Insonnia cronica: alcuni aspetti cognitivi e comportamentali
L’insonnia cronica è un disturbo molto comune (circa il 30% della popolazione ne soffre), è più frequente nelle donne e negli anziani (Burton, 2006) e può presentarsi sia come conseguenza o aspetto di un altro disturbo medico o psichiatrico (insonnia secondaria) oppure come forma indipendente e autonoma nella sua eziologia e nel suo sviluppo (insonnia primaria).
di Andrea Ballesio
Le classificazioni internazionali dei disturbi del sonno definiscono tale disturbo come una reiterata difficoltà ad iniziare o a mantenere il sonno associata ad un mal funzionamento diurno (cattivo umore, irritabilità, difficoltà cognitive, eccessiva sonnolenza nelle ore diurne) (Devoto & Violani, 2010).
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L’International Classification of Sleep Disorders (ASDA, 2005) distingue cinque forme di insonnia primaria: disturbo di insonnia da adattamento, insonnia soggettiva, insonnia da inadeguata igiene del sonno, insonnia idiopatica, insonnia psicofisiologica.
L’insonnia psicofisiologica è la più comune forma di insonnia primaria ed è quella in cui entrano maggiormente in gioco fattori di mantenimento cognitivi e comportamentali. Secondo Hauri e Fisher (1986) tale forma di insonnia cronica si svilupperebbe a causa di due elementi principali: le preoccupazioni del soggetto riguardo all’insonnia ed alcuni processi di condizionamento. Per quanto riguarda il primo aspetto occorre sottolineare come nel paziente insonne si sviluppi una sorta di problema secondario legato al fatto stesso di avere difficoltà nell’addormentamento.
Dall’insonnia acuta a insonnia cronica
Dopo una occasionale notte insonne dovuta a motivi di stress, eventi ansiogeni o traumatici, lutti o problemi di salute, il soggetto, in prossimità dell’ora in cui abitualmente va a dormire, svilupperebbe dei pensieri intrusivi disfunzionali riguardo all’insonnia (“e se nemmeno stasera riuscissi a dormire?”, “non ci vorrebbe proprio un’altra nottata in bianco!”, “devo assolutamente riuscire a dormire”, “domani ho una giornata impegnativa, non posso permettermi di non dormire”), che hanno due conseguenze negative per il sonno: da una parte tali pensieri determinano un bias attentivo tale per cui l’attenzione si focalizza sul riuscire o meno a dormire e il soggetto si “sforza” a dormire con il risultato paradossale di rimanere sveglio in quanto il sonno è per definizione spontaneo e non a comando, dall’altra parte la preoccupazione per la possibilità di non dormire e il ricordo delle notti precedenti passate insonni determinano un eccessivo arousal emotivo, cognitivo e fisiologico che impedisce il rilassamento fisico e psichico necessario per dormire.
Dal punto di vista comportamentale invece, si sottolinea come gli stimoli interni (i pensieri, gli stati mentali) ma anche ambientali (la camera da letto, le abitudini, i rituali che precedono il sonno) si associno in breve tempo al non dormire (Devoto & Violani, 2010).
In altre parole, mentre i normodormienti associano le abitudini pre-sonno e le caratteristiche della propria stanza da letto ad uno stato di rilassamento che li predispone e li induce al sonno, le persone che soffrono di insonnia cronica associano la stanza da letto con lo stare svegli.
In conclusione si può affermare che sono le implicazioni cognitive e comportamentali a fungere da fattori di mantenimento e a far divenire insonnia cronica un’insonnia acuta e situazionale.
Psicologia sociale – Alla (non) ricerca della Felicità
Ad oggi, le emozioni sono uno dei più studiati costrutti psicologici: sono stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicofisiologiche, che si verificano in risposta a stimoli interni o esterni, naturali o appresi. In termini evolutivi, o darwiniani, la loro principale funzione consiste nel rendere più efficace la reazione dell’individuo a situazioni in cui si rende necessaria una risposta immediata ai fini della sopravvivenza: nell’immaginario comune è ricorrente una concezione dell’emozione come reazione automatica e non mediata dalla cognizione, come anche spesso viene raffigurata nell’arte.
Tuttavia, la letteratura scientifica ha ampiamente confermato come questo processo psicologico sia ampiamente regolato da fattori cognitivi, ovvero ad esempio da come valutiamo cognitivamente un determinato evento, o da quali sono le nostre aspettative verso esso.
Uno degli aspetti più controversi è il ruolo della nostra societàsu ciò che proviamo e su come lo esprimiamo. Studi recenti nell’ambito della psicologia sociale hanno evidenziato l’importanza delle opinioni altrui nella produzione delle nostre emozioni: ad esempio, Evers e colleghi (2005) hanno trovato che le donne sono meno inclini degli uomini ad esprimere la rabbia perché più portate a pensare alle conseguenze sociali negative che ne seguirebbero.
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Un recente articolo di Bastian e colleghi del 2012, ha indagato come la desiderabilità sociale di certe emozioni rispetto ad altre influenzi l’esperienza emotiva della persona e più in generale il suo benessere psicologico.
Dai risultati emerge che più forte è la percezione dell’aspettativa sociale di non provare emozioni negative, più frequenti e intense sono le emozioni negative provate. In altre parole, gli Autori sostengono che il fatto che una persona senta di non dover provare certi sentimenti, promuove lo stato di disagio emotivo e di auto-svalutazione quando li prova.
Nel momento in cui le persone non riescono a soddisfare queste aspettative, tendono a sentirsi “fallite”. Tale riflessione negativa su sé stessi aggrava ulteriormente queste emozioni (Moberly & Watkins, 2008; Nolen-Hoeksema, 2000). Questo studio è importante nel clima sociale odierno, dove apparire felici e funzionanti sembra essere una necessità. Rispetto a questo gli autori rilevano una differenza tra la cultura individualistica tipica dei Paesi d’Occidente e quella collettivistica dei Paesi d’Oriente: in questi paesi l’accettazione da parte del gruppo e l’equilibrio emotivo sono valutate come più importanti rispetto al perseguimento della felicità individuale. Le persone dell’Est Asiatico si dimostrano infatti piuttosto esitanti nell’esplicitare e riflettere sulle emozioni positive e riportano punteggi inferiori ai questionari sul benessere psicologico e sulla felicità, rispetto agli Occidentali (Diener, Suh, Smith & Shao, 1995).
Al contrario, le emozioni negative come tristezza e ansia sono meno stigmatizzate e medicalizzate, con la conseguenza che ci sono meno aspettative sociali verso le emozioni negative (Bastian et al., 2012).
Per quanto riguardo la cultura occidentale, le aspettative sociali stabiliscono degli “standard” di riferimento su come dovremmo sentirci, ovvero degli obiettivi emozionali che sono allo stesso tempo utopici e necessari, difficili da raggiungere e difficili da abbandonare (Watkins, 2008).
In conclusione, nessuno è immune dalle aspettative sociali in quanto siamo cittadini che vivono all’interno di una comunità. Norme sociali e culturali non scritte regolano buona parte delle nostre interazioni con gli altri. Questo articolo propone un buon punto di riflessione per domandarci quanto i modelli culturali e le norme sociali interiorizzate modellino le emozioni che dovremmo provare e quelle che dovremmo esprimere. Non esistono emozioni di tipo A o B, emozioni buone o cattive, ma tutte hanno la stessa importanza per la sopravvivenza reale e sociale dell’essere umano pur essendoci, come abbiamo visto, differenze culturali nel valore e nel ruolo sociale ad esse attribuito.
Un po’ come provocazione ed un po’ come sfida verso noi stessi, proviamo invece a riflettere sui benefici che hanno portato (o che potrebbero portare) nella nostra vita le emozioni negative: pensiamo al loro potenziale creativo (Wilson, 2008), alla loro importanza nelle relazioni interpersonali (McNuilty, 2010) e al ruolo fondamentale che svolgono nella realizzazione di una vita ricca ed appagante (Hayes, Strosahl, & Wilson, 1999).
Autismo & Asperger: SAP avvia il reclutamento di persone autistiche per il collaudo di software
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La tedesca Sap punta ad assumere centinaia di persone affette da autismo nei prossimi sette anni, da impiegare come collaudatori e programmatori di software. L’obiettivo di Sap è trovare persone “che pensano in modo diverso”, per favorire l’innovazione. L’azienda punta a raggiungere una percentuale dell’1% del personale affetto di autismo, su un totale di 64mila dipendenti.
La casa tedesca annuncia il reclutamento di centinaia di persone affette da autismo da inserire in azienda come collaudatori di piattaforme. Hanno grandi… (…)
Riflessioni dal corso “Profili diagnostici e bias clinici in Asperger/Autismo livello 1, ADHD, DSA e APC (Alto Potenziale Cognitivo)” - 6-7 e 8 marzo 2025
L’esperto mondiale di autismo Tony Attwood risponde alle nostre domande su come funzionano le persone nello spettro autistico e sulle sfide che affrontano in contesti lavorativi
Ieri è stato presentato “Il Mondo di Leo”, progetto multimediale inclusivo che racconta le avventure di un bambino con disturbo dello spettro autistico
'L’autismo a scuola' propone, dopo una sezione introduttiva, quattro parti che analizzano in modo concreto ed esemplificativo le linee strategiche di lavoro
La terapia assistita con gli animali (AAT) può essere particolarmente adatta alle persone con autismo permettendo una forma di interazione meno stressante
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Calo del testosterone: provoca sintomi del morbo di Parkinson?
I risultati di un nuovo studio condotto dai ricercatori del Rush University Medical Center mostrano che un improvviso calo di testosterone, l’ormone sessuale maschile, può causare sintomi quali il Parkinson nei topi maschi.
Il morbo di parkinson è una malattia neurodegenerativa ad evoluzione lenta e progressiva, che coinvolge principalmente alcune funzioni del controllo del movimento e dell’equilibrio. La malattia è presente in tutto il mondo ed in tutti i gruppi etnici. Si riscontra in entrambi i sessi con una lieve prevalenza in quella maschile.
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Le strutture coinvolte nella malattia di Parkinson si trovano in aeree profonde del cervello note come i gangli della base (nucleo caudato, putamen, e pallido) che partecipano alla corretta esecuzione dei movimenti. La malattia si manifesta quando la produzione di dopamina cala progressivamente nel cervello, a causa della degenerazione dei neuroni.
I risultati di un nuovo studio condotto dai ricercatori del Rush University Medical Center mostrano che un improvviso calo di testosterone, l’ormone sessuale maschile, può causare sintomi quali il Parkinson nei topi maschi. I risultati sono stati recentemente pubblicati dal Journal of Biological Chemistry.
Uno dei principali ostacoli per scoprire dei farmaci efficaci contro il morbo di Parkinson è la indisponibilità di un modello animale affidabile per questa malattia. Sebbene la malattia di Parkinson (PD) è una malattia neurodegenerativa progressiva, i modelli animali disponibili non mostrano neurodegenerazione irreversibile, e questo è un grosso ostacolo nel trovare un farmaco efficace contro questa malattia.
Mentre gli scienziati utilizzano differenti tossine e un certo numero di approcci genetici complessi per la malattia di modello di Parkinson nei topi, i ricercatori hanno trovato che l’improvviso calo dei livelli di testosterone dopo la castrazione è sufficiente a causare persistente Parkinson come patologia e incremento dei sintomi nei topi maschi, ha spiegato il Dr. Kalipada Pahan autore principale dello studio. Si è riscontrato che la supplementazione di testosterone nella forma di 5-alfa-diidrotestosterone (DHT) inverte la patologia di Parkinson nei topi maschi.
Negli uomini, i livelli di testosterone sono strettamente accoppiati a molti processi di malattia hanno affermato i ricercatori. In genere, nei maschi sani, il livello di testosterone è al massimo fino ai trenta anni, poi diminuiscono circa l’uno per cento ogni anno. Tuttavia, i livelli di testosterone possono diminuire drasticamente a causa di stress o di svolta improvvisa di altri eventi di vita. Pertanto, la conservazione di testosterone nei maschi può essere un passo importante per diventare resistenti alla malattia di Parkinson.
Ulteriori ricerche devono essere condotte con lo scopo di comprendere il funzionamento di questa malattia, agire dunque sui livelli di questo ormone nell’organismo potrebbe rilevarsi un metodo di prevenzione e di cura.
“Io so aspettare, so pensare, so digiunare” diceva il Siddartha di Herman Hesse. Attendere è un’attività umana complessa e tutt’altro che passiva, quasi una forma d’arte, soprattutto se si tratta dell’attesa di una nuova vita.
L’idea che un uomo, seppure esperto della materia, possa raccontare il percorso emotivo di una gravidanza, è come per una donna raccontare il servizio di leva (quando era obbligatorio e l’esercito era solo maschile). L’autore è consapevole della difficoltà e al contempo della sfida empatica che ha deciso di affrontare.
Come maschio mi sono trovato a sforzarmi in una doppia immedesimazione, in un collega che si immedesima in una donna in attesa. Non è stato facile.
Il libro emana confidenza fin dal formato, un libricino piccolo piccolo, come un diario, con l’elastico a chiusura come le moleskine.
Fa parte infatti della collana Passaggi di Erickson, che comprende libri di Narrativa Psicologicamente Orientata, libri per capirsi e libri che ti capiscono, non solo da leggere, ma da utilizzare in modo interattivo.
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Alla fine del volumetto, c’è infatti uno spazio per scrivere le riflessioni stimolate dal racconto, come utile esercizio di auto narrazione. Per rendere più rilassante ed evocativa la lettura, o forse per iniziare ad abituarsi ai libri per bambini, ci sono anche le illustrazioni.
Il libro descrive il percorso emotivo della gravidanza di una coppia modello (Mulino Bianco?), che vive i nove mesi in modo fiabesco e idilliaco. D’accordo, qualche sfumata preoccupazione emerge dal racconto: c’è la paura della donna di faticare ad accettare le metamorfosi fisiche (titolo del capitolo: Il mio corpo che cambia, come la canzone dei Litfiba), il lieve timore di essere un bravo genitore, un fuggevole pensiero al fatto che il bimbo possa non essere sano. Per fortuna a un certo punto compare un incubo della mamma, che crea un po’ di azione.
La retorica abbonda in frasi tipo: lasciavo che il mio corpo diventasse oceano in cui tu facevi rollare la nave del tuo desiderio (sì dice proprio rollare), io sarò per te la mamma più bella del mondo (dlin-dlin-dlin…suono di carillon), etc.
Le reazioni paterne sono forse più realistiche: c’è il bisogno di immaginare il bambino studiando scrupolosamente le immagini delle ecografie, c’è la preparazione della cameretta che rende più concreta l’attesa, c’è la preoccupazione quando la compagna resta da sola.
Come dice anche la sessuologa Alessandra Graziottin nella prefazione “purtroppo la gravidanza non è sempre così tenera, voluta o assaporata, né così condivisa dalla coppia”.
Forse la mia deformazione professionale fatica a pensare a un percorso così lineare come quello descritto nel libro, ma in realtà c’è da augurarsi che la maggior parte delle gravidanze si avvicinino il più possibile a quella descritta dall’autore.
Da notare a pagina 73 un piccolo refuso di stampa. Lei dice “Mi avvicino allo sportello e consegno l’avviso di giacenza, come fossi in uno stato di trans” (immagino intendesse trance). L’identificazione nel sesso opposto può generare simpatici lapsus…
La voce del Partner? Diventa rumore di fondo. – Psicologia
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Una ricerca della Queen’s University di Kingston (Ontario) ha analizzato la percezione della voce del partner in comparazione con una seconda voce di controllo nei soggetti campione dell’esperimento. I risultati sono interessanti e sembrano indicare la tendenza a ignorare in maniera selettiva la voce del partner. Lo stesso esperimento mostra al tempo stesso la maggiore capacità di recepire e ritenere informazioni dal proprio partner rispetto a una voce “estranea” di controllo.
davanti alla voce del partner su cui invece si è concentrati attentamente, si reagisce meglio e si apprende più velocemente rispetto alla voce di uno sconosciuto. La lista della spesa dettata da una voce metallica dunque, verrà ricordata meno di quella memorizzata davanti a una moglie. Ma attenzione, perché se le due voci si mischiano, tenderemo sempre a zittire l’orecchio proteso verso la compagna o il compagno di una vita…
'Come diventare indistraibili' prende in considerazione gli attuali problemi di distrazione nonché le possibili soluzioni per gli adulti e per i più piccoli
Per la teoria di Nideffer (1976) le persone hanno uno stile di concentrazione preferenziale e se necessario passano più o meno agevolmente da uno all'altro
I serious games hanno effetti benefici nei soggetti con demenza su molti aspetti del funzionamento cognitivo, come memoria, attenzione e funzioni esecutive.
Il sistema 1 di elaborazione salta alle conclusioni, risparmiando tempo e fatica, il 2 dubita e considera le informazioni in modo sistematico e analitico.
Una tecnica usata per intervenire sul rimuginio è l’Attention Training Tecnique, la cui efficacia è stata testata in un campione di studenti universitari
L’uso di Internet può avere effetti acuti e sostenuti a livello cerebrale e sulle nostre capacità cognitive di attenzione, memoria e interazione sociale.
Un recente studio mostra come la curiosità è un fenomeno eterogeneo e che le persone curiose si distinguono nel modo in cui richiedono le informazioni.
Secondo Giuseppe Riva, tra i massimi esperti italiani in materia di fake news, queste notizie agiscono in particolare sulle emozioni e sull'attenzione.
Le neuroscienze ambientali uniscono psicologia ambientale, sociale, cognitiva, neurobiologia e neuroscienze nel tentativo di spiegare il comportamento umano
La ruminazione nello sport porta gli atleti a focalizzarsi sugli errori commessi durante la prestazione. La mindfulness può rivelarsi una grande alleata..
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino (2013) – Locandina
Ciò che non convince de “La grande bellezza” è la ridondanza del contenuto, che si dipana in assenza di un’autentica trama e piuttosto affidandosi a una sequela talora estenuante di frammenti dal medesimo significato, riempiti da individui che replicano se stessi nel compimento di azioni patetiche, bizzarre, amorali.
“La grande bellezza” di Sorrentino ha diviso pubblico e critica, ricevendo consensi e critiche. Il regista si misura con un soggetto estremamente complesso cercando di raccontare il vuoto di valori dell’Italia contemporanea, e in particolare di un ambiente alto borghese romano frequentato da personaggi in cerca di affermazione ma costantemente incapaci di sottrarsi al fuoco fatuo della mondanità.
Il film inizia con la lunga scena di una festa in cui donne e uomini si abbandonano ad un divertimento senz’anima, stravagante nelle intenzioni e penosamente banale nell’artificiosità dei comportamenti, e si tratta di una sequenza che colpisce lo spettatore facendogli sentire sulla pelle la corrosività del degrado culturale.
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Dopodiché il film perde di intensità e originalità, risultando sovente un’accozzaglia di ritratti scarsamente legati tra loro il cui unico scopo appare quello di ribadire una volta di più la prospettiva che muove l’opera.
Il personaggio principale, interpretato da Toni Servillo, è un giornalista con aspirazioni di scrittore naufragate in un unico tentativo letterario di molti anni prima; a Roma diventa il protagonista della mondanità, perdendosi in un labirinto di umanità incompiute che anestetizzano la propria desolazione attraverso uno stile di vita senza pensiero e senza scopo.
Molti gli chiedono perché non ha più pubblicato romanzi e nel corso del film la risposta prende corpo: il tentativo di trovare la grande bellezza della vita, il significato più elevato dell’esperienza, è fallito nel vortice immobile di una società che divora ogni senso profondo temendo che da esso possa derivare un doloroso confronto con la vacuità dell’immagine.
Ciò che non convince de “La grande bellezza” è la ridondanza del contenuto, che si dipana in assenza di un’autentica trama e piuttosto affidandosi a una sequela talora estenuante di frammenti dal medesimo significato, riempiti da individui che replicano se stessi nel compimento di azioni patetiche, bizzarre, amorali.
Anche non considerando alcuni tonfi evidenti del racconto – le comparsate di Fanny Ardant e di Venditti sono ingiustificabili, l’incontro di Toni Servillo con una bambina che dovrebbe mettere a nudo gli impacci della sua superbia si risolve in uno scambio di battute senza un prima e un dopo narrativi – il film procede per didascalie, messaggi preconfezionati, la visita al mago truffatore, il prelato nel ristorante dei poteri corrotti, l’arresto del mafioso insospettabile accasato nell’alta finanza.
Alcune figure – la vecchia religiosa che compare nella parte finale, il cardinale che in modo ridicolo si sottrae alle domande sullo spirito – sono funzioni più che personaggi reali, investite del compito di simboleggiare un concetto.
Il protagonista racconta la vana aspirazione di Flaubert di scrivere un romanzo sul nulla, e questo rappresenta la trappola in cui cade anche Sorrentino; la descrizione del vuoto esistenziale viene ricercata attraverso l’utilizzo di immagini che vorrebbero essere visionarie ma rimangono a metà del guado, il film proclama “ora vi parlo del nulla” e il cinema d’autore mal si concilia con le dichiarazioni d’intenti, specie quando condite da slogan nient’affatto sottili.
L’obiettivo di far rivivere la magia felliniana di una Roma contesa fra l’eterno della bellezza e l’effimero grottesco degli uomini produce così una tangibile nostalgia del modello originale.
A rivelarlo è uno studio diretto da un gruppo di ricercatori degli Stati Uniti (UCLA’s Cousins Center for Psychoneuroimmunology) e dell’Università del North Carolina al termine di una serie di ricerche compiute nell’arco di circa dieci anni.
Steven Cole e colleghi, tra cui Barbara L. Fredrickson (University of North Carolina) hanno studiato per lungo tempo le conseguenze sui nostri geni di sentimenti come la tristezza, lapaura, lo stress.
In questo studio, invece, il tema approfondito si rifà agli effetti di fattori psicologici positivi sull’espressione genica umana, ovvero stati di benessere e di felicità.
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I ricercatori hanno cercato di valutare le implicazioni biologiche di forme di benessere eudemonico ed edonico. Il primo riguarda una forma di felicità che proviene dal possedere un profondo senso di determinazione, assumendo la felicità come fine naturale della vita; il secondo, invece, propone come fine dell’azione umana il conseguimento di un benessere immediato.
Vennero analizzati i campioni di sangue di un gruppo sperimentale di 80 soggetti adulti, con lo scopo di mappare gli effetti delle diverse forme di felicità attraverso la valutazione dei profili di espressione genica.
I risultati mostrano che una forma di benessere eudemonico comporta dei profili favorevoli di espressione genica nelle cellule immunitarie dei soggetti, che si traducono in una forte espressione di geni antivirali e anticorpi. Una forma di felicità edonica, invece, comporta un profilo caratterizzato da una forte espressione genica infiammatoria e bassa espressione antivirale. Già studi precedenti avevano evidenziato il fenomeno per cui le cellule immunitarie circolanti mostrano una variazione nei profili di espressione genica in seguito a periodi di stress.
Questo effetto, definito CTRA (conserved transcriptional response to adversity) è caratterizzato da un aumento dell’espressione di geni coinvolti nell’infiammazione e una diminuita espressione di geni coinvolti nelle risposte antivirali.
Questo studio mette in luce che sentirsi bene ed essere felici influenza in modo diverso il genoma umano. Le due forme di benessere studiate, però, avevano gli stessi effetti positivi sugli stati emotivi dei soggetti.
Le persone con alti livelli di benessere edonistico, infatti, non si sentivano peggio di quelli dell’altro gruppo. Le implicazioni biologiche sul genoma, però, risultarono differenti.
Sembra, quindi, che il genoma umano sia molto sensibile alle diverse modalità con cui le persone, inconsapevolmente, cercano di raggiungere la felicità.
Fredrickson, B. L., Grewen, K. M., Coffey, K. A., Algoe, S.B., Firestine, A. M., Arevalo, J. M. G., Ma, J., & Cole, S. W. (2013). A functional genomic perspective on human well-being. Biological Sciences Psychological and Cognitive Sciences. PNAS, DOI
Insonnia: Chi Non dorme non piglia pesci
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Il team di Matthew Walher della University of California, San Diego ha studiato come mai gli insonni hanno molte difficoltà sul lavoro dopo una notte in bianco ed in particolare quali difficoltà abbiano.
Secondo lo studio alcune aree del cervello rimangono attivate dalla notte alla mattina, aree cerebrali che non sono utili o necessarie per i compiti che ci vengono richiesti durante il giorno: è come se il nostro cervello continuasse a lavorare senza ottimizzare le sue risorse. Queste sono le conseguenze dell’insonna.
Il nostro cervello continua a sognare ma ad occhi aperti durante la giornata, come se volesse recuperare ciò che non ha fatto di notte e continua a tenere impegnata anche la memoria di lavoro, quindi sarà molto più difficile avere prestazioni buone sul lavoro.
Chi non dorme ha difficoltà a concentrarsi e a portare a termine compiti che per una persona senza carenza di sonno risultano semplici. Ma finora non era chiaro esattamente cosa succede di giorno al cervello di un insonne
Nel corso della giornata il cervello \’crolla\’, perché non riesce a disattivare le aree neurali cosiddette dei sogni a occhi aperti. Diventa difficile concentrarsi e lavorare. Lo rivela una ricerca della University of California, pubblicata sulla rivista Sleep (…)
Quante fasi (o stadi) del sonno esistono? Quali sono le aree cerebrali coinvolte e quali i disturbi più comuni? Esiste un legame tra sonno e attaccamento?
Uno studio ha indagato il legame tra perfezionismo ed insonnia considerando il ruolo delle cognizioni disfunzionali legate al sonno e dei sintomi ansiosi
La CBT per l'insonnia comprende tecniche cognitivo-comportamentali per modificare credenze errate sul sonno e comportamenti disfunzionali che la mantengono
Il cronotipo serale sembra essere maggiormente associato a problemi di salute come abuso di sostanze, abitudini alimentari malsane e ridotta attività fisica
Rimuginio e ruminazione, in particolare legati al sonno e alla preoccupazione di non riuscire a dormire, rivestono un ruolo centrale nei disturbi del sonno
La CBT- I è un protocollo breve per il trattamento non farmacologico dell’insonnia primaria e cronica descritto nel libro 'Curare l'insonnia senza farmaci'
Nell'insonnia sembra esserci una difficoltà a riconoscere il giungere del sonno sulla base di alcuni segnali fisici e minore consapevolezza di aver dormito
Questo è uno dei risultati di uno studio condotto da Anthony Little dell’università di Stirling e di Benedict Jones dell’università di Glasgow, pubblicato recentemente sul British Journal of Psychology.
Lo scopo della ricerca era di verificare se l’attrazione verso determinate caratteristiche del viso (femminile) sia influenzata dall’intenzione, nell’uomo, di ricercare una relazione a breve o a lungo termine.
Nella ricerca, condotta online, sono stati reclutati 393 uomini di orientamento eterosessuale. Di questo gruppo, 203 hanno affermato di essere coinvolti in una relazione sentimentale. Ai partecipanti sono stata mostrate 10 coppie di immagini, raffiguranti volti femminili.
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Ciascuna coppia raffigurava lo stesso volto ritoccato, che presentava da una parte tratti più marcatamente femminini e dall’altra tratti più mascolini.
Ai partecipanti veniva richiesto di indicare, qualora si optasse per una relazione sia a breve termine sia a lungo termine, quale dei due volti veniva considerato più attraente.
I risultati indicano che gli uomini fidanzati, quando ricercano una relazione a breve termine, tendono a scegliere le donne con caratteristiche del volto più femminine.
Inoltre, uomini che valutano se stessi come attraenti tendono a preferire volti con caratteristiche più femminile, rispetto a uomini che si percepiscono meno attraenti.
Questa preferenza potrebbe indicare che gli uomini che si percepiscono come attraenti si sentono in grado di competere per la conquista di una partner più desiderabile, in contesti di breve durata.
Inoltre, quando un uomo è coinvolto in una relazione, il timore di essere scoperto potrebbe accrescere la sua selettività verso una partner di breve-durata, mentre gli uomini single potrebbero accrescere il loro potenziale di seduttivitá mantenendo degli standard più elastici.
Secondo gli Autori, l’espressione di queste preferenze potrebbe avere un valore strategico importante nella ricerca di una relazione: le donne con caratteristiche più femminine potrebbero essere valutate come maggiormente infedeli rispetto a donne con caratteristiche più mascoline, le quali potrebbero essere preferite per relazioni più stabili (mantenendosi comunque una porta aperta per flirtare con donne più attraenti).
Scritto da autori psichiatri e psicoterapeuti di matrice cognitivista il testo si propone, tramite una raccolta di contributi originali di autori sia italiani che stranieri, di fornire una panoramica aggiornata sulla valutazione e trattamento delle psicosi.
Concentrato principalmente sulla schizofrenia, più che sui disturbi psicotici in generale, propone una descrizione a 360 gradi, dai primi studi nosografici, definizioni categoriali del disturbo e interventi terapeutici sino alla descrizione degli approcci di diagnosi e cura più moderni e validati empiricamente, secondo l’approccio cognitivo.
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Il testo comprende 17 capitoli divisi in 3 parti. La prima parte, che prende i primi 4 capitoli del libro, affronta il tema della valutazione delle psicosi con un breve ma esaustivo excursus storico. Dalle prime descrizioni e metodi di cura della malattia, che risalgono all’inizio dell’800, al lavoro di Kraepelin, all’inizio del ‘900, che usando il termine dementia praecox lo identificherà come un disturbo a insorgenza precoce, in grado di determinare una pervasiva e persistente compromissione in svariati ambiti, con disturbi del pensiero, deliri e allucinazioni e un decorso progressivo verso il deterioramento della personalità.
Solo successivamente si arriverà al termine di “schizofrenia” (mente divisa) con Bleuler, per evidenziare la caratteristica di frammentazione nella formulazione ed espressione del pensiero, e alle prime classificazioni e allo sviluppo del DSM e dell’ICD. Grande importanza viene data alle caratteristiche sintomatologiche dei disturbi psicotici, divisi in sintomi positivi e negativi, e deficit cognitivi e metacognitivi. Tutto ciò affrontato nelle varie fasi della malattia e cioè dai prodromi, utilissimi per l’attuazione di interventi precoci, fino alla remissione.
L’ultimo capitolo della prima parte, in fine, ci offre un ricco elenco con descrizione degli strumenti di valutazione per l’assessment dei pazienti a rischio di insorgenza o per il riconoscimento delle compromissioni in pazienti già in fase di malattia.
Nella seconda e terza parte del testo, sempre con la stessa meticolosità e ricchezza di informazioni già distinta nella prima parte, sono approfonditi i modelli di funzionamento cognitivo e di diagnosi delle psicosi e i diversi protocolli di trattamento nelle diverse fasi della malattia.
Si rivela essere un manuale ben strutturato in grado di offrire, a chi si avvicina al mondo clinico delle psicosi da profano, un quadro esaustivo dei disturbi psicotici che solo l’inserimento di qualche esempio pratico delle fasi di assessment e trattamento, avrebbe potuto rendere questo testo, già ottimo, eccellente.
Gli psicologi sociali e gli psicologi che si occupano di sviluppo umano riflettono sul ruolo dell’amicizia nella vita umana e sui suoi aspetti psicologici.
La prima forma dei rapporti di amicizia si presenta nella prima infanzia. Mentre inizialmente i bambini non prestano attenzione al sesso del proprio compagno, con l’età comincia a cambiare questo rapporto.
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Nella scuola primaria c’è già una forte differenziazione in questo senso: le ragazze sono amiche con le ragazze, i ragazzi vogliono giocare solo con i ragazzi.
Contrariamente a ciò che è stato scritto in uno dei libri più famosi di J. Gray “Gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere” (1993), una relazione amicale tra due persone del sesso opposto può essere di gran lunga più stabile delle amicizie con persone dello stesso sesso.
Si deve dare particolarmente attenzione all’aspetto caratteriale di uomini e donne.
Gli uomini all’interno di un rapporto sono visti come più onesti e diretti. Le donne invece nelle relazioni sono descritte come più attente, ma meno oneste con se stesse. Inoltre, le donne sono più rivali, mentre gli uomini si concentrano più su di se stessi (Buss, 2005, 2007). La combinazione di queste caratteristiche fa sì che sempre più persone preferiscono avere amici del sesso opposto. Le relazioni così sono più soddisfacenti, e quindi più durature.
Secondo le ricerche, anche quelle che non si concentrano sulla questione del genere sessuale, l’amicizia è importante nella vita adulta così come nell’infanzia (Buhs, 2013).
Le persone che intraprendono amicizie più durature sono più soddisfatte della loro vita, meno stressate, e considerano migliori le loro condizioni fisiche e mentali (Kornienko, Santos, 2013).
Nel nostro Paese sembra che l’omosessualità debba restare un tabù, che non se ne possa parlare neanche dopo che qualcuno si è tolto la vita perché distrutto dal peso del minority stress, così un ragazzo di 14 anni si getta da un terrazzo e le vere motivazioni legate a questo gesto vengono considerate una “forzatura”.
A proposito della notizia di Andrea, il ragazzo gay di 14 anni che si è ucciso qualche giorno fa, La Repubblica (14 agosto 2013) scrive: “Il giovane, prima di lanciarsi dal tetto del suo palazzo, ha lasciato su una pen-drive la missiva per il padre in cui motiva il tragico gesto legandolo a profondi problemi esistenziali anche di natura sessuale.”
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La Stampa (13 agosto 2013) scrive: “Nuovi sviluppi e interrogativi sulla vicenda della morte del ragazzino che alcuni giorni fa si è tolto la vita lanciandosi dal tetto del suo palazzo a Roma. Un gesto che il giovane aveva spiegato in una lettera lasciata al padre, legandolo alla sua omosessualità.”
Nel nostro Paese sembra che l’omosessualità debba restare un tabù, che non se ne possa parlare neanche dopo che qualcuno si è tolto la vita perché distrutto dal peso del minority stress, così un ragazzo di 14 anni si getta da un terrazzo e le vere motivazioni legate a questo gesto vengono considerate una “forzatura” nonostante il ragazzo abbia lasciato scritto a chiare lettere un messaggio che ha più volte modificato nel corso degli ultimi giorni prima del suicidio, prova del fatto che non si sia trattato di un atto impulsivo ma al contrario di un gesto premeditato accuratamente.
“Bisogna fare attenzione con queste etichette e definizioni.” Questa frase è già di per sé pregna di omofobia, perché vorremmo ricordare al Dott. Orlando del Don che non vi è nulla di male nell’essere omosessuali se a circondarci è una società civile ed emancipata, dove le differenze vengono considerate come una risorsa e non come una minaccia, e che non spera di cambiare ed omologare il futuro delle persone perché le accetta per quello che sono. Il male è piuttosto insito nei soggetti che stigmatizzano orientamenti sessuali diversi da quello eterosessuale rendendo devastante l’impatto con la società ed in particolare con i compagni di scuola.
Quasi tre decenni di ricerche scientifiche in questo ambito hanno dimostrato che un ambiente sociale che esclude e stigmatizza i giovani LGBT spinge molti di loro a vedere il suicidio come unica via di fuga alla depressione, alla solitudine e alla disperazione. In particolare, esperienze negative a scuola (conseguenti dalla rivelazione della propria identità LGBT) hanno avuto un impatto cruciale sul suicidio e sull’autolesionismo.
L’esperienza di bullismoè stato un fattore chiave utile a capire se l’intervistato ha tentato il suicidio, e l’omofobia da parte degli altri studenti è stato un fattore chiave utile a capire se l’intervistato ha considerato il suicidio. Il suicidio sembra essere la prima causa di morte tra i giovani omosessuali; una grande percentuale di essi ha pensato almeno una volta alla possibilità di suicidarsi.
Tutti questi dati suggeriscono che il fatto di essere omosessuali costituisca un fattore di rischio aggiuntivo alla possibilità di commettere suicidio rispetto agli adolescenti eterosessuali. Il 25% dei suicidi fra giovani europei di età compresa fra i 16 e i 25 anni è attribuibile all’omofobia, ma se fosse vero quello che leggiamo nell’articolo scritto da Del Don non potremmo spiegare come genitori che si scoprono omosessuali in età adulta non decidano di fare la stessa fine di Andrea.
Non è sentirsi omosessuali ma sentirsi esclusi, derisi, soli che crea disagio, confusione e sensi di colpa.
Non è la parola omosessuale ad uccidere ma gli atti omofobici, il mancato riconoscimento dell’altro come diverso da sé, il mancato riconoscimento della parità di diritti e bisogni che ogni adolescente, eterosessuale, omosessuale, bisessuale può manifestare.
Il cambiamento può e deve avvenire sul fronte dell’educazione, della formazione e della cultura, nel rispetto del cambiamento dei tempi, dei risultati delle ricerche scientifiche ma soprattutto dell’uguaglianza dei diritti umani, indipendentemente da etnia, status sociale, orientamento sessuale, credo religioso.
È necessario cercare di far capire ai giovani che l’eterosessualità non è un dovere imprescindibile, che esistono infiniti orientamenti sessuali che non costituiscono un’etichetta ma che creano un’individualità unica e irripetibile, che va rispettata e salvaguardata ogni giorno perché rende speciale ognuno di noi. È la società che crea quello stato di confusione e smarrimento rispetto al proprio orientamento sessuale e alla propria identità, quindi è la società che va modificata nel suo modo di vedere le persone nella loro individualità, non si può pensare neanche lontanamente di mettere in guardia tutti i giovani dal loro personale sentire, come se quello che sentono sia sbagliato “ma solo temporaneo”, solo frutto di una temporanea confusione legata alle fasi evolutive della vita. Questo non farebbe altro che alimentare il principio cardine di qualunque terapia riparativa, detta anche terapia di conversione dell’orientamento sessuale, l’effetto collaterale di una dilagante omofobia che in Italia trova ancora pane per i suoi denti perché non vi è una legge pronta a contrastarla.
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In questo commento la Dott.ssa Sassaroli giudica una “forzatura” (lo stesso termine utilizzato successivamente da Orlando del Don) considerare la crisi economica come la motivazione principale alla base del recente suicidio di molti imprenditori. La Dott.ssa scrive: “Questo è importante perché non mi piace mai dare la colpa alle cose e basta ma ragionare sugli aspetti psicologici in modo più utile che applicare tout court a una difficoltà oggettiva le categorie diagnostiche dell’ansiao della depressione senza metterci in mezzo la lettura idiosincratica che ciascun individuo costruisce della sua realtà. Occorre guardare a ciascun individuo, alle sue storie, al suo modo di reagire in modo psicologico, fine.”
Pensiamo che questo discorso non faccia una piega e potremmo sottoscriverlo in ogni suo punto, ma non è possibile estenderlo al minority stress dovuto ad un orientamento sessuale omosessuale in adolescenza, come invece si evince dall’articolo scritto dal Dott. Orlando del Don. Una crisi economica è un fattore esterno, che è fuori dalla portata di un lavoratore che viene lasciato a casa, la cassa integrazione o il licenziamento sono eventi molto spiacevoli che a volte si inseriscono all’interno di panorami psicologici già molto gravi, portando quindi al suicidio persone che si trovano già in età adulta. La crisi economica in questo caso avrebbe un effetto fatale, ma solo a titolo soggettivo.
Diversa è la questione se parliamo di omosessuali in età adolescenziale che non vedono nascere all’esterno la causa del proprio malessere, bensì all’interno, dentro di sé, come un male incurabile che abbassa i livelli di autostima e amor proprio, costituendo un macigno che pesa sulla propria identità, un peso che spesso risulta troppo grande da trascinare anche se il soggetto adolescente non proviene da una situazione pregressa di disagio psicologico o familiare.
La società non educa i genitori ad accogliere un figlio gay, come si può pensare quindi che tutti i giovani omosessuali siano in grado di accettare se stessi, di accogliere la propria attrazione omosessuale, dandosi così una possibilità per essere felici restando se stessi?
Insomma ci sembra ovvio che una persona che decide di togliersi la vita è una persona estremamente fragile e poco resiliente, così come è altrettanto ovvio che non vi sia una singola ragione alla base di una sintomatologia depressiva ma piuttosto che vi sia una vera e propria costellazione di motivazioni. Tuttavia non si può negare che in una percentuale dei casi molto alta, la vera causa scatenante che spingerebbe una persona a saltare da un terrazzo non sia mai più di una sola, mentre le altre possono considerarsi delle conseguenze della medesima.
Spesso si decide di lasciare scritta questa motivazione su un bigliettino, esattamente come ha fatto Andrea quando ha parlato di omosessualità, quindi la domanda che dovremmo fare allo psichiatra che ci ha spinto a scrivere questo articolo è: “Si può pensare di INTERPRETARE un suicidio IGNORANDO le ultime parole scelte da queste persone prima di andarsene per sempre?”.
Conclusione. L’orientamento sessuale è una componente fondante e pervasiva dell’individualità umana, non definisce il soggetto nella sua globalità ma sicuramente ne influenza aspetti importantissimi del benessere psicologico, come le relazioni interpersonali e il modo di vedere se stessi.
Per venire contro la tesi del Dott. Orlando Del Don possiamo sicuramente confermare che dietro un gesto estremo come il suicidio possano esserci diverse tipologie di disagio, ma stando alle ricerche scientifiche non si può non prendere in considerazione il peso tragico della non accettazione sociale dovuto all’omofobia.
L’impossibilità di sentirsi accolti e sostenuti per ciò che si è veramente è una spinta insormontabile verso l’autodistruzione. Quindi perché evitare la questione omosessualità per spostare il focus sull’adolescenza in generale? Perché non si parla di come la società italiana è organizzata per far fronte all’omofobia? Perché i professionisti della salute mentale non divulgano informazioni per la frammentazione di questa piaga sociale, dando indicazioni rispetto a percorsi di intervento nelle scuole ad esempio, piuttosto che negare l’impatto che oggi l’omosessualità egodistonica può avere su un soggetto adolescente?
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In Inghilterra, il progetto UK Schools Report ha riscontrato vantaggi significativi nelle scuole in cui sono stati presi provvedimenti positivi:
• in quelle che hanno avuto una specifica politica contro il bullismo omofobico, il 60% dei giovani LGB non è stato vittima di bullismo e il 70% si sentiva sicuro a scuola;
• gli studenti che andavano nelle scuole dove gli insegnanti erano reattivi agli episodi omofobici hanno sentito più di tre volte la loro scuola come un luogo accogliente e tollerante, dove si sono sentiti i benvenuti;
• il 60% degli studenti cui erano stati dati insegnamenti positivi sulle tematiche gay e lesbiche era più felice a scuola e il 40% si sentiva più rispettato.
Questi risultati sono supportati da uno studio americano, da cui risulta che i giovani LGB che avevano impressioni positive nei confronti dei loro insegnanti erano significativamente meno portati ad avere esperienze di difficoltà di ampio raggio all’interno della scuola rispetto ai loro coetanei. Ciò ha dimostrato che gli insegnanti che offrono supporto ai giovani LGB potevano aiutare a prevenire i loro problemi.
L’indifferenza e la negazione del problema nutrono l’omofobia.
“Il grande problema che non è mai stato risolto e che non sono ancora riuscito a risolvere, malgrado i miei trent’anni di ricerche sull’animo femminile è: Was will das Weib? – Cosa vuole la donna?”
È questa la domanda davanti alla quale Sigmund Freud ammette di essersi arreso, l’enigma oltre al quale non sa procedere. Tale quesito, lungi dal costituire solamente un aforisma ad effetto estrapolato dagli scritti epistolari del medico viennese, rappresenta in realtà uno scoglio che si configura quale ‘punto cieco’ del sistema psicoanalitico.
La donna rappresenta infatti un’alterità perturbante dalla quale il primo nucleo della psicoanalisi si origina (si pensi ai primi casi di isteria femminile trattati da Freud e dal collega Breuer e ai casi clinici di donne, da Dora ad Anna O., grazie ai quali il sapere psicoanalitico si plasma, al contempo mettendosi alla prova) ma la cui natura sembra rimanere territorio effettivamente inesplorabile.
Il “continente oscuro della sessualità femminile” (secondo la definizione di Freud in “Tre saggi sulla teoria sessuale”), in tutto il suo mistero perturbante e la sua inquietante perversione, è al cuore dell’ultimo film di Lars von Trier, Nymphomaniac, la cui uscita è programmata il giorno di Natale 2013.
È notizia recente (resa nota da Il Secolo XIX il 3 agosto nel seguente articolo: http://www.ilsecoloxix.it/p/cultura/2013/08/03/AP0yRO8F-nymphomaniac_forse_vedremo.shtml ) che la pellicola in Italia potrebbe non arrivare nelle sale: al momento nessuna società di distribuzione cinematografica italiana ha in programma il film di Lars von Trier, nemmeno Lucky Red e Bim, distributrici dei più recenti controversi lavori del regista danese. Il film, che uscirà in versione ‘soft’ e in versione incensurata, narra in otto capitoli la vita erotica della protagonista -ninfomane, secondo la definizione del personaggio stesso- dall’adolescenza all’età di cinquanta anni.
La possibile assenza di questo racconto sui nostri schermi è metafora di un paese che di donne parla continuamente e che donne mostra senza tregua ma che sfodera censure e resistenze di fronte alla nudità del desiderio femminile in tutta la sua scandalosa essenza ed alterità.
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La protagonista di von Trier, donna che decide di confessare la propria vita erotica ad un ascoltatore maschile secondo un paradigma prettamente analitico, potrebbe (per ora abbiamo solo qualche anticipazione e trailer) pericolosamente ribellarsi alla narrazione dominante secondo la quale il desiderio femminile non fa scandalo laddove sia inquadrato –e normalizzato- secondo la logica dello sguardo maschile (desidero specificare che quando parlo di desiderio, utilizzo i termini ‘maschile’ e ‘femminile’ in senso non meramente biologico. Mi riferisco piuttosto a ‘modelli di desiderio’ caratterizzati da modalità desideranti ‘maschile’ e ‘femminile’, che possono essere propri di uno e dell’altro sesso indifferentemente. Secondo la teorizzazione di Jacques Lacan, infatti, al di là del dato biologico, il desiderio segue un percorso di ‘sessuazione’ per cui si diventa uomini o donne al di là della propria appartenenza anatomica ad un sesso).
Se, come afferma il filosofo contemporaneo Slavoj Žižek nel suo documentario psicoanalitico sul cinema “The Pervert’s Guide to Cinema”, il cinema è l’arte più perversa perché non offre ciò che si desidera ma piuttosto comunica allo spettatore ‘come’ desiderare, Nymphomaniac potrebbe incrinare la spesso domesticata (dunque presunta) libertà sessuale della donna. La donna non scandalizza quando desidera come un uomo, conformandosi ai suoi archetipi di desiderio e rendendo la propria ricerca del piacere l’ombra mimetica di quello maschile. Annullando la sua alterità perturbante in nome di un modello di liberazione sessuale la cui essenza è soprattutto fallica, la donna è ridotta a volere ciò che vuole l’uomo, così che la carica perturbante sia incanalata in una gratificante, e tranquillizzante, somiglianza erotica.
Per quanto si potrebbe obiettare che la ninfomania della protagonista, se inquadrata come eccitante perversione, rischia di appiattirsi su un dongiovannismo al femminile, ciò che probabilmente più turba è il rischio che la ninfomania della protagonista incarni invece, metaforicamente, l’eccedenza del desiderio femminile, il suo porsi oltre la logica di soddisfacimento oggettuale.
Se la vertigine del desiderio di Don Giovanni è quella seriale e oggettuale, il ‘plus’ di desiderio della donna si delinea secondo un paradigma anarchico e rizomatico, che flirta con la natura illimitata del desiderio stesso: una forza (quella stessa medicalizzata nei casi di isteria delle donne di inizio Novecento) impossibile a delimitarsi in termini organici ed orgasmici.
Si può dunque supporre che la ‘nymphomaniac’ del regista danese perturba il panorama cinematografico non tanto per il contenuto pornografico esplicito del film, quanto per il fantasma maschilista implicito che la pellicola potrebbe mettere in crisi. La ‘buona infinità’ del desiderio femminile è ridotta spesso ad una subdola deprecazione da parte di un mascolino incapace di fronteggiare l’enigma del desiderio femminile –acefalo e slegato dalla logica pulsionale- per cui il tentativo è quello di castrare il “fuori-norma” e lo “sconfinato” del godimento della donna (Recalcati, 2012, p. 469).
Al momento non è naturalmente possibile sapere se la narrazione di Lars von Trier sia stata realmente capace di raccontare, capitolo per capitolo, la “visceralità indicibile” del desiderio femminile; allo stesso modo, almeno fino all’uscita della versione originale, è lecito domandarsi se la macchina da presa sia stata davvero in grado di mostrare l’eccedenza di un godimento altro, senza ridursi ad ‘inquadrarlo’.
Perverso o scandaloso, riuscito o meno, c’è però una cosa che non si può aspettare a chiedere: che la censura non privi il cinema italiano del dibattito sul desiderio femminile nel modo più subdolo, con un’assoluta -e silenziosa- rimozione.
Storie di Terapie: Anche i Cognitivisti hanno un cuore – Psicoterapia
Anche i cognitivisti hanno un cuore. In queste storie di terapie, utilizzabili nella formazione, si mostrano le importanti dinamiche emotive che concorrono a determinare l’esito della terapia. La grande tradizione dei proverbiali casi clinici descritti dagli psicoanalisti è qui ripresa in ambito cognitivista, spesso considerato disattento alla relazione terapeutica e alle emozioni.
Le storie di terapie raccontate in questo libro si distribuiscono lungo tutto l’arco delle diagnosi categoriali e soprattutto sono situazioni miste, perché i pazienti si ostinano a non studiare il DSM IV per collocarsi correttamente nelle sue categorie e a presentarsi come persone sofferenti, con mille acciacchi diversi sovrapposti.
In queste situazioni ci sono di scarso aiuto i protocolli clinici; si tratta, per ciascun caso, di identificare quali siano i meccanismi con cui la persona si autoinfligge sofferenza e, dopo averli smascherati, provare a modificarli costruendo alternative.
Ho cercato di raccontare il paziente, quello che è avvenuto tra noi in terapia e come sono andate le cose, insuccessi e errori compresi; transfert e controtransfert, o come si voglia chiamare quel miscuglio di sentimenti che coinvolge paziente e terapeuta.
Lo scopo è fornire un modello del procedere clinico che utilizza strategie di provata efficacia, ma si plasma di volta in volta sulle specificità del paziente. Le storie sono utilizzabili nella formazione, per avere casi di cui discutere, o in privato per tirarsi su il morale considerando gli errori che anche terapeuti stagionati commettono.
Roberto Lorenzini, psichiatra, psicoterapeuta. Didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva.
Docente delle Scuole di Specializzazione post-universitaria “Studi Cognitivi” di Milano, “APC” di Roma e Humanitas –
LUMSA di Roma.
È stato direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Sanitaria Locale di Viterbo. Autore di numerose pubblicazioni. Nelle nostre edizioni ha pubblicato:
Una recente ricerca messa a punto dal Massachusetts General Hospital e della Harvard Medical School ha rivelato che non esiste una relazione diretta tra il tipo di personalità e la risposta positiva all’ Effetto Placebo, ma che occorre considerare una serie di diversi fattori.
Le risposte positive ai trattamenti placebo non dipendono dal profilo di personalità del soggetto, bensì sono il risultato di un insieme di elementi tra cui il tipo di terapia, il contesto e il carattere della persona.
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Una recente ricerca messa a punto dal Massachusetts General Hospital e della Harvard Medical School ha rivelato che non esiste una relazione diretta tra il tipo di personalità e la risposta positiva al placebo, ma che occorre considerare una serie di diversi fattori.In questo studio Jian Kong e colleghi si sono serviti di due sessioni sperimentali al fine di valutare gli effetti analgesici dell’agopuntura, della simulazione di un trattamento con l’agopuntura e di una pillola placebo nella sensibilità al dolore su un gruppo di soggetti sani.
Inizialmente, i ricercatori posizionarono un elettrodo caldo sull’avambraccio di ogni soggetto sia prima che dopo ognuna delle tre condizioni sperimentali, quella con il trattamento analgesico, autentico o simulato. Venne registrato, quindi, il momento in cui la temperatura dell’elettrodo diventava insopportabile per il soggetto.
Dopo due settimana da questa prima fase dello studio, i ricercatori utilizzarono una sessione sperimentale in cui i soggetti furono sottoposti ad una prova in cui venne monitorato il loro livello di attivazione dei circuiti cerebrali del dolore.
In realtà, la risonanza magnetica mostrata ai soggetti non mostrava davvero indici di attivazione cerebrale, bensì riproduceva valori in modo casuale. Questa sessione sperimentale aveva lo scopo di stimare l’effetto placebo tramite tecniche di suggestione e condizionamento attraverso stimoli visivi.
I risultati mostrano che non vi è una relazione diretta tra i diversi partecipanti e la risposta ai trattamenti in grado di spiegare che l’effetto placebo dipenda da uno specifico assetto di personalità. I soggetti, infatti, risposero in maniera diversa ai vari metodi placebo, confermando come la risposta non dipenda esclusivamente dal carattere della persona, ma invece vari in relazione a fattori contestuali e ambientali, coinvolgendo così tratti personali e situazionali.
Al variare del trattamento placebo varia anche la risposta del soggetto. Dai risultati emerge, inoltre, una relazione tra l’aspettativa di successo di un determinato trattamento e il dolore percepito in relazione allo stimolo. Nel complesso, questi risultati evidenziano che al variare della terapia variano anche gli effetti del trattamento placebo, il cui esito sembra essere legato ad aspetti non esclusivamente relativi alla personalità del soggetto.
Alzheimer: il ruolo del rame nella formazione delle placche nel sistema nervoso.
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“È chiaro che, con il tempo, l’effetto cumulativo del rame è quello di danneggiare i sistemi cerebrali dai quali non può essere rimossa la proteina beta-amiloide”, ha spiegato Rashid Deane, ricercatore del Dipartimento di Neurochirurgia dello University of Rochester Medical Center (URMC) che ha coordinato lo studio. “Occorre però cautela nel valutare questi risultati perché il rame non è un elemento fondamentale per molti processi fisiologici e l’esposizione utilizzata nella ricerca è equivalente a quella consumata da molti cittadini con la normale dieta”.
L’esposizione a limitate concentrazioni di rame è in grado di alterare la funzionalità della proteina LRP1, cruciale per lo smaltimento della proteina beta-amiloide che forma le placche caratteristiche della malattia di Alzheimer. Lo afferma un nuovo studio che presenta la prima prova sperimentale di un coinvolgimento del metallo nell\’insorgenza della patologia (…)
A causa dell’alto carico assistenziale, la demenza comporta una ricaduta psicologica importante sul caregiver, le cui emozioni possono essere percepite dal paziente
"Sostenere chi sostiene" presenta i principali disturbi neurocognitivi, il profilo del caregiver di una persona con demenza e le conseguenze di tale impegno
L’anosognosia, cioè la mancata consapevolezza di malattia, e la metacognizione, cioè il monitoraggio e la regolazione dei processi cognitivi, sono correlate
Le terapie non farmacologiche sono un'interessante strategia di cura complementare per dolore e disturbi dell'umore nei pazienti con malattia di Alzheimer
L'irisina, un ormone scoperto recentemente prodotto dall’organismo durante l’attività muscolare, sembra avere effetti protettivi nella malattia di Alzheimer
La gestione dell'Alzheimer per il malato e la sua famiglia è difficile. Quali sono le novità su diagnosi e cura? Quale ruolo può ricoprire lo psicologo?
Bier e colleghi hanno confrontato diverse tecniche di memory training per l’apprendimento dell’associazione volto-nome in pazienti con Demenza di Alzheimer
Fin dai primi stadi della malattia di Alzheimer inizia un progressivo deterioramento del linguaggio utile per distinguerla da mutamenti attribuibili all’età
Nella demenza il pasto è un’attività complessa che, se non adeguatamente supportata, può far sperimentare all'anziano un senso di fallimento e inadeguatezza
Individui NDAN avrebbero la capacità di attivare una risposta cerebrale antiossidante efficace al punto da far fronte alla neurodegenerazione dell’Alzheimer
Le persone con demenza sono spesso oggetto di stigma e, insieme alle loro famiglie, interiorizzano le rappresentazioni negative che vengono loro attribuite
Le terapie contro l'Alzheimer iniziano troppo tardi. Il declino cognitivo soggettivo potrebbe essere un indicatore del rischio di sviluppare la malattia.
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«L’ indice di massa corporea va in pensione»
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L’indice di massa corporea viene mandato in pensione, così sembrerebbe dopo che alcuni studi americani mettono in dubbio la sua reale efficacia e validità.
Da questi studi infatti sembrerebbe che non sia sufficiente il valore di BMI a considerare una persona in “salute” a livello di peso.
Lo studio stravolge i parametri sostenendo che ci possono essere persone con un BMI alto, da considerarsi in sovrappeso, più in salute di persone con BMI basso/nella norma, quindi come persone in sovrappeso potrebbero avere una prospettiva di vita più lunga. Tutto il contrario di quello che si sosteneva prima! il motivo? che il BMI è troppo riduttivo come solo indice al quale affidarsi! Viene suggerito un nuovo indice, molto più complesso che tiene conto anche di parametri metabolici, della misura della vita, della disposizione del grasso…etc.. Ma veramente necessitiamo di un nuovo strumento dopo 200 anni che usiamo questo quando in realtà basterebbe un integrazione di parametri a cui tendenzialmente qualsiasi esperto del settore fa riferimento?
Anche chi ha un indice normale, sottolineano gli autori, non può stare tranquillo, perché in realtà un Bmi basso può nascondere uno status nutrizionale povero, in cui il corpo non riesce a metabolizzare correttamente alcune sostanze.