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Genesi e risoluzione dell’Attaccamento materno–infantile – PARTE 4

Elena Commodari, Maria Tiziana Maricchiolo

-PARTE 4-

Attaccamento e gestione delle esperienze emotive
Una ricerca

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Genesi e risoluzione dell’Attaccamento materno infantile PARTE-4. -Immagine: © Svetlana Fedoseeva - Fotolia.comI soggetti con un legame di attaccamento sicuro sono più capaci di gestire la propria emotività, rispetto a chi ha sviluppato un pattern di attaccamento di tipo insicuro-evitante o ansioso-ambivalente?

Ipotesi di ricerca

Il presente studio intende verificare se i soggetti con un legame di attaccamento sicuro siano più capaci di gestire la propria emotività, rispetto a chi ha sviluppato un pattern di attaccamento di tipo insicuro-evitante o ansioso-ambivalente, ovvero in che misura  lo stile relazionale di un individuo incida nella gestione delle esperienze emotive.

Campione

Complessivamente il campione è composto da 100 studenti di cui 54 femmine e 46 maschi, iscritti a diverse facoltà universitarie. I questionari sono stati somministrati collettivamente nelle aule delle varie facoltà durante le pause di lezione.

Strumenti  utilizzati

Lo studio è stato condotto  impiegando i seguenti strumenti:

L’Adult Attachment Styles (AAS), (Hazan e Shaver, 1987).

–   La Scala di Autoefficacia Percepita nella Gestione delle Emozioni Negative  (AP_ EN), (Caprara, 2000).

–   La Scala di Autoefficacia Percepita nell’Espressione delle Emozioni Positive  (AP_ EP), (Caprara, 2000).

L’Adult Attachment Styles è uno strumento self-report di tipo categoriale messo a punto da Hazan e Shaver (1987) al fine di valutare le differenze individuali nello stile di attaccamento negli adulti. L’assunto di questi autori è che il legame che si sviluppa tra persone adulte nell’ambito delle relazioni di coppia sia mediato dallo stesso sistema motivazionale che regola il legame emozionale che si instaura tra il bambino e i suoi caregivers.

Essi hanno pertanto trasferito allo studio delle relazioni adulte di coppia la classificazione degli stili di attaccamento proposta da Ainsworth, Blehar, Waters e Wall (1978) nei loro studi sull’età infantile condotti con la procedura della Strange Situation (Agostoni, 2007).

Il questionario è composto da tre brevi autodescrizioni, ciascuna delle quali corrisponde ad uno specifico stile di attaccamento (ansioso/ambivalente, evitante e sicuro). Il soggetto è invitato a concentrare la propria attenzione sulle relazioni amorose più importanti che ha avuto nel corso della sua vita, e in particolare sulle emozioni sperimentate all’interno del rapporto, sulla fiducia/sfiducia riposta nell’altro, sulla vicinanza emotiva e sulla fine della relazione.

Il soggetto è quindi chiamato a scegliere, tra le autodescrizioni proposte, quella che egli ritiene più rappresentativa dei suoi sentimenti all’interno di tali relazioni. Si tratta, in pratica, di una procedura di somministrazione “a scelta forzata”, nella quale i diversi stili di attaccamento sono trattati come categorie discrete e mutualmente escludentesi (Agostoni, 2007).

La Scala di Autoefficacia Percepita nella Gestione delle Emozioni Negative (AP_ EN), (Caprara, 2000) misura le convinzioni del soggetto relative alla capacità di regolare adeguatamente situazioni di ansia, disagio, insofferenza e irritazione (ad es. “Superare la frustrazione se gli altri non ti apprezzano come vorresti”). Ciascun item (otto in tutto) si presenta come brevi proposizioni le quali testimoniano singole abilità nel riconoscimento e nella regolazione delle emozioni.

I ragazzi e le ragazze coinvolti nella ricerca sono chiamati ad indicare se e in quale misura si ritengono capaci in quella abilità. Le possibilità di risposta variano da 1 a 5, dove 1 equivale a per nulla capace e 5 a del tutto capace.

La Scala di Autoefficacia Percepita nell’Espressione delle Emozioni Positive (AP_ EP), (Caprara, 2000) misura le convinzioni del soggetto relative alla capacità di  esprimere le emozioni positive. Composta da sette items, il soggetto deve valutare il grado in cui ritiene di essere capace di manifestare la propria felicità o soddisfazione per obiettivi personali o per successi raggiunti da persone care. La scala, prevede cinque posizioni che vanno dal – per nulla capace – al – del tutto capace- tra cui a titolo d’esempio la proposizione: “Esprimere la tua felicità quando ti succede qualcosa di bello”.

Analisi dei dati

L’analisi percentuale delle risposte all’ Adult Attachment Styles, riporta che il 51% del campione tende verso una modalità relazionale di tipo sicuro, il 23% di tipo insicuro ed il restante 26% di tipo ambivalente.

Nella tabella 1.1 sono riportate le medie e le deviazioni standard della scala di Autoefficacia Percepita nella Gestione delle Emozioni Negative rispetto ai tre stili di attaccamento.

TABELLA 1.1 GENESI ATTACCAMENTO

Nella tabella 1.2 sono riportate le medie e le deviazioni standard della scala di Autoefficacia Percepita nell’Espressione delle Emozioni Positive rispetto ai tre stili di attaccamento.

TABELLA 2.2 GENESI E ATTACCAMENO

Dall’analisi della Varianza sono emerse differenze significative nella gestione delle emozioni negative e nell’espressione di quelle positive ascrivibili allo stile relazionale.

Relativamente alla gestione delle emozioni negative, i soggetti con uno stile relazionale di tipo sicuro risultano più capaci di superare la frustrazione se gli altri non li apprezzano,  riescono ad evitare di scoraggiarsi di fronte alle avversità e sanno mantenersi calmi in situazioni di stress.

I soggetti con un pattern di attaccamento di tipo ansioso-ambivalente risultano poco capaci di superare la rabbia se sono stati rifiutati, non riescono ad evitare di arrabbiarsi quando percepiscono che gli altri si comportano male con loro e provano un senso di scoraggiamento di fronte alle avversità ed in seguito a pesanti critiche.

Per quanto concerne l’autoefficacia percepita nell’espressione delle emozioni positive, si può sostenere che i soggetti con attaccamento sicuro sono più capaci di esprimere la propria felicità, di gioire dei propri successi, e di rallegrarsi del successo di una persona amica rispetto a chi ha uno stile relazionale di tipo insicuro o ambivalente.

I soggetti con un pattern di attaccamento di tipo ansioso-ambivalente risultano i meno capaci di divertirsi in compagnia di amici, di entusiasmarsi quando ascoltano musica che gli piace.

I risultati dei test illustrano come la capacità di regolare le emozioni sia positive che negative dei soggetti con stile relazionale di tipo insicuro-evitante si colloca a metà tra quella di chi ha un pattern di attaccamento sicuro e quella di chi ha uno stile relazionale ambivalente. Per entrambe le scale non sono emerse differenze significative ascrivibili al genere.

 

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3

LEGGI ANCHE:

ATTACCAMENTO  – BAMBINI – AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Ansia e panico durante le immersioni subacquee: conseguenze e prevenzione

Immersioni subacquee: uno studio del 1995 Anxiety and panic in recreational scuba divers ha dimostrato che oltre la metà dei sub ha sperimentato almeno una volta l’attacco di panico.

Sara Di Michele

 

Immersione subacquea: aspetti psicologici ed evoluzione nel tempo

Il subacqueo fino agli anni 70 era, nella maggior parte dei casi, una persona con spiccate caratteristiche di individualismo, tanto dal punto di vista psicologico quanto da quello sportivo. La struttura di personalità era più simile a quella dell’alpinista, dello scalatore o del paracadutista nel senso di atleti che cercano di migliorare le proprie capacità, di riuscire a superare i propri limiti e che cercano la solitudine, quasi la condizione ascetica.

Le rivoluzionarie innovazioni tecnologiche hanno profondamente modificato l’immersione subacquea consentendo praticamente a tutte le persone – compresi i portatori di handicap – di poter effettuare delle piacevoli immersioni ricreative.

L’immersione subacquea (diving) può essere vista come una risposta alle esigenze dell’inconscio tanto individuale che collettivo di recuperare quel rapporto primordiale presente sia nel ritorno alla condizione intrauterina, dove la vita si svolge nell’acqua, sia nelle profondità del mare dove vivono i pesci, nostri lontanissimi antenati. Il momento più significativo dell’attività subacquea corrisponde, però, al momento in cui viene attraversata quella linea che segna il confine tra l’aria atmosferica e l’acqua, che vuol dire di fatto varcare una linea reale, unica, diversa da qualsiasi altro confine di tipo metaforico tra dimensione reale e virtuale o tra somatico e psichico. Confine che segna la separazione tra due mondi: quello terrestre e quello sottomarino.

Uno degli aspetti più affascinanti dell’ immersione subacquea è l’isolamento: il subacqueo (diver) è tagliato completamente fuori dal mondo esterno, la comunicazione subacquea è molto limitata e parallelamente si incrementa la consapevolezza del subacqueo che il proprio benessere fisico è completamente nelle sue mani.

Negli anni anche la personalità di chi si approccia a al diving è cambiata: se prima erano personalità tese all’isolamento, oggi ci si approccia a tale attività per cercare un’attività ludica nella quale ricrearsi, incontrare nuova gente e sentirsi parte di un gruppo (Capodieci, 2006). Negli ultimi anni la maggiore richiesta di corsi e di immersioni subacquee ha provocato un’immediata risposta di interesse economico, rilasciando brevetti con estrema facilità.

Bisogna però ricordare che il diving è un’attività sportiva che ci mette a confronto con un ambiente a noi non naturale, al quale il corpo deve comunque adattarsi, ad un’attrezzatura che bisogna saper armeggiare, al mare, che è un elemento imprevedibile con il quale bisogna approcciarsi nella maniera più prudente e rispettosa possibile, affinché non si tramuti in una brutta esperienza. A questo proposito sarebbe meglio adottare misure preventive per evitare spiacevoli incidenti nelle immersioni.

 

Ansia e attacchi di panico nelle immersioni subacquee

Uno studio del 1995, Anxiety and panic in recreational scuba divers ha rilevato come oltre la metà dei sub che praticano immersioni sportive ha sperimentato almeno una volta l’attacco di panico. Statistiche del DAN e dell’Università del Rhode Island sostengono che il panico è stato responsabile del 20-30% degli incidenti mortali in immersione ed è tra le prime cause di morte nelle attività subacquee. In una situazione di panico, il subacqueo (o diver) riesce a concepire un solo obiettivo nella propria mente: raggiungere la superficie il più rapidamente possibile; in questo modo dimentica di respirare normalmente, con il risultato di una possibile embolia gassosa arteriosa. 

 

Caratteristiche dell’ ansia nelle immersioni subacquee

Secondo Zeidner le principali caratteristiche dell’ansia durante un immersione sono:

A. L’individuo percepisce la propria situazione come minacciosa, difficile o impegnativa.
B. L’individuo considera la sua capacità di far fronte a questa situazione come insufficiente.
C. L’individuo si concentra sulle conseguenze negative che conseguiranno al suo fallimento (di risolvere i problemi), piuttosto che concentrarsi sul trovare delle possibili soluzioni alle sue difficoltà.

I sintomi fisici dell’ansia possono variare dalla sudorazione delle mani e la tachicardia delle forme medie fino all’agitazione psicomotoria, alla paralisi emotiva o allo scatenarsi di un attacco di panico o di una reazione fobica.

 

Il senso evolutivo dell’ansia e gli incidenti subacquei

L’ansia ha una funzionalità ben precisa : è un allarme ad una minaccia, un allontanamento da una situazione non confortevole, ha un valore di sopravvivenza e la fuga ne è la risposta comportamentale più tipica. Alcuni studi hanno evidenziato che un livello medio di ansia garantisce una prestazione ottimale in certe situazioni perché provoca a volte un aumento della motivazione a concentrarsi sulle proprie finalità. Un eccessivo stato d’ansietà invece può condurre a quella dimensione cognitiva e percettiva ridotta, nella quale la concentrazione e l’attenzione del subacqueo si colloca verso altri timori facendogli perdere il controllo della situazione.

Come ritiene Cattel (si veda pubblicazione di Lingiardi, 2010) “la personalità è ciò che permette di predire quello che una persona farà in una data situazione“, e a questo proposito nel 1995 a Toulouse è stata svolta una ricerca per misurare l’ansia come tratto caratteriale della personalità dell’individuo, quella che diventa la sua capacità di risposta a una situazione di stress. Lo studio ha rivelato che la maggior parte degli incidenti subacquei avviene nelle persone che hanno riportato sulla Scala dell’Ansia di Cattel, i risultati più elevati.

 

Prevenzione di ansia e attacchi di panico nelle immersioni subacquee

Nell’ambiente subacqueo è molto difficile ricondurre la causa di un incidente all’ansia perché l’individuo avrà difficoltà ad ammetterlo e ad esplicitarlo. Esistono diverse tecniche di visualizzazione e di rilassamento per gestire l’ansia nelle situazioni di stress. Sarebbe quindi opportuno pensare di iniziare i corsi di immersione con queste tecniche, non solo per insegnare all’individuo come gestire l’ansia sott’acqua, in situazioni di stress, ma anche per rendere esplicito, che momenti di paura e tensione durante un’immersione, possono essere normali, accolti ed esplicitati.

Incentivando la prevenzione di ansia e attacchi di panico nel diving, il mare può restare un amico, nel quale ci si tuffa quando ci si sente pronti, quando ci si sente sereni, ed evitare che diventi un nemico solo perché noi stessi siamo non abbiamo ascoltato il nostro corpo o siamo stati superbi. Ci vogliono umiltà, e una grande consapevolezza, per dire:

“mi tuffo la prossima volta, oggi non me la sento!”, e questo potrebbe almeno evitare la metà degli incidenti in immersione.

Politica & Psicologia: essere estremisti aumenta il senso di superiorità?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Politica & Psicologia: Ciascun gruppo è convinto dell’assoluta correttezza delle proprie opinioni su alcuni temi specifici: gli estremisti conservatori (in italia diremmo ancora “di destra“) ritengono superiori le loro opinioni in temi quali tasse e leggi elettorali, mentre i liberali (in italia altrimenti detti “di sinistra”) considerano come unicamente corrette le loro idee – ad esempio sul welfare e sul ruolo della religione nell’ambito legislativo.

Gli estremisti dei due poli dello spettro politico presentano un medesimo fenomeno psicologico: entrambi i gruppi hanno la tendenza a ritenere le loro opinioni superiori rispetto a quelle degli altri, con la credenza che il loro punto di vista sia l’unico “corretto”; e tale sensazione di superiorità emerge in relazione a specifiche questioni politiche. 

Secondo una ricerca recentemente pubblicata su Psychological Science invece le persone con atteggiamenti più moderati sarebbero più obiettive.

I ricercatori hanno chiesto a più di 500 partecipanti di completare diversi questionari che affrontavano diversi punti di vista su alcune tematiche politiche controverse tra cui per esempio sanità, immigrazione, aborto, aiuti statali, tasse, etc.

Ai partecipanti è stato poi chiesto di indicare quanto fossero corrette le loro opinioni rispetto a quelle degli altri su una scala Likert che variava da “non più corretto di altri punti di vista” a “totalmente corretto — il mio punto di vista è l’unico corretto”.

Ecco quanto emerge dai risultati: sono i conservatori e i liberali più estremisti che considerano le loro idee superiori a quelle degli altri, ma non in generale.

Ciascun gruppo è convinto dell’assoluta correttezza delle prioprie opinioni su alcuni temi specifici: gli estremisti conservatori (in italia diremmo ancora “di destra“) ritengono superiori le loro opinioni in temi quali tasse e leggi elettorali, mentre i liberali (in italia altrimenti detti “di sinistra”) considerano come unicamente corrette le loro idee – ad esempio sul welfare e sul ruolo della religione nell’ambito legislativo.

Quindi  secondo lo studio la polarizzazione di opinioni sarebbe bipartisan ma estremista e oltretutto ciascuno sui “propri” temi.

LEGGI:

PSICOLOGIA SOCIALEBIAS -EURISTICHE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Le parole che non riesco a dire. Rassegna di incontri dedicati al tema dell’autismo

Le parole che non riesco a dire

Rassegna di incontri dedicati al tema dell’autismo

a cura di Sara Boggio e Associazione Culturale Mondi Possibili

Venerdì 15 NOVEMBRE 2013

h. 21.00 – Circolo dei Lettori Via Bogino 9 – Torino

INGRESSO LIBERO FINO AD ESAURIMENTO POSTI
PRENOTAZIONI: info.mondipossi[email protected]

Presentazione del libro

Una notte ho sognato che parlavi (ed. Mondadori)

Intervengono:
Gianluca Nicoletti, autore del libro, scrittore e giornalista Valerio Berruti, artista
Gian Luca Favetto, scrittore e giornalista

393 2423585 – [email protected]

SCARICA IL COMUNICATO STAMPA (PDF)
SCARICA LA BROCHURE (PDF)

Venerdì 15 novembre 2013 alle h. 21.00, presso il Circolo dei Lettori, in via Bogino 9 a Torino, avrà luogo la presentazione del libro Una notte ho sognato che parlavi (ed. Mondadori) di Gianluca Nicoletti.
Vincitore del Premio Estense 2013, il libro racconta la vita dell’autore con il figlio adolescente Tommy, autistico, svelando senza filtri tutti gli aspetti di una quotidianità complessa ma speciale, come il rapporto che li unisce.

Gianluca Nicoletti, editorialista per La Stampa e conduttore di Melog su Radio24, dialogherà con Valerio Berruti, artista italiano di fama internazionale, noto per le sue immagini essenziali, che affrontano con leggerezza ed eleganza i temi degli affetti familiari e dell’infanzia.

Modererà l’incontro Gian Luca Favetto, scrittore, giornalista, critico cinematografico e drammaturgo, conduttore radiofonico per RadioRai.

L’incontro è un preziosa occasione per affrontare un tema che coinvolge oltre 400.000 famiglie italiane, ma che deve essere portato all’attenzione di tutti. A tale scopo, scrive l’autore, “è necessario che si inizi a raccontare l’autismo usando lo strumento dello stupore”, ed è per questo che a dialogare con lui sarà un artista, ad ampliare ulteriormente la dinamica di scambio e confronto che è di vitale importanza per rompere il silenzio, uscire dall’isolamento, individuare nuovi percorsi.

L’appuntamento si configura come anteprima di Le parole che non riesco a dire, rassegna di incontri dedicati al tema dell’autismo a cura di Sara Boggio e dell’associazione culturale Mondi Possibili.
La rassegna avrà luogo ad aprile 2014 presso il Circolo dei Lettori e vedrà coinvolti familiari di ragazzi autistici che, dalla loro personale esperienza con i disturbi dello spettro autistico, hanno ricavato racconti, romanzi, fumetti o film – avvalendosi dell’espressione artistica per trasformare le difficoltà in bellezza, il disagio in risorsa e l’isolamento in condivisione.

Il percorso proposto si snoda infatti lungo il duplice ma complementare versante della patologia e della creatività, perché l’isolamento e le difficoltà del quotidiano, tradotte in racconto, possono diventare una fucina di spunti, intuizioni, idee e proposte – come dimostrano le opere degli autori coinvolti nella rassegna, che posseggono tutta la forza necessaria a spostare il limite, dimostrando che il passaggio dal silenzio alle parole ai fatti non è un’utopia, ma una possibilità concreta, oltre che un’urgente necessità.

L’appuntamento è a ingresso libero fino a esaurimento posti.

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Ufficio Stampa
Mondi Possibili
Daniela Sciangula
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ARTICOLI SU: AUTISMO – DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO

 

Ospiti della serata:

Gianluca Nicoletti (Perugia, 1954 – vive e lavora a Roma) Scrittore, giornalista, autore radiotelevisivo.

La sua collaborazione con la Rai inizia nel 1983.
Capostruttura alla Divisione Radiofonia per il settore dedicato all’innovazione, ha diretto la start up per il primo portale Internet dinamico della Rai.
Su Radio2 ha condotto 3131, Qui lo dico e qui lo nego, Vipera e, per undici anni, Golem: idoli e televisioni, pluripremiato programma dedicato all’attualità e al mondo dei media.
Nel 2005 approda a Radio24, dove è autore e conduttore di Melog 2.0, oltre ad aver ideato i programmi Corpi, Il volto e l’anima, La guardiana del faro.
Nell’ottobre 2012 viene insignito del premio Cuffie D’Oro Lelio Luttazzi nella categoria “One Man One Voice” con la seguente motivazione: “È una delle voci più conosciute tra gli intellettuali italiani. Vanta il piacevole dono dell’imprevedibilità e dell’uso sapiente della parola. Fine scrittore, critico televisivo e fustigatore di costumi, Gianluca rappresenta un’eccellenza della radio italiana”.
Ha collaborato con vari programmi televisivi, per la Rai e Mediaset: Uno più uno, Mediamente, Telesogni di notte, La parte dell’occhio, in onda su Rai 1, Raccolta differenziata su Rai 2, Niente da perdere su Rai 3, Matrix su Canale 5 e Jekyll su Italia 1.
Tra i libri pubblicati Ectoplasmi. Esistere nell’aldilà catodico: il potere medianico della televisione (Baskerville, Bologna 1994), Amen (Mondadori, Milano 1999), Le vostre miserie, il mio splendore. La discesa nella seconda vita dell’avatar bitser Scarfiotti (Mondadori, Milano 2007), Perché la tecnologia ci rende umani. La carne nelle sue riscritture sintetiche e digitali (Sironi, Milano 2009), Una notte ho sognato che parlavi (Mondadori, Milano 2013).

Valerio Berruti (Alba, CN, 1977 – Vive e lavora ad Alba) Artista

Laureato in Critica dell’Arte al DAMS di Torino.
Nel 2005 viene selezionato dall’International Studio and curatorial Program di New York come unico artista italiano.
Nel 2008 inaugura a Seoul la personale Magnificat, presso la Keumsan Gallery, oltre a partecipare alla XII Biennale dei Giovani Artisti dell’Europa e del Mediterraneo e alla collettiva Detour, presso il Centre Pompidou di Parigi.
Nel 2009 è il più giovane artista scelto da Luca Beatrice e Beatrice Buscaroli per il

Padiglione Italia della 53a Biennale di Venezia, dove presenta La figlia di Isacco, video-animazione con colonna sonora composta per l’occasione da Paolo Conte (tutti i disegni e lo spartito originale sono pubblicati da Damiani Editore nell’omonimo volume).

Nello stesso anno realizza la copertina dell’album di Lucio Dalla Angoli nel cielo con il lavoro I can fly.
Nel 2011 viene selezionato dalla Nirox Foundation per una residenza a Johannesburg e inaugura le personali Too much light not to believe in light presso il City Museum di Belgrado, Maddalena, presso il Salon Blanco di L’Havana, e Kizuna, presso il Pola Museum di Tokyo, in cui viene esposto un video con le musiche appositamente realizzate da Ryuichi Sakamoto.

Dalla collaborazione tra Berruti e Sakamoto è nato un progetto per aiutare le vittime del terremoto in Giappone a cui ora si sono aggiunti i compositori Alva Noto e David Sylvan.
Nel 2012 vince il Premio Luci d’Artista a Torino.

Gian Luca Favetto (Torino, 1957 – vive e lavora a Torino)

Scrittore, giornalista, autore radiotelevisivo, drammaturgo, critico cinematografico.

Autore di numerosi romanzi e raccolte di racconti, con Marcos y Marcos ha pubblicato Chiunque va a piedi è sospetto (1992) e Tommaso Torelli, inseguitore (1994). A undici metri dalla fine (2002), Se vedi il futuro digli di non venire (2004), Italia, provincia del Giro (2006) e La vita non fa rumore (2008) sono editi da Mondadori. Nel 2009 è uscito per Verdenero-Edizioni Ambiente il romanzo Le stanze di Mogador’ e nel 2010 il racconto Diventare pioggia (Manni).

Per il teatro ha curato la drammaturgia di Operette morali’ (Gruppo della Rocca, 1986), Canto per Torino (con la regia di Gabriele Vacis, 1995), Passaggi (Teatro dell’Angolo, 1996), Nel catalogo figurate come uomini (Gruppo della Rocca, 1997), Aspettando – Suite per Godot (Gruppo della Rocca, 1998) e Camminanti (1998). Nel 2006 ha realizzato il progetto Interferenze fra la città e gli uomini, spettacolo che intreccia il linguaggio letterario e teatrale a quello del web.

Ha pubblicato cinque raccolte di poesia: La collina delle streghe (Italscambi, 1980), Il buio e la memoria (Italscambi, 1982), L’ultima meraviglia (Genesi, 1990), Il versante accogliente dell’ombra (Marcos y Marcos, 1996), Mappamondi e corsari (Interlinea, 2009).

Scrive su La repubblica e Diario. Per RadioRai ha condotto 7 gradi longitudine Est, 3131 e Trame.

L’organizzazione:

Sara Boggio (Castellamonte, TO, 1978 – vive e lavora a Torino)
Traduttrice, curatrice e critico free-lance.
Laureata in Lettere e in Pittura, ha lavorato come writer, redattrice e traduttrice per numerose case editrici, in Italia e in Australia, dedicando i primi anni di attività alla critica letteraria e alla storia della lingua. È stata tutor di Storia dell’Arte Contemporanea presso l’Accademia di Belle Arti di Torino e ha curato, insieme al Circolo dei Lettori e alla Scuola Holden, una rassegna di incontri dedicati alla graphic novel che ha coinvolto i più prestigiosi autori del settore, da Craig Thompson a Lorenzo Mattotti. Per la galleria In Arco di Torino ha realizzato percorsi espositivi dedicati al disegno e alla pittura con i lavori di Daniele Galliano, Raymond Pettibon, Jim Shaw, Marcel Dzama, Ann Craven e Kathe Burkhart. Attualmente collabora con la start up Maieutical Labs su un progetto di e- learning multimediale per la storia dell’arte. Le sue ultime traduzioni per la critica d’arte, editi da Ponte Alle Grazie e dalla Rivista di Estetica dell’Università di Torino, rappresentano la prima versione italiana del discorso critico di Huang Zhuan, direttore del Contemporary Art Terminal di Shenzen, sull’artista cinese Wang Guangyi. I suoi contributi critici sono stati pubblicati da Italian Poetry Review, Rizzoli, Skira.

Mondi Possibili

www.mondipossibili.net

È un’associazione culturale torinese nata con l’intento di promuovere progetti artistici e culturali a sfondo sociale. La finalità delle iniziative curate da Mondi Possibili è quella di veicolare, attraverso l’arte e la cultura, contenuti di rilevanza etica, in grado di restituire forza, valore e dignità alle realtà più trascurate del tessuto sociale, nella convinzione che il linguaggio artistico, la creatività e le espressioni culturali siano strumenti fondamentali per accrescere il senso di appartenenza alla propria comunità, tutelare i diritti di chi non ha voce, favorire l’integrazione e la condivisione di valori comuni.

Mondi Possibili si avvale del supporto di diverse professionalità esperte nei vari settori della programmazione culturale, dalla comunicazione alla produzione video.

Daniela Sciangula (Borgomanero, NO, 1976 – vive e lavora a Torino), co-curatrice di Le parole che non riesco a dire, è socia fondatrice di Mondi Possibili.
Laureata in Scienze della Comunicazione e Master in Comunicazione Web, ha esperienza pluriennale nella progettazione e promozione di iniziative culturali, festival, mostre, reading e conferenze, organizzate in collaborazione con varie realtà associative del territorio piemontese e sempre focalizzate sulle tematiche sociali. Responsabile della comunicazione per il Teatro Giulia di Barolo di Torino, dalla fine del 2010 collabora con l’Associazione Il Contesto Onlus per Dentro e Fuori, il blog dei detenuti della casa circondariale di Torino. Nel 2011 ha co-organizzato la mostra Cultura+legalità=libertà – l’arte contro le mafie, che ha ottenuto la medaglia di rappresentanza del Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

 

 

Stili di attaccamento, sintomi dissociativi e credenze psicopatologiche relative all’ansia – Assisi 2013

 

Assisi 2013

Stili di attaccamento, sintomi dissociativi e credenze psicopatologiche relative all’ansia: uno studio correlazionale

C.Frau1,2, M.Giovini1, E.Muntoni2, C.Sodde2
1 Studi Cognitivi, Scuola di Psicoterapia Cognitiva, Modena, 2 Centro di Salute Mentale, ASL Sanluri

 

La sintomatologia dissociativa e’ la piu’ frequente dopo ansia e depressione. Quando un qualsiasi disturbo elencato nel DSM-IV e’ complicato da sintomi dissociativi, la risposta a qualsiasi trattamento disponibile e’ meno soddisfacente. Data l’importanza di trattare la dissociazione per un buon esito terapeutico, diventa altrettanto importante comprenderne la relazione con le altre variabili, inserirla nel quadro di personalita’ psicopatologica e definirne l’eziologia.

ARGOMENTI CORRELATI:

ANSIACREDENZEATTACCAMENTODISSOCIAZIONE

TUTTI GLI ARTICOLI SU ASSISI 2013

GUARDA IL VIDEO DEL DISCORSO DI APERTURA (S. Sassaroli e F. Mancini)

ELENCO COMPLETO DEI LAVORI

Amore e Familiarità: una questione di Attaccamento

Amore e familiarità . - Immagini: © Maksim Samasiuk - Fotolia.comL’amore, spettacolo affettivo di particolare bellezza, si manifesta in tutte le sue espressioni più sublimi verso una persona, scelta accuratamente.

Quando si prova l’ebrezza dell’amore si ha voglia di trascorrere del tempo con la persona (effetto mantenimento del contatto), ci si rivolge all’altro per condividere o risolvere un problema (effetto rifugio sicuro), si può contare sull’altro (effetto base sicura), si prova nostalgia quando si è lontani (effetto ansia da separazione) e si vorrebbe trascorrere insieme quel tempo.

Dunque, scegliere una persona con cui condividere tutte queste cose è impresa ardua, ma spesse volte la scelta avviene senza pensarci troppo su, ovvero in maniera automatica. Sì, automatica! Ci attrae qualcosa nell’altro che riconosciamo come noto, al punto da considerarlo familiare.

Scegliamo qualcuno che somigli ai nostri fratelli o a persone vicino a noi (effetto familiarità), molto simile per gusti, costumi e cultura, (effetto somiglianza). Oppure si preferisce una persona perché molto accorta ai nostri bisogni e sentimenti (effetto sensibilità). Insomma, la scelta è fatta di istinto, di pancia, e la pancia sceglie su basi non puramente oggettive.

Cosa ci muove verso l’altro a noi sconosciuto?

Quello che ci attrae è sempre un aspetto di familiarità, qualcosa che fa risuonare in noi una simpatia per la persona individuata. Questa alchimia si esplica anche nella modalità di manifestare il tipo di legame che si crea. A livello fisico ci sono delle cose che ci attraggono dell’altro, che richiamano alla memoria qualcosa che ci fa sentire a casa. Questo inganno attira l’attenzione nei confronti di un viso piuttosto che un altro, una sorta di sezione aurea.

Quindi, una volta individuato il nostro altro/familiare facciamo il primo passo, ovvero il corteggiamento: voce dolce postura equivoca, bella presenza, che presto cede il posto all’innamoramento, fase in cui si vuole condividere con l’altro tutto, anche la vicinanza fisica, la passione, l’idillio. Infine, si passa all’amore vero e proprio ovvero intimità, complicità, progettualità, e in questa fase il legame di attaccamento si è consolidato, di conseguenza si attua una interdipendenza emozionale e la base sicura. Solitamente si tende a riproporre nella coppia il tipo di attaccamento avuto con i genitori, e avendo scelto una persona affine alle proprie attitudini e facile che questa cosa possa accadere.

Insomma, se si dovesse avere un attaccamento sicuro, si ha una ottima intimità e affinità, ci si sente a proprio agio mostrandosi realmente per quelli che si è.

Al contrario se l’attaccamento fosse ambivalente si potrebbe avere un amore maniacale, nevrotico, eterno innamoramento contrapposto alla perdita di amore allo stesso tempo e bassa fiducia in se stessi. Con un attaccamento evitante i due membri della coppia evitano accuratamente il coinvolgimento affettivo, per questo il legame è definito circospetto.

Comunque, qualsiasi tipo di legame si possa manifestare nella coppia la cosa importante e vivere quell’amore e di quell’amore, perchè solo vivendolo si può capire se porta in sè il segreto magico dell’eternità.

 

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AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALISCELTA DEL PARTNER

 ATTACCAMENTO – ATTACHMENT

DALLA FAMIGLIA D’ORIGINE ALLA SCELTA DEL PARTNER

 

 

Giorgio Gaber e Sandro Luporini: la lezione psicologica

Un’idea, un concetto, un’idea 

finché resta un’idea è soltanto un’astrazione 

se potessi mangiare un’idea 

avrei fatto la mia rivoluzione. 

Un’idea, Giorgio Gaber, 1972

 

Giorgio Gaber e Sandro Luporini- La lezione psicologica. -Immagine: www.sandroluporini.it Giorgio Gaber e Sandro Luporini: L’interesse per l’uomo, nella dimensione individuale e collettiva, nell’analisi di stati d’animo e comportamenti, è stato sempre centrale nella produzione artistica del duo. Difficile non tracciare un parallelismo con la psicoterapia, altra situazione dove dal dialogo, dalla parola, dalle domande e dalle risposte può nascere qualcosa di nuovo, in grado di incuriosire sia il paziente che il terapeuta.

L’idea di scrivere questo articolo è maturata leggendo il bel libro di Sandro Luporini Vi racconto Gaber (2013). Sandro Luporini è un pittore viareggino, coautore di tutti gli spettacoli teatrali e delle canzoni più evocative di Gaber. Dopo la scomparsa del grande cantautore milanese (nel 2003) ha condotto una vita abbastanza ritirata dal punto di vista mediatico e questo libro è la testimonianza che molti attendevano di un lavoro creativo straordinario che è durato più di trent’anni.

Quando iniziò a lavorare con Luporini, Giorgio Gaber era già un cantante affermato, con una fama nazionalpopolare. L’incontro tra i due sancì un cambio di rotta nella carriera del cantautore, che da allora in poi privilegiò i teatri come luogo di scambio con il pubblico, dando vita a una nuova forma di spettacolo, costituita da canzoni e monologhi, che ha preso il nome di teatro canzone.

Il teatro permetteva di creare una dimensione artistica più intima, dove il pubblico risultava maggiormente coinvolto e in grado di recepire i messaggi e le emozioni degli spettacoli. Della vecchia produzione musicale, caratterizzata da testi spesso leggeri, restava solo un ingrediente che ha sempre contraddistinto il cantautore: l’ironia. Le tematiche affrontate diventarono invece via via più profonde e complesse, seguendo uno straordinario processo di maturazione artistica e personale, in cui Luporini ebbe sicuramente un ruolo fondamentale.

Anche prima di leggere il libro, avevo sentito parlare della loro affascinante modalità compositiva: Gaber e Luporini si trovavano ogni estate in Versilia e trascorrevano un mese intero a parlare liberamente dell’attualità dell’Italia e del mondo, dell’uomo e delle sue contraddizioni, dei libri letti e di tutto ciò che poteva stimolare la loro curiosità. Spesso venivano coinvolti nelle discussioni altri amici fidati o alcuni intellettuali di passaggio (o in pellegrinaggio). Da questi brain storming nascevano i monologhi e le canzoni per gli spettacoli, caratterizzati da una forte impronta umanistica.

L’interesse per l’uomo, nella dimensione individuale e collettiva, nell’analisi di stati d’animo e comportamenti, è stato sempre centrale nella produzione artistica del duo. Difficile non tracciare un parallelismo con la psicoterapia, altra situazione dove dal dialogo, dalla parola, dalle domande e dalle risposte può nascere qualcosa di nuovo, in grado di incuriosire sia il paziente che il terapeuta. D’altra parte come diceva l’illustre paziente Alda Merini (2008) “Rendere interessante un malato ai suoi stessi occhi è una cosa davvero importante, è il cominciamento della sua guarigione.

L’intento della coppia Gaber-Luporini andava sicuramente oltre il semplice intrattenimento, in quanto è noto che l’arte, quando è arte vera, cerca di rivelare l’essenza delle cose, di trovare un orizzonte di significato, un senso da contrapporre alla realtà caotica e incoerente in cui viviamo.

L’atteggiamento con cui i due hanno indagato l’uomo ricorda più un osservatore della psiche e del comportamento, forse un filosofo (a questo riguardo non negarono di aver preso ispirazione per alcuni testi dai filosofi esistenzialisti), che un semplice artista. “Abbiamo vissuto tutta la vita nell’assoluta certezza del dubbio, non abbiamo fatto altro che porci delle domande senza alcuna pretesa di risposta” racconta Luporini. Questo atteggiamento socratico, il rifuggire da concetti assolutistici, fino a relativizzare anche il bene e il male ricorda il lavoro di uno psicoterapeuta, che Vittorio Guidano (1988) definiva “perturbatore strategicamente orientato.

D’altra parte, in scena l’artista si analizzava, si interrogava ponendosi delle domande, promuovendo un’identificazione proiettiva collettiva. Non usava modalità persuasive, ma invitava indirettamente il pubblico ad un’autoanalisi. Negli spettacoli di Gaber era impossibile distogliere lo sguardo e si era costretti a guardare dentro di sé. L’obiettivo era uscire dalla sala con meno certezze e l’effetto destabilizzante veniva addolcito dall’uso dell’ironia, che come diceva Gaber “permette di giocare seriamente e fare cose serie giocando”, arrivando ad ironizzare anche sulla sofferenza.

Lo psicoterapeuta Amedeo Pingitore (2013) ha scritto un bel libro in cui delinea un interessante profilo psicologico di Gaber come artista, mettendolo a confronto con altri grandi perturbatori come Pier Paolo Pasolini, con cui condivideva la capacità di sfuggire dai recinti ideologici, o come il pittore Edvard Munch, per la capacità di rappresentare la precarietà dell’esistenza umana.

I numerosi spettacoli teatrali scritti dalla coppia e i dischi di canzoni registrate in studio abbondano di spunti di riflessione psicologica. Vediamo qualche esempio.

Dialogo tra un impiegato e un non so (1972), uno dei primi spettacoli, contiene la canzone Un’idea, che pone l’accento sulla distanza tra pensiero e sentimento, sulla mancanza di sintonia tra corpo e mente e sulla perdita di naturalità che ne consegue. Tanti disagi esistenziali e disturbi psicosomatici hanno alla base questo tipo di conflitto ed il lavoro terapeutico in questi casi è di integrazione delle varie parti (Semerari, 1999).

E’ nello spettacolo successivo, Far finta di essere sani (1973), che la coppia esplora maggiormente gli scenari della psiche, influenzata dalla lettura de L’io diviso (1969) dello psichiatra scozzese Ronald Leing, considerato uno dei principali rappresentanti del movimento antipsichiatrico, che affermava “che un gran numero di “guarigioni” di psicotici consiste semplicemente nel fatto che il paziente, per un motivo o per l’altro, ha deciso di ricominciare a fare finta di essere sano”.

Nello spettacolo troviamo ad esempio la canzone Un’emozione, in cui viene trattato il conflitto tra razionalità e istintività, con un appello alla “dolce prudenza”, come meccanismo di difesa e di evitamento emotivo.

Quello che perde i pezzi è invece la storia di un individuo iper-razionale che si dimentica del corpo, fino a perderne delle parti, con conseguente esilaranti. Ancora la mancanza di sintonia tra corpo e mente.

L’impotenza è un brano che si sofferma nuovamente sulla ricerca di equilibrio tra fisicità e pensiero con l’esortazione a “imparare a sentire il presente in un tempo così provvisorio” e rapido come il nostro, in sintonia con le moderne teorie di mindfullness.

L’elastico è una canzone sulla schizofrenia, dove l’immagine dell’elastico che si spezza rappresenta l’angoscia di frammentazione della crisi psicotica, con quel “Me fuori di me” a evidenziare la perdita dei confini come ci viene descritta classicamente dalla letteratura (Gabbard, 2002).

La canzone Il narciso sottolinea in modo impietoso le modalità relazionali della persona affetta da personalità narcisistica, dove l’altro viene usato in modo strumentale, come un oggetto (“perché io, con una donna, mi scopo”).

La libertà, forse uno dei brani più noti, contiene la citatissima frase “la libertà non è uno spazio libero, libertà è partecipazione”, che sottolinea come nel conflitto tra individualità e il bisogno di appartenenza vince quest’ultima. Questo tema verrà poi ripreso nella Canzone dell’appartenenza (2001) che recita “L’appartenenza non è lo sforzo di un civile stare insieme, non è il conforto di un normale voler bene, l’appartenenza è avere gli altri dentro di sé. Sarei lieto di cambiare la mia vita se potessi cominciare a dire noi”. Il concetto di appartenenza riveste una certa importanza nell’ambito della maturazione dell’individuo.

La capacità di percepire un sentimento d’appartenenza ad un gruppo sociale è infatti una delle funzioni basiche della personalità normale. Si può sentire di appartenere alla famiglia, a un gruppo di amici o di lavoro, a una squadra sportiva o altro, con un conseguente senso di completezza e vivacità interiore. L’analisi di trascritti di sedute di pazienti con Disturbo Narcisistico ed Evitante di Personalità ha suggerito che, almeno in questi disturbi, l’esperienza di non appartenenza sia pervasiva e influenzi il quadro psicopatologico (Dimaggio, Procacci, Semerari, 1999).

Lo spettacolo Polli da allevamento (1978) contiene il monologo Il suicidio, che tratta l’argomento in modo ironico concludendo saggiamente che “ c’è una fine per tutto e non è detto che sia sempre la morte”.

Nel brano Quando è moda è moda emerge come il confondersi con gli altri attraverso le mode, ci permetta di evitare l’angoscia che può derivare dal definire la nostra identità, con il rischio di non essere accettati.

Anni affollati (1981) include il brano Il dilemma, che racconta la storia di una coppia che crede al rapporto come qualcosa di autentico per cui valga la pena lottare, senza accettare compromessi, essendo addirittura pronti a morire per esso.

Io se fossi Gaber (1985) contiene invece la canzone Ipotesi per una Maria che recita “perché per credere all’amore davvero bisogna spesso andarsene lontano e ridere di noi come da un aeroplano”, descrivendo l’ambivalenza di certe donne divise tra il bisogno di starti accanto e la consapevolezza di riuscire a esistere solo come persone libere. Questo tipo di conflitto si trova tipicamente nelle organizzazioni di personalità di tipo fobico (Guidano, 1988).

Vale la pena inoltre soffermarsi sugli ultimi due dischi registrati in studio da Gaber: La mia generazione ha perso (2001) e Io non  mi sento italiano (2003). Sono due lavori bellissimi, ma intrisi di pessimismo e disillusione. Rappresentano la testimonianza di come Gaber e Luporini abbiano assistito all’appassirsi dei sogni di cambiamento degli anni settanta, siano stati testimoni appassionati di tante battaglie sociali che aspiravano alla conquista di nuova morale, ma alla fine si siano arresi alla delusione di fronte a un mondo sempre più individualista e spoglio di valori. 

Ci sono alcuni capolavori di “psicologia musicata” come I mostri che abbiamo dentro, che descrive le istanze psichiche pulsionali e istintuali (“silenziosi e insinuanti sono il gene egoista che senza complimenti domina e conquista”), che ricordano molto l’Es freudiano (Freud, 1985). L’uomo è destinato a vivere nel conflitto tra le aspirazioni di altruismo e di solidarietà e questi mostri atavici che ci spingono all’odio, alla violenza e all’egoismo.

Sì può descrive uno spaccato spietato e lucidissimo delle libertà del nostro tempo (Si può fare i giovani a sessant’anni…Si può trasgredire qualsiasi mito…), che possono paradossalmente portare  all’ossimoro della “libertà obbligatoria”, dove “Viene la paura di una vertigine totale, viene la voglia un po’ anormale di inventare una morale”. L’obeso racconta l’uomo moderno, ingordo di cibo, idee, esperienze, che viene stigmatizzato con la splendida metafora “l’obeso è l’infinito di un leopardi americano”.

Ancora in tema di ideali e disillusione Qualcuno era comunista descrive “una razza che voleva spiccare il volo per cambiare veramente la vita”, ma “senza essere capaci di volare, come dei gabbiani ipotetici”. La metafora dei “gabbiani ipotetici” è a mio avviso potentissima e contiene tutta la tensione tra un io ideale e un io reale.

Quando sarò capace di amare accenna al superamento del complesso di Edipo freudiano   (“non avrò bisogno di assassinare in segreto mio padre, né di far l’amore con mia madre in sogno”), come indice di crescita e maturazione da un “uomo bambino” a un individuo adulto.

Non insegnate ai bambini è un piccolo trattato di pedagogia, in cui il cantautore consiglia ai genitori di “coltivate voi stessi il cuore e la mente, stategli sempre vicini, date fiducia all’amore il resto è niente”, piuttosto che cercare di trasmettere ai figli norme morali, pensieri, ideali sociali.

La rabbia e l’amarezza verso questo mondo da alcuni è stato etichettato come disfattismo. Potrebbe anche essere, ma credo che gli italiani abbiano un grande debito di riconoscenza verso Gaber e Luporini, per le perturbazioni emotive e per i tanti utilissimi dubbi suscitati. O no?

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ARTE MUSICA LETTERATURA

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BIBLIOGRAFIA:

 

L’efficacia della CBT in pazienti con patologie mediche

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un altro trial clinico multicentrico che porta risultati incoraggianti  per le terapie cognitivo-comportamentali è stato pubblicato pochi giorni fa sulla rivista The Lancet, tra gli autori Paul Salkovskis.

Questa volta oggetto di indagine è l’efficacia della CBT sull’ansia connessa allo stato di salute in pazienti con problematiche somatiche in trattamento presso ambulatori di cardiologia, gastroenterologia e simili.

Tra i criteri di inclusione vi è l’età compresa tra i 16—75 anni ed  elevati livelli di ansia connessa allo stato di salute.

Nello studio 444 pazienti con diagnosi di ansia eccessiva connessa allo stato di salute (i pazienti effettivamente coinvolti nello studio sono stati reclutati a partire da uno screening su circa 28.000 pazienti delle cliniche) sono stati assegnati in modo randomizzato a due condizioni: sottoporsi a un protocollo breve di psicoterapia cognitivo-comportamentale oppure un trattamento standard ambulatoriale per patologie mediche senza alcun intervento psicologico.

Il protocollo di trattamento di CBT breve comprendeva dalle cinque alle dieci sedute di terapia cognitivo-comportamentale gestita da psicoterapeuti, mentre il gruppo di controllo ha ricevuto un trattamento standard previsto dalla clinica – che dal punto di vista psicologico prevedeva generiche rassicurazioni da parte dei medici.

Dopo un anno di trattamento dai dati emerge che, rispetto ai controlli, i pazienti sottoposti a CBT presentano un significativo miglioramento nella sintomatologia ansiosa, variabile di outcome misurata mediante lo strumento Health Anxiety Inventory a un anno dal termine del trattamento.

Simili differenze significative sono state riscontrate sia a sei mesi che a due anni dal termine del trattamento, senza rovinosi effetti nemmeno in termini di aumento di costi sanitari.

Lo dice The lancet: “It (CBT) deserves wider application in medical care” [“(La psicoterpaia cognitivo-comportamentale) merita una più ampia applicazione nell’ambito dell’assistenza medica”]. Lo studio è registrato sul sito controlled-trials.com.

LEGGI:

PSICOTERAPIA COGNITIVA ANSIAACCETTAZIONE DELLA MALATTIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Mind wandering: i pensieri inutili che ci rendono intelligenti!

Mind wandering. I pensieri inutili ci rendono intelligenti . - Immagine: ©-Konstantin-Yuganov-Fotolia.comUn’idea nuova e curiosa sviluppata da un gruppo di ricercatori della New York University guidati dal Prof. Kaufman che ha pubblicato un’appassionata review sul mind wandering e sul suo ruolo nel determinare l’intelligenza umana.

Che l’intelligenza umana non potesse ridursi alla mera valutazione psicometrica, è cosa condivisa da molti. Ma immaginare che quando la nostra mente vagabonda lontano dalla realtà stia lavorando alla soluzione di problemi molto rilevanti per la nostra vita… questo sì, è rivoluzionario!

Molte sono le ricerche condotte sul mind wandering , o daydream, dai primi lavori di Singer (1964) ad oggi, ma tuttora l’attività mentale più frequente nell’uomo (si stima circa il 50% delle ore di veglia!) sfugge a qualunque definitiva interpretazione: a cosa ci serve sognare ad occhi aperti mentre lavoriamo? O ripensare al nostro capo, mentre leggiamo un libro? O trovarci a passeggiare in montagna, mentre facciamo la spesa? Perché tutte queste energie apparentemente finalizzate a nulla?

A queste domande sembra rispondere La Teoria dell’Intelligenza Personale di Kaufman e collaboratori, secondo i quali l’intelligenza sarebbe il risultato della dinamica interazione tra impegno e abilità innate, osservata in un periodo di tempo prolungato, finalizzata al raggiungimento di obiettivi personali importanti (Kaufman, 2013).

Non si parte da un compito cognitivo con degli obiettivi prestabiliti da un educatore o da uno psicologo sperimentale, ma dall’idea di valutare una performance cognitiva considerando se l’individuo si sia ingaggiato nel compito mantenendo l’attenzione ai propri obiettivi personali. Le abilità da misurare dovrebbero essere dunque sia le risorse cognitive “volontarie” (attenzione focalizzata e sostenuta, memoria di lavoro, accuratezza, velocità,..), sia quelle “spontanee” (intuizione, emozioni, apprendimenti impliciti, utilizzo spontaneo di memoria episodica,..). E’ l’insieme di TUTTE queste capacità cognitive a determinare l’intelligenza umana! Un notevole cambio di paradigma.

In questa cornice, il vagabondare della mente – considerato altrimenti un’attività altamente fallimentare e costosa dal punto di vista delle sole performance cognitive, poiché portatrice di pochi o nessun beneficio nell’immediato (Mooneyham and Schooler, 2013) – potrebbe assumere un ruolo centrale e molto costruttivo nella soluzione di problemi che non hanno a che fare con il qui ed ora, ma che riguardano obiettivi personali e di vita a lungo termine.

Una spiegazione neuroscientifica ci viene da una recentissima pubblicazione di Kam et al. (2013). L’Executive Attention Network (EAN), rete neurale attribuita a compiti classicamente cognitivi, e il Default Mode Network (DMN), generalmente attivo durante periodi di riposo o liberi da compiti specifici, possono secondo i risultati della ricerca, trovarsi a lavorare insieme anche durante episodi di mind wandering. Le risorse attentive non sarebbero dunque affatto assenti nel daydreaming, ma piuttosto sembrerebbero attive e capaci di orientarsi all’interno, ad elaborare un “treno di pensieri” in cui ci troviamo immersi pur senza un motivo apparente. In discussione dunque il tradizionale punto di vista secondo il quel la EAN sia attivata dalla sola presenza di stimoli esterni, seguendo un processo attentivo sempre volontario e consapevole.

Non poco lavoro attende i ricercatori che vorranno raccogliere la sfida di Kaufman, mentre per noi restano alcune buone notizie. In questa ottica, infatti, comportamenti apparentemente “non intelligenti” come rileggere tre volte una riga senza comprendere cosa c’è scritto, bloccarsi a riflettere proprio mentre si sta raccontando una storia, arrivare a casa senza aver comprato le uova per le quali si era usciti apposta … potrebbero non essere così sciocchi.

Nonostante la loro dubbia utilità nel presente, potrebbero infatti essere il segnale che la nostra mente sta lavorando alla soluzione di problemi ben più importanti della cena da mettere in tavola!

 LEGGI LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA DI: DEFAULT MODE NETWORK (DMN)

EXECUTIVE ATTENTION NETWORK (EAN)

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MIND WANDERINGINTELLIGENZA – QISCOPI ESISTENZIALI – NEUROSCIENZE

NEUROSCIENZE: MIND WANDERING. PERCHE’ LA NOSTRA MENTE VAGABONDA? 

BIBLIOGRAFIA:

 

Default Mode Network (DMN) – Connettività funzionale intrinseca

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservataDefault Mode Network: si tratta di una rete neurale distribuita in diverse regioni corticali e sottocorticali, che viene generalmente attivata durante le ore di riposo e di attività “passive” (connettività funzionale intrinseca).

 

Viene invece dis-attivata quando al cervello è richiesto di svolgere compiti che richiedono un’attenzione focalizzata (vedi anche: Executive Attention Network – EAN).

 

Le abilità cognitive legate all’attivazione di quest’area riguardano: capacità di accedere ai ricordi della propria vita (memoria episodica autobiografica), di riflettere sui propri e altrui stati mentali, di riconoscere stimoli familiari e non, e di provare emozioni in relazione a situazioni sociali che riguardano noi stessi o gli altri, di valutare le reazioni proprie e degli altri in alcune situazioni emotive.

Default Mode Network

Le strutture corticali e sottocorticali che fanno parte di questa rete possono in parte variare da individuo ad individuo, ma in generale sono riconducibili ad alcune aree principali: ippocampo, giro para-ippocampale, corteccia prefrontale mediale, regioni temporali laterali e temporo-parietali, cortecce posteriori mediali (corteccia cingolata posteriore e precuneo).

Le differenze individuali nella connettività tra queste aree è stata associata a sintomi psicopatologici in pazienti con disturbi mentali, quali schizofrenia, depressione, autismo e ADHD.

 

 

LE DEFINIZIONI DI PSICOPEDIA

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NEUROSCIENZEMEMORIA – MIND WANDERING

MIND WANDERING: I PENSIERI INUTILI CI RENDONO INTELLIGENTI!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Executive Attention Network (EAN)

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservataExecutive Attention Network: si tratta di una rete neurale, distribuita in diverse aree cerebrali, in grado di attivarsi quando ci troviamo a svolgere compiti che richiedono un’attenzione volontaria e focalizzata.

 

Le capacità cognitive controllate da questa rete sono quelle riconducibili alle funzioni esecutive: linguaggio (lettura e comprensione), memoria di lavoro, abilità visuo-spaziali, organizzazione delle azioni e abilità di decision making.

 

Gli studi neuropsicologici ci permettono oggi di ricostruire, a partire da studi su pazienti con lesioni cerebrali specifiche, le strutture cerebrali che sottendono queste funzioni, definite funzioni esecutive.

Executive Attention Network

La rete neurale comprende diverse aree cerebrali corticali e sottocorticali, tra loro interconnesse:

 

Corteccia pre-frontale laterale e anteriore, corteccia prefrontale dorso laterale, corteccia prefrontale mediale e giro del cingolo, corteccia parietale inferiore e superiore; inoltre fanno parte della EAN tutte le connessioni presenti nelle aree associative, che collegano queste aree cerebrali tra loro e con alcune strutture sottocorticali (amigdala).

 

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NEUROSCIENZELINGUAGGIO E COMUNICAZIONENEUROPSICOLOGIA

MIND WANDERING: I PENSIERI INUTILI CI RENDONO INTELLIGENTI!

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Barbey,A.K.,Colon,R.,Solomon,J., Krueger,F.,Forbes,C.,andGraf- man, J.(2012). Anintegrativearchi- tecture for general intelligenc eand executive functio nrevealed by lesion mapping. Brain 135, 1154–1164.doi: 10.1093/brain/aws021

L’effetto della ruminazione sul craving nel consumo problematico di alcool – Assisi 2013

 

Assisi 2013

“L’EFFETTO DELLA RUMINAZIONE SUL CRAVING NEL CONSUMO PROBLEMATICO DI ALCOOL: UN DISEGNO SPERIMENTALE”

Querci S. 1, Gemelli A. 1, Caselli G. 1, Canfora F. 1, Lugli A. M. 1, Ruggiero G. M. 1, Sassaroli S. 1, 

Annovi C. 2, Watkins E. 3, Rebecchi D. 4

1 Scuola di Psicoterapia Cognitiva e Ricerca, Studi Cognitivi
2 Servizio Dipendenze Patologiche, Dipartimento Salute Mentale, Azienda USL Modena
3 School of Psychology, University of Exeter, Exeter, UK
4 Servizio di Psicologia Clinica, Dipartimento di Salute Mentale, Azienda USL, Modena

 

INTRODUZIONE:

Una serie di studi ha mostrato il ruolo centrale della ruminazione mentale nel mantenimento dei disturbi da abuso di alcool e nel rischio di ricaduta anche dopo un trattamento che non interveniva su questa variabile.

Lo scopo dello studio era esplorare l’impatto del craving sulla ruminazione in tre popolazioni: nei soggetti con problemi alcol-correlati, nei problem drinkers e nei social drinkers.

I partecipanti dei tre gruppi sono stati randomizzati in due compiti d’induzione di uno stile di pensiero: distrazione e ruminazione. Il craving è stato misurato prima e dopo la condizione sperimentale e successivamente alla resting phase.

I risultati hanno dimostrato che la ruminazione, rispetto alla distrazione, ha un effetto significativo nell’incrementare il craving nei pazienti con diagnosi di disturbo di dipendenza da alcol ma non nei bevitori problematici e nei bevitori scoiali. Tale effetto si manteneva anche a seguito della resting phase.

La ruminazione ha un impatto diretto sul craving in una popolazione di soggetti con dipendenza da alcol.

 

 

ARTICOLI SU: RIMUGINIO E RUMINAZIONE – CRAVING

ALCOOL

TUTTI GLI ARTICOLI SU ASSISI 2013

GUARDA IL VIDEO DEL DISCORSO DI APERTURA (S. Sassaroli e F. Mancini)

ELENCO COMPLETO DEI LAVORI

Intervento multimodale sulle problematiche in classe – Assisi 2013

 

Assisi 2013

Efficacia di un intervento multimodale sulle problematiche comportamentali nel gruppo classe

Danila Luzi, Lucia Epifani, Francesca Tesei, Simona Tripaldi, Marika Ferri 

(Studi Cognitivi e Associazione Cognitivismo Clinico di San Benedetto del Tronto)

 

 

INTRODUZIONE:

Lo studio  che abbiamo effettuato analizza gli effetti di un intervento multimodale a scuola rivolto al gruppo classe. Sono stati valutati un totale di 40 allievi suddivisi in due gruppi: uno sperimentale a cui era rivolto l’intervento ed uno di controllo.

I risultati hanno confermato le ipotesi iniziali ovvero un incremento delle abilità empatiche con conseguente atteggiamento più collaborativo e prosociale a seguito dell’intervento multimodale all’interno del gruppo sperimentale. 

Inoltre è stato rilevato un aumento del benessere percepito all’interno della classe sia da parte degli allievi che da parte degli insegnanti.

 

 

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EMPATIABAMBINI & ADOLESCENTI

TUTTE LE PRESENTAZIONI

 

 

The Big Bang Theory – Analisi psicologica di Sheldon e compagni

 

The-big-bang-theory . - Immagine 504e274b02733The big bang theory è una sitcom nata in America nel 2007, in Italia arriva nel 2008, e racconta la vita di quattro scienziati.

Quattro personalità con tratti patologici e una riabilitatrice sociale: un profilo psicologico dei personaggi di una sitcom.

Howard Wolowitz, Raj Koothrappali, Leonard Hofstadter e Sheldon Cooper operano in quattro campi diversi: ingegneria aerospaziale, astrofisica, fisica sperimentale e fisica teorica. La loro amicizia si fonda su due aspetti principali: grande intelligenza e completa inadeguatezza nelle relazioni sociali.

La loro quotidianità viene stravolta quando arriva una nuova vicina di casa, Penny, una ragazza che sogna di diventare attrice e dalla vita sociale “movimentata”.

Oltre ad essere una simpatica commedia, ha anche un interessante risvolto psicologico rappresentato dalle personalità dei quattro protagonisti maschili. Come tratto comune i ragazzi hanno la difficoltà di instaurare rapporti interpersonali soddisfacenti, caratteristica che si struttura in personalità diverse. Abbiamo l’ossessivo-compulsivo a tratti narcisista, Sheldon, che si trova spesso “incastrato” in routine, faticose per lui e soprattutto per i suoi amici: guardare la televisione mentre fa colazione sempre con lo stesso cibo alla stessa ora e seduto nello stesso punto del divano. Segue pedissequamente le regole sociali insegnate dalla madre, ad esempio offrire una bevanda calda a chi sta male. Interessante è lo smarrimento, espresso benissimo dall’attore, che colpisce Sheldon quando, per un motivo qualsiasi, non riesce a portare termine una delle sue routine. Tale smarrimento è dovuto all’incapacità di trovare un’alternativa e Sheldon si trova come in un video bloccato in pausa. Viene descritto molto bene il contrasto tra l’impareggiabile problem solving in abito scientifico e l’assenza di strategie alternative in ambito sociale: nella fisica teorica Sheldon riesce a controllare tutto, anche le variabili, ma nella vita sociale questo è impossibile e Sheldon ci prova, a volte con successo ma nella maggior parte dei casi fallendo, usando regole sociali rigide e inflessibili. Il vantaggio per lui è forse la completa mancanza di empatia e di lettura delle proprie emozioni, questo gli consente di sopravvivere ai fallimenti, senza essere oppresso dal senso colpa di aver recato un danno agli altri. Ma nello stesso tempo gli impedisce di “leggere tra le righe” a tal punto da non riuscire, in molti casi, a capire il sarcasmo e l’ironia.

Come scienziato Sheldon è un narcisista incallito: intollerante alle critiche e con un elevato senso di grandiosità. Questo aspetto, che spesso può scatenare emozioni di intolleranza, viene mitigato dall’inettitudine che rende il personaggio insicuro e indifeso.

Leonard Hofstadter presenta tratti legati al disturbo d’ansia. Risulta essere il personaggio che meglio si adatta alle situazioni: sembra fare propri gli scopi degli altri (accetta sempre tutto immediatamente, solo dopo aver accettato mostra un atteggiamento critico). Questo potrebbe far pensare ad una personalità dipendente che ha difficoltà nel capire quali siano i propri scopi. Leonard, a differenza di Sheldon, ha infatti grandi capacità di empatia e adatta il proprio comportamento a quello che pensa vogliano gli altri da lui. Vive con Sheldon e accetta tutte le sue bizzarrie e le regole stravaganti (come il contratto tra coinquilini). In linea con una personalità dipendente, si sintonizza sulle esigenze ed aspettative degli altri, provocando una soddisfazione narcisistica. Sarà forse per questo motivo che è il migliore amico di Sheldon?!

Poi c’è Raj Koothrappali, affetto da mutismo selettivo: è incapace di parlare con le donne. Fobia per le donne che impara a gestire con l’uso di alcool, che lo trasforma in un seduttore affascinante. Quadro adattabile a una personalità evitante, che supera la paura del giudizio con l’uso di sostanze entrando in uno stato di rivalsa narcisistica, come se fosse padrone di sé e della situazione, con il risultato di sembrare ancora più ridicolo e inadeguato. Fa riflettere sul fatto che l’alcool non funziona granché, e sarebbe più funzionale un’altra soluzione.

Howard Wolowitz tenta di essere seducente e provocante, tenta di usare l’aspetto fisico per attirare l’attenzione delle donne che incontra. I suoi, però, rimangono tentativi per numerose puntate fino a quando finalmente qualcosa cambia. La sua crescita è, infatti, contraddistinta dal passaggio da un rapporto simbiotico con una madre autoritaria, ad una vita di coppia con una compagna autoritaria tanto quanto, se non di più, della madre. Queste caratteristiche potrebbero nascondere una personalità istrionica.

E infine abbiamo Penny, che con molta pazienza si prende cura di Sheldon, esorta Raj nell’affrontare la sua fobia, trova una compagna per Howard e si innamora del preoccupato Leonard. La sua funzione riabilitatrice consiste nel mostrare ai quattro ragazzi il “come si fa” nelle relazioni sociali. E con il procedere delle serie, sembra che i quattro scienziati imparino qualcosa e si applichino per il cambiamento.

L’utilità di guardare The big bang theory?! Consente di osservare le difficoltà legate alle differenti personalità, che nel telefilm vengono descritte come “stranezze” che limitano la quotidianità dei personaggi, ma che li rendono anche unici e amabili.

Stimola il pensiero critico rispetto a queste “stranezze” e nello stesso tempo le esorcizza: in fin dei conti i personaggi saranno patologici ma ci piacciono e ci divertono!

Si può instaurare nello spettatore un processo di problem solving che parte dal riconoscere nella propria vita quotidiana le stranezze viste in tv, fino a stimolare la ricerca di soluzioni utili, soprattutto comportamentali.

In fondo forse ciascuno di noi può imparare qualcosa da Penny!

 

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Il contatto oculare rende più resistenti alla persuasione

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il contatto oculare prolungato può rendere gli altri più resistenti alle nostre finalità persuasive, specialmente se partono da un punto di vista differente e sono già in disaccordo con noi.

Tenere fisso il contatto oculare è considerato dal senso comune una delle modalità non verbali più efficaci per persuadere l’altro.

Ma una nuova ricerca della University of British Columbia dimostra che in realtà il contatto visivo prolungato può rendere gli altri più resistenti alle nostre finalità persuasive, specialmente se partono da un punto di vista differente e sono già in disaccordo con noi.

Sembrerebbe che il mantenere fisso lo sguardo – o più tecnicamente il contatto oculare diretto- renderebbe gli interlocutori già scettici ancora meno propensi a cambiare il loro punto di vista.

Per indagare gli effetti del contatto oculare nell’ambito della persuasione i ricercatori hanno utilizzato lo strumento dell’eye-tracking e hanno scoperto che i soggetti che fissavano più a lungo negli occhi l’interlocutore con minor probabilità venivano persuasi da quest’ultimo riguardo alcune controverse tematiche.

Anche un secondo esperimento ha confermato questo trend di risultati: i soggetti cui veniva chiesto di fissare a lungo negli occhi l’interlocutore mostravano un minore grado di cambiamento di atteggiamento rispetto a coloro ai quali veniva richiesto di fissare per pari tempo la bocca dell’altro.

Quindi il contatto oculare può avere specifici effetti pragmatici e veicolare significati differenti in funzione del contesto: se nell’ambito di relazioni amicali può essere un indizio di connessione e fiducia, in altre condizioni relazionali può essere più facilmente associato con dinamiche di dominanza. 

Future ricerche dello stesso gruppo indagheranno la correlazione tra il mantenimento del contatto oculare in contesti persuasivi e l’insorgenza di specifici pattern di attivazione cerebrale e fisiologica,  cosi come il rilascio di ormoni dello stress in relazione a tentativi di persuasione.

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Spiare gli ex su Facebook. La tendenza al Controllo e le conseguenze

 

 

Facebook spiare ex - Immagine: © Victor Katikov - Fotolia.comFacebook, con oltre 900 milioni di utenti attivi , è il più popolare social network al mondo.

Tutti hanno un profilo su faccialibro, ottima copertina pubblicitaria e vetrina di cose pubbliche e private. Ma cosa ci spinge ad utilizzare Facebook?

Tendenzialmente, serve per tenersi in contatto con amici e conoscenti, nuovi e vecchi, e per sbirciare tra le loro cose. E se tra gli “amici”  fossero presenti fidanzati attuali e pregressi? Beh, in quel caso comincia lo spionaggio! Effettivamente, chi non ha mai controllato cosa faceva un ex su faccialibro?

Forse, a tutti è capitato di farlo, anche più di una volta! E, dopo averlo fatto, ci siamo, indignati, dispiaciuti, incuriositi, arrabbiati, entrati in competizione con eventuali nuove fiamme.

 

Facebook è uno strumento ottimo per venire in possesso di notizie, visto l’accesso alle informazioni altrui in maniera anonima, ma pericoloso, perchè continuando a controllare incessante l’ennesimo post dell’ex non ci concediamo la possibilità di operare un taglio netto con il passato.

Così, ogni giorno siamo lì a controllare e ricontrollare, magari nella vaga e flebile speranza possa esserci qualcosa che rimanda approssimativamente alla nostra persona, o in relazione all’idilliaco rapporto ormai finito. Ed ecco che le speranze continuano a essere vive e l’emozione continua a crescere e il ricordo non muore. Si vive nell’attesa, ma di cosa? Di qualcosa non meglio definito ed è proprio la mancanza di definizione che spinge al controllo.

Questa forma di controllo, compulsivo, determina una forte intrusione relazionale che aumenta  l’angoscia dopo la rottura e prolunga lo struggimento per l’ex partner.

Per esempio , guardando delle foto è possibile rinvigorire il desiderio per l’ex partner, e la voglia di rivivere sensazioni e momenti trascorsi insieme. Ahimè, non sempre va così bene, quando compaiono foto con nuovi partner, le emozioni negative prendono il soppravvento e ci troviamo coinvolti in un vortice melanconico-competitivo avente come conseguenza una tendenza accresciuta verso il controllo della bacheca dell’ex.

Quindi, in qualche modo si ottiene un blocco relazionale e si rimane fissi al momento della rottura del rapporto e la nostalgia e il desiderio per la persona non sono vividi ricordi, ma diventano l’emozione corrente dominate della giornata.  Tutto questo è acuito quando si ha una scarsa possibilità di accesso alle informazioni, perchè meno cose sono note più si diventa famelici di informazioni, e si è li a pendere dalle labbra dell’ultima notifica che ci si appresta a leggere repentinamente.

Ad ogni modo, meno informazioni si riescono ad attingere online, più la curiosità aumenta, più il controllo prende il sopravvento e ci troviamo ancora una vota di fronte al nostro computer sperando di trovare, non si sa cosa, nelle pagine di amici di amici.

Ma, audite audite madame e messeri, se si mantenesse in qualche modo una sorta di amicizia facebookiana è stato dimostrato che dopo il primo impatto emotivo, determinato dall’esposizione alle emozioni che derivano dal venire a conoscenza di cose non sempre piacevoli, l’intensità del sentimento diminuisce e le informazioni pubblicate in bacheca non sono considerate più così intrusive, una sorta di esposizione graduale all’evento/persona traumatico.
Al contrario, ex partner con i quali non si è più in contatto possono rimanere avvolti in alone di mistero che porta all’auto-alimentazione del circolo vizioso del controllo.

Di fatto, guarire da una perdita è un processo lungo e doloroso fatto di recupero ed elaborazione di emozioni negative da integrare in maniera narrativa alla storia personale vissuta con questa persona.

Così, rimanendo amici di Facebook è possibile beneficiare del processo di recupero della rottura e delle emozioni negative derivanti e pian piano elaborarle per poi crescere in relazioni diverse .
In definitiva, tenere sotto controllo qualcuno tramite Facebook non porta a dei benefici, come erroneamente si pensa, pensieri fallaci derivanti da un errato problem solving, ma costituisce il problema stesso che prende il posto del problema reale, ovvero la fine della relazione.

Facebook, controindicazioni: usare a piccole dosi!

 

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BIBLIOGRAFIA:

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità – PARTE 4

Alessandra Cocchi.

 

Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità

Un intervento di Danza Movimento Terapia

PARTE 4

 

DANZAMOVIMENTO TERAPIA:

Il difficile contatto: Controtransfert somatico e Movimento Autentico

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Dal gemello “sacrificato” alla rinascita della individualità - PARTE 4. -Immagine:© adimas - Fotolia.com Il pallone mi era sembrato un materiale perfetto per sperimentare sia col calcio che col lancio a mano l’effort del peso nella verticalità, che assolve al compito di raggiungere ciò che il bambino, secondo la Kestenberg, sperimenta nella Fase Anale, e cioè una forma di base per la presentazione e rappresentazione di Sé e degli oggetti, favorendo l’intenzionalità e l’autoaffermazione.

Riprendiamo la narrazione dell’esperienza di danza movimento terapia con L. Dopo i primi incontri di osservazione e di tentativi di interazione, ho avuto difficoltà a rimanere in contatto con L.. Nell’ascoltare i racconti del bambino, nel tentare una reciprocità di relazione verbale e di movimento non mi sentivo realmente vista da lui, sebbene mi tenesse sott’occhio in continuazione. Ero irretita in un vissuto di noia, sonnolenza, mi distraevo durante i suoi racconti; non riuscivo a trovare un modo di interagire con lui quando gli stavo di fianco mentre, improvvisamente, si dedicava a qualche minuto di movimenti “esplosivi” allo specchio.

Niente sembrava fare presa su di lui, il suo presentarsi come il “bambino non reattivo” descritto dalla mamma e dalla psicologa mi aveva catturata in un generale senso di impotenza, disattivazione e demotivazione, in cui anche i miei movimenti rispecchianti erano totalmente svuotati e inefficaci. Ho potuto diventare cosciente dei fenomeni controtransferali in corso, distinguendo ed esaminando le mie  reazioni oggettive nei confronti del paziente.

I segnali controtransferali somatici mi avvertivano che ero entrata nell’area di collusione con le difese del bambino, paralizzandomi, poichè avvertivo come fra noi non ci fosse un vero confronto, non mi vedesse come persona: io ero per L. un oggetto cui aderire adesivamente con lo sguardo per dare rifugio e protezione al suo Sé grandioso/deprivato.

Heinz Kohut descrive come nella forma di transfert fusionale arcaico (“Tu ed io siamo una sola cosa, quest’unità è dotata di ogni perfezione”) si riattivi il Sé grandioso del paziente, ed era ciò che gratificava L. durante i nostri incontri. Ma tutto ciò poteva avvenire a patto che L. ed io non stessimo troppo vicini fisicamente, o che io non prendessi iniziative. Se mi avvicinavo o se gli facevo proposte interattive, il bambino mi vedeva come il genitore imprevedibile e distante, portatore di esperienze frustranti e intrusive, da cui doveva difendersi, e si deanimava.

Oppure non accettava i miei tentativi di provare a rendere efficaci i suoi movimenti “esplosivi”, per  mettere nel corpo la “forza grandiosa”; e così i suoi calci e pugni erano sferrati in aria, nella fantasia di abbattere l’immaginario nemico o avversario, da cui in realtà era abbattuto. Non mi sentivo mai sicura di stare facendo la cosa giusta per lui, e mi sentivo come una madre che non riesce a capire cosa stia succedendo al proprio bimbo, come doveva essersi sentita sua madre, dunque. Ero dunque inglobata e paralizzata in una riattualizzazione della relazione precoce fra L. e la sua mamma.

In una attività di MA svolta in quel periodo, entrai in contatto con le qualità di movimento con cui L. esprimeva da una parte la deprivazione relazionale ed emotiva, dall’altra il conseguente cristallizzarsi del ruolo di “sacrificato”. Erano le stesse qualità che L. tentava di esprimere immaginando di essere un eroe del wrestling: io dovevo portare L. a produrre gesti compiuti, con un inizio e una fine, e non lasciarlo solo a cercare un pallido e frustrante riflesso di questi gesti, perduto e irretito nel suo mondo immaginario, irreale. Al crocevia della pubertà, L. stava semplicemente cercando di emergere dal “mondo dell’ombra” in cui era stato relegato.

Considerando gli elementi di movimento su cui potevo sintonizzarmi per agire come Oggetto-Sé empatico, ho deciso di lavorare sugli elementi mancanti, in ombra, non integrati, ma fortemente desiderati da L., e impossibili da raggiungere da solo.

Ho cercato quindi materiali facilitatori per aiutare lui e me a rimanere in contatto con le qualità di movimento che stavamo cercando: i materiali avrebbero facilitato l’indirizzarsi e lo strutturarsi dell’azione corporea, favorito l’intenzionalità del movimento, creato sia un “pretesto” per esplorare nuovi movimenti, che una possibilità di raccontare se stessi col movimento.

Il pallone mi era sembrato un materiale perfetto per sperimentare sia col calcio che col lancio a mano l’effort del peso nella verticalità, che assolve al compito di raggiungere ciò che il bambino, secondo la Kestenberg, sperimenta nella Fase Anale, e cioè una forma di base per la presentazione e rappresentazione di Sé e degli oggetti, favorendo l’intenzionalità e l’ autoaffermazione.

Questi movimenti favoriscono altrettanto l’ efficacia per muoversi verso la dimensione sagittale, movimento descritto nel KMP come specifico della fase uretrale. In questa fase, il bambino sperimenta la mobilità nel camminare e nel correre nello spazio, nel fermarsi e nel ripartire e nell’ alternanza fra flusso libero e flusso tenuto, sente che il suo corpo è mobile ed elastico. La palla è un oggetto che può riportare alle caratteristiche dello sviluppo e della funzione materna di questo periodo: quella “mobilizzante”, che spinge il bambino a esplorare lo spazio, e quella “contenente” che ritorna a lui e da cui lui ritorna quando l’esplorazione è terminata.

Gli ho proposto di centrare un grande foglio che avevo attaccato al muro come bersaglio (attivazione dello spazio diretto), dove poter tirare successioni di cinque pallonate forti (attivazione del peso forte attivo), dopo di che respirare profondamente per ricaricarsi (connessione col flusso di forma).

L. si è interessato subito a questo gioco, e in esso ha sperimentato il piacere di calciare un pallone pesante e resistente, che richiede ai muscoli una forte attivazione e alla forma del corpo un grande adattamento. Sono emersi fin da subito i gesti direzionali di allungarsi verso lo spazio e poi tornare a chiudersi, allontanarsi e avvicinarsi, separarsi dall’oggetto e poi ritrovarlo, mantenendo un focus direzionale nello spazio e stabilità corporea.

Così L. si è allenato a sentire il  peso, alternando flusso libero e tenuto: gradualmente si è concentrato sul bersaglio da colpire e sul peso attivo da utilizzare nel calcio al pallone, per potere calciare da distanze sempre maggiori. Il bambino ha anche sperimentato l’allargamento e il  restringimento della propria forma corporea, ed è emersa dapprima la connessione omolaterale nella dimensione sagittale che gli permetteva di sperimentare la stabilità di una parte del corpo, mentre l’altra si muoveva in avanti, in una collaborazione degli opposti, e in una organizzazione chiara dei compiti di ciascuna parte del corpo, che dava efficacia al gesto; successivamente si è espressa in pienezza, nei calci più forti e angolati, in cui sfruttava tutto lo spazio della palestra, anche la connessione controlaterale  (Hackney 1999), grazie alla quale ho potuto vedere L. compiere movimenti tridimensionali, in grado di “scolpire” lo spazio.

Finalmente eravamo riusciti a interagire uscendo dal mondo della frustrazione e della fantasia e ad avviare una relazione portando una cosa molto semplice: un calcio a un pallone! Le fantasie di movimenti che esprimessero forza e potenza, finalmente si sono potute riversare nella realtà, e L. ha potuto avere al suo fianco un adulto che lo aiutava e lo incoraggiava in questa ricerca di autoaffermazione e di efficacia.

Ma, man mano che il gioco proseguiva nelle settimane, avvertivo sempre più chiaro in quei calci il “rumore di fondo” dell’aggressività. Attendevo dunque, fiduciosa, ma anche timorosa, i nuovi sviluppi del processo terapeutico.

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BIBLIOGRAFIA:

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Libertà di parola (2013), di Nigel Warburton – Recensione

Recensione del libro:

Libertà di parola

di Nigel Warburton

(2013)

 

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Libertà di parola . - Immagine @Forsthoff-B-927Libertà di parola: Il filosofo inglese Nigel Warburton – con il suo ultimo saggio, pubblicato da Raffaello Cortina editore – ci offre una visione critica, ed analitica dell’effettiva valenza di una libertà tanto importante, come quella di parola, nella società odierna

Disapprovo ciò che dici, ma difenderò fino alla morte il tuo diritto a dirlo”. Non è forse questa espressione, attribuita a Voltaire, che più di ogni altra sublima la radice della libertà di parola? “Certamente”, potrebbe sostenersi in prima battuta. “Forse”, verrebbe da pensare riflettendoci qualche minuto in più. “No”, azzarderebbero alcuni.

E allora, cosa vuol dire in realtà libertà di parola? E quanto influiscono gli schemi individuali, sociali o la situazione politica?

Il filosofo inglese Nigel Warburton – con il suo ultimo saggio, pubblicato da Raffaello Cortina editore – ci offre una visione critica, ed analitica dell’effettiva valenza di una libertà tanto importante, come quella di parola, nella società odierna. L’autore traccia, così, una sorta di percorso a mezzo del quale disegna, ad uso e consumo del lettore, una tela sulla quale prendono forma, pagina dopo pagina, molteplici e talora contrastanti riflessioni. Riflessioni che accompagnano in un viaggio che muove i primi passi sul selciato di casi pratici, noti alla cronaca, ed assai discussi, vertenti proprio sul delicato tema della libertà di parola, intesa come ampia gamma di comunicazione, scritta, verbale, fotografica, o cinematografica.

Ebbene, Warburton – nel richiamare, con immediatezza espositiva, peculiari vicende – ci ammonisce della difficoltà di individuare le eccezioni alla rivendicazione della libertà di parola, che consentano di leggere il principio in maniera coerente ed estranea ad indesiderabili censure. Così, egli ricorda come in quante occasioni, nel più recente trascorso, scrittori, politici, registi, abbiano dovuto bilanciare tale libertà – lungi dal poterne individuare una zona franca, scevra da limiti e confini – con l’esigenza di garantire alla società la protezione di rilevanti fattori, quali la sicurezza nazionale, o il pregiudizio al minore. Bilanciare senza censurare, si intende. Ecco che l’autore ricorda come il giornale Index on Censorship, per anni abbia relazionato di scrittori imprigionati, torturati o uccisi per aver espresso le loro idee.

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E ancora, si apre lo scenario sul memorabile verdetto emesso dal giudice Oliver Wendell Holmes Jr nella decisione “Schenck vs United States”, quando sostenne che la libertà di parola non includesse la libertà di urlare “Al fuoco!” in un teatro affollato. Il filosofo si sofferma, poi, sul caso del libro “Hit Man: A Technical Manual for Indipendent Contract Killers”, che – scritto come lavoro di finzione teso a fornire indicazioni sul come uccidere e disfarsi dei corpi – monopolizzò l’attenzione pubblica quando un certo Horn, seguendo le istruzioni contenute nell’opera, assunse un killer per uccidere l’ex moglie, il figlio e la sua infermiera, ed incassarne così l’assicurazione.

Ricordando, poi, la questione degli incriminati passaggi contenuti nel noto romanzo “I versi satanici” di Rushdie, lo studioso – nel secondo capitolo – ci introduce nel dibattito filosofico dominato dal “Saggio sulla libertà” di John Stuart Mill, a difesa della tolleranza di un vastissimo ambito di espressioni individuali, fermo il rispetto del cosiddetto “principio del danno”, ovvero della preservazione della libertà d’espressione, contenibile nei soli limiti della possibilità di arrecare pregiudizio ad altri soggetti.

E se la discussione di Mill – sostiene Warburton – “getta comunque luce sul problema della negazione dell’Olocausto” – tale caso, focalizzato sui fatti e dunque sulla circostanza che affermazioni specifiche potessero o meno essere veritiere, differisce nettamente da altre questioni. Si pensi alla prima messa in scena della commedia “Behzti” (disonore) interrotta da manifestanti sikh, che la reputarono offensiva. Di qui, lo scrittore torna sulla querelle inerente l’efficacia offensiva della parola, accendendo i riflettori sui limiti da porsi a detta libertà, nell’ipotesi in cui ne possa discendere un’offesa a terzi. Il riferimento, in particolare, è alla sensibilità religiosa. Il filosofo, in sintesi, si chiede se possa imbavagliarsi la parola a fronte del pregiudizio arrecato, o arrecabile, a questo o a quel credente.

Si percorrono – nel terzo capitolo – le vie della legge sulla blasfemia, della proposta legislativa avanzata da Tony Blair nel 2005 sulla proibizione dell’incitazione all’odio religioso, sul tragico omicidio del regista Theo van Gogh, ucciso da un uomo che appuntò sul petto della vittima una lettera che citava il Corano. L’opera si adagia, poi, sulla problematica sfida alla liberta d’espressione: la pornografia.

L’autore – richiamando il pensiero di Schauer, che la inquadra come mero ausilio sessuale, e non come vera e propria comunicazione – giunge a chiedersi se, assicurata l’assenza di lesioni a terzi, ed escluso il danno psicofisico per gli stessi attori che partecipano alla realizzazione delle scene, la si dovrebbe tollerale o meno. Pornografia messa in connessione, di seguito, con l’arte.

Interessante, sul punto, l’annotazione del processo “Lady Chatterley”, teso a stabilire se potesse consentirsi la pubblicazione del romanzo, o se, invece, dovesse propendersene per il veto alla stampa, alla luce dell’Obscene Publications Act.

Scorrendo oltre, la penna del Warburton si adagia sulle potenzialità legate all’avvento delle nuove tecnologie e del particolare sistema di interazione attraverso la chat room, o gli incontri virtuali. Ecco che lo scrittore, legandosi al pensiero di Richard Posner, elenca i pericoli, da questi individuati, e connessi all’uso di Internet (anonimato, mancanza di controllo di qualità, enorme pubblico potenziale, la comunicazione tra persone antisociali).

Non da ultimo, esamina le problematiche legate al web, ed agli ulteriori limiti alla libertà di parola imposti dalla legislazione sul copyright. Inciso nella mente del lettore, lo si deve ammettere, è il rilievo conclusivo per cui – se è vero che Internet “democraticizza la comunicazione” – allora nel futuro che ci apprestiamo a percorrere, la tolleranza della libertà di parola potrà inquadrarsi (più che come decisione di principio), quale mero “risultato della difficoltà pratica di ridurre al silenzio così tante voci espresse in così tanti modi intorno ai principali media”.

Si chiude, così, con un marcato input ad una coerente riflessione sugli odierni mutamenti, la pregiata opera di Warburton.

 

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