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Il condizionamento dei pari in adolescenza e il Progetto ProYouth

 

Il condizionamento dei pari in adolescenza e il Progetto ProYouth. -Immagine: © Tijana - Fotolia.com

I condizionamenti da parte del gruppo dei pari sono una forza onnipresente, il cui potere può essere osservato pressoché in ogni dimensione del comportamento adolescenziale.

Nel corso dello sviluppo psicologico, le interazioni con i gruppi dei pari, ovvero quei bambini e adolescenti che hanno pressoché lo stesso livello di età e/o di maturazione fisica e psicologica, assumono una importanza fondamentale.

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I condizionamenti da parte del gruppo dei pari sono una forza onnipresente, il cui potere può essere osservato pressoché in ogni dimensione del comportamento adolescenziale, come la decisione di come vestirsi, quale musica ascoltare, quale linguaggio adottare, a quali valori aderire, come gestire il tempo libero … (Santrock, 2007)

I condizionamenti da parte dei pari possono avere effetti positivi sul benessere degli adolescenti; possono ad esempio portare a sviluppare comportamenti pro-sociali come iscriversi ad una associazione di volontariato, oppure semplicemente aiutarsi a fare i compiti scolastici. Inoltre, il condizionamento da parte dei pari potrebbe prevenire (ma anche rinforzare) comportamenti disadattivi, come fumare o bere alcolici, grazie alla manifesta (dis)approvazione da parte di amici e compagni di classe.

ProYouth
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Tuttavia, il gruppo dei pari rinforza molto più frequentemente i comportamenti disadattavi, rispetto a quelli positivi. Questi, a loro volta, potrebbero tradursi in comportamenti antisociali quali furti e vandalismo, abuso di droghe e alcolici, utilizzo di un linguaggio scurrile, prendersi gioco degli insegnanti o dei familiari.

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Quali sono gli adolescenti maggiormente a rischio di rimanere vittime delle influenze negative da parte dei pari? La risposta sembrerebbe essere: tutti sono a rischio, poiché ogni adolescente, nel corso dello sviluppo, incontrerà forme di pressione al conformismo da parte dei pari. Tuttavia, ci sono alcune condizioni che rendono gli adolescenti particolarmente vulnerabili all’adozione di comportamenti negativi, quali ad esempio:

  • Provenire da una famiglia con un solo genitore
  • Avere genitori estremamente permissivi, o all’opposto molto autoritari
  • Una bassa stima di sé
  • Dinamiche familiari disfunzionali
  • Esposizione a comportamenti antisociali da parte dei pari o della famiglia

 

Inoltre, gli adolescenti potrebbero non essere pienamente consapevoli che determinati atteggiamenti, o comportamenti, vengano messi in atto a seguito delle pressioni ricevute dal gruppo dei pari.

Infatti, il mondo adolescenziale tende ad essere connotato dal conformismo, ovvero dal processo in cui un individuo assume atteggiamenti o comportamenti di altri, a causa di una pressione (reale o immaginaria) ad adottarli (Santrock, 2007). È esperienza comune quanto spesso il modo di vestirsi degli adolescenti subisca una trasformazione al momento del passaggio alla scuola superiore, con il contatto con un mondo relazionale nuovo, popolato da nuovi compagni e da nuove regole.

La scuola gioca un ruolo molto delicato nella gestione delle influenze dei pari: qui gli adolescenti trascorrono gran parte del loro tempo, e in questo contesto hanno la possibilità di incontrarsi e socializzare con altri pari; inoltre, le interazioni con i coetanei continuano spesso anche al di fuori degli spazi scolastici, poiché spesso vi nascono amicizie che vengono coltivate nel tempo libero.

La scuola si configura quindi come un luogo in cui hanno origine molte delle pressioni al conformismo da parte dei pari, ma anche come il luogo maggiormente deputato ad intervenirvi, rinforzando atteggiamenti positivi e ostacolando lo sviluppo di comportamenti negativi o antisociali.

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Cercando di ottimizzare il tempo che i ragazzi trascorrono a scuola e la qualità delle attività svolte, la nostra proposta per contrastare la pressione tra pari e l’eventualità che questa porti alla diffusione di disagio e difficoltà psicologiche è il progetto ProYouth.

L’adolescenza ai tempi della crisi. -Immagine: © olly - Fotolia.com
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Il Progetto ProYouth è co-finanziato dalla Executive Agency for Health and Consumers nell’Health Programme della Commissione Europea, vede la partnership di 7 Paesi Europei, ha avuto inizio il 1 Aprile 2011 e terminerà nel marzo 2014. In Italia il progetto è implementato dalla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale “Studi Cognitivi”, che lo sta promuovendo all’interno della Regione Emilia Romagna e di alcune singole province esterne (Firenze, Milano e Alessandria).

Il progetto si sta espandendo tra gli adolescenti e i pre-adolescenti attraverso il contatto con scuole secondarie superiori e centri di aggregazione giovanili per diffondere presso i ragazzi informazioni utili sul benessere in adolescenza, sulle possibili difficoltà e sui problemi che si possono incontrare, con un focus particolare sui Disturbi Alimentari.

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In un’ottica di continuità e di disponibilità al dialogo e alla psicoeducazione approfondita, il progetto fornisce gratuitamente la consulenza da parte di psicologi e psicoterapeuti formati disponibili a incontri virtuali con i ragazzi in forma anonima attraverso chat individuali e di gruppo sulla piattaforma www.proyouth.eu.

LEGGI:

ADOLESCENTI – RAPPORTI INTERPERSONALI 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Santrock, John (2007). Adolescence. New York: The McGraw-Hill Companies, Inc. (DOWNLOAD)
  • Liberamente tratto e adattato dall’opuscolo “A teacher’s guide to peer pressure” pubblicato dalla Northern Illinois University con il permesso del Prof. Lee Shumow. (DOWNLOAD)

 

Il Neuroimaging al servizio di Cal Lightman: Le neuroscienze per scoprire le menzogne.

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Dall’università Bicocca di Milano nuovi studi che tornerebbero molto comodi a Cal Lightman, il super-esperto di espressioni facciali e smascheramento di menzogne della fortunata serie televisiva Lie to Me. Lightman, che altri non è che la versione romanzata di Paul Ekman, è già praticamente infallibile da solo, ma un aiuto dalle neuroscienze elimenerebbe ogni dubbio all’investigatore della bugia.

Lo studio è stato condotto dal gruppo di ricerca della Prof. Alice Proverbio di Università Bicocca di Milano e pubblicato sulla rivista PlosOne

Lo studio, “Can You Catch a Liar? How Negative Emotions Affect Brain Responses when Lying or Telling the Truth”, è stato realizzato da Alice Proverbio, associato di psicobiologia a Milano, Maria Elide Vanutelli e Roberta Adorni. Le aree del cervello più attive dal punto di vista “elettrico” quando una persona sta mentendo sarebbero la regione frontale e prefrontale dell’emisfero sinistro e la corteccia cingolata anteriore.

«Attraverso un approccio di studio basato sull’elettrofisiologia cognitiva – spiega Alice Proverbio, professoressa associata di Psicobiologia e coordinatrice della ricerca – siamo in grado di vedere come reagisce il cervello di una persona quando riconosce qualcosa di familiare. È come se l’attività bioelettrica (derivante dall’attività cerebrale) esclamasse un “aha!”».

 

Bicocca, vita difficile per i bugiardiConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Specifiche aree del cervello si attivano quando si mente. E queste regioni posso essere “viste all’opera” con il neuroimaging. (…)

Tratto da: Brain Factor

 

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Secondo un recente studio della Binghamton University State di New York, i figli di genitori molto critici mostrano meno attenzione alle emozioni espresse e comunicate attraverso le espressioni facciali. Ciò influenzerebbe le loro relazioni sociali e sembra essere legato a un maggiore rischio di sintomi psicopatologici
Paul Ekman: biografia e contributi scientifici sullo studio delle emozioni
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Dopo un interesse per la psicologia sociale e per gli studi transculturali, Paul Ekman si è focalizzato sullo studio delle emozioni e delle espressioni facciali ad esse collegate. Il rigoroso approccio scientifico e sperimentale lo ha portato a ricevere numerosi riconoscimenti e a sviluppare strumenti all'avanguardia.
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Le esperienze di attaccamento, secondo i diversi stili identificati e descritti in letteratura, influenzano lo sviluppo dell'individuo in numerosi aspetti: dalla propria identità, alla capacità di regolare le proprie emozioni, di interagire con gli altri e, non da ultimo, anche nella postura.
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La cognizione sociale nella sclerosi multipla
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Uno studio ha dimostrato come l'assunzione di droghe, quali l'LSD alteri il riconoscimento delle espressioni facciali di paura e tristezza. 
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Atteggiamento disposizionale positivo o negativo… Quanto cambia!

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo una ricerca pubblicata sul Journal of Personality and Social Psychology le persone con un atteggiamento disposizionale positivo hanno una forte tendenza ad apprezzare le cose, mentre le persone con un atteggiamento disposizionale negativo hanno una forte tendenza a non apprezzarle. 

Il costrutto “atteggiamento disposizionale” rappresenta una nuova prospettiva in cui gli atteggiamenti non sono semplicemente una funzione delle proprietà degli stimoli in esame, ma sono anche una funzione delle proprietà del valutatore.  In altre parole alcune persone possono semplicemente essere più inclini a concentrarsi su aspetti positivi e altre su aspetti negativi, indipendentemente dallo stimolo in questione.

Per scoprire se le persone differiscono nella tendenza ad apprezzare o a non apprezzare le cose, Justin Hepler, Dolores Albarracín, autori dello studio, hanno costruito una scala per raccogliere gli atteggiamenti delle persone verso una grande varietà di stimoli non correlati, come l’architettura, le docce fredde, la politica e il calcio.

L’idea è che se gli individui differiscono nella tendenza generale ad apprezzare le cose, gli atteggiamenti verso oggetti indipendenti possono effettivamente essere correlati. I ricercatori hanno scoperto che le persone con atteggiamenti disposizionali generalmente positivi sono più aperte rispetto alle persone con atteggiamenti disposizionali generalmente negativi e quindi potenzialmente più sensibili a un gran numero di situazioni, come ad esempio il rispetto di regole sociali (raccolta differenziata, la guida prudente ecc) o le campagne pubblicitarie.

Questa scoperta sorprendente dimostra che un atteggiamento non è semplicemente una funzione della proprietà di un oggetto, ma è anche in funzione delle proprietà del soggetto che valuta l’oggetto e che l’atteggiamento disposizionale, come costrutto di significato, ha importanti implicazioni per la teoria e la ricerca dell’atteggiamento e delle decisioni“, concludono i ricercatori.

LEGGI:

PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’ – PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA

FANTASTICARE A OCCHI APERTI… CHE STRESS!

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Psicologia delle Emozioni – La rivincita di Darwin?

 

 

 

Psicologia delle Emozioni: la rivincita di Darwin?. - Immagine: © kanate - Fotolia.comGli studi più curiosi che hanno fatto la storia della Scienza delle Emozioni.

Natura o cultura? Questo è il dilemma. Da sempre.

Chissà se Charles Darwin era consapevole della bagarre che avrebbe scatenato nei secoli a venire, quando in The expression of emotion in man and animals (1872) avanzò l’ipotesi che le espressioni facciali emotive fossero universali, biologicamente innate e adattive dal punto di vista evolutivo.

Darwin fu tacciato di scarsa scientificità dai neopositivisti “hard”, che trovavano inaccettabile una teoria inferita da meri dati osservativi. Fu così che per diversi decenni l’idea predominante rimase quella sulle origini culturali delle espressioni emotive: così come ogni cultura ha il proprio linguaggio verbale, allo stesso modo ha anche un proprio linguaggio delle espressioni facciali.

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Si dovette aspettare Tomskin per riabilitare il povero Darwin: partendo dalla teoria che le emozioni sono alla base della motivazione umana e che la loro sede principe è il volto, Tomskin e McCarter (1964) dimostrarono che le espressioni facciali erano associate in maniera affidabile a determinati stati emotivi.

Intervista a Mark Frank – Riconoscere le menzogne
Articolo Consigliato: ntervista a Mark Frank – Riconoscere le menzogne

La loro ricerca fece da apripista a quelli che furono successivamente definiti gli “universality studies”. Questi studi rilevarono, per esempio, un elevato accordo nella valutazione delle espressioni emotive facciali sia nelle culture letterate che pre-letterate, e documentarono come membri appartenenti a culture differenti producessero spontaneamente, di fronte a video emotivi, le medesime espressioni facciali.

Da quel dì è stato un impressionante susseguirsi di ricerche svolte in tutto il mondo, in diversi laboratori, con metodologie differenti, su soggetti appartenenti a svariate culture, che hanno confermato l’universalità di sette espressioni facciali emotive: rabbia, tristezza, disprezzo, disgusto, paura, felicità e sorpresa.

Ma non è finita qui! Per la gioia di Darwin diversi studi hanno portato prove a favore dell’ipotesi dell’origine biologica e genetica delle espressioni: per esempio, persone cieche dalla nascita producono spontaneamente le stesse espressioni facciali emotive di persone vedenti; inoltre le loro espressioni sono molto più simili a quelle dei loro familiari rispetto a quelle di estranei.

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La teoria che le espressioni emotive siano innate, universali e abbiano origine biologica sembra pertanto fondarsi su un solido corpus di ricerche scientifiche (per una panoramica più esaustiva vedi Matsumoto & Hwang, 2011).

Ciò però non significa che la cultura non giochi anch’essa un ruolo importante! Secondo Paul Ekman esistono una serie di “display rules”, regole di esibizione culturalmente apprese che prescrivono come manifestare le espressioni emotive in base al contesto sociale: intensificandole, attenuandole, inibendole o mascherandole.

A tal proposito, è passato alla storia l’esilarante studio condotto da Friesen (1972) in cui ad un gruppo di Americani e ad un gruppo di Giapponesi furono mostrati dei filmati di raccapriccianti operazioni chirurgiche. Se gli individui erano da soli, non vi erano differenze tra i gruppi circa l’espressione di disgusto mostrata. Ma in presenza dello sperimentatore era tutto un altro discorso: i Giapponesi mascheravano l’espressione di disgusto stampandosi un finto sorrisone sul volto, mentre sullo schermo comparivano scene non adatte a stomaci sensibili. La spiegazione di questo comportamento sembra risiedere nell’influenza che la cultura esercita sulla manifestazione delle emozioni: mostrare emozioni negative in pubblico in Giappone è considerato disdicevole e viene mascherato tramite un sorriso.

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Natura o cultura, quindi? Natura E cultura!

Dato un substrato biologico (per la gioia di Darwin) “praticamente tutti gli aspetti della comunicazione delle emozioni, dall’accuratezza del riconoscimento delle emozioni universali fino alle differenze nell’attribuzione di intensità dell’espressioni emozionali o ai diversi significati associati a certe emozioni, sono influenzati da aspetti culturali specifici” (Matsumoto & Crtini, 2001) che non possono essere trascurati, anche solo per evitare gaffes o incidenti diplomatici. Infatti, persino un sorriso può acquisire significati diversi a seconda del contesto culturale  (Furo, 2009). Insomma, se vi trovate in Giappone a cena, non sorridete troppo di fronte ad un bel pezzo di sashimi: voi sarete anche felicissimi di strafogarvi di sushi, ma loro potrebbero pensare che vi faccia veramente schifo!

LEGGI:

ESPRESSIONI FACCIALI – GENETICA & PSICHE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

La singolarità come matrice di differenze: teoria del big bang e funzione relazionale del sintomo.

La singolarità come matrice di differenze . -Immagine: © JohanSwanepoel - Fotolia.comNell’ambito della letteratura sistemica, grande importanza viene attribuita alla funzione del sintomo/problema a cui si conferisce l’attributo relazionale.

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Infatti questa qualifica consente al terapeuta che abbia questa forma mentis di avere come vademecum  osservativo e metodologico l’idea che il disagio della persona si alimenti “in relazione a….”.

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata
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In virtù di questo,  grande importanza riveste il concetto di “relazione”  (di importanza primaria quella familiare) che consente al clinico di usufruire di una lente che favorisca una lettura delle dinamiche relazionali complesse.

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Rivedendo, anche se in modo sintetico, la teoria del “big bang” circa le origini dell’universo, secondo la quale a partire da una singolarità (la famosa particella di Dio) si è originata un fenomenologia variegata (pianeti, stelle, galassie) diversa per forma, contenuto e funzione, ma accomunata da una stessa presunta origine, ho pensato ad  una sorta di relazione, a mio avviso presente, tra questa teoria e la funzione relazionale del sintomo come matrice, per certi versi, della nascita di nuovi equilibri familiari.

Volendo, in seconda istanza, estendere il concetto sistemico di “circolarità” alla teoria del big bang, verrebbe da chiedersi quale sia il feedback che le galassie, i pianeti, le stelle, rimandano alla loro “ particella di Dio”? Beh, credo che proprio “la differenza” di questi non possa che confermare come  un qualcosa forse non del tutto definito nei suoi costituenti, in virtù di un big bang (un sintomo in chiave di teoria sistemica) possa favorire un processo di definizione e differenziazione (pianeti, galassie; sistemi familiari con pattern relazionali diversi), podromo di nuove possibili realtà.

Il terapeuta, così come lo scienziato fisico, si barcamenano nell’arduo compito di ricerca di una plausibile spiegazione di questo mare magnum con il quale si trovano a doversi relazionare  e, in virtù di questo, ciò che, a mio avviso, dovrebbe essere elemento indispensabile nel loro kit personale, non è la mera speranza di scorgere la vera origine delle cose (a mio avviso non facile da ricercare) bensì di usufruire delle risorse con le quali interagiscono (famiglia, contesto sociale per il terapeuta e elementi astrofisici per il fisico) al fine di cogliere la dinamica dell’incastro e comprendere come la diversità (personalità diverse; stelle, pianeti) possa coesistere in una danza relazionale promotrice di significati illuminanti circa l’equilibrio del loro essere.

 

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PSICOTERAPIA SISTEMICO – RELAZIONALE – RAPPORTI INTERPERSONALI – FAMIGLIA

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Rapporto dal congresso APA 2013 – Honolulu, Hawaii

APA 2013

American Psychological Association

Honolulu, Hawaii

 APA 2013 - SLIDE

Un congresso mastodontico che volutamente non segue un filo comune. È un contenitore universale e il luogo di incontro degli psicologi americani.

Come sapete, (Leggi: APA 2013 – Il congresso annuale della American Psychological Association) all’inizio di agosto ho partecipato al congresso annuale dell’APA, l’American Psychological Association. Ci ero andato per contribuire a un simposio dedicato alla diffusione della REBT, la terapia razionale emotiva comportamentale fondata da Albert Ellis, nel mondo.

Il mio simposio, si è svolto sabato mattina e ha visto una buona partecipazione. La REBT da sempre è una sorta di alter ego della CBT, una versione più ibrida e più flessibile, con maggiori apporti provenienti dalla client centered therapy di Rogers e maggiori punti di contatto con aspetti cognitivi di “terza ondata”. L’importanza del pensiero secondario, definito non a caso meta-emotivo nelle ultime formulazioni, facilita la scambio tra REBT e modelli metacongitivi.

Nel simposio si è riflettuto su come la REBT si sia evoluta emigrando dagli USA in paesi per alcuni aspetti molto differenti: in India, Sudamerica, Inghilterra, Italia o Romania.

La REBT è molto centrata sulla critica razionale dei pensieri disfunzionali, in un stile molto pragmatico e -a tratti- aggressivo. Presuppone un atteggiamento franco e poco cerimonioso. In paesi come India o in paesi europei questo aspetto va temperato. Un altro aspetto che va incontro a modifiche culturali è la gravità dei pensieri disfunzionali.

Le doverizzazioni a quanto pare sono una caratteristica dei clienti dei paesi occidentali, mentre in India prevale per gravità l’autosvalutazione e l’inferiorità.

Il resto del congresso era caratterizzato dall’estrema varietà di interessi. Teniamo conto che L’APA è un congresso generalista, che non privilegia un’area particolare, ma l’intera psicologia. C’erano così la psicologia del lavoro o la psicologia dello sport, la ricerca di base più sperimentale e la ricerca clinica naturalistica.

Se c’era un argomento dominante forse era la guerra. Nelle plenarie ho visto spesso lavori sulle conseguenze psicologiche e sui problemi psicologici della guerra. Una centralità della guerra inimmaginabile per noi europei. Una delle presentazioni più interessanti era dedicata all’inserimento sociale delle famiglie dei militari.

Hazel Atuel, dell’University of Southern California, in una sessione dal titolo “Trattamento di bambini e coniugi di personale militare” ha  descritto una ricerca condotta raccogliendo informazioni sulla percezione che hanno i genitori che stanno nell’esercito del clima scolastico, dell’impegno scolastico, della qualità dei programmi scolastici e dei problemi scolastici come il bullismo.

Le famiglie dei militari percepiscono il clima della scuola meno favorevolmente, e le scuole incoraggiano meno il coinvolgimento dei genitori militari. Insomma, intorno ai militari si crea un’atmosfera di lontananza e di diffidenza, che potrebbe essere pagata dai bambini.

Questi è solo un esempio dei problemi trattati all’APA. Il ventaglio degli interessi era molto ampio, dalla violenza sessuale al ruolo degli psicologi nella gestione dei disastri naturali, dalle infedeltà coniugali agli atteggiamenti di dominanza e sottomissione sociale, passando per l’efficacia dei feedback per limitare lo spreco di energia all’eterno problema del razzismo e dei suoi risvolti psicologici.

Una delle presentazioni più popolari è stata quella di sull’intelligenza dei cani condotta da Stanley Coren, della University of British Columbia. L’intelligenza dei cani è soprattutto di tipo imitativo e per interagire con loro dobbiamo soprattutto effettuare operazioni di modelling, mostrare le cose da fare, piuttosto che indurli a fare indicandole. Qui ci sono dei video teneri e divertenti proiettati da Coren durante la sua presentazione:

Personalmente ho seguito attentamente alcune sessioni di psicoterapia. La prima era una sorta di report sulla situazione della psicoterapia negli USA. La sessione era presieduta da Ray DiGiuseppe. Accanto ai dati positivi sulla sempre crescente diffusione e domanda di psicoterapia e sulla diminuzione costante dello stigma, della vergogna di andare in psicoterapia, c’erano anche le notizie negative.La principale è che il livello di frammentazione sta aumentando e ha colpito, dopo la psicoanalisi e le terapia psicodinamiche, anche le altre terapie.

In particolare la terapia cognitiva, che pareva immune alla piaga della frammentazione e della moltiplicazione delle etichette e delle sottoscuole. Un tempo c’era (apparentemente) solo una terapia cognitiva, o al massimo due: al CBT classica alla Beck, poi c’era la REBT, la sorella terribile fondata da Ellis, e poi il progenitore comportamentale, la BT. Oggi, con la terza ondata si assiste a un proliferare di sigle: ACT, compassione therapy, terapie metacognitive di vario genere, mindfullness, solo per citarne alcune.

Nella seconda sessione a cui ho assisto si visionava e si commentava una seduta videotrasmessa. La seduta era condotta da Stevan L. Nielsen dell’Università dello Utah. Nielsen è un terapista REBT ortodosso, forse anche troppo. Un “child” di Ellis, lo ha definito Raymond DiGiuseppe, che era uno dei discussant insieme a Michael Lambert, il cui prestigio è salito alle stelle dopo il successo universale del suo OQ 45, ed Elizabeth Williams, psicoterapeuta di orientamento femminista e multiculturale.

Il paziente era un ragazzo timido e depresso, un po’ isolato socialmente e affettivamente. Nielsen lo ha aiutato a darsi una scossa, utilizzando un tipico stile REBT stimolante e incoraggiante. Perfino troppo, attirandosi le critiche di DiGiuseppe, terapista REBT anche lui ma più propenso a lasciare spazio al paziente e a tacere. Ancor più scettico Lambert, che ha molto sottolineato invece la bontà degli interventi di validazione e accoglimento. Lambert, infatti, è un seguace della emotion focused therapy di Greenberg a sua volta figlia della client centered therapy di Rogers. Infine la Williams ha mantenuto un atteggiamento intermedio. Ha in parte criticato l’eccesso di zelo di Nielsen, che effettivamente a tratti avrebbe fatto bene  a parlare un po’ meno e a lasciare il tempo al paziente di riflettere. Dall’altra però la Williams ha anche apprezzato la capacità motivante di Nielsen, che ha saputo trasmettere un po’ della sua energia al ragazzo sofferente.

Una sessione su cui riflettere e in cui, ancora una volta, è emerso quanto sia differente una seduta reale dalle sue descrizioni teoriche. Insomma, un congresso mastodontico che volutamente non segue un filo comune. È un contenitore universale e il luogo di incontro degli psicologi americani.

Chiudo con una nota di colore. Ho conosciuto molti colleghi “Italian-american”, tutti commossi nell’incontrare un “Italian-italian”, come dicevano loro. In particolare ho trascorso molto tempo con Bernardo Carducci, professore di psicologia alla Indiana University e studioso esperto di timidezza, argomento interessantissimo sul quale ha rilasciato un’intervista a State of Mind. Carducci, infine, è presidente e fondatore della Italian-American Psychology Assemby, un’associazione che riunisce i colleghi psicologi italo-americani e di cui sono diventato membro onorario. Da buon paisà.

 GUARDA L’INTERVISTA A BERNARDO CARDUCCI 

LEGGI : APA 2013 – Il congresso annuale della American Psychological Association

LEGGI:

CONGRESSI APA 2013 – HONOLULU – HAWAII – 

La relazione tra Medico e Paziente: sullo stesso fronte. Psicologia

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Oggi il modo migliore per passare i messaggi importanti è metterli su pellicola, farci un film o un corto.

Così è per Insieme, film presentato a Venezia. Film sul cancro e sulla battaglia di una donna che ha al suo fianco persone con le quali può non nascondersi. Dalla sorella che le sta a fianco quasi come fosse anche lei a vivere questa malattia, al medico al quale può dire anche i dubbi più banali e trovare risposte alle sue sofferenze.

Lo scopo di questo film è proprio quello di far emergere un pò quelle che sono le credenze spesso sbagliate di chi vive una situazione del genere.

Avere supporto di amici e parenti quindi non nascondersi ma condividere,  di poter PARLARE con il medico di tutto, lui è l’esperto ma in quel momento anche chi ascolta non solo chi dice cosa fare.

Si sa il supporto adeguato e le cure possono insieme sconfiggere la battaglia.

Bisogna interrompere quel circolo vizioso secondo il quale l’oncologo non chiede e il paziente non parla perché convinto che la chemio, per funzionare, debba per forza farlo star male.

 

«Insieme», un film su quello che il medico non chiede e il paziente non diceConsigliato dalla Redazione

Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e liberamente ispirato a una storia vera, racconta la quotidianità e i problemi di una giovane donna colpita da tumore (…)

 

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VEDI ANCHE: La Relazione che Cura – Convegno Nazionale SIPNEI 2013

 


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Leadership negli Sport di Squadra #6: Leader istituzionale o intimo

 

Leadership negli Sport di Squadra #6:

Leader istituzionale e leader intimo

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

 

Leadership negli sport di squadra: Leader istituzionale o intimo. -Immagine: © Sergey Nivens - Fotolia.comLa caratteristica propria dello sport di squadra, è la possibilità di distinguere un leader istituzionale da un leader intimo. Il primo viene definito a priori mentre il secondo si determina a livello inconscio all’interno di quella che Mazzali [1995] definisce: anima gruppale.

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Nel capitolo precedente sono stati analizzati i processi e i modelli di riferimento alla base della assunzione e gestione del ruolo di leader. A questo punto, concentrando l’attenzione sull’ambito sportivo si può osservare come la condizione di leader risulti particolare all’interno di un gruppo di questo tipo.

La caratteristica propria dello sport di squadra, è la possibilità di distinguere un leader istituzionale da un leader intimo.

Il "segreto" di Andrea Pirlo. - Immagine: fonte - napolinetwork.it
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Il primo viene definito a priori mentre il secondo si determina a livello inconscio all’interno di quella che Mazzali [1995] definisce: anima gruppale.

Difficilmente quindi si può parlare di una singola figura di leader anche se in alcuni casi rari l’assenza di un giocatore dotato delle necessarie capacità può far sobbarcare tutte le responsabilità del capitano sul ruolo dell’allenatore. Molto spesso, al contrario,  si possono distinguere queste due diverse posizioni nella gerarchia di status (l’allenatore e il capitano) la cui armonia gioca un ruolo fondamentale sia a livello di prestazione che a quello di soddisfazione per tutti i componenti del gruppo. Molte ricerche ne hanno messo in evidenza alcune differenze, le quali influenzano anche le aspettative e le funzioni che svolgono all’interno della squadra. Nella tabella seguente vengono riassunte le più importanti:

TAB. 1 LEADERSHIP SPORT DI SQUADRAE’ importante sottolineare che queste due categorie rappresentano solo degli idealtipi, chiari, semplici e utili a livello teorico, ma altrettanto irreali nelle dinamiche quotidiane intragruppi dove, solitamente, si pongono entrambe lungo un continuum in ciascuna delle dimensioni prese in considerazione.

Lo stesso Mazzali [1995], pur riconoscendo all’allenatore un principale orientamento al raggiungimento degli obiettivi imposti dalla dirigenza e al capitano un principale orientamento alle relazioni, non nega la necessità di un atteggiamento intermedio da parte di entrambi perché si possa raggiungere la stabilità interna, necessaria ad affrontare senza esagerate esultanze i momenti di vittorie e senza disgregazioni interne in periodi di sconfitte, e per mantenere elevato l’impegno del gruppo. Questa tipologia di leader che sa utilizzare la propria autorità ma che la trae dall’accettazione del gruppo (guadagnandola quando la sua origine non dipende da questa)  è definito dall’autore un leader “catalizzatore”.

Tutte queste caratteristiche risultano elementi determinanti per la soddisfazione e la prestazione della squadra secondo il modello multidimensionale, presentato nell’articolo precedente, di Chelladurai [1990]. Questo concetto è ribadito dall’idea esposta da Mazzali che la gestione dello spogliatoio, e quindi delle problematiche socio-emotive e prestazionali della squadra, è sempre un momento transitorio in cui non esistono comportamenti universalmente validi poiché ogni gruppo rappresenta una realtà a sé stante.

E’ indispensabile quindi che il leader possegga abilità che gli permettano di adattare il proprio comportamento per affrontare nel modo migliore le più svariate situazioni problematiche. Alla luce, quindi, di quello che si è osservato essere la caratteristica principale per il successo del leader (la versatilità comportamentale), questa associazione tra il tipo di leader e gli stili comportamentali ideati da Bales e Slater [1955], pur mantenendo un fondo di verità, appare eccessivamente rigida. Sia l’allenatore che il leader interno alla squadra devono risultare in grado di attivare l’uno o l’altro stile comportamentale.

Detto questo rimangono due differenze sostanziali tra questi ruoli, che riguardano la loro posizione rispetto al collettivo e la loro origine.

Rispetto al primo punto è necessario ricordare che l’allenatore appartiene alla sub-struttura ufficiale dello spogliatoio [Giovannini e Savoia, 2002] e per questo mantiene sempre un certo distacco rispetto alla collettività; possiede un ruolo importante e correlato con le dinamiche della squadra ma esterno ad esse. In relazione al comportamento dell’allenatore questa distanza dalla collettività può essere più o meno colmata ma non può essere mai esaurita poiché è una qualità fondante la posizione a cui appartiene; l’allenatore prescrive l’allenamento ma non lo esegue, prepara le partite ma non le gioca assieme agli altri. Ciò che non riesce a colmare dipende quindi da quelle esperienze comuni che quotidianamente condividono i giocatori alle quali non appartiene.

Monografia: Leadership nello Sport - Introduzione. - Immagine ©-iko-Fotolia.com
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Esattamente l’opposto si può dire per il leader intimo, che fa parte della sub-struttura ufficiosa dello spogliatoio, in quanto il suo ruolo non è determinato ufficialmente ma emerge dalle dinamiche di gruppo. Al contrario dell’allenatore il leader intimo condivide con i compagni di squadra tutte le dinamiche dell’allenamento e della partita vivendo in prima persona il gioco di squadra.

Per quanto riguarda l’origine esiste una differenza importante già segnalata nella Tab1. L’allenatore, essendo un ruolo istituzionalmente determinato, viene imposto, come figura, ai membri della squadra, dalla dirigenza. I giocatori, di norma, non hanno alcun potere nella sua elezione, il che può indicare che, al di là della professionalità di ciascun atleta, il rapporto inizialmente è del tutto superficiale anche se si potrà costruire con il tempo.

Il capitano, pur essendo difficile determinare quali sono gli esatti processi che portano alla sua elezione, viene scelto dai membri del gruppo che lo riconoscono come legittimo possessore di questo status. Il processo di costruzione del ruolo di leader segue quindi delle dinamiche diametralmente opposte: per l’allenatore l’elezione è istituzionale e in un secondo momento può essere riconosciuta e accettata dalla collettività; per il capitano, al contrario, la posizione viene assegnata dal gruppo ed eventualmente, e in un secondo tempo, riconosciuta e accettata ufficialmente dall’allenatore.

Come è già stato accennato risulta piuttosto semplice riconoscere chi detiene il ruolo di leader interno alla squadra, mentre è alquanto complesso individuare i motivi e i processi decisionali che hanno portato il gruppo a eleggerlo, soprattutto perché questa scelta, il più delle volte, non è dettata da raziocinio ma da processi inconsci appartenenti all’anima gruppale della squadra.

Con questo concetto Mazzali [1995] si riferisce a “una sorta di <impalpabile rete> che si crea spontaneamente quando un insieme di individui continua a vivere esperienze comuni e si percepisce solo quando se ne è parte” [Mazzali, 1995, p.24].  Secondo l’autore è da queste rete di rapporti emozionali che emerge l’assegnazione del ruolo di leader, non tanto per doti fisiche o intellettive particolarmente eclatanti o positive, quanto perché possiede una sensibilità intuitiva (per lo più innata) che gli permette di comprendere e influenzare la stessa anima inconscia del gruppo.

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Influenzare l’anima gruppale vuol dire, prima di tutto, essere in grado di “stimolare in modo produttivo o negativo il sentimento collettivo” [Mazzali,1995]. Prunelli [2000] sottoscrive un decalogo comportamentale a proposito del buon capitano che sottolinea in che direzione quest’influenza deve essere orientata. Le norme comportamentali che descrive sono riportate di seguito.

I “dieci comandamenti”del buon capitano

  • Pensa per te e per gli altri e non sentirti sminuito se devi metterti a disposizione dei compagni.
  • Cerca di essere tranquillo ed equilibrato, trasmetti sicurezza, rivolgiti all’arbitro nelle dovute maniere.
  • Intervieni a sostegno di un compagno in difficoltà o incapace di sottostare alle regole del gruppo. Mostrati positivo.
  • Non defilarti se non sei in giornata, se l’avversario è più forte e il risultato compromesso.
  • Se occorre fai le veci dell’allenatore: assumi responsabilità. Prendi decisioni.
  • Nei momenti di difficoltà della squadra sforzati di essere creativo e coraggioso, diffondi ottimismo.
  • Tieni conto delle esigenze e dei problemi di ogni compagno.
  • Armonizza i rapporti all’interno dello spogliatoio.
  • Diventa leader, ma proponiti in modo tale che ogni componente del gruppo, in determinate situazioni sia leader a sua volta.
  • Fai in modo di essere credibile senza aver bisogno del sostegno dell’allenatore.

Prunelli [2000]

 

E’ importante ricordare che all’interno della squadra esiste anche un leader tecnico rappresentato da colui che occupa il ruolo sportivo centrale negli schemi tattici del team (il centromediano nel calco, il playmaker nella pallacanestro ecc…) che rappresenta un punto di riferimento nel corso delle prestazioni della squadra in quanto è colui che detta i ritmi del gioco.

Questa figura, assolutamente importante, può coincidere con quella del leader intimo della squadra ma il più delle volte risulta essere una posizione distinta da questa in quanto richiedono diverse abilità. In sostanza la squadra può possedere un leader tecnico esperto e estremamente abile (che tutti gli altri giocatori vorrebbero avere al proprio fianco in momenti critici di una partita) ma non avere le qualità sociali e psicologiche per essere riconosciuto come leader intimo.

E’ facile osservare, a questo punto, come la leadership interna ad una squadra sia un fenomeno variegato e con una struttura diversa e unica per ogni team sportivo che viene preso in considerazione. Spesso infatti possono esistere più leader in aperta ostilità tra loro, magari ciascuno supportato da una parte della squadra, la cui convivenza diviene un problema importante per far si che non si ripercuota sulle prestazioni di tutti.

LEGGI:

PSICOLOGIA DELLO SPORT – RAPPORTI INTERPERSONALI –  LEADERSHIP NELLO SPORT

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Empatia: più forte con i nostri cari

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una delle caratteristiche distintive dell’essere umano è la capacità di provare empatia. Un nuovo studio della University of Virginia suggerisce che il riuscire a mettersi nei panni degli altri dipenda dalla forte associazione che creiamo tra noi e le persone care che ci stanno intorno nel quotidiano, come se con la familiarità queste diventassero parti di noi, come se “il nostro sè includesse le persone che sentiamo vicine”, per usare le parole del ricercatore James Coan, a capo dello studio.

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L’effetto paradossale del mettersi nei panni dell’altro. - Immagine: © Pona - Fotolia.com
Articolo Consigliato: L’Effetto Paradossale del Mettersi nei Panni dell’Altro.

James Coan, professore di psicologia al U.Va.’s College of Arts & Sciences, usando la risonanza magnetica funzionale ha scoperto, infatti, una forte correlazione tra le scansioni cerebrali di persone familiari tra loro. 

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: NEUROPSICOLOGIA

Coan e il suo team hanno condotto lo studio su 22 soggetti adulti; l’esperimento prevedeva che i 22 partecipanti venissero monitorati con la fMRI mentre correvano il rischio che delle lievi scosse elettriche colpissero loro stessi, degli amici o degli sconosciuti.

I risultati indicano, come previsto dai ricercatori, che le regioni del cervello coinvolte nella risposta alle minacce – insula anteriore, putamen e giro sopramarginale – si sono attivate sotto la minaccia di shock per il sé. Nel caso in cui, invece, era un’estraneo ad essere minacciato, le scansioni hanno mostrato poca attivazione in quelle stesse aree cerebrali.

Tuttavia, quando la minaccia di shock era rivolta ad un amico l’attività cerebrale dei partecipanti è risultata essenzialmente identica all’attività visualizzata sotto la minaccia al sé.

 “La scoperta dimostra la notevole capacità del cervello di modellare il sé su quello degli altri, che le persone vicine a noi diventano una parte di noi stessi e che questo non è solo metaforico o poetico, ma è molto reale. Ci sentiamo letteralmente minacciati quando un amico è in pericolo, ma non è la stessa cosa quando lo è uno sconosciuto“, ha detto Coan “Questa probabilmente è la fonte dell’empatia, è parte del processo evolutivo: una minaccia per noi è una minaccia per le nostre risorse. Quando ci facciamo degli amici, possiamo fidarci e affidarci a chi, in sostanza, è diventato parte di noi, le nostre risorse si espandono, ci guadagnamo. L’obiettivo dell’altro diventa il mio obiettivo. È’ parte della nostra capacità di sopravvivenza.

 

LEGGI ANCHE ARTICOLI SU: RAPPORTI INTERPERSONALI

LEGGI ANCHE:

EMPATIA – NEUROPSICOLOGIA – RAPPORTI INTERPERSONALI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Post-vacation blues, la sindrome da rientro al lavoro

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Per alcuni è diventata patologia: lo stress da rientro vacanze, la ripresa della quotidianità, del lavoro, degli impegni è da considerarsi fonte di “depressione”. Oggi colpisce circa 6 milioni di persone.

Così quando si rientra in città l’ umore cambia con un misto di emozioni, dalla tristezza per il cambio di stato da “vacanziero” a lavoratore, alla frustrazione o nervosismo per l’incombere di impegni e scadenze da rispettare.

Tutto il buon umore e relax che si acquisisce in vacanza svanisce in un secondo.

Si presentano quindi sintomi quali ansia, tristezza, nervoso, insonnia, spossatezza etc..difficili da gestire.

Ecco allora qualche accortezza e suggerimento per combattere o rendere gestibile lo stress da rientro vacanze.


“Fisiologicamente tendiamo a tracciare una linea tra un passato trionfale, quello del periodo vacanziero, e un futuro problematico e conflittuale, quello del rientro al lavoro. Si tratta di una linea – spiega – che va in picchiata, da un trionfo a un declino, e che rappresenta solo la nostra paura e le nostre ansie”, spiega Piero Barbanti, neurologo dell’Irccs San Raffaele Pisana di Roma

 

Post-vacation blues, come combattere lo stress da rientro in ufficioConsigliato dalla Redazione

Umore in picchiata. Stanchezza, sonnolenza, stress. Tornare a lavoro e agli impegni di tutti i… (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Teoria e Clinica del Perdono: intervista a Francesco Mancini su Rai 1

Intervista a Francesco Mancini su RAI 1
Pubblichiamo con piacere il link a questa intervista a Francesco Mancini sul nuovo volume “Teoria e clinica del perdono”, curato da Barbara Barcaccia e Francesco Mancini, edito da Raffaello Cortina.

 

Nel libro Teoria e clinica del perdono, si affronta il perdono, ovviamente da un punto di vista psicologico, non religioso o filosofico. Che cosa è il perdono? Se si considera la parola “perdono”, si nota come sia composta di un prefisso rafforzativo “per”, cioè super, e dalla parola “dono” cioè regalo. Il perdono dunque come grande regalo, come atto di magnanimità con cui la vittima rimette il debito a chi lo ha offeso o ingiustamente danneggiato e, allo stesso tempo, riconosce al colpevole la sua dignità di essere umano e dunque il suo diritto a non essere escluso e disprezzato.
E’ importante chiarire che cosa non è il perdono. Il perdono non è oblio, non è negazione del torto, non è giustificazione, non è rassegnazione a subire. Il perdono non implica necessariamente riconciliazione piena, la ripresa di un rapporto sentimentale o di amicizia. Il perdono è la fase conclusiva di un processo che è spesso molto lungo e difficile, a volte psicologicamente troppo difficile, e che inizia con il riconoscersi vittima di un torto e dunque con rabbia, risentimento e desiderio di vendetta.
Non esistono modelli del tutto soddisfacenti di questo processo, tuttavia è possibile indicare alcuni fattori che lo facilitano: la richiesta del perdono da parte della vittima, la capacità di mettersi empaticamente nei panni del colpevole, il desiderio di pacificazione, il timore che la vendetta faccia passare dalla parte del torto, il desiderio di liberarsi dalla ruminazione rancorosa, la capacità di trovare attenuanti e dunque di contrastare l’outrage heuristic tipica di colui che a subito un torto.

Il perdono fa bene a chi perdona, naturalmente va salvaguardata la prudenza, cioè perdonare non significa correre i rischi di riavvicinarsi a persone pericolose, vendicarsi, al contrario, sembra che non aiuti a chiudere la ruminazione rancorosa, non sempre fa bene al perdonato che può sentirsi ancora più in colpa o umiliato  dalla magnanimità del perdonatore.

 

Il perdono può essere la strada per uscire dalle conseguenze di abusi maltrattamenti e ingiustizie, dal ruolo di vittima rancorosa.

 

Francesco Mancini cerca di rispondere a queste domande. L’intervista è andata in onda su Rai 1 ieri mattina, ed è disponibile cliccando questo link: INTERVISTA

ATTENZIONE: Per andare direttamente all’intervista saltando le altri parti del programma posizionarsi al minuto 10:25.

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

 

BIBLIOGRAFIA: 

COGSCI 2013 Report dal Congresso della Cognitive Science Society. Di Bruno Bara

Dal 31 luglio al 3 agosto 2013 si è svolto a Berlino il 35esimo congresso della Cognitive Science Society, una delle principali società scientifiche della scienza cognitiva. Pubblichiamo con piacere le istruttive e divertenti mail del prof. Bruno Bara, che ha partecipato al congresso.

 

COGSCI 2013

Cronache dal Congresso della Cognitive Science Society

(31 luglio – 3 agosto 2013)

COGSCI 2013

REPORTAGES DAI CONGRESSI – SCIENZE COGNITIVE

 

1 agosto 2013

Eccomi a Berlino per il megaconvegno di Cognitive Science, 1.300 partecipanti, battuti tutti i record precedenti. Tradizionalmente i convegni in Europa sono il meglio. Mentre negli USA ci vanno solo post-doc vestiti da surfisti californiani, qui sono presenti gli scienziati di punta, i direttori di laboratorio assieme alle promesse future. Tutti carini, gentili ed eleganti, niente braghette corte e molti vestitucci in fiore.

Inizia John Duncan, del Medical Research Council di Cambridge. Per me è un ritorno a casa: ci sono stato per mesi e mesi quando lavoravo con Johnson-Laird. Duncan ha vinto il premio Heineken 2013, il Nobel della scienza cognitiva, e ascoltandolo si capisce perché. Parla del MD, il Multiple Demand System, un sistema neurale distribuito che spiega l’intelligenza fluida, splendido nome per indicare la nostra capacità di risolvere problemi difficili o in sequenze complesse.

Quando la complessità della situazione aumenta, perdiamo le componenti cognitive più vulnerabili, oppure se la richiesta attentiva diventa troppo forte, dimentichiamo alcune porzioni di informazione. La mente chiara, la clear mind, è secondo lui quella capace di rivolgere l’attenzione alle sottoparti utili, trascurando le parti non significative, e spiega come riesce il cervello a realizzare questo.

Segue un delizioso simposio su “Evoluzione di Linguaggio e Gesti”, tutto il meglio dei primatologi sulla piazza, gente che ha passato minimo 5 anni nelle foreste pluviali:  Call, Liebal, Hobaiter, Tomasello, con l’aggiunta di Susan Goldin-Meadow, la grande esperta di sordi.
Su una cosa concordano tutti: gorilla e scimpanzé sono straordinari, ma l’uomo è un’altra cosa. I video di baby chimp che per giocare svegliano la madre addormentata e di gorillone seduttive che fingendo di negarsi provocano sessualmente il maschio tonto sono irresistibili, difficile non riconoscervi figli e fidanzate. La tentazione antropomorfa colpisce senza pietà. Conclusione: non è il linguaggio la strada per l’evoluzione della comunicazione, ma la capacità di condividere, cosa che manca ai nostri competitivi cugini.

A pranzo ci sono 210 poster da guardare, e ogni giorno ce ne saranno altri 200 nuovi, vi racconto il top.
Monica Bucciarelli coi suoi collaboratori ne presenta uno innovativo sulla versione scritta del linguaggio dei segni, nessuno ci aveva pensato prima: lavoro intelligente e utile socialmente.

Amory Danek, una studiosa che nega l’esistenza dello insight nei problemi di insight, sostiene sulla base di ingegnosa evidenza sperimentale che l’esperienza di insight si riferisce solo al solutore e al suo atteggiamento mentale, mentre non sta nel problema e tantomeno nella sua soluzione. È molto incinta e la bacerei, ancora una volta tutto sta nella nostra mente e non nel mondo esterno.

Il mio favorito è Justin Matthews, che fa vedere immagini inquietanti di ponti sospesi e ti fa stimare quanto sono lunghi, immaginando di essere soli, o con qualcuno, o con un amico che ti aspetta all’altro capo del ponte. In inglese suona meglio, perché il close friend, l’amico stretto, ti fa percepire il ponte più close, più breve. Vicinanza affettiva e spaziale si mescolano, una gioia per noi terapeuti incarnati.

Berlino è esattamente come la immaginate: facile, libera, giovane, rispettosa. Tutto è concesso, basta non dare fastidio. Uso come misura le coppie gay, con figli e senza, che affollano le ordinate strade piene di locali all’aperto dove puoi mangiare, bere e fare qualunque cosa desideri.

Il ricevimento a inviti è una delusione, una sorta di aperitivo leggero per tedeschi chic, clamorosamente insoddisfacente, si salutano i colleghi e si va via. A cena con Monica debuttiamo in una grande birreria con il tradizionale maiale in ogni sua forma, ma poi lasciamo quasi tutto, troppo impegnativo se il giorno dopo tocca lavorare. Ma è un rito dovuto, da domani si cercano ristoranti migliori.
Non fa troppo caldo, il riposo è il benvenuto.

2 agosto 2013

Il secondo giorno inizia con Michael Bratman, che in plenaria parla di condivisione. Ha una posizione controcorrente, di sfida a Searle e Gilbert, sostiene che non ci sono stati mentali primitivi collettivi, ma che tutto è riducibile a stati individuali. Dopo 30 anni che seguo Searle, sia in Italia sia a Berkeley, proprio non ce la faccio a mandare tutto all’aria.

Il punto critico sono i bambini: se ha ragione Bratman, come fanno a condividere tutto ben prima che la potenza cerebrale li metta in grado di gestire stati mentali complessi? Domanda fatta, e la candida risposta è stata che non ne ha la minima idea. Vabbé che i filosofi giocano in libertà, ma proprio trascurare ogni evidenza sperimentale!

Dopo un ansiogeno coffee break, i miei valorosi dottorandi Francesca Capozzi e Tiziano Furlanetto mi accompagnano nella Room 1, dove si tiene il simposio sulle intenzioni comunicative nella mente e nel cervello.
La sequenza è Michael Tomasello su bambini e scimpanzé, Nick Chater su scelte economiche, Rosemary Varley sulle intenzioni negli afasici, e ultimo io sul circuito neurale della intenzionalità. Teniamo mezz’ora per la discussione finale, sala piena, dibattito vero, domande cattive e risposte perfide. A sorpresa ci troviamo d’accordo su una serie di punti critici tipo l’interazione fra gesti e linguaggio, e le domanda dedicate a me sono una delizia, so miracolosamente cosa rispondere. Ci divertiamo, Wayne Gray (editor di Topics) vorrebbe ne facessimo un numero speciale di Topics on Cognitive Science, a tutti piace l’idea ma nessuno si prende l’onere di proporsi come special editor, peccato.

Dovrei essere più nonchalant? E quando mi capita più di essere con cotanti scienziati, a Berlino, di fronte a qualche centinaio di miei colleghi europei?

Fra i 200 poster del giorno vi segnalo quello sull’impegno congiunto studiato attraverso le emozioni e il comportamento extralinguistico, presentato da Francesca Morganti, con fra gli autori nientemeno che Antonella Carassa e Giorgio Rezzonico!
Mi colpisce più di tutti Josh Hemmerich, che studia conoscenza e soddisfazione nei pazienti che devono prendere una decisione su come trattare il proprio cancro ai polmoni. La maggioranza vuole avere voce in capitolo, mentre il 20% più anziano preferisce affidarsi totalmente al chirurgo. Non indaga le differenze individuali, ma qualcosa che serve davvero fa piacere ascoltarlo.

Andiamo a cena nel più antico ristorante di Berlino, dove troviamo miracolosamente posto, e ci godiamo ottimi birroni e polpettone. Ancora un mojito prima di andare a dormire, e una giornata che non dimenticherò termina in gloria.

 

3 agosto 2013

Terza giornata di questa maratona ricca e impegnativa. La plenaria del mattino è affidata a Elizabeth Spelke, uno spettacolo di bravura e intelligenza. È famosa per i suoi studi sulla matematica e la geometria nei bambini, si è spostata sulla cognizione sociale confermando le sue doti di scienziata aperta e capace di rinnovarsi.

Mostra le meraviglie che i bambini di 3 mesi sono già in grado di fare in termini di azioni efficaci, e sostiene che a 4 mesi iniziano a comportarsi da agenti sociali, a patto che si stabilisca con loro un contatto oculare: ciò che ogni genitore sa, vale a dire che suo figlio è un genio, viene confermato sperimentalmente.
A 8 mesi si accorgono delle somiglianze sociali, amano imitare ed essere imitati (questo dura tutta la vita per molti), pian piano diventano più selettivi sulle persone con cui interagire, in quanto comprendono come le azioni abbiano effetto sulle relazioni sociali.
Si chiede cosa rende gli umani così intelligenti, e cosa permette la rivoluzione del primo anno, in concomitanza coll’insorgere del linguaggio. Secondo lei il vantaggio umano sta nelle nostre capacità cognitive sociali, perché molte altre abilità non sociali si trovano anche in altri animali.
Il dibattito se sia il linguaggio o la cognizione a determinare la svolta del primo anno attraversa il congresso. L’idea della cognizione sociale è la più convincente a mio interessato parere. E non vi venga in mente di dire che tutto importa, linguaggio, cognizione e cognizione sociale, perché fareste la figura di un cerchiobottista.
Spelke conclude che se siamo così intelligenti socialmente non si capisce come mai usiamo tanto male le nostre capacità sociali, riducendoci sull’orlo della catastrofe planetaria a ogni crisi. In effetti non è facile nemmeno capire la questione, forse riflettere seriamente sulle patologie della cognizione sociale dovrebbe diventare primario per gli scienziati.

Salto ancora una volta il pranzo, che mi dicono peraltro modesto, perché presento un poster con Rosalba Morese primo nome, Daniela Rabellino, Angela Ciaramidaro e Francesca Bosco, sulla punizione altruistica. Me lo sistema alla perfezione l’ottima Francesca Capozzi, un po’ perché i miei dottorandi sono gentili, un po’ perché non si fidano di me.
È un eccellente lavoro in risonanza magnetica sul fatto che siamo disposti a investire risorse per punire chi non si comporta correttamente, in particolare se lo scorretto è uno del nostro gruppo e tratta male uno del nostro stesso gruppo. Parecchie domande, critiche tecniche cui non so rispondere, me la cavo meglio sulle questioni teoriche.
In tema vi cito un elegantissimo poster di Giulia Andrighetto, Francesca Giardini e Rosaria Conte del CNR di Roma, tutto teorico sulla differenza fra vendetta e punizione, e uno divertente di Maryam Tabatabaeian sulla disonestà come tendenza umana automatica. I temi morali contano, cominciamo ad affrontarli finalmente.

Vado infine a un simposio sulla cooperazione, il meglio è Valentina Cardella che parla delle società animali e umane. Molto speculativa, lei punta sul linguaggio come strumento tecnico di differenziazione umana, ma in un convegno molto attento all’evoluzionismo risulta non del tutto convincente, il linguaggio cui si riferisce lei è quello evoluto di homo sapiens, come la mettiamo col paio di milioni di anni precedenti? Comunque è giovane e competente, dibatte con precisione. Ne sentiremo parlare se non la comprano all’estero come stanno facendo con tutti i dottorandi italiani di qualità.
Incontro Herbert Clark alla stessa sessione, il primo a impostare il tema della conoscenza di background nella comunicazione, gentile come sempre e come sempre capace di critiche affilate. Ci troviamo a ogni congresso, e siamo stati spesso insieme nei simposi, il nostro microcosmo è davvero micro.

Basta, neppure gli organizzatori vanno alla cerimonia finale, troppo caldo e troppi eventi. Tutti esausti, andiamo a vedere Nefertiti, per controllare se è davvero straordinaria come dicono.
Lo è, lo è, questa affascinante principessa nera merita ogni ammirazione, un prototipo di bellezza difficile, non banale, non sexy ma seducente da tremila anni. A cena ora, statemi bene e riflettete sul fatto che è stato un ebreo a donare alla città di Berlino la sua opera d’arte più famosa.

Bruno Bara.

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Il counseling in adolescenza

 

Counseling in adolescenza . - Immagine: © auremar - Fotolia.comL’adolescenza si configura come una fase della vita complessa, sfaccettata, eterogenea, caratterizzata da importanti cambiamenti e acquisizioni cognitive, affettive e socio-relazionali.

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La letteratura in proposito (Palmonari, 1997; 2001; Pietropolli Charmet, 2000) propone come concetto cardine attorno a cui strutturare l’analisi dello sviluppo in adolescenza, quello di developmental task o compito di sviluppo.

Tutto il ciclo di vita dell’individuo è costellato da compiti e sfide che devono essere affrontati e risolti nella maniera più funzionale e adattiva allo scopo di favorire lo sviluppo e l’adattamento dell’individuo al proprio ambiente. Se questo non avviene nei tempi e nei modi adeguati, lo sviluppo e il benessere dell’individuo sono potenzialmente compromessi.

Una lettura recente dei compiti di sviluppo propone l’analisi degli stessi in relazione allo stretto rapporto esistente tra individuo, ambiente e appartenenza socio-culturale (Palmonari, 2001). Nelle società occidentali i compiti di sviluppo specifici della fase adolescenziale investono potentemente tutte le aree di sviluppo salienti per l’individuo: corpo, cognizione e metacognizione, affettività, emozioni, relazioni, identità (Erikson, 1968).

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Risulta evidente da questa breve disamina che i compiti evolutivi sono potenzialmente portatori di benessere e adattamento psicosociale così come di disagio e malessere a seconda delle modalità e delle strategie che l’adolescente adotta per affrontarli.

Il disagio adolescenziale, concordemente alla letteratura sia in ambito psicodinamico sia psicosociale, trae origine dalle difficoltà e dal dolore mentale che l’individuo sperimenta nel dover affrontare queste sfide evolutive così importanti e decisive per i successivi processi di sviluppo. La messa in atto di strategie di fronteggiamento e di coping facilmente accessibili ma potenzialmente dannose e pericolose per la salute e il benessere, come ad esempio l’uso di sostanze e alcol, i comportamenti aggressivi, o la guida spericolata, possono compromettere l’adattamento dell’individuo ai suoi contesti di vita e la possibilità per lui di apprendere altre strategie maggiormente costruttive e protettive (Bonino, Cattelino e Ciairano, 2007).

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L’attività di counseling rivolta agli adolescenti si inserisce proprio in questo frangente, e, nello specifico, allo scopo di evitare che un momento di crisi o di stallo evolutivo si trasformi in una vera e propria stagnazione (Hendry & Kloep, 2003) o in quello che Pietropolli Charmet (2000) definisce “scacco evolutivo”. Il counseling si pone l’obiettivo di evitare la paralisi delle competenze adattive dell’individuo e la cristallizzazione di un’identità negativa, favorendo al contrario l’esplorazione e l’attivazione di modalità costruttive e adattive di fronteggiamento dei compiti di sviluppo (Maggiolini, 1997).

L’adolescenza ai tempi della crisi. -Immagine: © olly - Fotolia.com
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Secondo Pietropolli Charmet (2000), “nel caso dell’adolescente non è il tipo di patologia a rappresentare una controindicazione all’analisi, ma è la fisiologia stessa dello sviluppo adolescenziale a costituire una controindicazione, in quanto è la parte sana dell’adolescente a rifiutare la regressione, la dipendenza, l’intrusività dell’adulto, per quanto benevolo, e a cercare nell’azione una soluzione del conflitto e non nella parola”.

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Il colloquio con l’adolescente da parte di un professionista quindi può funzionare solo se ci si allontana da una domanda di cura e da un’idea di malattia; l’adolescente deve essere considerato non come paziente ma come una persona che ha un problema e che, sulla base di una libera scelta, decide attivamente di parlarne con una persona competente (Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004).

Seguendo queste premesse, il counseling si configura dunque come la modalità ideale di colloquio e di ascolto con l’adolescente, in quanto è un intervento breve nel tempo, che riconosce all’adolescente un ruolo attivo, che presuppone un rapporto alla pari con l’adulto e che promuove le capacità decisionali e relazionali.

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In Italia, si assiste da qualche decennio alla costituzione e all’ampliamento di spazi di ascolto per adolescenti non solo all’interno di luoghi istituzionali come la Scuola e i Servizi socio-sanitari, ma anche, e sempre più frequentemente, in contesti di natura informale ed aggregativa, come i centri di aggregazione giovanile, gli oratori o i progetti di educazione di strada e territoriale. Questi spazi di ascolto si sono progressivamente sviluppati e hanno sempre più abbracciato un’idea di prevenzione olistica, in grado di intercettare e affrontare tutte le forme e le sfaccettature del disagio adolescenziale. Non solo quindi la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili e l’informazione sulla contraccezione, obiettivi centrali dei primi CIC (Centri di Informazione e Consulenza, predisposti a norma di legge in Italia per la prima volta con il “Testo unico delle Leggi in materia di disciplina degli stupefacenti, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza” – DPR 309/90) negli anni 90 in risposta all’emergenza delle infezioni da HIV, ma anche la prevenzione dell’uso di tabacco, alcol e sostanze stupefacenti, la guida sicura, l’accettazione del proprio corpo, la promozione delle competenze socio-relazionali, il benessere in famiglia, a scuola e con i coetanei.

Le richieste e le domande che gli adolescenti pongono agli adulti competenti sono molteplici e abbracciano indistintamente tutte le aree che per loro sono emotivamente e cognitivamente salienti: il proprio corpo, la famiglia, la scuola, le relazioni con i coetanei del proprio e dell’altro sesso (Maggiolini, 1997; Fuligni e Romito, 2002; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004). L’obiettivo principe del counseling è tuttavia trasversale alle diverse richieste: fornire agli adolescenti strumenti e strategie di coping per fronteggiare difficoltà relative ai compiti di sviluppo prima dell’insorgere di un vero e proprio disagio, facilitando cambiamenti nel comportamento e migliorando le capacità di relazioni interpersonali.

Pietropolli Charmet (2000) rintraccia nella consultazione con l’adolescente diverse richieste che quest’ultimo avanza all’adulto; secondo l’autore, il colloquio è un momento importante in cui l’adolescente chiede simbolicamente all’adulto il permesso di abbandonare le vesti infantili e di nascere socialmente e pubblicamente come persona che sta crescendo: “Quando gli adolescenti vengono a chiedere una consultazione è come se, metaforicamente, chiedessero il permesso di crescere o chiedessero scusa di non averlo ancora fatto, o di essere messi alla prova per verificare le loro capacità di stare ai patti. È come se l’adulto competente rappresentasse agli occhi dell’adolescente una sorta di protesi mentale per valutare realisticamente come stiano le cose […]. Spera di intercettare un allenatore che sa quali siano i percorsi per rifornirsi delle competenze necessarie a realizzare gli obiettivi”.

Il counseling si configura a questo proposito come un efficace strumento di prevenzione in adolescenza (Maggiolini, 1997; Di Fabio, 2000; Martellucci e Spaltro, 2006), in quanto è in grado di rilevare precocemente sintomi di disagio o malessere psicologico e psicosociale, consente di indagare la trama di fattori di rischio e di fattori protettivi per ogni singolo soggetto e permette di incrementare e perfezionare nell’adolescente quelle competenze socio-cognitive e di coping mediante cui affrontare tale disagio e superarlo efficacemente.

Dal punto di vista epistemologico e teorico assumono più che mai importanza i concetti di empowerment, autoefficacia, locus of control e coping, centrali nelle più recenti formulazioni teoriche di stampo socio-costruzionista e negli interventi di prevenzione in ambito psico-sociale. Come bene evidenziano Martellucci e Spaltro (2006) questi concetti esprimono in termini operativi “il potenziamento del senso di padronanza e di controllo sulla propria vita attraverso la conoscenza di sé, dei propri punti di forza, ed anche la conoscenza dei vincoli e delle opportunità offerti dalla famiglia, dal gruppo classe, dalla scuola e dalla comunità territoriale più ampia”.

Il concetto di self-empowerment esprime la capacità di percepirsi come potenzialmente in grado di mobilitare risorse personali per fronteggiare in modo adeguato i problemi, di sentirsi competenti e consapevoli del legame esistente fra le azioni e i risultati ottenuti (Zani e Cicognani, 2000). I fattori che potenziano la percezione di empowerment sui quali è necessario fare leva in sede di colloquio d’aiuto, sono secondo Martellucci (2005), il locus of control interno, la hopefulness, l’autostima e la percezione di autoefficacia. L’autoefficacia percepita (Bandura, 1995) è intesa come la percezione che la persona ha di essere in grado di portare a termine un compito e la consapevolezza di avere aspettative realistiche circa le proprie possibilità di successo in una data situazione problematica. Favorire e potenziare il senso di autoefficacia in adolescenza, mediante attività di counseling significa rendere i ragazzi consapevoli delle proprie potenzialità e maggiormente preparati a mettere in campo le competenze adeguate per affrontare con successo le sfide di sviluppo, attivando strategie di protezione verso i comportamenti a rischio (Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003) e favorendo attivamente resilience e adattamento.

 

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ADOLESCENTI –  IMPULSIVITA’ – COLLOQUIO PSICOLOGICO – RAPPORTI INTERPERSONALI – FAMIGLIA

 

BIBLIOGRAFIA:

Schizofrenia: i nuovi risultati della genetica

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un nuovo GWAS ha individuato 22 sedi, di cui 13 di recente scoperta, che si ritiene abbiano un ruolo nel causare la schizofrenia.

Un genome-wide association study (GWAS) in epidemiologia genetica è un esame di molte varianti genetiche comuni a individui diversi per vedere se qualunque tra queste è associata a un tratto.

Un nuovo GWAS ha individuato 22 sedi, di cui 13 di recente scoperta, che si ritiene abbiano un ruolo nel causare la schizofrenia.

Cervello, Neuroni Specchio. - Immagine: © V. Yakobchuk - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Da Freud ai Neuroni Specchio: Schizofrenia e social perception.

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Patrick F. Sullivan, professore nei dipartimenti di genetica e psichiatria e direttore del Center for Psychiatric Genomics alla University of North Carolina School of Medicine, che ha diretto lo studio, sostiene che “Se trovare le cause della schizofrenia è come risolvere un puzzle, allora questi nuovi risultati ci danno gli angoli e alcuni dei pezzi sui bordi. Questo studio ci fornisce l’immagine più chiara fino ad oggi su due diversi percorsi che potrebbero fallire nelle persone con schizofrenia e ora abbiamo urgente bisogno di concentrare la nostra ricerca su questi due percorsi per capire che cosa provoca questa invalidante malattia mentale.

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I risultati si basano su un’analisi multi-fase che ha avuto inizio con un campione nazionale svedese di 5.001 casi di schizofrenia e 6243 controlli, seguita da una meta-analisi di precedenti studi GWAS, e, infine, dalla replica di polimorfismi a singolo nucleotide (SNP) in 168 regioni genomiche in campioni indipendenti. Il numero totale delle persone in studio era più di 59.000.

Una delle due vie individuate dallo studio è un canale via calcio. Questo percorso include i geni CACNA1C e CACNB2, le cui proteine ​​si toccano come parte di un processo importante nelle cellule nervose. L’altra via è quella del micro-RNA 137. Questo percorso comprende il suo gene omonimo, MIR137 – che è un noto regolatore di sviluppo neuronale – e almeno una dozzina di altri geni regolati da MIR137.

La cosa veramente interessante, ha detto Sullivan, è che adesso è possibile utilizzare le tecnologie standard per riempire i pezzi mancanti del genoma. Ora esiste un percorso chiaro e ovvio per ottenere una conoscenza abbastanza completa sugli aspetti genetici della schizofrenia. Tutto questo non sarebbe stato possibile cinque anni fa”.

LEGGI:

SCHIZOFRENIA –  GENETICA & PSICHE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Stephan Ripke, Colm O’Dushlaine, Kimberly Chambert, Jennifer L Moran, Anna K Kähler, Susanne Akterin, Sarah E Bergen, Ann L Collins, James J Crowley, Menachem Fromer, Yunjung Kim, Sang Hong Lee, Patrik K E Magnusson, Nick Sanchez, Eli A Stahl, Stephanie Williams, Naomi R Wray, Kai Xia, Francesco Bettella, Anders D Borglum, Brendan K Bulik-Sullivan, Paul Cormican, Nick Craddock, Christiaan de Leeuw, Naser Durmishi et al.,  Genome-wide association analysis identifies 13 new risk loci for schizophreniaNature Genetics (2013) doi:10.1038/ng.2742, Received 09 December 2012 Accepted 01 August 2013 Published online 25 August 2013

 

La terapia Cognitivo-Comportamentale efficace contro la depressione

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Due nuove ricerche dell’Università del Texas Southwestern Medical Centrer di Dallas e dell’Ospedale Pediatrico di Boston, pubblicate sulla rivista scientifica JAMA Psychiatry confermano nuovamente la grande efficacia della Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale nel trattamento della depressione anche come alternativa preferibile al solo uso dei farmaci.

Esistono dunque alternative valide ai farmaci antidepressivi? Secondo due nuovi studi, sì. E si trovano nella terapia cognitivo-comportamentale che ha dimostrato in diversi casi di essere di pari o superiore efficacia rispetto agli antidepressivi.

 

Depressione: la terapia cognitiva può essere meglio dei farmaciConsigliato dalla Redazione

Secondo due nuovi studi, l’alternativa agli psicofarmaci, o antidepressivi, è la terapia cognitivo-comportamentale che, in molti casi è efficace allo stesso modo, senza effetti collaterali (…)

Tratto da: LaStampa.it

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Stigma: un grande ostacolo per la prevenzione del suicidio – Workshop – Roma

Stigma: un grande ostacolo per la prevenzione del suicidio

10 – 11 settembre 2013, Azienda Ospedaliera Sant’Andrea – Roma

 

ARTICOLI SU: STIGMA

 

Istinto di sopravvivenza e spinta anticonservativa

 

Paolo Cianconi, medico specialista in psichiatria, Casa Circondariale di Regina Coeli di Roma, RMa

 

Con il termine istinto si intendono due concetti: la spinta e la sua qualità innata. L’istinto è la tendenza intrinseca di un organismo vivente a eseguire delle istruzioni comportamentali non deliberate ponderatamente. Gli istinti sono comportamenti automatici che non sono frutto di apprendimento e di scelta personale. Peculiare dell’azione istintiva è la mancanza di base esperenziale su cui giustificare l’azione, come se il tutto derivasse da una caratteristica insita nel patrimonio genetico.

Un istinto deve essere presente negli individui della stessa specie. Le azioni complesse derivate da una spinta istintuale sono così primigenie per il portatore che esse spesso avvengono senza che sia sempre evidente uno scopo.

L’istinto di sopravvivenza è un mistero con cui non solo le neuroscienze si confrontano oggi. Non abbiamo una spiegazione di cosa sia che ci mantiene in vita.

Secondo la teoria darwinista discussa da Dawkins nel libro il “Gene egoista” l’istinto di sopravvivenza sarebbe il prodotto di una volontà di alcuni geni istruttori. La tesi che sostiene Dawkins è che i geni non sono trasmessi a caso o selezionando ciò che serve alla specie (noi o un altro essere vivente), al contrario essi si auto-selezionano secondo ciò che è utile per i loro stessi interessi (interesse del DNA) e non necessariamente seguendo l’interesse dell’organismo. Secondo questa versione il vero organismo vivente è il DNA, non noi; un organismo replicante che vive da millenni in condizioni di concorrenza spietata per le risorse, insieme ad altri proto-replicatori.

I fenotipi, ovvero noi, che viviamo una realtà materiale e percorriamo una vita di alcune decine di anni, siamo dei semplici portatori. Vale a dire che noi siamo strutture virtuali che servono a trasportare il DNA attraverso i millenni. I nostri gruppi, le nostre società, tutta la cultura che è stata prodotta, le centenarie concezioni filosofiche e religiose che abbiamo creato non sono altro che strumenti per assicurare la replicazione della vera realtà, quella genetica.

Visto in questo modo l’istinto di sopravvivenza non solo non sarebbe dell’individuo, ma non sarebbe nemmeno un prodotto del nostro mondo reale. L’istinto di sopravvivenza svela la sua natura di collante che affiora dal livello molecolare, una proprietà emergente che ci costringe al nostro compito, ovvero traghettare di generazione in generazione un entità viva non autocosciente: il DNA della specie.

La definizione che abbiamo di istinto di sopravvivenza è fortunatamente meno distopica: si tratta di un istinto naturale che comprende fenomeni mentali (attività cognitiva ed emotiva, il formulazione di pensieri, creare significati, organizzare moralità) e comportamentali complessi tesi alla conservazione della vita del soggetto. La spinta alla sopravvivenza è detta spinta conservativa1. Contro questa condizione di permanenza in vita si sviluppano, nelle specie, le spinte anticonservative (lo scontro, l’autolesionismo, il sacrificio). La principale spinta all’annullamento, elevata simmetricamente contro la vita, è comunemente nota con il nome di pulsione al suicidio. Ma il suicidio umanisticamente parlando è un fenomeno che irrompe nella vita con una eterogeneità disarmante.

Ieri due ragazze si sono chiuse in macchina in una pietraia e hanno tentato di uccidersi insieme. Nelle loro parole è presente la pericolosa istantaneità dei tempi postmoderni2, in cui ci si gioca tutto per ciò che si sente, impulsivamente, nel vuoto, senza scopi. La crisi economica è stata associata al suicidio di molti piccoli imprenditori, la prigione è connessa a un tasso di pericolo molto alto. Persino il bullismo ha fatto delle vittime. E ancora: il suicidio è una forma di protesta o lotta contro il potere (Tibet), è parte di pratiche culturali per conservare l’onore, ha caratterizzato alcuni fenomeni di massa (veterani, millenarismi). E infine i disturbi psichici sono notoriamente connessi con il suicidio. La psichiatria è stata spesso chiamata in causa per fornire spiegazioni su questi eventi limite. Ma non solo la psichiatria si confronta con fenomeni così eterogenei; non è solo la follia che conduce ai suoi gesti estremi un’esistenza. Il suicidio è un fenomeno alquanto complesso i cui confini sociali, antropologici e medici sono continuamente costretti a confrontarsi con realtà decorrenti e ineguali, a ogni singolo nuovo episodio.

 

 

Bibliografia

  • Cianconi, P.; Addio ai confini del mondo, FrancoAngeli, 2011
  • Dawkins, R.; (1979), Il gene egoista, Mondadori, Milano.
  • Gazzaniga M.; (2011), Chi comanda? ed Codice Torino, 2012

ARTICOLI SUL SUICIDIO

“Do you speak Facebook? Guida per genitori e insegnanti al linguaggio del social network” – Recensione

Recensione del libro

“Do you speak Facebook?

Guida per genitori e insegnanti al linguaggio del social network”

di Anna Fogarolo

Edizioni Erickson (2013)

 

Do you speak Facebook? - RecensioneLa maggior parte di noi ha dimestichezza con tutto quello che offre la Rete, sia in termini di fruizione di informazioni che in termini di “social”, macro categoria che racchiude tutti gli strumenti a disposizione del web che ci consentono di comunicare, interagire e gestire degli scambi sociali.

Smartphone, Tablet, PC: ormai siamo connessi ovunque e

comunque.

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Impossibile non pensare immediatamente a Facebook, la piattaforma sociale più utilizzata e il secondo sito internet più visitato al mondo (secondo solo al motore di ricerca Google), e a come continui ad influenzare, in qualche modo, la nostra vita.

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Il testo di Anna Fogarolo è un piccolo ma preciso manuale che introduce i profani all’utilizzo di Facebook, spiegando passo passo come creare un account, come impostare i paramentri di privacy, come creare un gruppo o una pagina, con particolare attenzione a chi volesse utilizzare questo strumento come risorsa per l’educazione.

Le premesse di questo testo sono duplici: si parte dall’assunto che Facebook, ormai, rappresenti una parte piuttosto consistente della vita dei così denominati “nativi digitali”, quelle generazioni – cioè – che sono nate e cresciute con internet e per questo, alcuni ritengono, siano in grado naturalmente di padroneggiare i suoi strumenti. In realtà nascere in un determinato contesto non significa saperlo gestire o conoscere a fondo, ecco perché i docenti rappresentano un punto di riferimento, o potrebbero rappresentarlo, anche nell’educazione al mondo virtuale e di internet, che non è scevro né da pericoli né da regole, né da limiti in realtà.

Condividere, postare, taggare, sono tutti termini che i pre adolescenti e gli adolescenti di oggi (ma non solo) maneggiano con naturalezza, come parte integrante del loro mondo emotivo, sociale e cognitivo.

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Chi volesse, dunque, riuscire ad entrare in contatto con loro, non può esimersi dall’utilizzare e padroneggiare sia gli strumenti a loro disposizione, sia il linguaggio ormai diffuso e comune.

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La seconda premessa, a mio avviso incoraggiante, viene dallo stesso Facebook che fornisce la disponibilità di creare delle pagine o dei gruppi specifici per le scuole. Interpretando molto bene la tendenza attuale di professori ed educatori che sfruttano le potenzialità di condivisione e di comunicazione della piattaforma, per poter avvicinarsi agli alunni ma anche – e soprattutto – per fare sì che gli stessi alunni si avvicinino ad un mondo variegato e spesso contestato come la Scuola.

L' Invidia del post. - Immagine:©-tarasov_vl-Fotolia.com_1
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Proporre contenuti didattici attraverso Facebook è possibile e rappresenta una svolta nel rapporto alunno-insegnante, ecco perché vale la pena riflettere su questa dinamica e le implicazioni che comporta.

Far sì che i contenuti e le informazioni scolastiche assumano una veste più vicina a quelle che sono le esigenze e i ritmi di apprendimento (ma anche di vita) delle nuove generazioni, significa consentire ad un grande numero di studenti di avvicinarsi, di prendere confidenza, magari – perché no? – di appassionarsi.

Il tutto, naturalmente, senza snaturare il ruolo del docente, che può essere vicino ai suoi studenti e ai loro problemi e alle loro esigenze, ma non può diventarne un amico, nel senso più comune del termine. Può essere un confidente o un alleato, un sostegno e un punto di riferimento, ma – l’autrice suggerisce – non può venir meno al proprio ruolo educativo, che comporta anche l’utilizzo di limiti e di confini.

L’Autrice, nell’introduzione al testo, invita gli adulti a prendere dimestichezza con questo strumento, senza demonizzarlo a priori, anzi, cercando di mostrare come Facebook possa rappresentare l’equivalente del vecchio muro della scuola”, sul quale gli studenti scrivevano le loro proteste o le loro dichiarazioni d’amore. Non è un caso, infatti, che la terminologia di Facebook richiami questa immagine: ogni utente ha un profilo, un diario, e i contenuti che scrive sono pubblicati sul wall (= il muro). Questo strumento, data la facilità di utilizzo, ma soprattutto la visibilità che offre, può certamente spaventare, ma può anche – se utilizzato correttamente- rappresentare un “megafono al servizio dell’educazione”.

Forse ciò che spaventa di più di Facebook è il passaparola, che di per sé non può essere controllato (si sa magari da dove parte ma non si può certo sapere dove andrà a finire), e la così detta “Riprova Sociale”, teorizzata dallo psicologo Robert Cialdini (1995), fenomeno sul quale sembra basarsi il successo di Facebook.

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L’essere umano, infatti, tende ad adattare il suo pensiero e il suo giudizio a quelli prevalenti nel gruppo (o nei gruppi) che frequenta. Il social network creato da Zuckerberg nel 2004 con l’intento di aiutare a conoscere e a intrecciare legami, fa sentire potenti, opinion leader. Attraverso la possibilità di esprimere liberamente la propria opinione, di condividere i propri vissuti, ma soprattutto di visionare e giudicare quelli degli altri, questa piattaforma ha un alto potere aggregativo. Consente, infatti, di sentirsi parte di un gruppo, di appartenere ad un’opinione più allargata, di non essere una goccia nell’oceano.

L’unione fa la forza, e questo meccanismo sicuramente è un’arma a doppio taglio: da un lato incontrollabile e a volte ingestibile nelle sue frange estremiste (rappresentate da veri e propri litigi e scambi di opinione poco educati), ma anche uno strumento per invogliare gli studenti a sentirsi parte integrante di un gruppo di lavoro, che ha uno scopo e una direzione e che, soprattutto, condivide alcuni strumenti per ottenere l’obiettivo.

Apprendere attraverso ciò che già si conosce, inoltre, mi viene da pensare, fa sentire più efficaci e capaci, riduce la distanza tra insegnante e alunno, incuriosisce e stimola.

Il libro, negli ultimi capitoli, porta ad esempio pagine di istituti scolastici in cui i professori hanno notato un maggiore coinvolgimento scolastico dopo l’apertura di uno spazio dedicato alla classe su Facebook.

Infine, l’Autrice, si sofferma a riflettere sulla lingua utilizzata dagli alunni sui social network e sull’allarmismo lanciato negli ultimi anni rispetto all’impoverimento della lingua italiana a causa di un gergo e dell’introduzione di vocaboli tipici del web (abbreviazioni, storpiature, neologismi etc.). La lingua italiana, però, è da sempre in evoluzione e trasformazione, e secondo alcuni eminenti esponenti della linguistica italiana (tra cui la presidentessa dell’Accademia della Crusca) l’allarme non è tanto riguardo ad un nuovo linguaggio, che bisogna però di cercare di circoscriviere, considerandolo come un linguaggio “tecnico” (il linguaggio della chat), ma la mancanza di letture da parte degli italiani.

Come a dire: potremmo esprimerci anche come Manzoni sui social network, ma se non apriamo un libro, non cambierà mai nulla.

E allora, forse, varrebbe davvero la pena di fare di quello che sembra un nemico invincibile (Facebook) un alleato: utilizzando i suoi strumenti e la sua potenzialità per ingaggiare gli adolescenti e mostrare loro che si può essere connessi sempre e comunque ma anche con la Cultura con la C maiuscola.

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BIBLIOGRAFIA:

 

ACT, teoria e pratica dell’Acceptance and Commitment Therapy – Recensione

Recensione del libro

ACT,

Teoria e pratica dell’Acceptance and Commitment Therapy

 

ACT, Teoria e pratica dell'Acceptance and Commitment TherapyL’Acceptance and Commitment Therapy è un modello clinico che si fonda sulla promozione dell’efficacia comportamentale, obiettivo centrale del percorso terapeutico a prescindere dall’esistenza di pensieri dolorosi o emozioni spiacevoli.

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A differenza di altri approcci terapeutici che si focalizzano sulla necessità di ridurre l’intensità e la frequenza del disagio psicologico, l’ACT lavora sulle risorse che l’individuo può attivare per tollerare la sofferenza e impegnarsi nella direzione di un cambiamento riconoscendo la presenza di quel malessere senza intervenire su di esso. I processi terapeutici fondamentali dell’ACT sono:

 

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– l’accettazione dell’esperienza;
– la defusione;
– il contatto con il momento presente;
– il sé come contesto;
– il contatto con i propri valori;
– l’azione impegnata.

L’accettazione, concetto che viene descritto solo parzialmente dalle formulazioni verbali e al contrario può facilmente essere colto attraverso l’esperienza, è la disponibilità a vivere anche gli aspetti negativi del proprio percorso esistenziale inserendoli in un quadro coerente di valori e atteggiamenti. L’apertura all’esplorazione, fondamentale per acquisire una buona flessibilità psicologica in antitesi alla rigidità dell’evitamento, implica l’incontro con pensieri, emozioni, stati soggettivi e corporei che si alternano, si intrecciano, dando origine al flusso dell’esperienza che contiene sia emozioni positive sia elementi di sofferenza; le une e gli altri fanno però parte di un’unica realtà che è la vita stessa dell’individuo.

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Fare "ACT" - Russ Harris - Recensione.jpgLa defusione è la separazione tra linguaggio descrittivo e linguaggio valutativo; spesso le categorie che utilizziamo per descrivere un oggetto, che si configurano come reali poiché attribuiscono un colore, una caratteristica fisica, una proprietà funzionale, vengono estese alla valutazione compiuta su un soggetto, e come tali percepite. Così se affermo che “mio figlio è stupido“, il valore associato al linguaggio, ossia la convinzione che descriva la realtà, produce nel soggetto che riceve quella valutazione un impatto emotivo intollerabile. Allo stesso modo il linguaggio prescrittivo – “devo/i essere perfetto” – non viene inteso come uno stato soggettivo dato dalle proprie credenze o dalle aspettative altrui, bensì come indicazione ineludibile legittimata dal potere delle parole. L’ACT sottrae autorità al linguaggio riconducendolo alla dimensione di un’attività simbolica finalizzata a comunicare contenuti relativi e non assoluti.

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Il contatto con il momento presente è la capacità di concentrare l’attenzione sul qui e ora, sugli stimoli da registrare e affrontare nel contesto dell’esperienza immediata, evitando di farsi guidare da pensieri che riguardano il passato e il futuro – rimuginio, ruminazione, previsioni negative – e sottraendosi all’illusione di poter controllare attraverso il pensiero tutto ciò che appartiene all’imprevedibilità e immodificabilità degli eventi. Stando nel presente si possono utilizzare risorse altrimenti assorbite dal tentativo costante di categorizzare e valutare l’esperienza.

Il sé come contesto è il luogo in cui si sviluppano pensieri ed emozioni, il soggetto che vive quegli stati. Chi prova ansia, tristezza o altre emozioni spiacevoli tende sovente ad associare a quei contenuti una valutazione di sé, di come andrebbero affrontati e di quanto colpevole e/o inadeguato sia il suo atteggiamento. In questo modo la sofferenza si accentua creando rappresentazioni che diventano i termini con cui il soggetto si giudica; pensare “io sono ansioso” oppure “in me si è prodotta dell’ansia” genera, nel primo caso un processo mentale inflessibile che costruisce un’idea di sé incentrata sulla percezione di vulnerabilità, nel secondo un riferimento dinamico al contesto esperienziale. Nel quadro complesso che compone il Sé esiste anche il disagio emotivo e questo dato è in continuo divenire, mentre la formazione di un’identità stabilmente definita attraverso circoli viziosi psicopatologici favorisce il loro consolidamento.

Il contatto con i propri valori presuppone che le azioni personali privilegino i significati centrali dell’identità, gli elementi capaci di rappresentare uno scopo soggettivo gratificante e di promuovere la vitalità dell’individuo, fungendo da rinforzo per i comportamenti successivi. I valori cui fa riferimento l’ACT non sono quelli socialmente condivisi bensì appartengono al vissuto del paziente e rientrano nelle sue scelte libere. In quest’ottica possono essere accettate e rielaborate, utilizzando anche strategie di defusione, le emozioni problematiche, che vengono ricondotte alla necessità di perseguire un valore fondamentale, uno scopo sovraordinato; le difficoltà di un contesto esperienziale diventano più tollerabili se è chiaro il legame fra quel contesto e i valori del paziente, come accade per esempio quando lo scopo di essere un genitore supportivo implica la gestione di passaggi emotivi complessi nella relazione con un figlio.

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L’azione impegnata è una componente essenziale dell’ACT, poiché oltre ad accettare gli stati emotivi dolorosi il paziente è chiamato a impegnarsi per modificare attivamente la propria condizione; vengono perciò identificati gli obiettivi coerenti con i valori del soggetto e le strategie funzionali a perseguirli, e la gratificazione ricavata dal raggiungimento degli stessi costituisce un rinforzo positivo determinante nell’accrescere l’approccio vitale alla risoluzione dei problemi. L’impegno è la parte propositiva dell’ACT, coinvolge le risorse che il paziente aveva in precedenza destinato al controllo, al rimuginio e alle altre strategie dimostratesi inefficaci; l’assunto di base è che proprio attraverso la definizione di obiettivi e l’azione concreta finalizzata al cambiamento, possa aumentare la percezione di efficacia e con essa la possibilità di mantenere un atteggiamento esplorativo. In questo modo si favorisce anche l’accettazione consapevole delle difficoltà legate all’evoluzione dell’esperienza.

In conclusione, l’Acceptance and Commitment Therapy fornisce spunti estremamente interessanti nel ripensare la psicoterapia non più come un percorso in cui il paziente deve eliminare l’impatto del proprio malessere, bensì come apprendimento di una prospettiva diversa che permette di accettare la sofferenza, di integrarla nel divenire dell’esperienza e di elaborare strategie attive di risoluzione dei problemi.

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BIBLIOGRAFIA: 

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