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Psicologia del Lutto: Accettazione & Elaborazione

Accettazione del lutto: perchè è importante e perchè la moderna società occidentale sostituisce l'elaborazione con negazione ed evitamento.

Di Serena Mancioppi

Pubblicato il 29 Mar. 2012

Aggiornato il 20 Lug. 2012 10:15

 

Accettazione del Lutto. - Immagine: © bruniewska - Fotolia.com “[…] Stephen sapeva che sarebbe rimasto solo un’altra volta. Ma persino adesso non sapeva rinunciare ai suoi vagabondaggi, non poteva impedirsi di pensare che la situazione si era deteriorata al punto che non aveva provato alcuna particolare emozione quando, di ritorno dalle sue ricerche un pomeriggio di febbraio, aveva trovato vuota la poltrona di Julie. […] Fece un giro dell’appartamento, accendendo le luci, dando un’occhiata alle stanze deserte, piccoli allestimenti scenici pronti ad essere smantellati.
Tornato alla poltrona di Julie, vi si fermò un momento con la mano appena appoggiata allo schienale come se si trattasse di considerare i rischi di un gesto coraggioso. Infine si scosse, fece due passi intorno alla poltrona e si sedette. […] passarono minuti […] minuti vuoti come tutti gli altri. E a questo punto si lasciò sprofondare, immobile per la prima volta ormai da settimane. Restò così per ore, per l’intera notte, assopendosi brevemente […] in quell’arco di tempo gli parve che qualcosa si stesse raccogliendo nel silenzio circostante, il sollevarsi lento di un onda di consapevolezza, una specie di marea strisciante che, senza esplodere o frangersi drammaticamente, lo portò, attorno alle prime ore del mattino, al primo autentico flusso di comprensione della vera natura della sua sofferenza. Tutto ciò che aveva preceduto quell’evento non era che finzione, una banale e frenetica imitazione del dolore. Albeggiava appena quando incominciò a piangere e fu questo momento nella semioscurità che avrebbe fatto coincidere con l’inizio del suo lutto.” (McEwan, 1987)

Storie di Terapie #4 - Marco delle Canne. - Immagine: © natuskadpi - Fotolia.com
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In queste poche righe l’autore racconta il momento nel quale, in seguito a una perdita irreparabile, il tempo, dopo essersi fermato, ricomincia a scorrere, le emozioni e i pensieri si scongelano; è il momento nel quale è possibile sentire quel dolore senza nome che ci provoca l’impossibilità di sostituire qualcuno e di farlo rivivere dentro di noi, il dolore che ci fa accedere a quella dimensione umana per cui l’altro è altro da noi e ci da la misura di quanto c’è di prezioso e insostituibile in ognuno.

Questa emozione incontenibile, perché ha a che fare con una mancanza assoluta, ci porta anche, emotivamente e cognitivamente, a confrontarci con l’ignoto che la morte rappresenta, con quel qualcosa di cui non abbiamo ricordi, conoscenza, esperienza, “con un emozione che non sa di cosa è emozionata” (Campione, 2001). La possibilità di elaborare un lutto, di “perdonare la morte” (Zapparoli e Adler Segre, 1997) nasce da questa impossibilità di dare un senso alla morte di un altro integrandola nella nostra vita, che ci fa accedere a una dimensione “sovraumana”, fuori dal tempo della nostra vita, al di la di ciò che possiamo comprendere e al quale possiamo dare una risposta, nella quale si può eccedere nel dolore, nell’insensatezza e nella disperazione, per permettersi di continuare, all’infinito, a desiderare e a piangere chi non c’è più (Campione, 2001).

La morte degli altri ci porta inevitabilmente a fare i conti con l’idea che un giorno, è sicuro, toccherà a noi. Scrive Cardinali:

“Mi piace dire di un regalo che mi ha fatto morendo, che sto scoprendo piano piano, per la verità. Mi ha fatto sentire più vicina la mia morte: non tanto vicina nel tempo, quanto vicina nel pensiero. Prima era come se lui potesse ancora proteggermi da essa e io mi ci potessi nascondere dietro; ora mi sento in prima linea […] sto scoprendo che la mia vita è più presente: credo proprio che ciò sta avvenendo perché è più presente la mia morte”.

Questa consapevolezza profonda, che tutto prima o poi avrà termine anche per noi, provoca diverse reazioni, dalle più negative, ad esempio le difese patologiche, alle più positive, che contengono, come nelle parole di Cardinali un potenziale di crescita. Il potenziale di crescita sta nella possibilità di “personalizzare” la morte e i limiti della vita: la considerazione del limite temporale ci da la misura del valore del nostro tempo e ci spinge a stabilire priorità e scopi nei diversi campi dell’esistenza; al contrario il rifiuto di questo limite spinge ad adottare modalità di negazione ed evitamento che possono sfociare in comportamenti disadattivi, patologici e regressivi (Zapparoli e Adler Segre, 1997).

Bambini nel tempo: Comunicare la Malattia e l' Accudimento Invertito. - Immagine: © 1998-2012 Hoepli Editore. Immagine Riprodotta su gentile concessione dell'Editore.
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Elisabeth Kubler-Ross (1976) si interroga sul senso che questa modalità di negazione e di evitamento della morte ha nella nostra società occidentale: lo spostamento del fuoco dall’individuo alla massa, tipico della società occidentale, genera contemporaneamente la sensazione di non potere dominare in prima persona gli eventi, e spinge a modalità difensive, che se non possono affidarsi a un contatto faccia a faccia, si spostano su un piano più psicologico. Nel tentativo di allontanare, esorcizzare la realtà della morte come momento che accompagna la vita, la rappresentiamo, la trasformiamo in “come se”, bombardati continuamente dalla televisione e dai quotidiani di morti violente, ci abituiamo a pensare alla morte come a qualcosa che riguarda gli altri e ci disabituiamo a pensare alla nostra, tendiamo a credere nella nostra immortalità.

Gli effetti paradossali di questa desensibilizzazione da sovrastimolazione si notano nella difficoltà e nell’imbarazzo, mostrato dalla maggior parte delle persone, quando si trovano ad avere a che fare con il dolore e la drammaticità che la morte porta con sé quando ci coglie nella nostra vita privata: permettiamo ai bambini di passare ore a vedere cartoni animati violenti e ci chiediamo se sia il caso di portarli a salutare il nonno in fin di vita, ci commuoviamo di fronte alla morte rappresentata in un film ma ci imbarazziamo, vergogniamo e spaventiamo di fronte alla manifestazione del dolore di qualcuno che ha perso una persona cara.

Se la morte degli altri è qualche cosa che inevitabilmente rimane fuori di noi e ci attraversa solo come un dolore senza fine per una perdita irreparabile, forse un modo per restituirle un potenziale creativo ed evolutivo che ci aiuti a crescere e a dare senso a ciò che viviamo è proprio quello di riuscire a confrontarci con l’idea della nostra fine: “Credo che dovremmo prendere l’abitudine di pensare ogni tanto alla morte e al morire, prima di incontrarla nella nostra vita personale. […] può essere una benedizione usare il tempo della malattia di una persona cara o di un amico per pensare alla morte o al morire in termini riguardanti noi stessi” (Kubler-Ross, 1976).

 

 

BIBLIOGRAFIA:  

  • Campione F. I (2001) ll lutto tra disperazione e crescita. In-formazione psicologia, psicoterapia, psichiatria. Anno 12, 43: 8-14.
  • Cardinali F. Il vivere e il morire. Incontri e domande nell’esperienza di uno psicoterapeuta.
  • Kubler-Ross E. (1976) La morte e il morire. Cittadella Editrice, Assisi.
  • McEwan (1987) Bambini nel tempo. Einaudi, Torino, 1988
  • Zapparoli G.C. & Adler Segre E. (1997) Vivere e morire. Un modello di intervento con i malati terminali. Campi del Sapere, Feltrinelli, Milano.
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Serena Mancioppi
Serena Mancioppi

Psicologa Psicoterapeuta Sistemico Relazionale e Cognitivo-Evoluzionista

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