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Terapia d’urto – Cinema & Psicoterapia #10

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #10

Terapia d’urto (2003)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

Terapia d'urto - Cinema & Psicoterapia #10Spesso i soggetti che hanno difficoltà ad esprimersi in maniera chiara e definita accumulano rabbia e oscillano tra passività e aggressività. 

Info

Un film di Peter Segal. Interpretato da Jack Nicholson, Adam Sandler, Marisa Tomei. Usa 2003. Commedia.

Trama 

David Buznik è una persona timida, insicura e spesso gli altri lo mettono in imbarazzo, si approfittano di lui, lo deridono. Durante un volo aereo s’imbatte in uno stravagante passeggero che gli ha fregato il posto e lo esaspera al punto da creare una rissa. Dave subisce un processo ed è condannato come persona impulsiva e rabbiosa. Per caso, leggendo un libro, scopre che il passeggero che lo affiancava in aereo è uno psichiatra conosciutissimo, Buddy Rydell. Il giudice lo condanna ad un anno di prigione commutata con un periodo di cure e sarà proprio Buddy che si prenderà l’impegno di riabilitare il condannato. Dave è costretto a sottoporsi ad una terapia comportamentale, condotta con metodi non proprio canonici, per migliorare l’autocontrollo. Il bisogno di cure lo porterà ad una spirale incredibile che si concluderà con una terapia di 30 giorni, 24 ore su 24 a fianco del Dr. Buddy Rydell. 

Motivi di interesse 

Dave Buznik è un timido, succube di tutte le persone che incontra. Non riesce nemmeno a far valere i suoi diritti. In aereo, oltre a perdere il suo posto, non riesce a farsi ascoltare dalle hostess. Eppure finisce in tribunale accusato di aggressione ed il giudice gli commina venti sedute di terapia, per il controllo della rabbia, da seguire con lo psichiatra Buddy Rydell.

Una personalità anassertiva che diviene suo malgrado aggressiva senza risolvere i problemi di gestione della rabbia. Spesso i soggetti che hanno difficoltà ad esprimersi in maniera chiara e definita cumulano rabbia e oscillano tra passività e aggressività. 

Il suo terapeuta utilizza metodi estremi che comunque danno dei risultati. Tecniche di rilassamento improbabili in mezzo al traffico della grande metropoli, esposizioni forzate che consentono a Dave di scoprirsi capace di raggiungere i suoi obiettivi, di far valere i suoi diritti, di esporre i suoi bisogni e le sue esigenze. Alla fine Dave riuscirà a ribellarsi ai metodi provocatori del suo terapeuta, ma resta il dubbio se avesse veramente bisogno di una cura per la rabbia, o se sia stato l’incontro con l’eccentrico dr. Buddy Rydell a scompensare una personalità timida e introversa che non avvertiva prima la pur minima egodistonia.

Indicazioni per l’utilizzo 

La relazione tra paziente e terapeuta nel film assume contorni farseschi, ma può essere un utile riferimento per discuterne con il paziente e con gli allievi di una scuola di formazione. Inoltre alcune tecniche di esposizione o di rilassamento possono, anche se esposte con modalità parodiate, fornire una base di confronto con il paziente.

Trailer

 

 

Si segnala anche:

¥ Emotivi anonimi (Les émotifs anonymes). Un film di Jean Pierre Ameris. Interpretato da Benoit Poelvoord, Isabelle Carrè, Lorella Cravotta. Francia, Belgio, 2010. Commedia.

LEGGI ANCHE: 

RECENSIONI – CINEMA  COMPORTAMENTISMO

 

BIBLIOGRAFIA:

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità – PARTE I

Alessandra Cocchi.

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità

Un intervento di Danza Movimento Terapia

PARTE I

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità - PARTE I. -Immagine: © Ilike - Fotolia.comL. non aveva potuto sperimentare la pienezza e completezza impersonata da Apollo e Artemide: il suo farsi carico, rivestendo il ruolo del gemello “sacrificato”, delle sofferenze narcisistiche della mamma non gli aveva permesso di interiorizzare la parte maschile, solare, attiva, guerriera, né di integrarla con le sue parti più delicate, sensibili ombrose.

In questo scritto analizzerò la specificità della DMT – Danza Movimento Terapia- nel processo di crescita e consapevolezza di un bambino che viveva in famiglia il ruolo di gemello “sacrificato”.

Il ruolo di gemello “debole”, “in ombra”, “sacrificato” all’interno della famiglia con figli gemelli, è da sempre presente in molte culture, ed è stato analizzato dal punto di vista sociologico, antropologico, psicologico: esso ha alluso ad uno stato di possibile, probabile conflitto (Girard, 1972), dovuto alla presenza contemporanea di due esseri  molto somiglianti, che hanno bisogni e desideri simili e spesso contemporanei.

La competitività per lo spazio esistenziale è un fattore presente nelle coppie gemellari già dalla vita uterina. Tale concorrenza perdura dopo la nascita, poiché è difficile che i gemelli trovino possibilità per soddisfare bisogni a volte sono identici e che spesso insorgono nello stesso momento; la competizione fra gemelli, così, può essere favorita dai genitori.

Le originarie asimmetrie fisiche e comportamentali sfociano nell’assunzione di ruoli complementari: un individuo tende ad essere più attivo, l’altro più passivo, uno dominante, l’altro dominato. Ed è così che, da una differenza reale, i genitori possono indurre una “specializzazione” della personalità dei gemelli e una cristallizzazione dei ruoli (Valente Torre 2001).

Più si sviluppano ruoli complementari, più la separazione/individuazione sarà difficile, perché questa comporta la perdita di una parte esistenzialmente indispensabile. Allora le potenzialità psichiche si sviluppano nei due in modo complementare, ma riduttivo: per non perdere il senso di appartenenza alla coppia gemellare,  che si è basato e costruito su ruoli complementari, vi è un blocco della spinta evolutiva, una limitazione della volontà esplorativa delle specifiche possibilità esistenziali di ciascun gemello.

I gemelli sono quindi nella condizione unica di dover dividere la figura di attaccamento con un altro, però, hanno nel co-gemello un altro da sé su cui fare affidamento, e quindi la loro separazione/individuazione viene rallentata dal cosiddetto effetto coppia (Zazzo 1987).

Secondo Sandbank  l’effetto coppia favorirebbe nei gemelli lo svilupparsi di competenze specifiche, ma complementari, che rafforzano e mantengono il bisogno di unione e dipendenza, poiché ognuno ha bisogno dell’altro per completarsi (Sandbank 1988).

Lo psicologo francese René Zazzo (Zazzo 1987) sottolinea poi come nel periodo perinatale si definisca il triangolo relazionale tra la madre ed i gemelli, che fortifica il legame tra i figli a scapito di quello tra mamma e bambini. I gemelli sperimentano da subito come il rapporto con la madre sia meno intenso di quello fra di loro: essi vivono momenti di frustrazione, poiché la madre deve dividere le sue attenzioni e le sue cure, ed entrano allora in competizione per ottenere un rapporto privilegiato con la madre (Agnev, Klein, Ganon 2006).

La madre, se fatica a fare fronte alla difficoltà della situazione triadica, può tentare di ricostruire la diade madre-bambino comportandosi con i gemelli come se fossero un’unità (Barbieri, Fischetti 1997), oppure può incoraggiare il passaggio da una situazione di triade ad una a quattro, in cui viene stabilito un rapporto privilegiato tra la madre ed uno dei gemelli e il padre e l’altro gemello (Sandbank 1988).

E’ proprio ciò che era accaduto nella famiglia di L., gemello “sacrificato” da me seguito per due anni e mezzo (dall’età di 10 anni ai 12) presso la NPIA di un comune emiliano.

Il bambino aveva una diagnosi di inibizione intellettiva causata da depressione. Tuttavia presentava anche fortissime tematiche narcisistiche, che si esprimevano in fantasie di leadership e di grandezza, dal momento che L. cercava di corrispondere alle aspettative della madre.

Invece L., fin da piccolissimo, era risultato ben diverso dalle fantasie che la madre si era fatta durante la gravidanza, rivelandosi, sin dai primi mesi, più lento, passivo e debole fisicamente rispetto alla gemella. L. aveva deluso le aspettative della madre: ella non si sentiva in grado di accudire un bambino che riteneva poco reattivo alle sue sollecitazioni e viveva come un fallimento il temperamento timido e a suo avviso poco vitale del figlio.

Così, i genitori si erano “spartiti” le cure dei bambini: alla madre la gemellina solare e vitale, corrispondente alla sua idea di “figlia buona”, al padre il timido, passivo, silenzioso L.. Il bambino aveva, quindi, sperimentato un rifiuto da parte della madre, una netta divisione della coppia gemellare e un posto più in ombra nelle relazioni familiari, rispetto alla gemella. L’originaria difficoltà della coppia “madre-bambino” ad adattarsi alle caratteristiche portate reciprocamente nella relazione, aveva nel tempo causato un irrigidimento del ruolo di “gemello in ombra” che L. aveva in famiglia: la coppia gemellare era stata divisa precocemente in due, i ruoli nella coppia gemellare si erano polarizzati e cristallizzati.

L. aveva subito un rifiuto dalla mamma e una separazione precoce dalla gemella; a causa di ciò, si era poi trovato in un ruolo che negli anni gli è stato riconfermato in famiglia, a scuola, nel gruppo dei pari. Ora, vicino all’età puberale, avvertiva l’incompletezza, la divisione, la mancanza della sua altra parte: avrebbe voluto stare alla pari con la gemella, ma non aveva strumenti per farlo, cercava disperatamente un aggancio col suo lato vitale e assertivo.

Pensando a L. e la sua famiglia, mi è tornato alla mente il mito greco di Apollo e Artemide, dèi gemelli che incarnano il concetto della necessaria e auspicabile coesistenza di qualità diverse o opposte. Apollo e Artemide riassumono, ciascuno nella propria figura, ruoli e compiti tradizionalmente sia maschili che femminili, sia attivi che contemplativi. Apollo e Artemide rappresentano, sia come coppia, che come singoli, la ricomposizione dell’intero, ma anche il lato scisso, in ombra, che viene alla luce e dà completezza all’essere umano: l’androgino, l’attivo, il guerriero nella donna, il femmineo, il meditativo, lo spirituale nell’uomo.

L., invece, non aveva potuto sperimentare la pienezza e completezza impersonata da Apollo e Artemide: il suo farsi carico, rivestendo il ruolo del gemello “sacrificato”, delle sofferenze narcisistiche della mamma non gli aveva permesso di interiorizzare la parte maschile, solare, attiva, guerriera, né di integrarla con le sue parti più delicate, sensibili ombrose.

I genitori, rinforzando il sistema relazionale della coppia, avevano ostacolato un adeguato processo di separazione, necessario affinché ciascun gemello potesse organizzare una propria identità ed una propria autonomia, slegata dal ruolo gemellare. Il bambino provava a dedicarsi alle arti marziali, alla batteria, nel tentativo di rendere noto e di integrare in sé il suo lato forte, vitale, assertivo, e di mettersi alla pari, nella considerazione genitoriale, con la solare e energica gemellina, ritrovando al contempo, il legame perduto con lei. Ma L. era incapace di trovare in sé le risorse, non riusciva a trovare la giusta via per riemergere, riaffiorare dall’ombra né in famiglia, né a scuole, né nel gruppo dei pari.

In tali condizioni è arrivato a me: chiuso nel suo mondo, fantasticando di impersonare ruoli forti e attivi. Nel corpo manifestava una grande rigidità e una scarsa coordinazione: ciò non gli permetteva di muoversi, di pensare, di relazionarsi in modo efficace, espressivo, comunicativo, intenzionale, causandogli grande frustrazione.

Il bambino era infatti ritirato in un mondo di fantasie grandiose e irrealistiche, che lo proteggeva dalle continue frustrazioni, impedendogli di ancorarsi alla sua realtà: in questo mondo fantastico immaginava di ricoprire ruoli di leader, cosa impossibile per lui nella realtà, compiendo imprese pericolose e spettacolari, a capo della banda di amici.

Per inquadrare il caso di L., prenderò spunti dalla teoria dello sviluppo di Stern, Winnicott, e dalla psicopatologia del Sé secondo Kohut. Questi autori si soffermano sulla sofferenza psichica dovuta alla inadeguata costituzione di strutture mentali, di un non corretto sviluppo della coesione del Sé, a causa di trauma cumulativo dovuto all’insufficienza prolungata delle figure di accudimento.

Secondo questi autori, l’origine della psicopatologia risiede nella rigidità di adattamento reciproco della diade madre-bambino alla relazione, o in una sintonizzazione selettiva della madre (Stern 1975), che accetta e rinforza solo alcune esperienze del bambino, oppure nella mancata o imperfetta empatia genitoriale  (Kohut 1971) verso l’originaria unità psicosomatica del bambino.

In tali evenienze le azioni del bambino non vengono colte e valorizzate: il piccolo deve sottomettersi alle sollecitazioni e alle aspettative altrui, a scapito della presa di contatto coi propri bisogni e gesti spontanei (Stern 1985).

Avviene dunque una atrofizzazione del vero Sé, che coincide col gesto spontaneo, col  sentimento di essere reali e creativi, e lo sviluppo del Falso Sé, difesa compiacente di fronte a un ambiente che non si adatta in maniera appropriata ai suoi bisogni (Winnicott 1960), non permettendogli di interagire genuinamente con la realtà.

Winnicott e Kohut teorizzano analogamente che il procedere dello sviluppo è legato alla capacità della madre di disilludere il bambino gradualmente circa la sua originaria dimensione narcisistica di onnipotenza. Il bambino che soffre un trauma narcisistico (rifiuto, abbandono, prolungata disconferma o carenza della funzione empatica genitoriale), è costretto a subire esperienze eccessivamente frustranti; dunque egli non può sviluppare una struttura del Sé consolidata e rimane ancorato alla primitiva esperienza dell’onnipotente Sé grandioso (Kohut 1971).

Così il bambino si trincera in un sentimento di sé grandioso e onnipotente, essendo dipendente da un riconoscimento della propria immagine grandiosa e corre il rischio di frammentazione quando ciò non accada. Di conseguenza si creerà una scissione verticale del Sé (Kohut 1971), in cui coesistono grandiosità esibita e totale insicurezza e vulnerabilità all’interno dell’individuo.

Il duro lavoro che L. ed io abbiamo svolto per due anni e mezzo si è svolto attraverso i principi e gli strumenti della Danza Movimento Terapia. La DMT si è rivelata un intervento utile e specifico, un paio di occhiali diversi per guardare L., nell’esplorare le fasi precoci dello sviluppo del Sé e della sua relazione primaria.

Utilizzando l’attenzione corporea, strumento basilare del setting di DMT, si accede a sentimenti e vissuti appartenenti al periodo pre-verbale dello sviluppo, ai quali non è mai stato permesso di esprimersi.

Nel prossimo articolo prenderemo in considerazionegli strumenti metodologici della DMT.

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NARCISISMO FAMIGLIABAMBINI ATTACCAMENTO TRAUMA-EPERIENZE TRAUMATICHE – GENITORIALITA’

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IL LEGAME FRATERNO: UNA PROSPETTIVA RELAZIONALE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

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Ossitocina come regolatore di comportamenti sociali

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo una recente review condotta dal team della University of Massachusetts Medical School guidato dal Dr David Cochran, l’ ormone ossitocina potrebbe essere utile nel trattamento di alcuni disturbi psichiatrici, in particolare quelli che comportano la compromissione del funzionamento sociale come l’autismo e la schizofrenia.

L’ossitocina è un ormone neuropeptide che, noto per il suo ruolo nel promuovere il flusso del latte materno durante la gravidanza, sembra anche svolgere un’importante funzione nel regolare i comportamenti sociali. La review, pubblicata sull’ Harvard Review of Psychiatry, segnala prove del coinvolgimento dell’ossitocina nel decision-making sociale, nella valutazione e risposta a stimoli sociali, nella mediazione delle interazioni sociali e nella formazione di memorie sociali negli esseri umani.

Sulla base di questi dati i ricercatori hanno avanzato l’ipotesi che l’ossitocina possa essere un fattore comune in alcuni disturbi psichiatrici. 

Alcuni studi hanno riportato una “disfunzione nel processo dell’ossitocina” nei bambini con disturbi autistici. Ci sono anche prove che i geni che influenzano l’ossitocina, ad esempio il gene del recettore dell’ossitocina, OXTR – possono essere coinvolti nello sviluppo dei disturbi dello spettro autistico.

Sulla base di prove iniziali, l’ossitocina potrebbe un giorno “essere un agente di trattamento utile per migliorare alcuni aspetti della cognizione sociale e per ridurre i comportamenti ripetitivi” in pazienti con disturbi dello spettro autistico, anche se gli studi sono solo nelle prime fasi di valutazione dell’efficacia clinica. Gli autori discutono un caso di significative riduzioni di gravità dell’autismo con l’ossitocina, e l’unico studio controllato di trattamento con ossitocina a lungo termine ha mostrato un miglioramento nell’identificazione delle emozioni e della qualità della vita.

Studi sul rapporto tra ossitocina e schizofrenia hanno prodotto risultati contrastanti: le associazioni con geni legati all’ossitocina non appaiono così forti come per l’autismo. Tuttavia, alcuni studi suggeriscono che l’ossitocina potrebbe essere un trattamento utile per i pazienti affetti da schizofrenia, in alcuni trial sperimentali infatti ci sono stati effetti incoraggianti sulla gravità della schizofrenia e sulla cognizione sociale.

Poiché l’ossitocina è coinvolta nelle risposte allo stress, è stato anche studiato il suo potenziale ruolo nei disturbi dell’umore e disturbi d’ansia. Ad esempio, ci sono prove che l’ossitocina può essere coinvolta nelle risposte positive alla terapia elettroconvulsiva per la depressione grave.

Anche se finora ci sono poche prove che l’ossitocina sia un trattamento utile per l’ansia e la depressione. Lo stesso vale per i primi studi sull’ossitocina per il trattamento del disturbo ossessivo-compulsivo e il disturbo di personalità borderline.

In conclusione “l‘evidenza suggerisce un ruolo dell’ossitocina nella fisiopatologia di alcuni disturbi psichiatrici, in particolare quelli caratterizzati da menomazioni nel funzionamento sociale” scrive Cochran. “Tuttavia, la natura preliminare dei dati attualmente disponibili preclude una chiara comprensione della natura esatta di questo ruolo“.

Così, nonostante alcuni risultati promettenti, è troppo presto per concludere che l’ossitocina è un trattamento utile per l’autismo, la schizofrenia, o qualsiasi altro disturbo psichiatrico. 

Nel frattempo, i ricercatori continueranno nei loro tentativi per chiarire il ruolo dell’ossitocina nei disturbi psichiatrici e gli effetti dei trattamenti con questo ormone.

 

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DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO – AUTISMOSCHIZOFRENIA

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OSSITOCINA: UNA POSSIBILE CURA PER L’AUTISMO

BIBLIOGRAFIA:

Neuroscienze e Pornografia: le scansioni cerebrali di come si modifica il cervello

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

Dr. Valerie Voon, neuropsichiatra e ricercatrice alla Cambridge University ha svolto uno studio di neuroimaging che mostra come il cervello delle persone che si dichiarano dipendenti dalla pornografia (porn-addiction) presenti gli stessi cambiamenti di chi è dipendente dall’eroina: con forti modifiche nelle aree relative al circuito della ricompensa.
Quello che differenzia la dipendenza da pornografia da alte forme di addiction sembra posizionarsi su un piano qualitativo oltre che quantitativo: non solo “ne voglio di più” tipico dell’escalation da assuefazione ma anche una radicale modifica dei gusti sessuali, che spesso si accompagna col deterioramento delle relazioni affettive.

The most obvious change in porn is how sex is so laced with aggression and sadomasochism. As tolerance to sexual excitement develops, it no longer satisfies; only by releasing a second drive, the aggressive drive, can the addict be excited. And so – for people psychologically predisposed – there are scenes of angry sex, men ejaculating insultingly on women’s faces, angry anal penetration, etc. Porn sites are also filled with the complexes Freud described: “Milf” (“mothers I’d like to fuck”) sites show us the Oedipus complex is alive; spanking sites sexualise a childhood trauma; and many other oral and anal fixations. All these features indicate that porn’s dirty little secret is that what distinguishes “adult sites” is how “infantile,” they are, in terms of how much power they derive from our infantile complexes and forms of sexuality and aggression. Porn doesn’t “cause” these complexes, but it can strengthen them, by wiring them into the reward system.

Brain scans of porn addicts: what’s wrong with this picture?Consigliato dalla Redazione

Norman Doidge: Scan images show that watching online ‘adult’ sites can alter our grey matter, which may lead to a change in sexual tastes (…)

Tratto da: the Guardian

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

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Recensione

“Come pietra paziente”

(2013)

 

Come pietra pazienteCome pietra paziente”, film afghano del 2013, è una sorprendente opera dal carattere intimista che tratta con delicatezza e poesia le sofferenze di una donna prigioniera del rapporto col marito e della condizione femminile in cui è cresciuta.

Quando l’uomo in seguito ad uno scontro armato entra in coma e non è più in grado di rispondere agli stimoli esterni, la moglie se ne prende cura fra difficoltà crescenti legate allo stato di guerra del Paese; gradualmente questo accudimento si trasforma in una confessione da cui emerge la reale natura del loro legame, fondato esclusivamente sul possesso maschile.

In parallelo si delinea la figura di un giovane guerrigliero che entra nella vita della donna ottenendo col denaro le sue prestazioni sessuali ma insieme ponendola a contatto con emozioni mai provate prima, la sensazione di essere trattata con timidezza e rispetto, la possibilità di scambiarsi un sentimento anziché subire i soprusi di un compagno che vive per la guerra.

La pietra paziente, nella tradizione popolare afghana, è una pietra cui si possono raccontare le proprie sofferenze, le proprie difficoltà, una sorta di confessore silenzioso che non potendo rispondere offre la libertà di scavare a fondo dentro se stessi, senza timore di essere giudicati o di mostrare parti di sé inaccettabili. La pietra si carica con le rivelazioni che riceve e alla fine si sgretola, concludendo simbolicamente il percorso di autosvelamento di chi si è affidato ad essa.

 

In mezzo alle bombe e a pericoli sempre maggiori la protagonista del film compie un autentico cammino di liberazione dalla schiavitù psicologica, confessa al marito di aver sempre disprezzato la sua prepotenza e si riprende i desideri di una donna, insieme alle passioni che aveva dovuto reprimere per non subire le conseguenze sociali di una ribellione alla figura maschile; “Come pietra paziente” è un viaggio negli abusi culturali che privano la donna della sua dignità, della libertà di scelta, della facoltà di sperimentare la dimensione autentica e consapevole della propria femminilità.

E’ un film denuncia che non cade in proclami retorici, non vuole istruire lo spettatore sul tema affrontato ma si limita a mostrarglielo senza forzature, così che ognuno possa elaborare un punto di vista autonomo.

Il senso di ingiustizia profonda, il degrado culturale di un ambiente che affida a pochi uomini e alla guerra la dimostrazione di un valore intoccabile, fanno da sfondo ad un’emancipazione che integra, si direbbe in termini cognitivisti, due rappresentazioni opposte e conflittuali: da un lato la donna sente di essere vicina al marito non solo per un vincolo imposto ma anche come risultato di un legame affettivo, dall’altro ha sempre più chiara la percezione di cosa le è stato impedito di essere in nome di un potere superiore che ha stabilito la sua appartenenza all’autorità maschile.

L’immagine di sé risvegliata, lo slancio di vivere una sessualità finalmente condivisa, l’esempio di una zia che è riuscita a sottrarsi al ruolo di oggetto passivo compongono un quadro in cui la pietra umana paziente ascolta rivelazioni sempre più inconciliabili con la realtà vissuta fino ad allora: i figli della coppia sono di un altro uomo – il marito era sterile ma l’assenza di figli sarebbe stata imputata alla moglie e con gravi conseguenze, perciò si era reso necessario provvedere clandestinamente alla risoluzione del problema – e ogni pensiero della donna è ormai lontano dalle costrizioni del passato.

La pietra è destinata a spezzarsi per originare forse un’esistenza libera, e spezzandosi porterà con sé ciò che ha ascoltato: dire di più priverebbe lo spettatore del piacere di un finale estremamente significativo. “Come pietra paziente” è un film dal buon ritmo, prende l’attenzione e la conduce nei sentieri di un’esperienza interiore di grande intensità.

Insegna senza averne l’intento e senza giudicare, l’esito più felice per un’opera di questo genere.

 

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Memorie Traumatiche e Mentalizzazione (2013) – Recensione

 Recensione del libro:

Memorie traumatiche e mentalizzazione.

Teoria, ricerca e clinica

(2013)

di V. Caretti, G. Craparo e A. Schimmenti

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Memorie traumatiche e mentalizzazione.Teoria, ricerca e clinica (2013)di V. Caretti, G. Craparo e A. SchimmentiUn attaccamento traumatico, infatti, produce un indebolimento, un difetto di maturazione di aree dell’emisfero destro coinvolte nella regolazione affettiva. La dissociazione patologica riflette dunque una disintegrazione cronica del cervello destro, che perde le sua capacità di individuare e modulare emozioni insostenibili.

Che cos’è il trauma psichico?

In che modo le esperienze precoci condizionano il modo in cui un evento potenzialmente traumatico viene poi effettivamente vissuto?

Quali sono le conseguenze del trauma sul cervello e sui processi mentali?

Come si articola il trattamento di pazienti traumatizzati?

Queste sono solo alcune fra le domande a cui il recente libro a cura di Caretti, Craparo e Schimmenti cerca di dare risposta.

Le interazioni precoci con le figure di attaccamento plasmano le capacità di regolazione affettiva del bambino e di conseguenza il modo in cui egli riesce a far fronte a momenti di difficoltà. 

Non è scontato che un evento, per quanto drammatico, produca un’esperienza traumatica.

Il trauma psichico si definisce proprio dal suo effetto soggettivo. Due elementi sembrano concorrere nel determinare l’esito traumatico di un evento: da un lato il vivere un’esperienza che produce un’attivazione emotiva caotica e destabilizzante che la mente non è in grado di regolare, dall’altro la perdita totale di speranza che si possa ricevere protezione o rassicurazione da parte di un’altra persona.

In tale situazione la continuità del Sé viene pesantemente minata. I diversi stati del Sé, che in condizioni normali comunicano costantemente in uno scambio dialettico, si strutturano separatamente nelle rispettive rigide verità e realtà.

La dissociazione, da normale processo mentale, diventa una difesa rigida fino a trasformarsi in una struttura mentale centrale volta a impedire il ritorno della disregolazione e destabilizzazione. 

Il pensiero di Bromberg relativo al trauma, qui brevemente accennato, influenza e permea il lavoro degli autori di questo volume. I diversi contributi, infatti, mettono in luce vari aspetti del rapporto fra trauma e dissociazione e come questo influenzi fortemente il lavoro clinico con pazienti che provengono da esperienze traumatiche.

Il testo è suddiviso in 3 parti: la prima, dedicata agli approfondimenti teorici, esplora gli effetti negativi del trauma sullo sviluppo cognitivo, affettivo, rappresentazionale e relazionale; nella seconda vengono presentate, all’interno di dettagliati inquadramenti teorici che ben definiscono le specifiche aree di indagine, alcune ricerche che indagano gli esiti di storie di sviluppo ed esperienze traumatiche e mettono in evidenza il ruolo cruciale delle interazioni precoci madre-bambino sul successivo sviluppo e benessere psichico; la terza parte, dedicata alla clinica, mette il luce difficoltà e specificità del lavoro terapeutico con pazienti affetti da sindromi post-traumatiche, sottolineando in particolare l’importanza del lavoro sul corpo e col corpo, e dell’incremento delle capacità di regolazione emotiva e di mentalizzazione.

Nei vari contributi particolare spazio viene dato al concetto di trauma evolutivo: le relazioni con le figure di attaccamento sono determinanti per lo sviluppo del Sé e della capacità di regolazione emotiva. Maltrattamenti e abusi all’interno delle relazioni primarie hanno pertanto conseguenze gravissime sullo sviluppo psicologico e fisico del bambino.

In accordo con il concetto di “trauma complesso” di van der Kolk, Schimmenti nel suo capitolo sottolinea la necessità di andare oltre il costrutto di disturbo da stress post-traumatico presente nel DSM-IV-TR, per considerare esperienze traumatiche sia forme evidenti come abusi e maltrattamenti, sia forme più sottili come la trascuratezza emotiva. Il fallimento della relazione del bambino con la figura di attaccamento tende a generare modelli operativi interni insicuri o francamente disorganizzati.

Nel bambino si struttura un nucleo di emozioni dolorose non pensabili né elaborabili legate alla relazione con il genitore che vengono così dissociate. Si genera paura della stessa vita mentale, con effetti devastanti sull’identità, sulla coesione del Sé, sulla capacità di identificare e modulare le emozioni e sulle capacità metacognitive.

Tutto ciò rende il bambino (e poi l’adulto) più vulnerabile a successivi eventi stressanti e potenzialmente traumatici, mancando degli strumenti necessari per farvi fronte.

Il capitolo di Schore analizza il contributo delle neuroscienze a sostegno dell’ipotesi di Kohut per cui il trauma precoce determina un arresto evolutivo.

Un attaccamento traumatico, infatti, produce un indebolimento, un difetto di maturazione di aree dell’emisfero destro coinvolte nella regolazione affettiva. La dissociazione patologica riflette dunque una disintegrazione cronica del cervello destro, che perde le sua capacità di individuare e modulare emozioni insostenibili.

Il lavoro di Liotti e Monticelli, all’interno di una cornice epistemologica evoluzionista, evidenzia il ruolo dell’attivazione del sistema di difesa e del sistema di attaccamento nelle esperienze traumatiche. Gli autori mostrano come quasi tutti i sintomi del disturbo da stress post-traumatico siano riconducibili all’attivazione del sistema di difesa e alle sue 4 risposte fondamentali (fight/flight/freezing/faint).

Nella genesi dei sintomi dissociativi un ruolo particolare sembra essere svolto dall’attaccamento disorganizzato: il caregiver in questo caso è simultaneamente fonte di pericolo e protezione, generando nel bambino una “paura senza sbocco” e facilitando una risposta dissociativa ai traumi.

Altro concetto cardine dell’intero volume è quello di mentalizzazione, approfondito nel capitolo di Allen e ben illustrato nella sezione dedicata alla clinica. Esperienze di relazioni primarie traumatiche hanno un effetto negativo sullo sviluppo della capacità di mentalizzare del bambino, intesa come capacità di percepire e interpretare il comportamento, proprio e altrui, come connesso a stati mentali intenzionali. E’ la capacità di pensare se stessi e gli altri come dotati di una mente e si sviluppa nelle interazioni fra il bambino e le sue figure di attaccamento. La mancanza di sintonizzazione emotiva del caregiver con gli stati emotivi del bambino non solo genera in lui un profondo senso di dolore e solitudine, ma ostacola lo sviluppo di quelle capacità di mentalizzazione che gli consentirebbero di leggere e regolare quelle difficili emozioni.

In questo senso il mentalizzare svolge un importante ruolo anche nella trasmissione intergenerazionale del tipo di attaccamento: genitori che provengono da storie di attaccamento sicuro sono più predisposti a mentalizzare nelle interazioni con i loro figli, che a loro volta sviluppano più facilmente un attaccamento sicuro e di conseguenza buone capacità di mentalizzazione.

Queste riflessioni contengono indicazioni importanti per il trattamento di pazienti provenienti da storie di sviluppo traumatiche.

Il trauma è una ferita che ha profondi effetti sulla mente, sul corpo e sulle relazioni interpersonali. 

Il trattamento pertanto deve essere focalizzato su questi tre aspetti fondamentali, avendo cura di bilanciare elaborazione e contenimento e di mantenere l’attivazione emotiva e fisiologica ai margini della “finestra di tolleranza”, come ben argomenta Pat Ogden nel suo capitolo sulla terapia sensomotoria. Troppa attivazione impedisce l’elaborazione e riattualizza il trauma nella relazione terapeutica, troppa sicurezza impedisce il cambiamento perché non consente di sperimentare la possibilità di regolare l’attivazione.

Pur nella specificità dei singoli contributi, gli autori dei diversi capitoli convergono nel delineare modelli di trattamento delle sindromi traumatiche pensati in modo da incrementare la mentalizzazione, sviluppare la capacità di identificare, esplorare e regolare le emozioni, lavorare sugli stati mentali dolorosi attuali e favorire l’integrazione fra mente e corpo che il trauma sembra aver compromesso.

A causa dell’uso patologico della dissociazione, infatti, i contenuti emotivi vengono vissuti unicamente a livello somatico, non pensati e non elaborati, aumentando anche il rischio di sviluppare una sintomatologia organica. Prestare ascolto alla narrativa somatica, agli indicatori fisici visibili consente un accesso privilegiato e diretto al “Sé implicito”. 

Aiutare i pazienti a diventare consapevoli delle proprie risposte fisiologiche, delle emozioni e delle convinzioni associate all’esperienza traumatica è il delicato e fondamentale compito del terapeuta.

Quanto più il mentalizzare è stato ostacolato dall’esperienza traumatica (e dunque quanto più sono attivate emozioni intense e disregolate associate alla reazione di difesa) tanto più è necessario focalizzare l’intervento terapeutico sul ripristino di questa capacità.

Alcuni capitoli esplorano, attraverso la presentazione di casi ed esemplificazioni cliniche, specifici aspetti del funzionamento e della difficile relazione con questi pazienti, come le fantasie di vendetta, il transfert erotico, la dipendenza sessuale, la disperazione nella sua funzione adattiva di fronte al fallimento delle strategie di attaccamento e la vulnerabilità psicosomatica.

Negli ultimi anni il trauma e le dinamiche interpersonali ad esso correlate si sono imposti all’attenzione di ricercatori e clinici che sempre di più. Questo volume rappresenta certamente un importante contribuito alla letteratura sul trauma, sia per le riflessioni teoriche sia per gli interessanti spunti clinici.

Per chi, come me e molti altri clinici, sempre di più si trova a confrontarsi con storie di sviluppo traumatiche è ogni giorno più evidente il fondamentale ruolo della regolazione affettiva, del corpo (il corpo del paziente così come il corpo del terapeuta) e della mentalizzazione nel lavoro clinico.

Come mette in luce Allen nel suo capitolo, un trattamento basato sulla metacognizione è l’approccio terapeutico meno originale di sempre: la comprensione degli stati mentali propri ed altrui è intrinseca a ogni forma di terapia. D’altra parte è proprio questo lavoro ordinario la parte più importante e difficile con questi pazienti che hanno perso (o mai acquisito pienamente) questa ordinaria capacità.

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Gli uomini dal viso largo inducono gli altri a comportamenti egoistici

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I ricercatori della University of California hanno preso spunto da due studi precedenti, secondo i quali gli uomini con visi più larghi tendono a portare più successo finanziario alle imprese e sono più propensi a mentire e imbrogliare. Lo scopo della loro ricerca era comprendere meglio la relazione tra larghezza del viso e comportamenti egoistici, cioè come questi due elementi si influenzino a livello sociale.

I ricercatori californiani hanno condotto una serie di quattro studi, che hanno coinvolto tra i 131 e i 201 partecipanti ciascuno.

Nel primo studio i ricercatori hanno trovato un legame tra il rapporto di larghezza e lunghezza del viso (fWHR ) e l’egoismo.

I partecipanti sono stati invitati a svolgere un “compito di allocazione delle risorse” immaginando di dover fare scelte economiche nel loro proprio interesse e in quello di un partner anonimo e che il partner avrebbero fatto lo stesso.

I risultati indicano che gli uomini con fWHR superiori si comportavano più egoisticamente quando dovevano dividere le risorse tra se stessi e il partner anonimo.

In due studi successivi è stata condotta la stessa operazione di allocazione delle risorse, ma i ricercatori hanno esaminato le decisioni dal punto di vista dei partner. I risultati mostrano che i partner cambiano il loro comportamento in base fWHR del soggetto.

Quando il partner pensava di dovere dividere le risorse con una controparte che aveva una fWHR relativamente alta, ha anticipato il suo comportamento egoistico comportandosi a sua volta egoisticamente.

Nello studio finale, i partecipanti hanno completato ancora una volta lo stesso compito, ma venivano informati della decisione del partner prima di prendere una decisione per se stessi.

Questo li ha portati ad agire in modi che erano in linea con le aspettative del partner, cioè che sarebbero stati egoisti nel dividere le risorse.

In sintesi gli autori dello studio sostengono gli individui si comportano più egoisticamente quando interagiscono con persone con visi larghi e che questo egoismo innesca comportamenti egoistici nell’altro.

Insomma è l’idea che abbiamo dell’altro a indurlo a comportarsi in un certo modo o quel modo di comportarsi è scritto nella sua biologia? Secondo i ricercatori entrambe le cose: processi sociali, oltre ad eventuali differenze biologiche, possono suscitare differenti modelli di comportamento come funzione del fWHR delle persone.

 

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BIBLIOGRAFIA

 

Avere debiti mette a rischio la salute mentale

 

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Che avere debiti potesse essere fonte di stress si sapeva, quello che hanno evidenziato i ricercatori dUniversità di Southampton e della Kingston University, è che avere debiti può aumentare la probabilità fino a tre volte in più di avere una patologia mentale.

Gli studiosi hanno fatto una revisione delle ricerche precedenti raggiungendo un campione di 34 mila soggetti.

Quello che emerge è che coloro che presentavano problemi mentali  avevano patologie  quali depressione, psicosi, tossicodipendenze e alti rischi suicidari. Non è chiara, come sottolinea il dottor Thomas Richardson, Psicologo Clinico dell’Università di Southampton, quale sia la relazione tra debiti e malattia mentale. Quello che viene rilevato in sostanza è che chi presenta una situazione economica di debito spesso presenta anche una malattia mentale.


è difficile stabilire cosa causa cosa: potrebbe infatti essere che siano i debiti a causare problemi mentali o che siano problemi mentali già esistenti a spingere le persone a indebitarsi, magari perché tendono a non avere un’occupazione lavorativa regolare. Infine, ipotizzano i ricercatori, la correlazione potrebbe essere ambivalente: una crea l’altra e viceversa, in diversi casi.

 

I debiti fanno perdere la testaConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
(…)

Tratto da: LaStampa.it

 

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Le neuroscienze cognitive in tribunale

 

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Le neuroscienze cognitive, con riferimento a tecniche di neuroimaging funzionale,  possono influenzare le perizie in ambito penale: punti di vista in contrasto rispetto all’uso o meno di tali tecniche.

Nell’ultimo decennio le neuroscienze cognitive hanno conosciuto un vero e proprio boom. Lo sviluppo dello studio delle basi neurobiologiche delle nostre abilità mentali più alte – come linguaggio, ragionamento, intenzione, memoria e percezione – è stato tumultuoso. Per “osservare” la relazione tra attività cerebrale e abilità mentali, i neuroscienziati cognitivi utilizzano tecnologie di neuroimaging funzionale che misurano il metabolismo del cervello e che sono ormai entrate nelle aule dei tribunali, sia negli Stati Uniti che in altri paesi. Tra questi anche l’Italia. Una delle applicazioni più controverse di questa metodica è la prova del vizio di mente nel processo penale.

 

«Non sono stato io, è stato il mio cervello»Consigliato dalla Redazione

Le neuroscienze cognitive in tribunale e tutti i dubbi sul tema: l\’intervista all\’esperto di neurodiritto Sofia Moratti, Research Associate dell\’ “European University Institute” di Firenze (…)

Tratto da: Giornalettismo

 

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Sono un istrione: Uno, nessuno, centomila!

 

Sono un istrione: uno, nessuno, centomila. - Immagine: © George Mayer - Fotolia.comL’Istrione non sa bene chi è, anzi non lo sa affatto e i confini sono labili, e quindi è condizionabile. Per questo gli è facile identificarsi e proiettarsi con il personaggio ideale voluto dal genitore. Un personaggio che deve primeggiare, essere ammirato, essere al centro. 

Sono un istrione! Cantava Aznavour in una nota canzone non più contemporanea.

Seduttivo e affascinante, dedito a voler fare colpo sull’altro ponendosi sempre al centro dell’attenzione, manipolatore e fatuo: questo è l’istrione.

Si tratta di un abile attore che si cala nel ruolo della sua vita e recita una parte, fingendo di essere chi non è.

Una sola persona dai tanti volti o nessuno, come diceva Pirandello in un noto romanzo? In realtà è una e una sola persona che debutta sul palcoscenico della sua vita con tante maschere, una per ogni occasione. Recita quotidianamente e per questo non riesce ad uscire dal personaggio: è l’unico modo che conosce per ricevere consensi.

E se il pubblico non ci fosse? Viene fuori per quello che è realmente, un depresso! Il fulcro della sofferenza dell’istrionico è determinato dal profondo senso di indegnità, mancanza d’affetto, inadeguatezza a badare a se stesso.

Dietro alla maschera che indossa , c’è un dolore profondo, che cerca in ogni modo di arginare, per paura di soccombere o perché dietro esiste la vana convinzione che se scoprissero quello che è realmente, disprezzabile/non amabile, gli altri possano lasciarlo solo non prendendosi cura di lui.

Ambienti familiari caotici, contraddittori, senza regole, facilitano l’insorgenza di questo disturbo. Si tratta, spesse volte,  di rapporti che si basano sulla non autenticità, dove si considera solo l’apparire e non l’essere. I rapporti, così impostati appaiono immediatamente superficiali e i bisogni sono considerati subordinati all’apparire. 

Il bambino di quel nucleo familiare non è preso sul serio; è sempre troppo piccolo, troppo stupido, troppo poco importante per rispondere alle domande, potrebbe essere rimproverato per qualcosa che subito dopo non costituisce più un problema. La conseguenza di questo atteggiamento è non essere in grado di pensare in maniera autonoma, perciò non essere capace di crescere.

L’istrionico non sa riflettere sui propri stati mentali e assumersi delle responsabilità, così individua come proprio il pensiero dell’altro. I genitori recitano una parte e il figlio si adegua, adottando gli stessi valori di conformismo, o recitando il copione opposto: il migliore appetibile, il ribelle, la pecora nera, sempre di recita si tratta! Il prezzo da pagare: l’inautenticità, l’estraneità da se stesso, la mancanza di identità. Presto impara che da solo non ce la fa e cerca qualcuno che possa accudirlo, previo il senso di colpa. Capisce che ciò che conta è la maschera che indossa, perché cela il vuoto dei sentimenti, la mancanza di verità, calore, riconoscimento.

Non sa bene chi è, anzi non lo sa affatto e i confini sono labili, e quindi è condizionabile. Per questo gli è facile identificarsi e proiettarsi con il personaggio ideale voluto dal genitore. Un personaggio che deve primeggiare, essere ammirato, essere al centro. 

Dietro questa maschera è velata la rabbia di essere squalificato, ignorato, svalutato, non riconosciuto, abbandonato. La rabbia di chi, giunto sulla scena della sua vita, è stato non visto come persona, ignorato, criticato, disprezzato. La maschera copre la rabbia e la trasforma in seduzione, creatività, fascino,”ti sedurrò, così avrò la tua ammirazione!“.

L’istrionico vuole lodi, ammirazione, plausi, o addirittura riconoscenza. Guai a criticare lo show di un istrionico: si allontana e diventa un nemico. Essere lontano dalle luci della ribalta, aumentano la ferita, il dolore, il senso di disgusto per se stesso che lo investe come un guanto. Meglio essere fatui che autentici! Se fallisce, nel non essere riconosciuto, rischia di ricadere nel vissuto depressivo, di entrare in contatto con quella parte di sé, fragile, debole, triste, che non vuole assolutamente far vedere e provare.

Di qui il grande bisogno di affermare la propria persona che, per alcuni aspetti, potrebbe far confondere col narcisista che è innamorato di se stesso, mentre l’istrionico è innamorato della sua immagine. Ma essere stregati dal proprio riflesso porta ad allontanarsi dai sentimenti e crea un profondo senso di insicurezza e sfiducia. Si genera una screpolatura shakespeariana, essere o non essere, difficile e dolorosa da sanare. L’istrionico ha un doppio, Doppelgänger, diviso in cattivo/depresso e buono/maschera.

La maschera deve  suscitare nell’altro ammirazione, invidia, fascino, e permettergli di conquistare una preda del sesso opposto: di qui la seduzione sessuale e il bisogno di competere in amore.

La conquista di un partner, specie se difficile, ricercato, magari già impegnato, fornisce all’istrionico una sorta di sfida, ma a questa fase, segue prima o poi una caduta dovuta alla delusione esperita nel momento in cui mosso dai limiti dell’altro, lo svaluta.

Successivamente vede se stesso come perdente per non essere stato capace di perseguire lo scopo principe della sua vita. L’istrionico scruta nel partner lo specchio del proprio valore e il bastone su cui poggiarsi nella vita. Il rapporto d’amore serve per l’autoaffermazione.

Spesso, l’ istrionico finisce in rapporti triangolari, nei quali ripropongono il loro menage familiare. Ciò accade soprattutto ai figli unici, che sostengono di instaurare tali relazioni per caso, senza volerlo, e interpretano questo evento come dettato dalla sfortuna: tutti gli uomini o le donne che a loro piacciono sono già legati.

In realtà, nel cercare partner non liberi, ripropone lo stile di attaccamento che aveva con i genitori. D’altra parte, ha paura di un rapporto in cui il partner sia libero, perché equivarrebbe ad impegnarsi in modo più serio, responsabile e totale. In questo modo verrebbe fuori per quello che è, un depresso, e questa intimità spaventa.

Ottiene apprezzamenti, mascherati, disprezzandosi, ottiene riconoscimento svalutandosi! Solo chi si svilisce crea un personaggio dietro cui nascondersi, solo chi non si ama può creare un falso amore per chi non è. Quindi, più l’immagine acquisisce valore a scapito della verità, più il dolore interiore diventa dilaniante. E ancora, più la tristezza si allarga e i confini si indeboliscono, più si recita un personaggio diverso da sé. In tal modo l’insicurezza di fondo aumenta.

Come potrebbe “salvarsi” un istrionico? Beh, facendo un saldo integrativo riconoscendo l’altro come persona, nella sua individualità con le proprie caratteristiche e aspettative, al di là del ruolo di pubblico di cui è investito.

Ciò avviene attraverso crisi depressive ed elaborazioni del lutto connesse alla mancanza di amore, quindi facendo pace con la parte “brutta” di se stesso, ma autentica e non fatua.

L’istrionico ama la sua immagine, e guarisce quando comincia ad amarsi, apprezzarsi come persona, abbandonando l’amore per il suo riflesso: deve vedersi per quello che è realmente incontrando e apprezzando la propria autenticità: il se stesso negletto e non apprezzato. Solo se impara ad amare il vero sé può amare gli altri. 

Sono un istrione!

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BIBLIOGRAFIA: 

Affrontare la Malattia e il Lutto (2013) – Recensione

Recensione del Libro:

Affrontare la malattia e il lutto

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Affrontare la malattia e il lutto  - copertinaIl libro “Affrontare il lutto e la malattia” cerca di dare una risposta alle domande che spesso, in un momento così delicato, restano sospese: “come si può evitare che il dolore di un genitore resti muto? Come permettere ai bambini di parlare di ciò che temono, della loro malattia, se ne sono affetti, o di quella di un genitore? Come possiamo parlare della morte ai bambini che sono la speranza del futuro?

Quando muore una persona cara, di colpo cessano tutte le nostre certezze e ci tocca fare i conti con l’assenza di qualcuno che è stato parte di noi. All’improvviso crolla il mondo sotto i nostri piedi e ci si sente impotenti e desiderosi di protezione. Ma cosa succede quando un lutto impatta nel mondo interno di un bambino? Quali parole trovare per una cosa già così inspiegabile per un adulto?

Il libro “Affrontare il lutto e la malattiarimanda proprio a questo e cerca di dare una risposta alle domande che spesso, in un momento così delicato, restano sospese: “come si può evitare che il dolore di un genitore resti muto? Come permettere ai bambini di parlare di ciò che temono, della loro malattia, se ne sono affetti, o di quella di un genitore? Come possiamo parlare della morte ai bambini che sono la speranza del futuro?

Il libro, scritto da vari autori ( S.M.G. Adamo; M. Badoni; C.M. Carlevaris; R. De Falco e I. Pick), fa parte della collana “Cento e Un Bambino”, collana di prospettiva psicoanalitica, diretta da Emanuela Quagliata e rivolta a tutti i genitori, composta da volumi monotematici riguardanti le tappe principali della vita di un bambino.

La lettura si presenta scorrevole, agevolata da un numero esiguo di pagine e da un formato molto ridotto. Talvolta gli autori si lasciano cadere in un linguaggio forse troppo tecnico per un genitore, tuttavia a fine volume viene presentato un piccolo glossario, contenente il significato dei vari termini scientifico-psicologici utilizzati.

Il libro offre una panoramica psicologica di quel che succede in una famiglia colpita da una grave malattia o da un lutto e del difficile ruolo di guida, per i più piccoli, che i vari caregiver, già distrutti dal dolore, dovrebbero ricoprire. Nelle pagine non viene presentata, tuttavia, una guida ai comportamenti da adottare o meno ma, cosa più importante, nel libro si tenta di comprendere quanto sia difficile affrontare un lutto, si rispetta il dolore e il tempo (a volte lungo) di riorganizzazione interna dei più grandi e, alla luce di questo, si cerca di illustrare le ricadute di ciò sui più piccoli e il modo migliore per accogliere le loro domande, i loro dubbi e la loro sofferenza, senza mascherare la propria.

Il libro è inoltre arricchito da capitoli su un tema che, per la sua natura altamente dolorosa, rimane spesso tabù: cosa succede quando tocca al bambino essere vittima di una grave malattia? Si snoda così la parte finale del libro, in cui vengono presentati diversi casi di supporto psicologico a bambini e a genitori, effettuati nei vari ospedali pediatrici.

Gli autori sembrano mettersi in gioco: attraverso tali casi, offrono parte della loro professionalità ed anche della loro sofferenza (perché, ahimè, nonostante il distacco, non siamo fatti di pietra!) per illustrare quanto sia importante intervenire non solo sul corpo del bambino ma anche sui suoi vissuti, sulle sue emozioni, sulle sue lecite domande. A questo proposito non nascondo quanto sia difficile rimanere impassibili dinnanzi ad alcune righe dei vari casi riportati, disagio tuttavia “accolto”, nel dispiegarsi del testo, dagli stessi autori, con un invito a dedicare più spazi di supervisione e discussione tra il personale curante (medici, infermieri e psicologi).

Nonostante la collana e il volume siano pensati per i genitori (con lutti da affrontare o non), consiglio la lettura del volume anche a psicologi e psicoterapeuti: l’esame puntiglioso dei vissuti interni legati a un lutto e i vari casi clinici presentati,  possono offrire uno spunto teorico ma soprattutto pratico, anche per i tanti che non seguono un orientamento psicoanalitico. 

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BIBLIOGRAFIA:

  •  Adamo, S.M.G.; Badoni, M.; Carlevaris, C.M.; De Falco, R.  e Pick, I. (2013) Affrontare il Lutto e la Malattia. In Quagliata, E., Cento e Un Bambino. Roma, Astrolabio- Ubaldini Editore.

 

 

Neuroscienze: scoperto un Circuito Cerebrale correlato all’Infertilità

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

L’infertilità è un problema importante che affligge milioni di persone in tutto il mondo: considerando che i vari studi di popolazione danno un indice di fecondità (possibilità di concepire per ciclo) intorno al 25% in coppie giovani, i calcoli prevedono che nelle nuove coppie il 19% avrà problemi riproduttivi dopo 2 anni e che di queste il 4% sarà sterile e le altre coppie saranno subfeconde, cioè con un indice di fecondità 3 o 4 volte più basso della norma.

I ricercatori della New Zealand’s University of Otago hanno fatto una scoperta importante per la comprensione dei circuiti cerebrali fondamentali per la fertilità normale negli esseri umani e in altri mammiferi e per consentire la progettazione di nuove terapie per le coppie infertili e nuove forme di contraccezione.

Kisspeptin, una piccola proteina, e il suo recettore GPR54, era stato già identificato come cruciale per la fertilità negli esseri umani, ora, grazie agli studi del professor Herbison – direttore del University’s Centre for Neuroendocrinology, leader mondiale nello studio dei meccanismi cerebrali di controllo della fertilità – si scopre come questa molecola sia fondamentale anche perchè si verifichi l’ovulazione .

Herbison ha scoperto che le GnRH (gli ormoni di rilascio delle gonadotropine), prodotte dall’ipofisi, sono attivate dalla comunicazione tra i suoi recettori cellulari GPR54 e la proteina kisspeptin. In pratica quando la comunicazione fallisce non c’è ovulazione.

I ricercatori studiando i topi che non avevano recettori GPR54 nei neuroni GnRH, hanno scoperto che questi non avevano raggiunto la pubertà ed erano sterili. Hanno poi dimostrato che i topi infertili potevano tornare alla fertilità, inserendo il gene GPR54 in pochi neuroni GnRH .

Secondo Herbison, questi risultati rappresentano un passo in avanti sostanziale per consentire nuove cure per l’infertilità e lo sviluppo di nuovi contraccettivi.

La nostra nuova comprensione del meccanismo esatto attraverso il quale kisspeptin funge da controllore della riproduzione è un importante passo avanti che apre nuove strade per affrontare quello che è spesso un problema di salute straziante. Attraverso i dettagli di tale meccanismo ora abbiamo un interruttore chimico chiave grazie al quale i farmaci possono essere mirati“, spiega il professor Herbison .

Inoltre la proteina kisspeptin può rivelarsi utile nel trattamento di malattie come il cancro alla prostata che sono influenzate dai livelli degli ormoni sessuali steroidei nel sangue.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Il cervello maschile. Istruzioni per l’uso.

ATTENZIONE! QUESTO ARTICOLO E’ DA CONSIDERARSI UN’OPERA DI IRONIA. LE FONTI CITATE SONO REALI, LE NOSTRE CONCLUSIONI UMORISTICHE.

 

Il cervello dei maschi. Istruzioni per l'uso . - Immagine: © Sangoiri - Fotolia.comC’è poca chiarezza riguardo a quali siano le eventuali differenze cognitive o comportamentali attribuibili alla diversa morfologia del cervello maschile e di quello femminile.

La comunità scientifica è divisa. Da una parte i ricercatori che si ostinano ad indagare le differenze biologiche nei cervelli di uomini e donne a spiegazione della variabilità comportamentale, dall’altra i colleghi che accusano i primi di “neurosessismo”.

Tra loro, Raffaella Rumiati, docente di neuroscienze cognitive alla Scuola Internazionale Superiore di Studi Avanzati di Trieste, denuncia poca chiarezza riguardo a quali siano le eventuali differenze cognitive o comportamentali attribuibili alla diversa morfologia del cervello maschile e di quello femminile.

E’ opininone diffusa, per esempio, che le donne non siano biologicamente portate per le materie scientifiche ma la constatazione che in paesi più evoluti, in materia di uguaglianza sociale e parità di genere, i risultati scolastici delle ragazze in matematica siano equiparabili a quelli dei colleghi maschi, lascia credere che molte caratteristiche di genere ricondotte a variabili neurologiche dipendano invece da fattori culturali.

Sul versante opposto altre personalità del panorama scientifico nazionale come Antonio Federico, Professore Ordinario di Neurologia presso l’Università di Siena, parlano invece di differenze genetiche, ormonali e strutturali nei due cervelli con importanti ricadute sulle funzioni cerebrali ed è proprio sulla base di tali riscontri che voglio dare al nostro pubblico femminile un po’ di suggerimenti per comprendere meglio il comportamento maschile ed agire di conseguenza.

1. Se proprio avete bisogno, chiedete!

Le capacità empatiche degli uomini sono notevolmenti inferiori alle nostre (e probabilmente anche a quelle del gatto), non date quindi per scontato che segni di evidente malessere inducano il vostro partner a chiedervi come state ne tantomeno se avete bisogno di qualcosa.

2. Siate chiare

Nell’interazione verbale, abituatevi ad un linguaggio semplice, concreto e in sintonia con l’espressione del vostro volto. Eventuali messaggi ambigui potrebbero mandare in tilt il vostro interlocutore. Il cervello dell’uomo tende ad elaborare la realtà basandosi soprattutto sull’emisfero sinistro, razionale, logico e rigidamente lineare.

3. Niente coccole 

Se siete distrutte da una giornata di lavoro e avete desiderio di baci e abbracci affidatevi al gatto di cui sopra o vi ritroverete a dovervi inventare un gran mal di testa per evitare una notte di fuoco. Nel vocabolario maschile il termine “coccole”, colpa del testosterone, è sinonimo di “preliminari”.

4. Niente chiacchere

Se avete voglia di parlare con qualcuno in questo caso nemmeno il gatto vi può essere d’aiuto. Interpellate un’amica. E’ risaputo che le capacità comunicative delle donne sono notevolmente superiori a quelle degli uomini. 

5. Una cosa alla volta

Non pretendete troppo dai vostri uomini. Mentre le donne sono abili nel compiere operazioni mentali in parallelo, gli uomini faticano a rispondere anche alla più banale delle domande se sono impegnati in qualsiasi attività che vada oltre il mantenimento dei propri parametri vitali.

6. Pretendete il minimo

L’evoluzione sembrerebbe aver plasmato il cervello maschile per essere portato verso la sistematicità. Ne deriva, per esempio, una maggior predisposizione ad interagire con gli apparecchi elettronici. Pretendete dunque che l’uomo di casa sia quantomeno in grado di sostituire una lampadina.

A chi mi accusa di neurosessismo voglio ricordare che per secoli si è pensato che quell’8% di cervello in meno ci rendesse meno intelligienti… potrebbe anche essere vero.

 

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BIBLIOGRAFIA: 

 

EDIT (del 4 ottobre 2013):

Ovviamente è un articolo ironico e ricco di pregiudizi riguardo le differenze tra uomini e donne e la rigidità a cui accenna Emanuele deriva proprio dall’intenzione di marcare ulteriormente tale diversità di genere. Del resto è ciò che facciamo spesso nella vita di tutti i giorni, soprattutto a giustificazione dell’incomprensione con il sesso opposto. In verità la ricerca negli ultimi anni dà un risalto sempre maggiore a variabili culturali e ambientali e questo dovrebbe aiutarci ad essere un po’ meno “neurosessisti”… salvo quando questo ci fa comodo, ovvio!

In risposta al commento di un lettore,
Ilaria Cosimetti.

Depressione e Psicoterapia: tutto fa brodo?

Depressione e psicoterapia . - Immagine:  © Brian Jackson - Fotolia.comLa depressione è un disturbo della salute mentale caratterizzato da: ricorrenti stati di tristezza e insoddisfazione, bassa autostima e diminuito interesse nelle attività quotidiane, anche piacevoli.

Secondo studi epidemiologici condotti nel mondo occidentale, una percentuale che va dall’8% al 12% della popolazione tende a sviluppare nel corso della vita un disturbo depressivo (Andrade & Caraveo, 2003), rappresentando così uno dei disturbi più frequentemente diagnosticati.

Oggi, gli approcci psicoterapeutici per la cura della depressione sono numerosi e variegati, e più volte la ricerca si è posta l’obiettivo di verificarne l’efficacia. Sebbene vi sia consenso sull’efficacia della psicoterapia per la depressione, resta aperto il dibattito su quale sia l’approccio preferibile.

I risultati di due meta-analisi hanno indicato una maggiore efficacia degli approcci cognitivo-comportamentali rispetto ad altri approcci non CBT (Dobson, 1989; Gloaguen, Cottraux, Cucherat et al., 1998). In contrasto, uno studio comparativo tra CBT e terapia psicodinamica breve non ha rilevato differenze significative circa l’efficacia dei due interventi (Leichsenring, 2001).

In un recente studio pubblicato su PLOS Medicine (Barth, Munder, Gerger et al., 2013), gli Autori hanno svolto un’analisi comparata tra differenti trattamenti psicoterapeutici per la depressione (nei quali non era prevista alcuna terapia farmacologica), concludendo che ciascuno di essi darebbe un qualche beneficio e non sembrerebbe esservi un approccio terapeutico superiore agli altri.

La ricerca è stata condotta utilizzando una metodologia recentemente sviluppata, definita meta-analisi di rete (network meta-analysis), una tecnica che consente di confrontare differenti approcci terapeutici sia in confronto diretto, sia in confronto a un gruppo di controllo. Nelle meta-analisi di rete, le informazioni ricavate dagli studi che verificano un confronto diretto tra un trattamento A e un trattamento B, sono combinate a informazioni provenienti da un confronto indiretto di A e B derivato da altre ricerche, che paragonano ciascuno dei due trattamenti A e B con un terzo trattamento C (che potrebbe essere un altro trattamento psicoterapeutico o un gruppo di controllo). Questa metodologia è stata impiegata per verificare l’efficacia di interventi farmacologici per la depressione (Cipriani et al., 2009) e il disturbo maniacale (Cipriani et al., 2011), ma secondo gli autori non risultava ancora impiegata nella ricerca sulla psicoterapia.

I ricercatori hanno preso in esame 198 articoli pubblicati dal 1975 al 2012, che prendevano in esame dati ottenuti da oltre 15.000 pazienti che hanno intrapreso una tra sette tipologie di interventi psicoterapeutici*: psicoterapia interpersonale, attivazione comportamentale, terapia cognitivo-comportamentale, problem solving therapy, terapia psicodinamica, addestramento alle abilitá sociali e counselling di supporto. Ognuno di questi approcci è stato comparato con gli altri e con un gruppo di controllo (composto da pazienti in lista di attesa o che non seguivano nessun approccio strutturato).

I risultati indicano che tutti i sette approcci terapeutici sono efficaci nel ridurre i sintomi depressivi rispetto alle situazioni di controllo e non risultano differenze significative tra i differenti tipi di terapia. Tuttavia, prendendo in esame solo gli studi condotti su larghi campioni di pazienti (>50), i ricercatori hanno rilevato chiari benefici da parte degli approcci cognitivo-comportamentale, terapia interpersonale, problem-solving therapy, ma non da parte degli altri approcci. Il counselling di supporto e la terapia psicodinamica breve hanno mostrato di produrre benefici in studi condotti su campioni più ridotti (da 25 a 50 pazienti), ma non su gruppi di dimensione più elevata.

Inoltre, per quanto riguarda la presenza di documentazione, vi è un ampio divario tra gli approcci in analisi: il 70% della letteratura esaminata dagli autori riguarda la CBT, confermandosi come l’approccio con il maggiore supporto empirico.

Secondo gli Autori, questi risultati suggeriscono che ai pazienti depressi andrebbero illustrate differenti possibilità d’intervento terapeutico, per concordare l’approccio più idoneo alle loro caratteristiche.

In seguito ad una lettura più dettagliata dell’articolo di Barth e coll. (2013), possiamo davvero concludere che, qualunque sia l’approccio terapeutico scelto, ogni paziente ne trarrà beneficio, come riportato da Sciencedaily.com? Oppure, è possibile che i dati riflettano la presenza di una minore documentazione a supporto di certi approcci rispetto ad altri? Le misurazioni di outcome sono assolutamente comparabili per ciascun studio? Si potrebbero ipotizzare risultati differenti qualora questi approcci venissero testati simultaneamente all’interno di un trial clinico, rispetto ad una comparazione di risultati ottenuti in studi differenti, e in epoche storiche differenti?

Il dibattito è aperto.

 

*Note:

Terapia interpersonale: è una terapia breve e altamente strutturata, prevede l’utilizzo di un manuale; é focalizzata sulle problematiche interpersonali che possono indurre la depressione.

Attivazione comportamentale (Behavioral activation): ha l’obiettivo di incrementare la consapevolezza nel paziente che vi siano attività piacevoli in cui coinvolgersi, cerca inoltre di incrementare le interazioni positive tra il paziente e il suo ambiente di vita.

Terapia cognitivo-comportamentale: ha lo scopo di analizzare le credenze negative del paziente, valutare quanto queste influenzino il comportamento attuale e futuro, quindi intervenire su di esse mediante ristrutturazione cognitiva, mettendole in discussione.

Problem-solving therapy: ha l’obiettivo di definire i problemi del paziente, proporre differenti possibilità di soluzione e quindi selezionare, implementare e valutare la soluzione migliore.

Terapia psicodinamica: si concentra sui conflitti irrisolti del passato e sulle relazioni, per comprendere l’impatto che hanno sulla situazione di vita attuale del paziente.

Addestramento alle abilità sociali: ha l’obiettivo di insegnare abilità che possano aiutare il paziente a sviluppare e mantenere relazioni sane, basate su onestà e rispetto.

Counselling di supporto: è un approccio terapeutico di impostazione generalistica, che ha lo scopo di mettere il paziente nelle condizioni di poter parlare delle proprie esperienze ed emozioni, offrendo empatia ma senza suggerire soluzioni o insegnare nuove abilità.

 

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RECENSIONE DI TERAPIA METACOGNITIVA DEI DISTURBI D’ANSIA E DELLA DEPRESSIONE (A. WELLS)

 

BIBLIOGRAFIA

Curare le fobie…mentre si dorme!

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Fobie: manipolare la memoria emotiva durante il sonno è possibile. Lo hanno fatto, per la prima volta, i ricercatori del Northwestern University Feinberg School of Medicine.

La scoperta offre un modo per migliorare il classico trattamento delle fobie attraverso l’esposizione, con l’aggiunta di un componente notturna. La terapia di esposizione comporta una graduale esposizione all’oggetto o alla situazione temuta fino a che la paura scompare.

Studi precedenti hanno dimostrato che l’apprendimento spaziale e di una sequenza motoria può essere migliorato durante il sonno, ma mai in precedenza era stato possibile manipolare le emozioni.

Nella prima parte dell’esperimento i partecipanti venivano condizionati ad associare volti ed odori alla paura, tramite la somministrazione di lievi scosse.

Successivamente, mentre il soggetto dormiva – durante il sonno ad onde lente quando si pensa che avvenga il consolidamento della memoria – veniva esposto all’odore “temuto” ma senza che questo fosse nuovamente associato alla scossa elettrica e al volto.

Il fatto che l’odore venisse presentato durante il sonno ha attivato il ricordo di quello stesso odore più e più volte, innescando il processo di estinzione paura proprio come durante la terapia di esposizione.

Nell’ultima fase dell’esperimento i partecipanti, una volta svegli, sono stati esposti a entrambe le facce. Quando hanno visto il volto che era associato all’odore a cui erano stati esposti a durante il sonno, le reazioni di paura sono state inferiori rispetto a quando hanno visto l’altro volto.

La paura è stata misurata in due modi: attraverso piccole quantità di sudore nella pelle, simile a un test della macchina della verità, e attraverso neuroimaging con fMRI.

I risultati fMRI hanno mostrato cambiamenti nelle regioni associate con la memoria, come l’ippocampo, e cambiamenti nei modelli di attività cerebrale nelle regioni associate all’ emozione, come l’amigdala.

Questi cambiamenti del cervello riflettono una diminuzione della reattività che era specifica per l’immagine del viso associata all’odore presentato durante il sonno.

 

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PAURAMEMORIA – NEUROSCIENZENEUROPSICOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Scoperto l’interruttore dell’interesse per il cibo

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Pubblicata su Science l’ultima scoperta relativa alla relazione con il cibo. I ricercatori del Nord Carolina hanno trovato nei topi un altro interruttore della fame.

La zona che hanno studiato è quella del letto della stria terminale (Bnst), i neuroni di questa zona si attivano quando mangiamo andando ad inibire l’ipotalamo che regola anche l’alimentazione.

Praticamente i ricercatori hanno visto che quando si attiva l’area Bnst nell’ipotalamo si verifica lo spegnimento di una particolare tipologia di neuroni (quelli glutammatergici) che induce i topi a mangiare  anche se sono già sazi. Se invece l’area di Bnst è spenta o disattivata i topi ignorano il cibo anche se affamati.

Questa ricerca potrebbe essere utile al fine di comprendere i disturbi alimentari e l’obesità da un punto di vista neurologico e trovare risposte e mirate a questo problema da una prospettiva più ampia.

«Lo studio sottolinea come l’obesità e gli altri disturbi alimentari abbiano una base neurologica», spiega il coordinatore dello studio Garret Stuber. «Grazie a nuovi studi – conclude – potremo scoprire come regolare l’attività delle cellule di una specifica regione del cervello così da mettere a punto nuove terapie».

 

 

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EABCT 2013 – Il trattamento del Rimuginio – Le nuove proposte

 

EABCT 2013 MARRAKESH

EABCT 2013 – Il trattamento del Rimuginio – Le nuove proposte

EABCT 2013

Nel rimuginio non elaboriamo emozionalmente le preoccupazioni, le minacce e i nostri fallimenti, ma ci crogioliamo entro essi sterilmente. A che pro? Per avere un sollievo. Processare emozionalmente, infatti, richiede un carico di attivazione attenzionale e/o emozionale che nel breve termine è faticoso, troppo intenso e doloroso.

Al 43esimo congresso annuale dell’EABCT, la European Association for Behavioural and Cognitive Therapies, a Marrakech dal 25 al 28 settembre 2013, scelgo di seguire le presentazioni dedicate al rimuginio (worry), ruminazione e pensiero negativo. Scelta inevitabilmente di parte: è una delle linee di ricerca dell’Istituto dove lavoro. In tal modo privilegio le ricerche di processo e non di contenuto, il “come penso” e non il “che cosa penso”, anzi il “come mi preoccupo” e non il “di cosa mi preoccupo”.

Non che le ricerche sui contenuti, le vecchie credenze (beliefs), siano sparite da questo congresso. Diffidiamo delle valutazioni definitive e troppo significative. Quelle frasi in cui si sostiene che il tale congresso ha segnato il definitivo successo (o l’improvvisa crisi) della terza ondata. Frasi che si sentono a ogni congresso. Non è possibile che ogni congresso sia una svolta storica.

Certo, penso anche -ripeto: è un’opinione mia- che le ricerche sulle credenze rischino di portare poco di nuovo. In quel campo l’ultima “scoperta” – chiamiamola così, un po’ pomposamente- è stata l’intolleranza dell’incertezza di Dugas e Freeston, e sono passati dieci anni e più. Possiamo dire di conoscere l’intero pacchetto delle credenze psicopatologiche. Ma non è tutto.

Sembra opinione generale che le credenze esplicite siano tendenzialmente dei processi secondari importanti per la cronicizzazione del disturbo. Importanti quindi, ma non più uniche e non più cause prime della sofferenza emotiva. 

Invece mi pare che nelle ricerche di processo ci siano ancora cose nuove da scoprire. Al centro di tutto c’è il paradosso del rimuginio e della ruminazione. Ne ha parlato venerdì 27 settembre Mark Freeston dell’Università di Newcastle (lo stesso Freeston del modello di Dugas e Freeston sull’intolleranza dell’incertezza che ho citato nel paragrafo precedente).

Cos’è il paradosso del rimuginio? In breve, rimuginando su ciò che ci preoccupa, evitiamo di pensarci. E come può accadere questo? Accade perché nel rimuginio –dice Freeston- non elaboriamo emozionalmente le preoccupazioni, le minacce e i nostri fallimenti, ma ci crogioliamo entro essi sterilmente. A che pro? Per avere un sollievo. Processare emozionalmente, infatti, richiede un carico di attivazione attenzionale (questo lo ha detto Pierre Philippot dell’Università di Lovanio, Belgio, giovedì 26 settembre) e/o emozionale (dice Freeston) che nel breve termine è faticoso, troppo intenso e doloroso.

Quindi immaginare (rispetto al rimuginare) implica uno svantaggio emozionale immediato e un’allocazione di risorse attenzionali inizialmente maggiore. Questo sforzo immediato alla lunga consente una piena risoluzione emotiva e anche pratica. O almeno una piena accettazione di ciò che è accaduto. Nel rimuginio invece si rimane in uno stato intermedio, non troppo doloroso ma mai davvero risolto. Un continuo preoccuparsi, che è preferito al vero pensare a soluzioni concrete. E perché? Per non affrontare lo sforzo attentivo necessario a innescare la processazione (e accettazione) emozionale.

Insomma, pensare a soluzioni concrete richiede l’attivazione non solo del rimuginio verbale, ma anche della preoccupazione immaginativa e visuale. Solo immaginando ciò che temiamo, possiamo venirne a patti; nominare verbalmente non basta. Operazione impegnativa ed emotivamente intensa che ad alcuni non garba, o pare troppo dolorosa. Meglio rimuginare sempre e in tal modo evitare il coinvolgimento attentivo ed emotivo. Ecco spiegato il paradosso del rimuginio: penso per non immaginare.

Questo è stato ribadito in varie altre presentazioni a cui ho assistito. Da Colette Hirsch del King’s College (Londra), da Maurice Topper di Amsterdam, da Maarten Eisma di Utrecht, da Ernst Koster di Ghent (Belgio), da Pierre Philippot di Lovanio (Belgio), da Nilly Mor di Gerusalemme e da Christine Kuehner di Heidelberg.

Un gruppo di giovani ricercatori che -mi pare- seguono l’ipotesi dell’evitamento cognitivo di Tom Borkovec, per il quale il rimuginio è un po’ un errore processuale (faccio l’errore di attivare il rimuginio verbale senza combinarlo con l’immaginazione visiva) e un po’ un evitamento cognitivo, quasi una difesa: attivo il rimuginio verbale per evitare di attivare la dolorosa immaginazione visiva.

Mentre ascoltavo tutte queste presentazioni mi chiedevo: e il modello di Wells? Perché nessuno lo cita? Ragioni solo politiche, dovute alle recenti scissioni, o anche ragioni scientifiche? Il modello di Wells è anch’esso un modello che pone al suo centro un processo di tipo rimuginativo e che considera le credenze come soprattutto delle valutazioni di secondo livello, delle metacognizioni, che cronicizzano il meccanismo. La causa è invece un processo attenzionale di focalizzazione sull’oggetto della preoccupazione. Sembrerebbe non dissimile dall’ipotesi di Borkovec, Freeston e dei loro giovani seguaci.

Tuttavia mi pare che la componente evitativa sia assente nel modello di Wells. Ho l’impressione – da confermare, anche perché non sempre questi autori e i loro seguaci gradiscono essere compressi in una formula, bisogno comprensibile ma a volte anguillesco – che in Wells il rimuginio è sempre un errore processuale di focalizzazione eccessiva sull’oggetto della preoccupazione, focalizzazione che poi si cronicizza in rimuginio a causa di credenze secondarie di incontrollabilità del pensiero (“non riesco a smettere”) e mai evitamento di qualcosa di più doloroso.

Tutto questo non è sterile teoria.

Se ha ragione Wells, il trattamento deve essere soprattutto un riaddestramento attenzionale a non rimuginare preceduto da un poco (non troppo) di lavoro cognitivo volto a verificare se davvero il rimuginio è incontrollabile.

Se ha ragione Borkovec, invece, vale la pena ragionare un po’ anche sul contenuto evitato e incoraggiare un po’ di contatto emotivo con questo contenuto (con questo tema, direbbe Sandra Sassaroli).

Che ne pensano di questo i borkovecchiani? L’ ho domandato sia a Freeston che a Colette Hirsch. Freeston mi ha risposto che effettivamente la teoria di Borkovec implica un intervento di processazione emozionale oltre che di riaddestramento attenzionale. Ma ritiene anche che questa processazione emozionale sia difficile e che coi pazienti occorre andarci cauti. Colette Hirsch non mi ha dato una risposta del tutto soddisfacente su questo (ho l’impressione che molti di questi giovani ricercatori abbiano ancora qualche difficoltà a elaborare le implicazioni cliniche dei loro lavori).

Mi ha dato soddisfazione invece Maarten Eisma di Utrecht, un giovane olandese che oltre a fare ricerca ha anche testa clinica. E mi ha detto che a Utrecht hanno provato a lavorare sia con il riaddestramento attenzionale che con quello che loro chiamano “confrontation”. Termine psicodinamico e kernberghiano (ma si trova anche nella REBT di Albert Ellis) e però compatibile con la teoria cognitiva, poiché significa non l’analisi dell’inconscio ma l’incoraggiamento a rianalizzare criticamente (e in maniera emotivamente intensa) i propri stati mentali più temuti. Eisma mi ha detto che la cosa funziona con alcuni pazienti ma non con altri. Occorre ancora capire come individuare questo sottogruppo che trarrebbe beneficio dall’intervento di confrontazione con il contenuto cognitivo evitato.

A questo congresso ho anche incontrato un seguace di Wells: Robin Bailey dell’Università di Manchester. Era a Marrakech con un poster. Lo coinvolgo nella discussione e lo invito al SIG (Special Interest Group) sul rimuginio, ruminazione e pensiero ripetitivo che ho organizzato insieme a Colette Hirsch venerdì 27 settembre alle ore 14.

Due parole su questi SIG: si tratta di qualcosa di diverso dalla solita trafila di presentazioni scientifiche seguite da discussioni rachitiche; al contrario sono finalmente degli spazi in cui è possibile discutere a lungo e confortevolmente. Il merito dell’idea di questi SIG va dato ad Antonio Pinto, membro italiano del board dell’EABCT.

Il SIG, a cui erano presenti tutti i ricercatori che ho citato (eccetto Freston; meglio così: solo giovani), ha reso possibile il confronto tra borkovecchiani (Hirsch, Topper, ecc.) e un wellsiano (Bailey). Il tutto è quindi risultato molto vivace (e divertente per me, che facevo da arbitro). Va detto che Bailey non era solo. A soccorrerlo è arrivato Mehmet Sungur di Istanbul, che ho scoperto essere anche lui un cultore del modello di Wells.

Bailey ha esposto e difeso il modello wellsiano. Quello che mi chiedevo durante il SIG era: cosa dice questo modello di fronte all’ipotesi dell’evitamento cognitivo? Mi pare che oscilli tra il rifiuto pragmatico e il rigetto teorico. Il rifiuto pragmatico consiste nell’accettare in via teorica l’esistenza dell’evitamento cognitivo, salvo poi ribadire che trattarlo in seduta è inutile, e anzi controproducente. In una seduta di terapia metacognitiva alla Wells, infatti, non si parla mai del contenuto del rimuginio, se non per ingaggiare il paziente, ovvero per socializzare. Questo perché ogni discorso sul contenuto è, nel modello wellssiano, inevitabilmente un nuovo rimuginio.

Ma non si tratta solo di pratica clinica. C’è in fondo anche un rifiuto teorico: il rimuginio è per Wells -mi pare- sempre e solo una sorta di errore di processo, una cosiddetta Cognitive Attentional Syndrome (CAS). Non credo ci sia spazio nel modello per l’evitamento cognitivo di temi troppo dolorosi. Al contrario si parla di fissazione patologica sull’oggetto della preoccupazione. Tutta l’argomentazione di Borkovec è quindi rigettata. E questo porta a una ancora più forte affermazione clinica che parlare del contenuto -e, a maggior ragione, di contenuti particolarmente dolorosi- è solo altro rimuginio, poiché ribadisce il CAS.

Bailey mi ha chiarito ulteriormente questi concetti la sera a cena, dicendomi che il trattamento dei pazienti gli conferma queste idee. Il riaddestramento cognitivo del CAS senza mai parlare dei contenuti è, a detta sua, estremamente efficace e inoltre semplice da eseguire a paragone del lavoro sul contenuto. Bailey è un terapeuta quarantenne con una larga esperienza.

Mi piacerebbe dire che su questo argomento ci si confronterà tra wellsiani e borkovecchiani (li chiamo così) negli anni futuri all’EABCT. Per varie e complesse ragioni, invece, questo forse non accadrà. L’evoluzione scientifica reale non è sempre così lineare come appare a posteriori. Come si sa, molti di questi teorici più o meno di terza ondata hanno costruito, in parte comprensibilmente, le loro società scientifiche con i loro congressi. Non è il caso di lamentarsene troppo. La scienza non è fatta di distaccate discussioni in cui si approda insieme alla verità, ma anche di scissioni e separazioni con risvolti personali.

Per concludere, nelle presentazioni a cui ho assistito ho visto minore attenzione per le risorse del paziente, a cosa altro fare della sua vita invece che pensare ai suoi rimuginii. Quello che Sandra Sassaroli chiamerebbe i suoi piani. Anche questo è connesso al rimuginio come piano, piano patologico di evitamento. Stranamente ne ha parlato Salkovskis nel suo seminario di mercoledì 25 settembre. Un po’ tutti si stanno rendendo conto di come il paziente vada accompagnato nel suo percorso dopo che sia uscito dal suo eterno rimuginare.

Ho dimenticato di chiedere a Robin Bailey cosa ne pensano a Manchester, nella tana wellsiana, di questo. Da un certo punto di vista posso immaginare che Wells lo considererebbe un altro rimuginio. Meglio chiedere a lui e non infilargli parole in bocca. Sarà per un’altra volta.

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La psicoterapia funziona: perché?

 

Report del Workshop

 

Dr. Daniel SiegelPossiamo definire il benessere quando un sistema è integrato; l’integrazione implica il collegamento di parti differenziate di un sistema, se presente, ne risultano flessibilità e armonia; se assente, si manifestano caos e rigidità.

Almeno una volta nella vita, tutti ci siamo fatti questa domanda, sia come terapeuti che come pazienti; sicuramente questo workshop, nella sua semplice complessità, ha risposto a questa domanda. E molto di più.

Parola d’ordine Integrazione.

Daniel Siegel è “clinical professor” di Psichiatria presso la facoltà di Medicina della UCLA (University of California, Los Angeles), dove fa parte del Center for Culture, Brain, and Development ed è codirettore del Mindful Awareness Research Center; è inoltre direttore esecutivo del Mindsight Institute, ente di formazione che fornisce servizi di apprendimento online e lezioni svolte di persona, incentrati entrambi sui modi in cui è possibile accrescere la mindsight in individui, famiglie e comunità attraverso l’esame dei punti di contatto presenti nei rapporti interpersonali e dei processi biologici di base degli esseri umani.

I due giorni di workshop sono stati decisamenti intensi e ricchi, sia dal punto di vista dei contenuti che dal punto di vista umano ed interpersonale. Conoscere Siegel, una persona così disponibile al dialogo, aperta e attenta nelle relazioni, non è cosa di poco conto: la sua energia e il suo essere mindfull si sono respirati per due giorni, un vortice di parole, nozioni ed esercizi esperienziali.

La mattinata di venerdì si è aperta con questa domanda: “Come è possibile rendere e mantenere la nostra mente in salute?” E con questa cornice di fondo abbiamo iniziato a lavorare partendo dalle definizioni di mente, cervello, relazione ed integrazione.

Le relazioni sono il modo in cui energia e informazione vengono condivise, mentre ci connettiamo e comunichiamo l’un l’altro. Il cervello riguarda il meccanismo fisico attraverso cui energia e informazione fluiscono. La mente è il processo che regola il flusso di energia e informazione. Queste tre dimensioni formano il triangolo del benessere.

Possiamo definire il benessere quando un sistema è integrato; l’integrazione implica il collegamento di parti differenziate di un sistema, se presente, ne risultano flessibilità e armonia; se assente, si manifestano caos e rigidità.

Nel momento in cui si trasferisce questo modello alla mente umana, si riscontra che una mancanza di integrazione produce sintomi e sindromi che si potrebbero forse considerare disturbi mentali.

La neurobiologia interpersonale si avvale di un’ampia varietà di discipline scientifiche, contemplative e artistiche. Lo stato di salute viene determinato dal processo di integrazione mente, cervello e relazioni.

Da un punto di vista clinico diventa dunque interessante vedere la psico-patologia e svariati disturbi mentali come un deficit di integrazione: in questa cornice compito del terapeuta sarà, attraverso diversi strumenti, aumentare l’integrazione nel paziente, favorendo il cambiamento verso uno stato maggiore di benessere.

Tre esperienze umane favoriscono questo processo, promuovendo il benessere: attaccamento sicuro, meditazione mindfulness e psicoterapia efficace.

Avere un atteggiamento Mindful significa saper “guidare” consapevolmente la nostra attenzione; viene da sé che uno degli obiettivi della pratica è quello di aumentare il nostro grado di consapevolezza. Consapevolezza che ci permette di osservare il cambiamento, ma anche i nostri automatismi di pensiero, le nostre emozioni e il modo in cui la mente si ancora a questi oggetti di per sé intrinsecamente mutevoli.

Durante il workshop abbiamo fatto alcuni esercizi di mindfulness: un primo esercizio proposto è stato quello della respirazione consapevole, in cui in prima persona abbiamo potuto sperimentare che la mente per sua natura tende a sfuggire a ciò che sta avvenendo nel qui e ora e si ancora alle esperienze del passato o si proietta in desideri futuri. Spostare l’attenzione al respiro lasciando andare i pensieri significa prendere maggior consapevolezza di come la nostra mente funziona ed essere sempre di più nel momento presente.

Un’immagine molto bella che Siegel ha portato nella pratica è stata questa: “La mente è come l’oceano. E sul fondo dell’oceano, al di sotto della superficie, vi è calma e chiarezza. E non importa quali siano le condizioni della superficie, se sia piatta, mossa o tempestosa, perché sul fondo dell’oceano vi è tranquillità e serenità. Dal profondo dell’oceano puoi guardare verso la superficie e limitarti a notare l’attività che vi si trova, come nella mente; dal profondo della mente puoi guardare su, verso le onde, le onde cerebrali che si trovano sulla superficie della mente, dove esiste tutta l’attività della mente, pensieri, sentimenti, sensazioni e ricordi. Hai l’incredibile opportunità di limitarti a osservare queste attività che si svolgono sulla superficie della mente.”

Sempre in termini di consapevolezza e attenzione, in un esercizio interessante Siegel ci ha guidato nel portare l’attenzione prima verso il centro della stanza, poi verso il muro, poi di nuovo verso il centro della stanza e ancora verso il muro, portandola poi davanti a noi come se stessimo leggendo un libro. Infine ci ha guidato a portare l’attenzione dentro di noi, nel nostro centro, e a respirare consapevolmente, facendoci sperimentare in prima persona il “potere” che abbiamo nel guidare la nostra attenzione consapevole.

Esercizio e metafora che poi ci siamo portati dietro per l’intero workshop è stato quello della ruota della consapevolezza che riporto qui:

Puoi pensare alla struttura della mente come a qualcosa di simile a una ruota della consapevolezza, immaginando la ruota di una bicicletta dove vi è un cerchione più esterno e dei raggi che connettono il cerchione al mozzo interno. Nella ruota della consapevolezza della tua mente, qualsiasi cosa che possa entrare nella tua consapevolezza è uno degli infiniti punti del cerchione. Un settore del cerchione potrebbe includere i nostri cinquesensi del tatto, del gusto, dell’odorato, dell’ascolto e della vista, quei sensi che portano il mondo esterno nelle nostre menti. Un altro settore del cerchione della ruota è il senso del nostro corpo, il senso dei nostri arti, dei muscoli del nostro volto e il sentimento degli organi del nostro busto, dei nostri polmoni, del nostro cuore e dei nostri intestini. Tutto il corpo porta la sua saggezza nella mente e questo senso del corpo, il tuo sesto senso, aggiunge un’altra tessitura a quello di cui puoi diventare consapevole. Un altro insieme di punti del cerchione sono le cose che la mente crea in modo diretto, come i pensieri e i sentimenti, i ricordi e le percezioni, le speranze e i sogni, e anche questo segmento del cerchione della nostra mente è pienamente disponibile alla nostra consapevolezza, è quello che puoi chiamare il tuo settimo senso: la nostra capacità di vedere la mente, in noi stessi e nelle menti delle altre persone. Possiamo anche essere in grado di sentirci “sentiti” nel nostro ottavo senso, quando sentiamo che le nostre relazioni sintonizzate risuonano con gli altri e con noi stessi.

Possiamo scegliere se vogliamo prendere un segmento e mandare un raggio verso quel punto del cerchione. Possiamo scegliere se prestare attenzione alle sensazioni che proviamo nella pancia, e mandare lì un raggio. O possiamo scegliere di prestare attenzione a un ricordo, e mandare un raggio all’area del settimo senso per vedere quella parte della mente. E così, i raggi rappresentano la nostra capacità di focalizzarci su un punto del cerchione. E i raggi emanano dal profondo della mente, che è il mozzo della ruota della consapevolezza. E quando ci focalizziamo sul respiro, noi possiamo sviluppare la spaziosità del mozzo della mente. Quando il mozzo della mente si espande, possiamo sviluppare la capacità di essere recettivi a tutto ciò che sorge dal cerchione, di abbandonarci alla spaziosità, alla qualità luminosa del mozzo della ruota che può ricevere qualsiasi aspetto della nostra esperienza proprio come è. Senza idee preconcette e senza aggrapparci ai giudizi, questa consapevolezza mindful, quest’attenzione recettiva, ci porta in un luogo tranquillo dove possiamo essere consapevoli e conoscere tutti gli elementi della nostra esperienza.

Il centro delle nostre menti, come il fondo dell’oceano, è un luogo di tranquillità e ricerca, dove possiamo esplorare la natura della mente con equanimità, energia e concentrazione. Questo centro della mente è sempre a nostra disposizione, proprio ora. Ed è da questo centro che entriamo in uno stato compassionevole di connessione con noi stessi, e sentiamo compassione per le altre persone.

Focalizziamoci sul respiro ancora per qualche momento, insieme. Apriamo quel mozzo spazioso della mente alla bellezza e alla meraviglia di ciò che è.” (da: D.J. Siegel, “Mindfulness e Cervello” ed. R. Cortina)

La domanda cardine del secondo giorno di workshop è stata: “Quale parte svolgiamo da terapeuti?”. Una prima risposta potrebbe essere che secondo John Norcross la presenza, l’empatia, e la disponibilità a ricevere feedback del terapeuta costituiscono gli elementi cruciali dei risultati terapeutici  dati emersi da una meta-analisi di studi sulla psicoterapia.

Il compito di un terapeuta mindful è di  portare in terapia presenza, sintonizzazione, risonanza, fiducia, verità,

monitoraggio,trasformazione tranquillità.

Occorre, dunque, sfruttare il potere di consapevolezza e attenzione per catalizzare l’integrazione neuronale.

Ripensando ai nostri piani di intervento e trattamento alla luce della neuroplasticità cerebrale, assumono una nuova importanza carattersitiche di stile di vita quali: ore di sonno, alimentazione, esercizio aerobico, e inoltre assumono luce diversa le relazioni, l’apertura alle novità intesa come flessibilità, senso dell’umorismo e le abilità di mindfulness.

Studi su salute fisica, benessere emotivo, longevità, felicità e persino saggezza indicano che l’abilità degli individui di essere consapevoli del proprio mondo interiore – e sentirsi profondamente legati agli altri – sta al centro di resilienza e salute mentale.

In quest’ottica, le terapie efficaci sono quelle che stimolano attivazione e crescita neuronale verso uno stato maggiormente integrato.

Da una prospettiva neurobiologica interpersonale, abbiamo osservato come i clinici possano impiegare la relazione terapeutica per alimentare la crescita di nuovi processi integrativi nei loro pazienti. E abbiamo preso in esame i Nove domini di integrazione che Siegel illustra nel suo libro Terapeuta consapevole guida per il terapeuta al Mindsight e all’integrazione neurale (D.J.Siegel, ISC Editore, 2013)

  1. Integrazione della coscienza
  2. Integrazione bilaterale
  3. Integrazione verticale
  4. Integrazione della memoria
  5. Integrazione narrativa
  6. Integrazione di stato
  7. Integrazione interpersonale
  8. Integrazione temporale
  9. Integrazione traspirazionale

Il lavoro da svolgere in ciascun dominio richiede interventi terapeutici specifici. Esito ultimo dell’integrazione è far spostare gli individui lontano da stati di caos e rigidità presenti, ma dentro l’armonia e la calma del benessere.

Da lunedì faccio terapia ricordandomi di questa immagine molto bella che è emersa dal dialogo nel pomeriggio di sabato: “Quando siete in aereo e state per partire le hostess vi illustrano le procedure di sicurezza, nel caso di depressurizzazione vi invitano a mettere prima la vostra maschera d’ossigeno e poi eventualmente aiutare gli altri”, semplice ed efficace per noi terapeuti, ma per tutte le persone che hanno a che fare con le professioni di aiuto in cui spesso lo schema di autosacrificio è piuttosto attivato.

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BIBLIOGRAFIA:

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