studenti di avvicinarsi, di prendere confidenza, magari – perché no? – di appassionarsi.

Il tutto, naturalmente, senza snaturare il ruolo del docente, che può essere vicino ai suoi studenti e ai loro problemi e alle loro esigenze, ma non può diventarne un amico, nel senso più comune del termine. Può essere un confidente o un alleato, un sostegno e un punto di riferimento, ma – l’autrice suggerisce – non può venir meno al proprio ruolo educativo, che comporta anche l’utilizzo di limiti e di confini.

L’Autrice, nell’introduzione al testo, invita gli adulti a prendere dimestichezza con questo strumento, senza demonizzarlo a priori, anzi, cercando di mostrare come Facebook possa rappresentare l’equivalente del vecchio muro della scuola”, sul quale gli studenti scrivevano le loro proteste o le loro dichiarazioni d’amore. Non è un caso, infatti, che la terminologia di Facebook richiami questa immagine: ogni utente ha un profilo, un diario, e i contenuti che scrive sono pubblicati sul wall (= il muro). Questo strumento, data la facilità di utilizzo, ma soprattutto la visibilità che offre, può certamente spaventare, ma può anche – se utilizzato correttamente- rappresentare un “megafono al servizio dell’educazione”.

Forse ciò che spaventa di più di Facebook è il passaparola, che di per sé non può essere controllato (si sa magari da dove parte ma non si può certo sapere dove andrà a finire), e la così detta “Riprova Sociale”, teorizzata dallo psicologo Robert Cialdini (1995), fenomeno sul quale sembra basarsi il successo di Facebook.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: PSICOLOGIA SOCIALE

L’essere umano, infatti, tende ad adattare il suo pensiero e il suo giudizio a quelli prevalenti nel gruppo (o nei gruppi) che frequenta. Il social network creato da Zuckerberg nel 2004 con l’intento di aiutare a conoscere e a intrecciare legami, fa sentire potenti, opinion leader. Attraverso la possibilità di esprimere liberamente la propria opinione, di condividere i propri vissuti, ma soprattutto di visionare e giudicare quelli degli altri, questa piattaforma ha un alto potere aggregativo. Consente, infatti, di sentirsi parte di un gruppo, di appartenere ad un’opinione più allargata, di non essere una goccia nell’oceano.

L’unione fa la forza, e questo meccanismo sicuramente è un’arma a doppio taglio: da un lato incontrollabile e a volte ingestibile nelle sue frange estremiste (rappresentate da veri e propri litigi e scambi di opinione poco educati), ma anche uno strumento per invogliare gli studenti a sentirsi parte integrante di un gruppo di lavoro, che ha uno scopo e una direzione e che, soprattutto, condivide alcuni strumenti per ottenere l’obiettivo.

Apprendere attraverso ciò che già si conosce, inoltre, mi viene da pensare, fa sentire più efficaci e capaci, riduce la distanza tra insegnante e alunno, incuriosisce e stimola.

Il libro, negli ultimi capitoli, porta ad esempio pagine di istituti scolastici in cui i professori hanno notato un maggiore coinvolgimento scolastico dopo l’apertura di uno spazio dedicato alla classe su Facebook.

Infine, l’Autrice, si sofferma a riflettere sulla lingua utilizzata dagli alunni sui social network e sull’allarmismo lanciato negli ultimi anni rispetto all’impoverimento della lingua italiana a causa di un gergo e dell’introduzione di vocaboli tipici del web (abbreviazioni, storpiature, neologismi etc.). La lingua italiana, però, è da sempre in evoluzione e trasformazione, e secondo alcuni eminenti esponenti della linguistica italiana (tra cui la presidentessa dell’Accademia della Crusca) l’allarme non è tanto riguardo ad un nuovo linguaggio, che bisogna però di cercare di circoscriviere, considerandolo come un linguaggio “tecnico” (il linguaggio della chat), ma la mancanza di letture da parte degli italiani.

Come a dire: potremmo esprimerci anche come Manzoni sui social network, ma se non apriamo un libro, non cambierà mai nulla.

E allora, forse, varrebbe davvero la pena di fare di quello che sembra un nemico invincibile (Facebook) un alleato: utilizzando i suoi strumenti e la sua potenzialità per ingaggiare gli adolescenti e mostrare loro che si può essere connessi sempre e comunque ma anche con la Cultura con la C maiuscola.

LEGGI ANCHE:

SOCIAL NETWORK – PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA – BAMBINI E ADOLESCENTI 

LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE – PSICOLOGIA SOCIALE 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

ACT, teoria e pratica dell’Acceptance and Commitment Therapy – Recensione

Recensione del libro

ACT,

Teoria e pratica dell’Acceptance and Commitment Therapy

 

ACT, Teoria e pratica dell'Acceptance and Commitment TherapyL’Acceptance and Commitment Therapy è un modello clinico che si fonda sulla promozione dell’efficacia comportamentale, obiettivo centrale del percorso terapeutico a prescindere dall’esistenza di pensieri dolorosi o emozioni spiacevoli.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY – ACT

A differenza di altri approcci terapeutici che si focalizzano sulla necessità di ridurre l’intensità e la frequenza del disagio psicologico, l’ACT lavora sulle risorse che l’individuo può attivare per tollerare la sofferenza e impegnarsi nella direzione di un cambiamento riconoscendo la presenza di quel malessere senza intervenire su di esso. I processi terapeutici fondamentali dell’ACT sono:

 

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA COGNITIVA

– l’accettazione dell’esperienza;
– la defusione;
– il contatto con il momento presente;
– il sé come contesto;
– il contatto con i propri valori;
– l’azione impegnata.

L’accettazione, concetto che viene descritto solo parzialmente dalle formulazioni verbali e al contrario può facilmente essere colto attraverso l’esperienza, è la disponibilità a vivere anche gli aspetti negativi del proprio percorso esistenziale inserendoli in un quadro coerente di valori e atteggiamenti. L’apertura all’esplorazione, fondamentale per acquisire una buona flessibilità psicologica in antitesi alla rigidità dell’evitamento, implica l’incontro con pensieri, emozioni, stati soggettivi e corporei che si alternano, si intrecciano, dando origine al flusso dell’esperienza che contiene sia emozioni positive sia elementi di sofferenza; le une e gli altri fanno però parte di un’unica realtà che è la vita stessa dell’individuo.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: ACCETTAZIONE

Fare "ACT" - Russ Harris - Recensione.jpgLa defusione è la separazione tra linguaggio descrittivo e linguaggio valutativo; spesso le categorie che utilizziamo per descrivere un oggetto, che si configurano come reali poiché attribuiscono un colore, una caratteristica fisica, una proprietà funzionale, vengono estese alla valutazione compiuta su un soggetto, e come tali percepite. Così se affermo che “mio figlio è stupido“, il valore associato al linguaggio, ossia la convinzione che descriva la realtà, produce nel soggetto che riceve quella valutazione un impatto emotivo intollerabile. Allo stesso modo il linguaggio prescrittivo – “devo/i essere perfetto” – non viene inteso come uno stato soggettivo dato dalle proprie credenze o dalle aspettative altrui, bensì come indicazione ineludibile legittimata dal potere delle parole. L’ACT sottrae autorità al linguaggio riconducendolo alla dimensione di un’attività simbolica finalizzata a comunicare contenuti relativi e non assoluti.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE

Il contatto con il momento presente è la capacità di concentrare l’attenzione sul qui e ora, sugli stimoli da registrare e affrontare nel contesto dell’esperienza immediata, evitando di farsi guidare da pensieri che riguardano il passato e il futuro – rimuginio, ruminazione, previsioni negative – e sottraendosi all’illusione di poter controllare attraverso il pensiero tutto ciò che appartiene all’imprevedibilità e immodificabilità degli eventi. Stando nel presente si possono utilizzare risorse altrimenti assorbite dal tentativo costante di categorizzare e valutare l’esperienza.

Il sé come contesto è il luogo in cui si sviluppano pensieri ed emozioni, il soggetto che vive quegli stati. Chi prova ansia, tristezza o altre emozioni spiacevoli tende sovente ad associare a quei contenuti una valutazione di sé, di come andrebbero affrontati e di quanto colpevole e/o inadeguato sia il suo atteggiamento. In questo modo la sofferenza si accentua creando rappresentazioni che diventano i termini con cui il soggetto si giudica; pensare “io sono ansioso” oppure “in me si è prodotta dell’ansia” genera, nel primo caso un processo mentale inflessibile che costruisce un’idea di sé incentrata sulla percezione di vulnerabilità, nel secondo un riferimento dinamico al contesto esperienziale. Nel quadro complesso che compone il Sé esiste anche il disagio emotivo e questo dato è in continuo divenire, mentre la formazione di un’identità stabilmente definita attraverso circoli viziosi psicopatologici favorisce il loro consolidamento.

Il contatto con i propri valori presuppone che le azioni personali privilegino i significati centrali dell’identità, gli elementi capaci di rappresentare uno scopo soggettivo gratificante e di promuovere la vitalità dell’individuo, fungendo da rinforzo per i comportamenti successivi. I valori cui fa riferimento l’ACT non sono quelli socialmente condivisi bensì appartengono al vissuto del paziente e rientrano nelle sue scelte libere. In quest’ottica possono essere accettate e rielaborate, utilizzando anche strategie di defusione, le emozioni problematiche, che vengono ricondotte alla necessità di perseguire un valore fondamentale, uno scopo sovraordinato; le difficoltà di un contesto esperienziale diventano più tollerabili se è chiaro il legame fra quel contesto e i valori del paziente, come accade per esempio quando lo scopo di essere un genitore supportivo implica la gestione di passaggi emotivi complessi nella relazione con un figlio.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: SCOPI ESISTENZIALI

L’azione impegnata è una componente essenziale dell’ACT, poiché oltre ad accettare gli stati emotivi dolorosi il paziente è chiamato a impegnarsi per modificare attivamente la propria condizione; vengono perciò identificati gli obiettivi coerenti con i valori del soggetto e le strategie funzionali a perseguirli, e la gratificazione ricavata dal raggiungimento degli stessi costituisce un rinforzo positivo determinante nell’accrescere l’approccio vitale alla risoluzione dei problemi. L’impegno è la parte propositiva dell’ACT, coinvolge le risorse che il paziente aveva in precedenza destinato al controllo, al rimuginio e alle altre strategie dimostratesi inefficaci; l’assunto di base è che proprio attraverso la definizione di obiettivi e l’azione concreta finalizzata al cambiamento, possa aumentare la percezione di efficacia e con essa la possibilità di mantenere un atteggiamento esplorativo. In questo modo si favorisce anche l’accettazione consapevole delle difficoltà legate all’evoluzione dell’esperienza.

In conclusione, l’Acceptance and Commitment Therapy fornisce spunti estremamente interessanti nel ripensare la psicoterapia non più come un percorso in cui il paziente deve eliminare l’impatto del proprio malessere, bensì come apprendimento di una prospettiva diversa che permette di accettare la sofferenza, di integrarla nel divenire dell’esperienza e di elaborare strategie attive di risoluzione dei problemi.

LEGGI ANCHE:

ACCEPTANCE AND COMMITMENT THERAPY – ACT – ACCETTAZIONE – LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE – SCOPI ESISTENZIALI – PSICOTERAPIA COGNITIVA

BIBLIOGRAFIA: 

Shyness: Interview with Bernardo Carducci Ph.D at APA 2013 Annual Convention, Honolulu

 

Shyness: Interview with Bernardo Carducci Ph.D

American Psychological Association (APA) 2013 annual Convention. Honolulu, Hawaii

 

Director Giovanni Maria Ruggiero interviews for State of Mind Prof. Bernardo J. Carducci Ph.D, full Professor of Psychology and Director of the Shyness Research Institute at Indiana University Southeast.

Prof. Carducci is a Fellow of the American Psychological Association (APA).

The interview is divided in two parts:

1 – Interview on Shyness ( from beginning to 20’50”)
2 – Interview on the Italian American Psychological Assembly (from 20’50” to end)

SEE ALL INTERVIEWS

SEE THE ENGLISH ARTICLES ARCHIVE

Ciò che mi nutre mi distrugge – ED – Documentario

Ciò che mi nutre mi distrugge

Il documentario su:

I Disturbi del Comportamento Alimentare

 

Mercoledì 11 settembre, in seconda serata – ore 00.09 – andrà in onda su RAI3 il Documentario “Ciò che mi nutre mi distrugge”, interamente girato presso la UOSD Disturbi del Comportamento Alimentare ASL RomaE.

L’iniziativa è stata fortemente voluta dai due registi, genitori di un paziente precedentemente seguito presso il mio servizio.

SINOSSI

Il film si sviluppa nell’arco di un anno, si raccontano i percorsi di cura di 4 pazienti, l’evoluzione del disturbo, le sconfitte subite e i traguardi raggiunti in una malattia difficile da combattere. Le storie delle 4 pazienti costituiscono l’asse portante della struttura narrativa e il luogo sono le sedute di psicoterapia. L’accesso alle sedute è un’occasione unica per far luce su un tema altrimenti molto difficile da raccontare nella sua reale essenza. La camera registra le storie, gli scontri, i ricordi, le sensazioni, i sentimenti, nel momento in cui si svelano alle persone stesse, nel momento in cui vengono tirate fuori dal profondo. Vediamo le persone cambiare, crollare, sperare di nuovo, curare e curarsi. Sentiamo il male profondo, lo vediamo uscire, manifestarsi o lo sentiamo nascondersi, rifugiarsi.

Il terapeuta provoca la discussione, aiuta i pazienti ad esprimersi, li aiuta ad aprirsi, a capirsi, anche quando fa male. Attraverso il confronto tra linguaggio verbale e linguaggio non verbale si costruisce la drammaticità del film si scopre quello che si nasconde dietro i gesti, si svela quello che le parole da sole non potrebbero mai dire.

In alcuni casi la paziente è sola di fronte al terapista, altre volte insieme alla famiglia. La tensione è forte, alle spalle ci sono giorni passati in silenzio tra le mura domestiche, senza riuscire a comunicare. Qui lentamente si abbattono quelle barriere che prima sembravano invalicabili e tra dolore e speranza si riapre il dialogo. L’espressione del disagio, localizzata nella distorta percezione del corpo e nel rapporto col cibo, mostra le sue radici. Gli autori del film, dal loro osservatorio privilegiato, registrano quelle parole mai dette, intercettano quegli sguardi mai scambiati.

L’unità di luogo del film è il Centro per la cura dei Disturbi Alimentari della ASL RME, struttura pubblica che ha sede presso il Comprensorio di Santa Maria della Pietà.

DI ILARIA DE LAURENTIIS E RAFFAELE BRUNETTI
PRODUZIONE B&BFILM
DURATA 70 MIN CIRCA
IN COPRODUZIONE CON RAI3
CON IL CONTRIBUTO DEL PROGRAMMA MEDIA DELLA COMUNITÀ EUROPEA
FILM RICONOSCIUTO DI INTERESSE CULTURALE DAL MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI

Per maggiori informazioni

www.ciocheminutremidistrugge.com.

Per essere aggiornato sulle proiezioni e scoprire contenuti extra cliccate mi piace sulla pagina www.facebook.com/ciocheminutremidistruggedoc.

LEGGI:

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED – DOCUMENTARI

 

Disturbi alimentari: Maggiore dimensione di alcune aree cerebrali?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il maggiore volume della corteccia orbito-frontale, infatti, potrebbe essere caratteristico di tutti i disturbi alimentari e indurre chi soffre di anoressia nervosa a smettere di mangiare prima di avere mangiato abbastanza.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: NEUROPSICOLOGIA

Secondo i risultati di un nuovo studio, condotto dai ricercatori della University of Colorado’s School of Medicine, le adolescenti con anoressia nervosa avrebbero cervelli più grandi rispetto alle coetanee che non sono affette da questo disturbo alimentare. 

Pro ANA - Disturbi del Comportamento Alimentare su Internet. - Immagine: © servane roy berton - Fotolia.com
Articolo Consigliato: Pro ANA – Disturbi del Comportamento Alimentare su Internet

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: ANORESSIA NERVOSA

Due gruppi di adolescenti sono state sottoposte a risonanza magnetica per studiarne i volumi cerebrali. L’insula, una parte del cervello che si attiva quando gustiamo il cibo, e la corteccia orbito-frontale, che ci dice quando smettere di mangiare (la cosiddetta “sazietà sensoriale specifica”), sono risultate di dimensioni maggiori nelle 19 ragazze anoressiche del gruppo sperimentale rispetto alle 22 del gruppo di controllo. Inoltre nei soggetti con anoressia nervosa, il volume della materia grigia orbito-frontale correlava negativamente con i sapori dolci.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: ADOLESCENTI

Sulla base di questi dati, replicati in un secondo studio che ha messo a confronto due gruppi di adulti, Guido Frank, assistente professore di psichiatria e neuroscienze alla CU School of Medicine, sostiene che la maggiore dimensione di queste aree cerebrali può spiegare il “lasciarsi morire di fame” tipico di questo disturbo alimentare.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED

La correlazione negativa tra piacevolezza del gusto e il volume della corteccia orbito-frontale in individui con anoressia nervosa potrebbe contribuire all’evitamento del cibo“, sostiene Frank.

Il maggiore volume della corteccia orbito-frontale, infatti, potrebbe essere caratteristico di tutti i disturbi alimentari e indurre chi soffre di anoressia nervosa a smettere di mangiare prima di avere mangiato abbastanza. Inoltre l’insula destra, che elabora il gusto e che integra la percezione del corpo, potrebbe contribuire alla percezione di essere sovrappeso, pur essendo sottopeso.

Questo studio è complementare a un altro, pubblicato nel 2013 nel Journal of Psychiatry, che ha riscontrato differenze nella dimensione del cervello in adulti con anoressia e in individui guariti da questa malattia.

LEGGI: 

NEUROPSICOLOGIA – ANORESSIA NERVOSA –  ADOLESCENTI – DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Syd Barrett: l’eclissi di un diamante pazzo – Musica & Psicologia

di Filippo Baldin e Gaspare Palmieri.

 

Remember when you were young, You shone like the sun. Shine on you crazy diamond.

Now there’s a look in your eyes, Like black holes in the sky. Shine on you crazy diamond.
Pink Floyd, Shine on you crazy diamond, 1974

 

Syd BarrettRoger Barrett (1946-2006), soprannominato Syd dai tempi degli scout, è stato tra i fondatori della band britannica progressive rock Pink Floyd, considerata tra le principali esponenti della psichedelia. La sua militanza attiva nel gruppo è durata solo tre anni, dal 1965 al 1968, quando manifestò una grave forma di disagio psichico che lo costrinse a lasciare le scene e a trascorrere il resto della vita in modo ritirato.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: MUSICA

Penultimo di cinque fratelli, crebbe in un ambiente domestico amorevole, prospero e sicuro, nella tranquilla ma stimolante città di Cambridge. Viene descritto dalla sorella Rosemary come un bambino irrequieto, che gridava tutto il tempo, fino al giorno in cui imparò a disegnare, diventando più tranquillo. Suo padre Max era un medico che dedicò la sua vita al lavoro e la sua morte prematura nel 1961, rappresentò di sicuro un evento traumatico per Syd.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE

La madre era gentile e premurosa, ha sempre sostenuto il figlio, sia nei momenti spensierati della sua infanzia, sia nei momenti bui di ritiro autistico, che hanno caratterizzato la vita dopo i Pink Floyd.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: BAMBINI

Syd era molto creativo e, oltre a dipingere, iniziò a strimpellare brani rhythm‘n’ blues con la chitarra acustica, focalizzando la sua attenzione più sul suono che sulla melodia. Terminati gli studi primari, si iscrisse alla London’s Camberwell School Of Art, dove la sua figura eccentrica e misteriosa conquistò l’attenzione dei compagni e dei professori. In questo periodo entrò in contatto con Roger Waters (ex compagno di liceo), Nick Mason e Richard Wright, dando vita ai futuri Pink Floyd. I ragazzi abbandonarono ben presto gli studi accademici per dedicarsi solo alla musica e dopo un paio d’anni di gavetta firmarono un contratto con la EMI, imponendosi nel panorama avanguardistico e psichedelico underground londinese. Registrarono negli studi di Abbey Road il loro primo album The Piper at the Gates of Dawn, che fu un successo, ma rappresentò l’inizio dei problemi per l’artista. Come molti ragazzi di quel decennio, anche Syd  fu vittima dell’ Acid casualty, cioè delle conseguenze dell’abuso del potente acido lisergico dietilamide (LSD).

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: DROGHE E ALLUCINOGENI

Chi Muore Rockstar è Caro agli Dei?. - Immagine: ©-Andrei-Tsalko-Fotolia.com
Articolo consigliato: Chi Muore Rockstar è Caro agli Dei?

In quegli anni ci fu un boom di consumo di tale sostanza, con una sottovalutazione delle possibili conseguenze. In pochi sanno che per un periodo l’LSD fu utilizzato anche in ambito psichiatrico, come “amplificatore” della  psicoterapia (Baker, 1964), in pazienti affetti da disturbi nevrotici e della personalità, per via del suo effetto di potenziare le percezioni e le capacità associative. Il suo uso venne poi prontamente smesso in quanto tra gli effetti collaterali vi è la comparsa di stati psicotici, ampliamente confermati dalla letteratura recente (Abraham e Aldridge, 1993; Marona Lewicka et al, 2011). Gli acidi in quel periodo erano inoltre più potenti di quelli di oggi e un trip poteva comportare l’assunzione fino a 250 microgrammi di sostanza.

Le biografie riportano come Syd fosse un grandissimo consumatore di LSD e a questo si aggiungeva il consumo di marijuana, alcol e metaqualone (il famoso Mandrax).

Le testimonianze dei colleghi di Syd evidenziano un quadro psichico davvero preoccupante, che ricorda una psicosi esogena con sintomi confusionali.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: PSICOSI

Il cantante degli UFO Joe Boyd racconta ad esempio nel 1967 che Syd “mi guardava in modo assente. Non c’era un guizzo o una luce nei suoi occhi. Come se non ci fosse nessuno in casa”.  Anche sul palco mostrava comportamenti inadeguati, come nel tour americano del 1967, quando suonò con la chitarra completamente scordata e si presentò sul palco dopo essersi versato un intero barattolo di gel per capelli, che si scioglieva come cera sotto le luci di scena. Il disorientamento spazio-temporale lo portò a salutare un discografico a Los Angeles dicendo di essere contento di trovarsi a Las Vegas. Nella primavera del 1968 Roger Waters tentò senza successo di portare Syd dallo psichiatra R.D. Laing ed in quell’anno il chitarrista venne escluso dalla band e rimpiazzato da David Gilmour.

Dopo aver vissuto senza fissa dimora per circa due anni, Syd fece ritorno nella città natale dove venne ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Fulbourne, da cui fu poi seguito ambulatorialmente. Negli anni successivi non venne mai curato contro la propria volontà ed assunse in certi periodi di maggiore agitazione il neurolettico clorpromazina. Risale a quel periodo la registrazione, con l’aiuto degli ex compagni della band, dei due album solisti dell’artista The Madcap Laughs (1970) e Barrett (1971).

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: FARMACOLOGIA – FARMACI

Riprese col tempo a dipingere e ad ascoltare musica. Dipingeva con una grande varietà di stili: paesaggi, quadri astratti, nature morte, studi di luce, esercizi sui colori. Sembrava un tipo di attività autoterapeutica, senza un particolare interesse ad esibire le proprie opere. Era infatti solito distruggere i quadri dopo averli dipinti, come se l’interesse fosse più concentrato sul processo creativo che sull’opera finita.

All’inizio degli anni ’80 trascorse un periodo in una residenza psichiatrica a Greenwoods nell’Essex, da cui poi fuggì per tornare a vivere con la madre e la sorella, a cui era legatissimo.

E’ stato ipotizzato che Syd soffrisse di Sindrome di Asperger, un disturbo dello spettro autistico, caratterizzato soprattutto dalla compromissione del funzionamento sociale e relazionale.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO – AUTISMO

Le persone affette da questa malattia possono presentare assenza di empatia, di consapevolezza di sé e possono sviluppare disturbi psichiatrici secondari nell’adolescenza e nell’età adulta (Tantam D, Girgis S., 2009). Questa seconda fase della vita di Syd fu caratterizzata dall’estremo ritiro sociale e dalla forte limitazione nelle relazioni con gli altri, se si escludono alcuni negozianti e il proprio medico di base, che visitava spesso. Contro questa ipotesi potrebbe essere sottolineato il temperamento infantile e adolescenziale di Syd, descritto come vivace, che amava essere al centro dell’attenzione e con una tendenza ad essere il leader. Queste caratteristiche difficilmente si trovano in disturbi dello spettro autistico.

L’altra ipotesi diagnostica, forse più probabile, è un disturbo dello spettro schizofrenico, a cui i Pink Floyd dedicarono successivamente l’intero album The Wall (1979), che descrive la tragedia personale ed il progressivo isolamento sociale della rock-star Pink, alter-ego di Roger Waters (Pellizza, 2007).

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: SCHIZOFRENIA

A sostegno di questa ipotesi, oltre alla coartazione emotiva e al ritiro regressivo, possiamo sottolineare il rapporto simbiotico con la figura materna, tipico di questi tipi di disturbi. L’uso massiccio di LSD può slatentizzare l’insorgenza di psicosi schizofreniformi in soggetti predisposti, cioè con una vulnerabilità congenita.

Dopo la morte, avvenuta nel 2006 per tumore al pancreas, sono stati messi all’asta vari oggetti trovati nella sua casa e tra questi The Oxford Textbook of Psychiatry, in cui l’artista appuntò alcune pagine relative alla gestione di sindromi organiche da abuso di droghe, alle demenze e alle sindromi paranoiche.

Si può dunque ipotizzare che Syd avesse una consapevolezza di malattia o quanto meno un interesse a tentare di capire da solo i propri disturbi mentali. Negli anni del ritiro ricevette numerose visite di fans, giornalisti e curiosi, a cui cercò in ogni modo di negarsi, rifiutando di voler parlare di quella che era ormai diventata una vita precedente, quando Roger era ancora per tutti lo psichedelico Syd (Chapman, 2012).

 

LEGGI ANCHE:

 MUSICA – DROGHE E ALLUCINOGENI – DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO – AUTISMO – SCHIZOFRENIA – PSICOSI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Mindfulness: Effetti del Programma di Pratica per la Scuola

 

 

Mindfulness- Effetti del Programma di Pratica per la Scuola. -Immagine: © Minerva Studio - Fotolia.com Praticare la mindfulness a scuola sembra ridurre i sintomi depressivi, lo stress e migliorare il benessere negli adolescenti. 

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: MINDFULNESS

Questi risultati sono il prodotto di una ricerca svolta in concerto dalle Università di Exeter, Oxford e Cambridge con 522 ragazzi inglesi dai 12 ai 16 anni della scuola secondaria.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: DEPRESSIONE

Gli adolescenti sono stati divisi in due gruppi: il primo ha svolto il curriculum standard previsto dalla scuola e il secondo ha partecipato al Mindfulness in Schools Programme. Tale intervento di mindfulness prevede un training della durata complessiva di nove settimane, una in più del classico programma MBCT, con frequenza di una sessione a settimana. Il Mindfulness in Schools Programma rientra pienamente nella tradizione dei protocolli mindfulness (come MBCT, MBSR e MBRP).

MBRP - Mindfulness Based Relapse Prevention per la prevenzione delle ricadute nelle dipendenze . - Immagine: © kikkerdirk - Fotolia.com
Articolo Consigliato: MBRP – Mindfulness Based Relapse Prevention per la prevenzione delle ricadute nelle dipendenze

Il Programma è stato strutturato traendo ispirazione da alcuni principi che guidano l’efficacia del lavoro con persone adolescenti. Tra questi principi, gli autori ricordano: esplicitazione dei concetti, adattare e abbreviare gli interventi in modo che siano fruibili dai destinatari, considerare il range di età e agire in modo coerente e adatto ad esso, l’uso dell’interazione, l’importanza della componente esperienziale e  di disporre di strumenti adeguati all’età che permettano di portare i temi appresi nella quotidianità di tutti i partecipanti. Per quest’ultimo principio, sono stati distribuiti ai ragazzi un libretto informati con i temi principali del corso, un set di pratiche di mindfulness su CD e MP3.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: ADOLESCENTI

Agli adolescenti che hanno partecipato alla ricerca sono stati somministrati alcuni questionari self-report prima del programma di mindfulness, a due e a tre mesi dalla fine del training.

Alla fine del training, i risultati mostrano con evidenza significativa un abbassamento dei livelli di depressione e di stress e un aumento considerevole del benessere percepito. 

Nello specifico, rispetto al primo gruppo, gli adolescenti che hanno partecipato al training mindfulness hanno riportato livelli significativamente inferiori alla scala Center for Epidemiologic Studies Depression Scale (CES-D) della depressione (p = 0.004) e al follow-up (p = 0.005) e livelli bassi di stress (p = 0.05) nella fase post-intervento, misurato con il Perceived Stress Scale (PSS). Inoltre, al follow-up, i risultati mostrano punteggi più alti di benessere (P = 0.05), misurato con la scala Warwick–Edinburgh Mental Well-being Scale (WEMWBS).

Dal presente studio, emerge un altro dati interessante che rappresenta una conferma rispetto all’importanza fondante della pratica personale. Infatti, il grado di pratica svolta dai partecipanti tra una sessione e l’altra è associato al miglioramento del benessere personale  (p<0.001), all’abbassamento dei livelli di stress (p = 0.03) e all’abbassamento dei livelli di depressione (p =0.04) al follow-up di tre mesi.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: STRESS

Questo lavoro porta avanti un filone di ricerca molto importante. Infatti, sebbene ad oggi gli interventi mindfulness siano stati validati maggiormente nella popolazione adulta, sarebbe auspicabile investire sulla ricerca delle applicazioni della mindfulness anche nei giovani adolescenti e nei bambini. In questo modo, si potrebbe avere un backgruond scientifico forte da cui derivare proposte e interventi di mindfulness all’interno del contesto scolastico.

LEGGI:

MINDFULNESS – STRESS – ADOLESCENTI – DEPRESSIONE

 

APPROFONDIMENTI:

 

Bibliografia:

Leadership negli Sport di Squadra #5: Stili decisionali

Leadership negli Sport di Squadra #5:

STILI DECISIONALI

 

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

Leadership negli sport di squadra - Stili decisionali - Parte 4 . - Immagine: © freshidea - Fotolia.com“Agire” per il leader vuol dire innanzitutto “prendere decisioni” e “decidere” significa: “selezionare un’alternativa fra più opportunità, allo scopo di raggiungere l’obiettivo desiderato” [Cei, 1998].

Tutti i processi che implicano una scelta di questo tipo, sempre secondo Cei, necessitano di un lavoro su due livelli che considerano rispettivamente: a) aspetti cognitivi e, b) aspetti sociali. Mentre i primi si possono sintetizzare nella risoluzione dei problemi logici inerenti l’ostacolo in questione, i secondi presentano difficoltà maggiori, se non altro per l’apparente ambiguità sulla loro efficacia. Questa ambiguità emerge, in particolar modo, nel momento in cui si confrontano le opinioni e le ricerche espresse al riguardo in ambito sociale e in ambito sportivo.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: PSICOLOGIA DELLO SPORT

Per comprendere questa ambiguità bisogna prima di tutto specificare che quando si parla di aspetti sociali in quest’ambito si fa principalmente riferimento alle opportunità offerte dal leader agli altri  soggetti di partecipare ai processi decisionali.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: DECISION MAKING

In effetti le ricerche che si sono concentrate sull’analisi degli stili decisionali in ambito sociale hanno focalizzato la loro attenzione sul ruolo che assume all’interno del gruppo il conflitto di opinioni. In particolare Moscovici e Zavalloni [1969] osservarono che le prese di posizione espresse dai soggetti dopo una discussione di gruppo su di uno specifico problema tendeva ed essere significativamente diversa, e in particolare modo più vicina a uno dei poli del ventaglio di opinioni, di quanto non fosse precedentemente. Questa dinamica interna al gruppo venne definita dagli autori come polarizzazione e cioè come: “incremento dato dal gruppo ad un orientamento già presente nei singoli componenti” Palmonari [in Arcuri, 1995]. Tuttavia i risultati della loro ricerca dimostrarono come, in realtà, esistessero due diverse e opposte tendenze. Vi erano gruppi che raggiungevano un consenso su atteggiamenti più polarizzati, altri invece lo raggiungevano su opinioni meno polarizzate e più vicine alla media della totalità delle alternative appoggiate dai soggetti individualmente (processo definito come normalizzazione). La tipologia di conflitto presente all’interno dei gruppi è ritenuta essere la variabile primaria che orienta lo stile decisionale verso un processo di polarizzazione o normalizzazione. In particolare nei gruppi in cui il conflitto tende a sfociare in un’aperta discussione e confronto (in cui quindi le opportunità di partecipazione dei membri sono elevate) si sviluppa un processo di  polarizzazione, al contrario in quelli in cui il confronto è ridotto al minimo (in cui le opportunità di partecipazione sono pressoché nulle) si sviluppa un processo di normalizzazione.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: PSICOLOGIA SOCIALE

Postura e Decision Making - Immagine: © olly - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Postura e decision Making, quando a sinistra si sottostima l’ignoto…

Secondo Palmonari [1995] le caratteristiche della leadership risultano essere, assieme al senso di coinvolgimento dei membri e alla formalità del gruppo, uno dei fattori determinanti della tipologia di conflitto che caratterizza le decisioni. Va sottolineato, ed è il punto in cui emerge l’ambiguità, che, partendo da queste considerazioni, Moscovici e Doise [1991] considerano il tipo di conflitto socio-cognitivo, quello cioè basato su un esplicito e diretto confronto dei punti di vista, quello maggiormente produttivo ai fini del raggiungimento degli obiettivi del gruppo.

Gli studi che, al contrario, si sono specificamente orientati all’analisi degli stili decisionali nell’ambito sportivo sembrano aver raggiunto considerazioni diametralmente opposte. Le caratteristiche del leader che influenzano la tipologia di conflitto presente all’interno della squadra, e quindi la possibilità da parte dei membri di partecipare ai processi decisionali, sono state riassunte in cinque diversi stili decisionali da Chelladurai e Haggerty [1978]. Ciascuno di questi stili correlati al comportamento del leader influenzano la possibilità che i problemi vengano affrontati attraverso un’aperta discussione dei diversi punti di vista o semplicemente attraverso l’orientamento generale verso l’opinione individuale del leader. I cinque stili decisionali in questione sono:

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’

– stile autocratico I: in cui il leader prende autonomamente le decisioni sulla base delle sue sole conoscenze.

– stile autocratico II: in cui il leader prende autonomamente le sue decisioni sulla base di informazioni raccolte dai membri del gruppo.

– stile consultivo I: in cui il leader discute dei problemi con i membri più influenti del gruppo, tiene in considerazione le loro opinioni ma decide da solo.

– stile consultivo II: in cui il leader discute dei problemi con tutti i membri del gruppo, tiene in considerazione le loro opinioni ma decide da solo.

– stile di gruppo: in cui il leader discute dei problemi con tutti i membri del gruppo e lascia che elaborino insieme le possibili soluzioni e decidano quale mettere in atto. La sua funzione, in questo caso, è quella di semplice coordinatore.

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: RAPPORTI INTERPERSONALI

 Osservando questa distinzione risulta palese la possibilità di assimilare i diversi stili decisionali alle più ampie categorie di stili comportamentali, riferiti al leader, espressi da Bales e Slater [1955] e ancor più chiaramente a quelli distinti da Lewin, Lippit e White [1939]. In particolar modo gli stili autocratici possono essere associati a una leadership principalmente centrata sul compito, mentre quelli consultivi e lo stile di gruppo rappresentano una leadership più focalizzata sull’aspetto relazionale. A questo punto emerge il contrasto con le conclusioni tratte da Moscovici e Doise [1991] in quanto sappiamo dalle ricerche di Fidler [1964] che un leader centrato sul compito (e quindi stili decisionali autocratici) risulta essere molto più efficace per la produttività del gruppo specialmente davanti a situazioni caratterizzate da un controllo elevato o, al contrario estremamente basso. Al contrario in condizioni intermedie  uno stile decisionale consultivo o di gruppo può ottenere risultati migliori. Per questo la presenza o l’assenza del conflitto all’interno di un processo decisionale influisce sulla produttività di un gruppo anche in relazione a variabili situazionali. Questo è dimostrato anche da svariate ricerche in campo sportivo [Gordon, 1986; Chelladurai e Arnott, 1985; Chelladurai, Haggerty e Baxter, 1989] attraverso le quali gli autori hanno osservato come sia gli allenatori che i giocatori appaiono convinti che lo stile autocratico, in cui il leader decide da solo, sia da preferire soprattutto quando le situazioni da risolvere risultano particolarmente complesse o troppo banali. Cei [1998] precisa comunque l’importanza, da parte del leader, di saper utilizzare differenti stili decisionali in relazione alle diverse situazioni poiché solo in questo modo può essere in grado di affrontare qualsiasi problema in modo da promuovere positivamente la produttività della squadra, ribadendo così che non esiste una scelta universale ma che il leader deve essere in grado di adattare le proprie azioni e scelte.

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

LEGGI ARTICOLI SU:

PSICOLOGIA SOCIALE –  PSICOLOGIA DELLO SPORT – RAPPORTI INTERPERSONALI – DECISION MAKING – PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Psicologia – Corso di Preparazione all’Esame di stato. Torino

cancel