Ho ideato Spazio Psicologia nel 2005, quando ero da poco entrata in specializzazione a Studi Cognitivi. con la finalità di ricreare in rete uno spazio supervisionato di contenuti, utile per favorire una cultura sana e corretta della psicologia e di ciò che ad essa è correlato.
Il progetto era partito come un blog personale, fondato sulla mia esperienza di psicologa, psicoterapeuta e sessuologa e sugli argomenti a me più cari, ma via via nel tempo, si è strutturato sempre di più, fino ad aprirsi ai contributi di giovani colleghi, che sono divenuti collaboratori fissi, contribuendo allo sviluppo di un progetto comune di informazione psicologica.
Nei nostri progetti non c’era però certo quello di concorrere ad un premio.
Con nostra grande sorpresa, abbiamo scoperto il 23 agosto 2013 che tra le più di 140.000 persone che hanno votato, tra tutti i blog italiani, le candidature al Macchianera Italian Awards 2013, una buona parte ha segnalato “Spazio Psicologia” per la sezione Educational, facendoci così entrare di diritto tra i 10 concorrenti in gara per la finale.
Non possiamo che esserne contenti e ritenere questo il miglior risultato possibile per un blog che si sostiene solo grazie all’impegno di tutti i suoi 11 collaboratori, senza alcuna sponsorizzazione e che si è ritrovato in gara con “Big” del calibro, tanto per citarne alcuni, di Focus, National Geographic, Rai Educational e Wikipedia Italia.
Siamo l’unico blog di psicologia e peraltro l’unico senza alcuno sponsor, a concorrere per questa categoria e, dovendo competere con i Big di cui sopra, abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile. Dunque chiediamo a tutti i colleghi, futuri colleghi e appassionati di psicologia di votarci e condividere questo appello, il più possibile.
E’ possibile votare fino a giovedì 19 settembre 2013, dopodiché i risultati saranno messi al sicuro fino alla cerimonia di premiazione, che si terrà presso il Teatro Ermete Novelli di Rimini (Via Cappellini 3 – 47921 – Rimini), nel corso della BlogFest, la sera del 21 settembre 2013 alle ore 21, alla quale in ogni caso presenzieremo.
L’evento riunisce, ogni anno, tutto ciò che in Italia gravita attorno alle community della rete, che abbiano origine dai blog, da Facebook, da Twitter, dalle chat e dai forum e da qualsiasi altra forma sociale di comunicazione.
Perché la scheda sia ritenuta valida è necessario votare per almeno 10 categorie a scelta.
Ci auguriamo, con molta umiltà, di poter rappresentare la psicologia al meglio, fieri della passione che ci contraddistingue per l’informazione e la buona cultura psicologica, che crediamo appartenga alla gran parte della nostra categoria e speriamo nel supporto di chi ama la psicologia quanto e più di noi e vorrebbe che una buona cultura psicologica rivestisse nei media, in primis su internet, il ruolo che merita.
Il film racconta una concezione nuova di approcciarsi alla malattia mentale, si prende il compito di raccontare una visione che pone al centro del progetto terapeutico-riabilitativo il malato con le sue risorse e capacità, soggetto di diritti, con potenzialità che vanno sviluppate allo scopo di reinserire nella società a pieno titolo quelle persone che erano state recluse, isolate e rese marginali dal manicomio.
Info
Diretto da Giulio Manfredonia, con Claudio Bisio, Anita Caprioli, Giuseppe Battiston, Giorgio Colangeli, Bebo Storti. Commedia. Italia 2008.
Trama
Ispirato a storie vere delle cooperative sociali nate per dare lavoro ai pazienti dimessi dal manicomio in seguito all’approvazione della Legge Basaglia.
Nello è un sindacalista ritenuto scomodo. È allontanato dal sindacato e relegato al ruolo di direttore della Cooperativa 180, un’associazione di malati di mente impegnati in attività assistenziali. Il sindacalista venuto a contatto con i suoi nuovi “collaboratori” resta in una prima fase un po’ sbigottito, poi si rimbocca le maniche e andando contro lo scetticismo dello psichiatra che ha in cura i malati cerca di valorizzare le risorse e le potenzialità di ognuno di loro. La cooperativa riuscirà a inserirsi con successo nel mercato con attività produttive innovative.
“La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla”. Questa era l’ispirazione di Basaglia che portò all’approvazione della legge 180/78.
I manicomi, prima dell’approvazione di questa legge, erano spazi di contenimento fisico dove venivano utilizzati metodi sperimentali di ogni tipo che calpestavano la dignità umana dei malati. Il film racconta una concezione nuova di approcciarsi alla malattia mentale, si prende il compito di raccontare una visione che pone al centro del progetto terapeutico-riabilitativo il malato con le sue risorse e capacità, soggetto di diritti, con potenzialità che vanno sviluppate allo scopo di reinserire nella società a pieno titolo quelle persone che erano state recluse, isolate e rese marginali dal manicomio.
La narrazione evidenzia gli aspetti positivi senza enfatizzarli e li affianca alle criticità dovute ad una società ancora largamente impreparata ad accogliere una rivoluzione culturale di tale portata e alle difficoltà di una comunità scientifica impreparata e riluttante ad aprirsi alle trasformazioni che mettono in crisi professionalità sclerotizzate.
Nello coinvolge i malati, li fa partecipare alle decisioni, li impegna, valorizzando le capacità di ognuno. I malati rispondono con impegno e responsabilità, la cooperativa ottiene appalti. Il trattamento farmacologico viene diminuito, nonostante le resistenze del Dottor Del Vecchio. Tutto sembra procedere per il meglio, ma si manifesta all’improvviso l’impossibilità di un recupero pieno quando Gigio innamoratosi di Caterina, prima illuso e poi rifiutato da lei, si suicida.
Tutto sembra crollare, il prezzo pagato per l’eccessivo entusiasmo è alto. È un avvertimento alla cautela e alla prudenza che non può bloccare però il nuovo che avanza. Persino il dottor Del Vecchio si rende conto dei miglioramenti dei pazienti e sollecita Nello a riprendere il suo lavoro. Il film si chiude con l’arrivo di nuovi soci da altri manicomi e con la preparazione di pannelli da montare alla metropolitana di Parigi.
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Il lavoro continua ad essere svolto da migliaia di operatori della salute mentale, con l’aiuto di farmaci, di tecniche psicoterapeutiche e riabilitative sempre più efficaci e validate scientificamente, e con una visione della malattia e dell’intervento che deve molto alla rivoluzione di Basaglia.
Indicazioni per l’utilizzo
Si può utilizzare il film per un proficuo lavoro con i malati e le loro famiglie, tenendo conto della possibile identificazione, soprattutto dei pazienti gravi, con alcune situazioni proposte (suicidio).
Il lavoro psicoeducativo rappresenta un momento importante da svolgere anche con l’intera comunità locale per creare le condizioni migliori di inclusione dei malati.
Giovanni Maria Ruggiero racconta, in un’intervista di Luca Mazzucchelli (psicologo, psicoterapeuta sistemico-relazionale) , la Psicoterapia Cognitiva-Comportamentale dalle origini ad oggi, da Ellis e Beck alla “Terza Ondata”, illustrandone il passaggio di prospettiva: dall’idea di poter cambiare le proprie emozioni negative grazie all’elaborazione di pensieri più funzionali, a quella di accettare quelle emozioni.
Ci spiega in cosa consiste la Psicoterapia Cognitiva-Comportamentale, quali sono i principi cardine e le tecniche che un terapeuta cognitivo-comportamentale deve conoscere, con particolare riferimento al disputing (diverso a seconda che si segua l’approccio di Ellis o Beck) e al laddering.
Chiarisce le carratterische della relazione terapeutica secondo la Psicoterapia Congitivo-Comportamentale, quindi una relazione collaborativa in cui il paziente partecipa attivamente anche lavorando a casa con i compiti che il terapeuta assegna.
Non solo, consiglia testi per approfondire l’argomento e delinea le caratteristichedi un terapeuta che sceglie questo orientamento.
APA 2013 – Il congresso annuale della American Psychological Association
APA 2013
American Psychological Association
Honolulu, Hawai
Inizia giovedì 1 agosto a Honolulu il congresso annuale dell’APA (American Psychological Association).
Sbirciando la pagina web del congresso, le dimensioni dell’evento appaiono mastodontiche: circa 1300 sessioni. Naturalmente, riuscirò a descrivere direttamente un numero minimo di eventi. Per ottenere una visione d’insieme do, mentre sono in viaggio, una scorsa preliminare al programma e, in particolare, alle plenary session, che trovate elencate qui.
In cima alla lista troviamo una presentazione sulle dipendenze, le addiction. Il taglio è sia di sensibilizzazione culturale che scientifico. Lo speaker è, almeno in USA, una personalità nota e influente: David Sheff, giornalista, autore di libri e apparso nel 2009 nella lista stilata ogni anno dal Time delle persone più influenti in USA. Sheff è diventato famoso con un libro che racconta la tragedia di suo figlio, tossicodipendente: Beautiful Boy: A Father’s Journey Through His Son’s Addiction. Nella sua presentazione Sheff parlerà anche di dati scientifici, spiegando come la prevenzione più efficace sottolinea la condizione di malato e non di colpevole del tossicodipendente.
La seconda plenaria si annuncia intrigante e divertente: Stanley Coren, professore emerito in Psicologia alla University of British Columbia, parlerà di intelligenza canina: le straordinarie abilità cognitive, emotive e relazionali dei cani. Prevedo un uditorio affollato, entusiasta e attento.
Seguono due plenarie, condotte da Rhonda McEwen e Ben Foss, dedicate all’uso delle tecnologie informatiche e di social network applicate alle terapie psicologiche delle disabilità cognitive. Mary Crawford invece parlerà di possibili attività preventive di tipo psicologico sulla piaga mondiale dello sfruttamento sessuale e del suo gemello, il turismo sessuale. Margarita Alegría e David T. Takeuchi si occuperanno della persistente difficoltà che incontrano alcuni gruppi etnici di immigrati in USA ad accedere ai servizi psicologici e psichiatrici, sia per limiti culturali che per ostacoli di tipo economico. Tema importante anche per noi in Europa. Craig Haney parlerà del rapporto tra psicologia e giurisprudenza negli Stati Uniti. Camilla P. Benbow e David Lubinski presenteranno alcuni dati su come si sviluppa la vita dei ragazzi e delle ragazze con doti intellettuali superiori. John Horgan racconterà i percorsi psicologici di disimpegno dal terrorismo, mentre Janet K. Swim propone riflessioni sulla minore attenzione data da qualche anno ai problemi climatici.
Seguono alcune presentazioni di taglio più scientifico, a cui spero di partecipare. Read Montague riferirà lo stato dell’arte su un eterno problema della psicologia: in che misura le facoltà cognitive sono espressione dei geni? Anche Paul J. Zak si dedicherà all’interfaccia tra cervello e mente e parlerà di un tema molto intrigante: l’ossitocina è davvero il neurostrasmettitore che incentiva le capacità metacognitive e di mentalizzazione?
Infine con Linda Chang si torna a temi sociali: racconterà di come si danneggia il cervello di chi è precocemente esposto alle sostanze stupefacenti.
Insomma, molte sembrano essere le sessioni dedicate a temi sociali scottanti: tossicodipendenza, sfruttamento sessuale, terrorismo. Non è un congresso di aggiornamento scientifico, semmai di focalizzazione sulle ricadute pratiche e sociali del lavoro psicologico.
Researchers suggest that the involvement of relatives in the process of care and information about illness are the satisfaction domains where the mental health services in most sites show the worst performance.
Satisfaction with services has been given increasing attention in mental health services research, as it represents a key component of patients’ access and retention.
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Service satisfaction can be seen as the combined result of (1) the ability of the service to provide a standard of care above a certain quality threshold (e.g., in professional competence, or the availability of specific interventions, or the physical characteristics of the treatment setting), and (2) the perception of the patient that the care received has been tailored to his or her own problems.
A cross sectional study (Ruggieri 2003) that involved five European sites (Amsterdam, Copenhagen, London, Santander and Verona) have shown that:
1- users’ characteristics (such as psychopathology or global functioning) have a weak association with service satisfaction,
2- service characteristics (such as involvement of relatives in care and information about illness) play a major role in service satisfaction in all countries.
Specifically, patients consider relatives’ involvement in the process of care as one of the most important dimensions when evaluating service satisfaction and that the majority of patients are in favor of sharing information between relatives and professionals. This process demands a closer collaboration between mental health professionals and family members.
Recently, some authors (Perreault et al. 2012) have investigated relatives’ satisfaction about mental services. Results highlighted that dissatisfied caregivers referred a lack of contact, information, communication and partnership with health care professionals. Generally, caregivers reported higher satisfaction with services when they perceived a greater collaboration between themselves and the professionals caring for their relative.
In conclusion, researchers suggest that the involvement of relatives in the process of care and information about illness are the satisfaction domains where the mental health services in most sites show the worst performance.
Data demonstrate the importance of obtaining a better understanding of patients’ and caregivers’ satisfaction with services in order to increase their involvement in community integration.
Il disprezzo per le persone grasse le rende solo più grasse (e tristi).
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Due ricercatori della Florida State University College of Medicine hanno indagato scientificamente lo stereotipo culturale riguardo alle persone sovrappeso o con problemi di obesità:
Queste infatti vengono comunemente percepite come pigre, prive di forza di volontà e incapaci di raggiungere obiettivi. Da questo deriva un atteggiamento discriminante spesso motivato dalla credenza che “trattarli male, è per il loro bene, per spronarli a fare meglio“. A quanto risulta dai risultati di un’estensiva ricerca durata 4 anni, non c’è niente di più falso (oltre che crudele).
Le persone vittime di discriminazione per via del loro peso, tendono invece a peggiorare le loro condizioni di forma, in un circolo vizioso che si porta dietro perdita di autostima, emotional eating e sintomi depressivi.
Sutin’s study, published in the latest issue of the online journal PLOS One, wasn’t designed to get at why weight discrimination led many fat people to pack on even more pounds. But other research suggests that increased rates of depression, emotional eating and low-self esteem likely play a role. So does increased stress (and the associated hormonal surges that can trigger even more hunger and eating), as well as the avoidance of exercise.
“If someone’s mean to you at the gym because of your weight or acts like you don’t belong there,” Sutin says, “you’re less likely to go back.”
Some people rationalize that it’s all right to shame or blame someone who’s overweight because it will motivate the victim to lose pounds. News for the slim and smug: It doesn’t work, and it’s not OK. (…)
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Fantasticare ad occhi aperti…che stress!!
A chiunque sarà capitato di trovarsi “con la testa tra le nuvole” o “a sognare ad occhi aperti”. Il fantasticare è un’attività piacevole e comune alla maggior parte di noi; si fantastica su persone, eventi, situazioni più o meno complesse; quando si torna alla vita reale, il gusto delle fantasie permane per un istante a mezz’aria, e poi svanisce.
Daniela Beltrami, Irene Desimoni, Vania Galletti
In alcuni casi, però, il fantasticare è così coinvolgente da ingabbiare il soggetto in una rete dalla quale non può e forse non desidera uscire. Qui si insinua il bisogno compulsivo di rituffarsi appena possibile nella fantasia ed allontanarsi sempre più dal mondo reale.
Somer (2002) ha descritto questa condizione Maladaptive Daydreaming come una ricca produzione di fantasticherie che diventa disfunzionale nel momento in cui interferisce con il funzionamento sociale, lavorativo e scolastico.
Eccesso nel fantasticare: Compulsive Fantasy
Più recentemente, Bigelsen e Schupak (2011) hanno proposto una definizione più precisa del problema affibbiandogli il suggestivo Compulsive Fantasy e delineandone le principali caratteristiche. Gli autori hanno studiato 90 soggetti provenienti da varie parti del mondo, autocandidatisi online come “fantasticatori eccessivi”. Ai volontari è stato somministrato il “Questionnaire on Excessive Daydreaming” finalizzato a cogliere somiglianze e differenze tra le fantasticherie dei partecipanti.
Dai risultati emergono alcuni dati interessanti: innanzitutto, la struttura delle fantasie è notevolmente articolata, spesso connotata da trama e personaggi (ispirati alla vita privata del soggetto o a film, libri, ecc.) ed emotivamente intensa; i soggetti fantasticano per diverse ore al giorno (da 1 a 10) e hanno iniziato a farlo precocemente; la maggior parte di loro riferisce la frequente compresenza di attività motoria (passeggiare, dondolare, sussurrare, ecc.), maggiormente controllabile del fantasticare in sé, soprattutto in presenza di osservatori.
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I “fantasticatori“, infatti, condividono il tentativo di celare queste attività ad amici e familiari, finendo per provare isolamento e vergogna. Tali fonti di disagio sono ulteriormente inasprite dalla necessità di accantonare la vita reale per dare spazio a quella fantastica. A differenza dei “normo-sognatori”, essi percepiscono il bisogno impellente di ritornare nel mondo fantastico appena vengono “risvegliati” da quello reale, per poter continuare il processo di creazione. Si tratta di un vero e proprio craving in cui la sostanza è del tutto immaginaria.
Origini del fantasticare compulsivo
Le origini della Compulsive Fantasy sono poco chiare: accantonata l’ipotesi di una reazione ad un precedente trauma (nonostante il 27% sostenga di esserne stato vittima nella propria vita) e di una mancata discriminazione tra fantasia e realtà (il 98% riferisce di non avere problemi a distinguerle) (Bigelsen e Schupak, 2011), potrebbe trattarsi di una modalità di coping che consente al soggetto di allontanarsi dalla ruvidità o dalla noia della vita quotidiana alla ricerca di tranquillità, felicità o eccitazione (immaginando se stesso come una persona più attraente e ricca di relazioni significative; rivivendo la presenza di una persona cara che è deceduta; pensando ripetutamente di avere una malattia grave per sentirsi amato e curato; ecc.).
I trigger che innescano il fantasticare compulsivo
Similmente a quanto avviene nel Desire Thinking (Caselli e Spada, 2010), il fantasticare può essere condizionato da triggers di duplice natura: stimoli esterni (musica, libri, ecc.) o stati d’animo ed emozioni (noia, rabbia, stress, frustrazione, eccitazione, ecc.); tuttavia, nel caso della Compulsive Fantasy, potrebbe essere più interessante domandarsi cosa è in grado di sospenderla più che scatenarla, poiché pare che le fantasie si attivino automaticamente in un momento di scarso coinvolgimento cognitivo (durante compiti che non richiedono elevato monitoraggio) e vengano bloccate nell’istante in cui il soggetto è stimolato da un’attività interessante. Nonostante l’accesso automatico, la produzione di fantasie non è né inconsapevole né priva di sforzi; ad una prima fase di difficile controllo del bisogno di creare, ne segue una di elaborazione consapevole della fantasia (similmente a quanto descritto in merito alla Elaboration Intrusion Theory of Desire; Kavanagh et al., 2005).
Mind wandering vs compulsive fantasy
A differenza del Mind Wandering (Smallwood e Schooler, 2006), non vi è una vera e propria impossibilità di portare a termine compiti più o meno complessi della vita quotidiana; la maggior parte dei soggetti fantasticatori riporta di non avere rilevanti problemi di interazione sociale, tuttavia riferisce di preferire il mondo irreale e, per questo, di non percepirsi mai completamente presente nelle attività di quello reale. Il disagio maggiore è, infatti, quello provocato dal senso di colpa dovuto al fatto di “rubare” tempo alle persone vere per dedicarne a quelle irreali.
Fantasticare ed eccesso nel fantasticare: conclusioni
Infine, l’attività del fantasticare sembrerebbe essere correlata a creatività ed empatia; il 71% dei soggetti riferisce di avere un talento artistico (musica, pittura, disegno, scrittura) e riuscire ad immedesimarsi nelle vesti altrui.
In conclusione, fantasticare e l’utilizzo della fantasia possono aiutare a risolvere problemi, possono stimolare la creatività ed ispirare opere d’arte e scienza, ma, quando diventano compulsivi, le conseguenze possono essere estremamente dannose (Glausiusz; 2011).
Mental illness is a major global health burdenwith substantial societal and economic consequences. In developed countries, around 66% of people with mental disorders do not receive treatment, but in developing countries this figure reaches 90% .
“I lost my job as an electrician after 30 years of work . . . my wife divorced me. I was too young to take my state pension and too old for anyone to think about employing me.”
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Living in poverty and with no job, M. from western Romania says he was so desperate he decided to take his own life. By fortunate accident, his suicide attempt failed and he says he no longer contemplates killing himself. But he is just one of hundreds of thousands of Romanians in the same position. And whereas he has found the strength to carry on with his life, many others will not.
Mental illness is a major global health burdenwith substantial societal and economic consequences. In developed countries, around 66% of people with mental disorders do not receive treatment, but in developing countries this figure reaches 90% .(WHO, 2001a).
In Europe, after cardiovascular illness, mental disorders account for the second-highest burden of disease.This is particularly the case in the countries in economic and social transition after the communism. Following the collapse of communism, regions in eastern Europe experienced increased mental illness and high suicide rates along with widened socioeconomic inequalities, high mortality from alcohol and tobacco-related diseases, rapidly rising HIV incidence and declines in life expectancy (WHO, 2001a).
The WHO Global Burden of Disease study – which used limited data from the Russian Federation – estimated unipolar depression to account for 4% of the country’s total burden of disease in 2002 (WHO, 2001b).
Psychiatrists in Romania warn that the government is underestimating the extent of psychiatric problems in the country after figures showed cases of depression have doubled and the suicide rate has risen 7% since the fall of communism.
“The transition from communism has caused changes in the pathology of psychiatric illness in Romania”, says Florin Tudose, head of the psychiatric department at one of the largest hospitals in Romania, the University Hospital in Bucharest. “I conducted a study in 1995 to see if there was any change compared to the year 1990. The conclusion was very clear: affective disorders and depression were the top psychiatric diseases in 1995 while in 1990 they were only in fourth place.” These diseases predominantly occurred between the ages of 40 and 55 years, representing exactly that segment of the population which was too old for adaptation [to the new capitalist system]. “These people had been dependent on someone else for their existence, namely the communist state, and when the source of their dependence disappeared, it was replaced by illness and depression.”
The isolation of psychiatry during communism times and limited funding of mental health services severely curtailed access to new evidence.Consequently, most practitioners lack the knowledge and skills required to deliver a range of effective medical and psychosocial treatments necessary for community-based care. Tudose says. “At the very least mental health should be made a top health-care priority. This would bring a big change and while there are so many things that need dealing with a clear signal is important.”
In uno studio cross-culturale pubblicato da poco su Cognitive Neuroscience i ricercatori si sono avventurati nel complesso mondo della consapevolezza corporea introcettiva chiedendosi se vi fossero differenze culturali in tali processi psicologici.
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Ai soggetti sperimentali è stato richiesto di tenere il conto dei propri battiti cardiaci ascoltando il proprio corpo per circa un minuto – una misura che tecnicamente è nota come consapevolezza introcettiva. Il conteggio soggettivo dei partecipanti è stato poi confrontato con una registrazione oggettiva del battito cardiaco. Il campione era composto da 20 individui occidentali e da 20 individui asiatici che hanno completato il compito sia mentre guardavano una fotografia del proprio volto, sia una foto del volto di uno sconosciuto, sia guardando lo schermo di un computer spento.
Il principale dato emerso è che i soggetti occidentali nella condizione in cui guardavano il proprio volto presentavano una maggiore accuratezza nel conteggio del proprio battito cardiaco rispetto alla condizione neutra (in cui fissavano lo schermo del pc). Eppure, tale differenza tra le due condizioni non è stata riscontrata nei soggetti asiatici.
I ricercatori hanno ipotizzato che la vista del proprio viso innesca diverse associazioni per gli occidentali e gli asiatici.
Per le persone occidentali vedere la propria faccia attiverebbe una prospettiva del sé individualista che favorirebbe l’elaborazione di altre informazioni di auto-correlate, compresi i segnali interni del proprio corpo.
Al contrario, per gli asiatici sarebbe più saliente una prospettiva collettivista – di concettualizzazione del sé dal punto di vista collettivistico e sociale che non favorirebbe la focalizzazione su segnali fisiologici strettamente e necessariamente “individuali”.
Questo studio è il primo a esaminare le differenze cross-culturali nell’interazione tra stimoli visivi sovraliminari e consapevolezza introcettiva del proprio corpo.
Depression or just sadness? Mental Health Literacy among young adolescents
Elena Mannelli, Chiara Caruso, Francesca Martino, Michela Muggeo.
Depression or just sadness?
A study of Mental Health Literacy among young adolescents
Neuropsychiatric disorders account for almost 50% of the disease burden in adolescents and young adults (Gore, et all., 2011), and only about half of those children and adolescents that are affected seek professional treatments (Merikangas et all., 2010).
Among many mental health problems, adolescent depression is arguably the most concerning.
Lewinsohn et all., (1998) estimate the disturbingly high figure that approximately 28% of adolescents will have experienced an episode of Major Depressive Disorder by the age of 19 years. There are many reasons for concern apart from just the prevalence of depression, first of all its link to suicide and then there is evidence suggesting that there is a downward developmental trend in the age of onset of depression (Rutter & Smith, 1995).
Health literacy has been defined as the ability to gain access to, understand and use information in ways which promote and maintain good health. Starting from this Jorm et al. (1997) coined the term “mental health literacy” to refer to knowledge and beliefs about mental disorders which aid their recognition, management and prevention, so this means knowing how to seek information knowledge of risk factors and of professional help available.
How much do adolescents know about mental health?
Are they able to recognize symptoms?
Do they know enough about how to seek help?
Burns and Rapee (2006) tried to explore this aspect conducting a study in a sample of 202 adolescents aged 15-17 years, with particular reference to their ability to recognize symptoms of depression in their peers.
The intention of the authors was to use a vignette-based questionnaire “A friend in need” built for this study, that required respondents to generate their own thoughts and beliefs to avoid giving participants multiple-choice answers.
The study presented respondents with vignettes of more than one depressed person and sought to tease out knowledge of depression by comparing the depression vignettes with three other vignettes of non-clinically depressed.
The Friend in Need questionnaire presented to participants five brief vignettes of young people going through a range of life difficulties and their responses to the difficulties. Participants were asked to answer questions about how worried they were about each young person in the vignettes; what they ‘‘think is the matter’’; what parts of the vignettes were the strongest hints that the young person was experiencing emotional difficulties; how long they thought it would take for each young person to feel better; and who they thought the young person needed help from to cope with their problems All these questions were left deliberately open-ended to allow participants to create their own ‘diagnosis’ for each character.
The 5 vignettes reported different situations: in two of those there was strong evidence that the focus character had a significant signs of depression (having at least five symptoms of a Mayor Depressive Episode as described in the DSM-IV) and in the others three vignettes detailed young people going through normal life crisis, such as being dropped by a boyfriend, getting caught by parents when drunk and the death of an elderly relative.
The results revealed a mixed level of knowledge in relation to their ability to ‘label’ depression and to identify the key symptoms.
There was a marked difference across the sample between the labelling response of the two ‘depressed vignettes’; it suggests that the combination of presenting symptoms and the context within which they are presented may be important for adolescents. In one of these, in fact, there were included very blunt comments of suicidal intent and feelings of worthlessness, which were the two most highly noted as “symptoms” from the respondents. In the absence of such obvious symptoms (as per the second “depressed” vignette) there is a minor ability to label the signs together as “depression”, nevertheless, 80% reported that the girls in the vignette who had broken up with her boyfriend also needed help from someone, indicating some lack of discrimination between ‘‘normal’’ reactions of dysphoria and more severe depressive symptomatology.
From this study it appears also clear a gender difference as girls in this sample clearly demonstrated higher mental health literacy, in terms of their ability to correctly label the depression vignettes, their expression of greater concern over a depressed peer than boys, their expectation that depression requires a longer recovery than normal teenage problems and in their ability to identify individual symptoms of depression.
The most important reason to raise adolescent mental health literacy is to increase the likelihood that young people can access the most appropriate help when needed. The most common source of recommended help in this study was the use of ‘‘counselling’’ in marked contrast to the recommendation to access either psychology or psychiatry even if the respondents used a variety of professional labels including the very generic term ‘‘professional’’ reflects this lack of knowledge of the specialization of different professions.
Of particular interest in this study was the finding that adolescents do not consider doctors appropriate helpers for a depressed peer, with doctors being mentioned by less than 2% of this sample. It may be that young people view doctors as a place to go for physical health concerns but not for mental health concerns. Finally a large number of adolescents also rated family as an important source of help. This finding underlines the important influence that parents and other family members can have on a young person’s life and suggest the importance of education for families on adolescent mental health problems and solutions. Similarly, friends were rated by over 40% of the sample as a good option for help and this finding reinforces the importance of mental health literacy for all adolescents.
De Silvestri diffuse e insegnò la REBT in Italia in maniera accurata e ortodossa, trasmettendo fedelmente il modello di Ellis così come si era sviluppato al termine degli anni ’70. Il suo libro pubblicato nel 1981 “I fondamenti teorici e clinici della terapia razionale emotiva” contiene in maniera chiara ed esaustiva tutti gli elementi della REBT.
In questo secondo articolo della serie dedicata alla storia della dello sviluppo della REBT (rational emotive behaviour therapy) in Italia parliamo di colui per primo portò e diffuse questo tipo di terapia cognitiva in Italia: Cesare De Silvestri.
De Silvestri si laureò in medicina e si specializzò in psichiatria a Pisa negli anni ‘50.
Negli anni ’60 emigrò negli Stati Uniti e ci rimase a lungo, lavorando come psicoterapeuta e sottoponendosi a un training REBT completo all’Istituto di New York. Ebbe così occasione di conoscere personalmente Albert Ellis. Tornò in Italia all’inizio degli anni ’70 e si stabilì a Roma, dove fondò un proprio gruppo clinico d’ispirazione REBT nel 1974, gruppo che divenne un Istituto REBT ufficialmente riconosciuto dall’Istituto madre statunitense nel 1981.
De Silvestri diffuse e insegnò la REBT in Italia in maniera accurata e ortodossa, trasmettendo fedelmente il modello di Ellis così come si era sviluppato al termine degli anni ’70.
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Il suo libro pubblicato nel 1981 “I fondamenti teorici e clinici della terapia razionale emotiva” contiene in maniera chiara ed esaustiva tutti gli elementi della REBT:la situazione attivante (l’A); l’emozione e/o comportamento unhealthy (il C); le quattro categorie di pensieri irrazionali (irrational B) ovvero terribilizzazioni, doverizzazioni, intolleranza della frustrazione e autovalutazioni; e i nuovi effetti definitivi con il tipico colore stoico di Albert Ellis: negativo sopportabile al posto dell’intollerabile.
Tuttavia, è possibile osservare alcune lacune nella descrizione di De Silvestri. Innanzitutto, la resa eccessivamente scarna della fase del “disputing” della terapia REBT. Il disputing è la fase in cui il terapeuta REBT invita il paziente a mettere in discussione le credenze irrazionali e disfunzionali, criticandole da un punto di vista empirico (ci sono delle prove?), logico (dove sta scritto?), pragmatico (a che le serve pensare questo?) e meta-emotivo (e se anche fosse, perché non potrebbe tollerarlo?). A dispetto del suo sapore razionalistico, si tratta di una fase dotata di una sua certa tensione emotiva, in cui il paziente è incoraggiato ad assumere un atteggiamento di separazione e di distacco dai suoi pensieri, a non dare credito a tutto quel che gli passa per la testa, e insomma a rinunciare alle sue spiegazioni solite della realtà, esterna e interna.
Per ragioni che descriveremo in seguito, De Silvestri diede una descrizione insufficiente di questa fase della terapia REBT. Dedicò poco più di una sola pagina del suo libro “I Fondamenti Teorici e Clinici della Terapia Razionale Emotiva” (1981) al disputing e lo ridusse a un elenco incompleto della varie forme di disputa: logica (“Posso sostenere razionalmente tale pensiero o convinzione”, De Silvestri, 1981, pag. 54), empirica (“Quali prove esistono della verità di questo pensiero”, De Silvestri, 1981, pag. 55), e poi una terza disputa in parte logica e in parte empirica della catastrofizzazione e la doverizzazione (“Quali sembrano la cose peggiori che potrebbero effettivamente capitarmi se gli eventi andassero nel modo che io penso debbano andare (ovvero se non andassero nel modo in cui penso che debbano andare)?”, De Silvestri, 1981, pag. 55).
La trattazione è incompleta. Per esempio, non c’è traccia della disputa pragmatica e di quella meta-emotiva.
Questa carenza può essere dovuta a tre ragioni principali.
La prima è che forse lo stesso Albert Ellis fino all’inizio degli anni ’80 non aveva considerato utile produrre una trattazione formalizzata e sistematica del disputing. Questa trattazione è stata l’opera degli allievi di Ellis, ed è presente nella sua forma più esaustiva e matura nel libro “A Practitioner’s Guide to Rational-Emotive Therapy” scritto da Susan Walen, Raymond Digiuseppe e Windy Dryden (comunicazione personale di Digiuseppe e Dryden del 14 marzo 2013). Di conseguenza, nel 1981 è plausibile che De Silvestri non potesse trovare una trattazione formalizzata ed esaustiva del disputing nei libri di Ellis. Negli anni successivi, inoltre, De Silvestri manifestò anche una certa tendenza a trascurare ogni contributo alla REBT che non fosse stato prodotto di Ellis in persona. Questo può essere documentato dai sito online di De Silvestri (https://sites.google.com/site/retitaly/).
La seconda ragione è che è possibile che la contaminazione tra REBT e costruttivismo abbia potuto contribuire a dare meno importanza alla centralità della disputa nella REBT.
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Infatti, in quegli stessi anni i teorici del costruttivismo (Guidano e Liotti, 1983; Mahoney, 1974) attaccarono il concetto di verità assoluta legato al cognitivismo standard. Questa critica in realtà sembrebbe più adatta a criticare il modello cognitivo di Beck, ma fu usata da Guidano per attaccare anche Ellis. Ellis rispose personalmente a Guidano sostenendo che il suo approccio non era puramente razionale, ma razionale-emotivo, in quanto il nocciolo della terapia REBT non è eliminare il bias dell’esame di realtà (ad esempio sulla pericolosità del mondo) ma mettere in crisi la convinzione di intollerabilità emotiva (Ellis, 1990).
Questa convinzione ha più a che fare con la percezione soggettiva ed emotiva del mondo che con la sua valutazione oggettiva, e quindi sicuramente è molto meno incompatibile con una visione costruttivista di quanto pensasse Guidano. Tuttavia questa critica fu recepita nell’ambiente degli psicoterapeuti italiani e probabilmente contribuì a far ritenere il disputing un intervento razionalista incompatibile con l’indirizzo costruttivista.
Nel prossimo articolo esploreremo la fase successiva dello sviluppo della REBt in Italia: il rapporto tra REBT e il modello costruttivista dominante in Italia negli anni ’80, formulato da Guidano e Liotti(1983).
Lo studio, pubblicato sull’American Journal of Public Health, ha dimostrato che le informazioni riguardanti l’apporto calorico di fatto non aiutano le persone a ridurre i consumi di cibi altamente calorici.
Jamie Oliver sul suo famoso blog di cucina fa comparire in modo neanche troppo discreto e con un bel carattere grafico la quantità di calorie per ciascuna ricetta che propone. Scelta seguita anche dai molti fast food anglosassoni.
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In generale nel mondo americano l’ossessione informativa sulle calorie sembra essere considerata uno strumento importante nella lotta contro l’ obesita’.
I ricercatori della Carnegie Mellon University hanno indagato scientificamente l’effetto di tali informazioni sul cambiamento di atteggiamenti e comportamenti alimentari delle persone.
Lo studio, pubblicato sull’American Journal of Public Health, ha dimostrato che le informazioni riguardanti l’apporto calorico di fatto non aiutano le persone a ridurre i consumi di cibi altamente calorici.
Il team di ricerca ha analizzato i comportamenti di acquisto di circa mille persone a pranzo presso due McDonald di New York.
In particolare sono state studiate tre diverse condizioni: 1) ricevere informazioni sull’apporto calorico giornaliero raccomandato; 2) ricevere informazioni riguardo l’assunzione di calorie consigliate per pasto; 3) non ricevere alcuna informazione sulle calorie.
I risultati hanno dimostrato che non vi sarebbe alcuna differenza in termini di cambiamento comportamentale nella riduzione del numero di “calorie acquistate” attribuibile alla presenza di specifiche informazioni sull’apporto calorico.
Appare dunque irrealistico aspettarsi che vi sia un cambiamento di atteggiamento e di comportamento alimentare in funzione di una semplice etichetta numerica senza la costruzione di una rete concettuale e motivazionale di più ampio respiro.
Con estrema curiosità e scontato sospetto di poca corrispondenza alla realtà, io che nel bel mezzo dell’attesa mi ci ritrovo, ho letto l’ultimo Libro di Alberto Pellai, Medico, Psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano “L’attesa, il percorso emotivo della gravidanza”.
Nella prima parte si delinea un’introduzione delicata e quasi in punta di piedi, da parte dell’autore che, descrivendosi come un osservatore partecipante, premette l’invidia per il senso di onnipotenza che ogni donna proverebbe nello stato di gravidanza e spiega come nasce il libro, concentrandosi su due tipi di riflessioni: una centrata su eventi esterni la donna, fatti dal cambio delle stagioni e dagli elementi che caratterizzano l’autore e che fanno da sfondo, da cassa di risonanza ai cambiamenti interiori, che caratterizzano invece la seconda narrazione, composta da pensieri ed emozioni della stessa protagonista.
Una sorta di diario di bordo, che, nello stile della Narrativa Psicologicamente Orientata, è pensato per far sì che il lettore non sia passivo ma che scopra se stesso e la sua personale storia dietro e dentro le frasi che compongono il testo.
La seconda parte del libro, sempre sulla base delle due prospettive, percorre mese dopo mese, stagione dopo stagione il lungo percorso dell’attesa che va dal momento del concepimento fino alla nascita.
Come una lente di in gradimento, la percezione della donna protagonista appare amplificata e tutti i sensi assumono un potere speciale per cui l’attenzione si posa ogni volta su dettagli semplici e unici allo stesso tempo, assumendo un significato ogni volta più intimo e personale.
Inizia con la Primavera, dal momento del test e del rito che si accompagna a questo, dalla presa di consapevolezza di diventare mamma, pensando a sé come figlia e ripercorrendo alcuni dei momenti più dolci di questa relazione; dalla prima ecografia in cui prende forma incredibilmente ciò che è quasi impercettibile; dal corpo che cambia, lentamente e che impone dolcemente di “inventarsi” un nuovo rapporto con me stessa mentre costruirò dentro di me spazio per te; dalle scelte, quelle più banali e quelle più importanti, che in questo momento vengono fatte utilizzando criteri altri, diversi, in grado di ribaltare le scale di valori di ognuno; al primo movimento che lascia increduli, ma chiaro e netto da spezzare il fiato e da far pregare di sentirlo ancora; alle preoccupazioni e le ansie che inevitabilmente accompagnano questo periodo così delicato seppur per eccellenza fisiologicamente naturale; ai preparativi della cameretta, uno spazio che non è solo fisico, ma mentale, soprattutto per chi, in quanto uomo, papà, non ha un’evidenza biologica se non il guardare la gravidanza avvenire dentro la sua compagna; fino all’Autunno, in cui tutto appare rallentato, in cui si ha la sensazione che qualcosa stia per accadere, in cui l’attesa è nel suo splendore massimo, si sente che qualcosa cambierà, e per sempre, meravigliosamente.
Ogni passo, ogni paragrafo è scandito dai vissuti, dalle emozioni e dai pensieri della protagonista che ripercorre le sue esperienze, i suoi ricordi e i significati ad essi attribuiti, e lo sforzo che l’autore compie in tal senso è lodevole, ma proprio perché si tratta di un’ esperienza unica intimamente, credo che ogni donna in attesa abbia vissuti emozioni e pensieri difficilmente accomunabili, o meglio: possono apparire nei contenuti simili, ma avere una tinta emotiva estremamente soggettiva che tocca corde, smuove mari spostando confini che ogni singola donna conosce, solo lei, individualmente e non per egoismo, ma perché non si può tradurre in parole tutto, si può “solo” meravigliosamente sentire.
È possibile però, così come consente di fare il libro nella terza parte, costruire un percorso di auto esplorazione partendo proprio da contenuti comuni che fungono da frase-stimolo, rivelandosi estremamente utili per permettere alla mente di elaborare aspetti emotivi per i quali è importante potersi soffermare a sentire e a pensare.
Non so quanto sia possibile “riscrivere personalmente” la propria attesa partendo da questa lettura, ma indubbiamente essa consente un momento di riflessione e un momento per sentire alcuni aspetti risuonare dentro, come i momenti in cui sono le sensazioni dell’uomo ad emergere, o meglio lo sguardo della protagonista sul papà, sull’uomo che amorevolmente le è accanto con gesti semplici, pensieri puliti che muovono dentro; così come vedere scritto quanto ho sempre pensato poco possibile, cioè la necessità di fermarsi, e prendersi del tempo, era come se non ci fosse mai un motivo sufficientemente valido.
E che io invece, proprio mentre sto facendo te, scopro che c’è un tempo per stare. Stare con te. Stare con me. Stare con tutto quello che c’è fuori e dentro. Ecco cosa ho imparato in questi mesi: c’è un tempo per fare e un tempo per stare. Il tempo per stare: che grande dono, figlio mio.
“Per favore non credete alle mie parole senza farne esperienza se funziona per voi, se funziona nella vostra pratica clinica allora utilizzatelo altrimenti buttatelo, la terapia è un po’ come un grosso esperimento, un grosso laboratorio.
Ed è poi quello che facciamo nella psicoterapia sensomotoria un piccolo esperimento con il paziente volta per volta, ci chiediamo sempre se per quel paziente funziona, avendo ben in testa che se non funziona si proverà qualcos’altro, trovando un’altra tecnica più adatta per lui.”
Durante il workshop Trauma, attaccamento e corpo tenutosi a roma il 29 e 30 giugno scorsi, ho avuto l’opportunità di intervistare Kekuni Minton, trainer fondatore dell’istituto di psicoterapia sensomotoria a Boulder in Colorado. Mi hanno colpito la disponibilità di Kekuni e la grande competenza nel lasciarsi “traghettare” dalle mie domande…
Som: In questi giorni ci ha parlato di due tipi di ferite: ferite d’attaccamento e ferite traumatiche, quali sono le tecniche specifiche per lavorare con le une e con le altre, e in cosa differiscono maggiormente?
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Per quanto riguarda l’esperienza traumatica, le ferite traumatiche l’attivazione e la minaccia reale e percepita, sono più estreme e potenzialmente letali per l’individuo. Di fronte ad una minaccia estrema affiorano le risposte di difesa animali estreme, e la maggior parte di queste risposte vengono attivate nelle aree sottocorticali del cervello: parliamo di risposte di attacco e fuga all’estremità elevata dello spettro e sottomissione e morte simulata nella parte bassa dello spettro. La dissocizionepuò avvenire in entrambe le estremità dello spettro parliamo, dunque, di difese sottocorticali e primitive.
Quando parliamo di ferite di attaccamento non siamo quasi mai di fronte ad una situazione che viene percepita come potenzialmente letale, molto spesso le difese non sono di tipo sottocorticale ed animale, ma sono difese che si attivano contro oggetti interni dolorosi, emozioni dolorose, stati relazionali dolorosi ed esperienze sul sé dolorose.
Tuttavia ci sono anche delle anologie, entrambe comprendono dei comportamenti appresi a livello procedurale sulla base di esperienze passate.
“La memoria procedurale determina il nostro modo di esperire il presente e di prevedere il futuro, preparandoci nel momento presente a quello che avverrà, sulla base delle nostre esperienze passate”.
Som: La psicoterapia sensomotoria ha un substrato neurobiologico molto forte come è possibile condividere questa cornice con i nostri pazienti?
La sensomotoria è un approccio che si integra facilmente con altri approcci psicoterapici io stesso non uso unicamente la psicoterapia sensomotoria nei miei percorsi terapeutici, con alcuni pazienti, ad esempio, utilizzo maggiormente tecniche sensomotorie, mentre con altri l’EMDR o altri metodi\tecniche.
Quindi la conoscenza del corpo e dei meccanismi di interconnessione tra corpo mente ed emozioni che si ottengono grazie alle tecniche sensomotorie si possono applicare ed integrare con molti altri metodi, e quando sono integrate in un percorso terapeutico il paziente non ha più bisogno di una grossa cornice teorica ma solo di una parte di psicoeducazione. Quando parliamo di ferite traumatiche possiamo parlare di una sofferenza non solo psicologica ed emotiva ma anche corporea, scritta nel corpo, quindi diventa necessario lavorare su tutti e tre i livelli, per questo possiamo usare sia tecniche sensomotorie che di altri strumenti psicoterapeutici.
Diventa utile vedere in che modo il corpo partecipa non solo nelle risposte somatiche ma anche nel modo di elaborare le cognizioni e le emozioni.
Nella mia pratica clinica qualsiasi modello io utilizzi sono sempre consapevole di tutte e tre i livelli: corpo, cognizione ed emozioni. E per quelli che lavorano anche a livello spirituale possiamo dire che ci sono quattro livelli da tenere sempre presenti nel lavoro con il paziente. Per cui io includo sempre il corpo nel mio lavoro e ritengo basti davvero un po’ di psicoeducazione per avvicinare i pazienti a questa tecnica.
Som: L’abilità di Mindfulness sembra essere trasversale nell’applicazione di tecniche della psicoterapia sensomotoria, qual è secondo lei il goal e il valore aggiunto di questa abilità?
Ottima domanda. Noi pensiamo alla mindfulness in due modi: da una parte come tecnica psicoterapeutica che pervade tutto il nostro sistema di lavoro, tecniche metodi e teorie, dall’altra consideriamo la mindfulness come una capacità neurologica e psicologica, è la capacità di riflettere su stessi, e senza la capacità di riflette su stessi diventa molto difficile autoregolarsi e notare i nostri pattern di apprendimento procedurale, pattern emotivi e cognitivi abituali.
Da qui il fatto che una volta che abbiamo la capacità di riflettere su di noi siamo capaci di osservare i nostri pattern abituali, quindi prima di tutto notiamo di avere una specifica credenza negativa e successivamente possiamo notare gli effetti di questa credenza negativa sul corpo sulle emozioni sul pensiero, e proprio grazie alla mindfulness abbiamo la possibilità di scegliere, abbiamo davanti diverse opzioni di pensiero e di comportamento.
Questo è di fatto il messaggio centrale degli esistenzialisti, Sartre, Heidegger ed Hegel, l’abilità di riflettere su noi stessi ci consente di cambiare ci consente di essere una persona diversa; e anche i filosofi esistenziali moderni concordano su questo e lo stesso dicasi per i filosofi buddisti antichi e stiamo parlando di milioni di anni fa, l’abilità centrale che bisogna apprendere per cambiare noi stessi profondamente è l’autoconsapevolezza.
E’ come il motto di Socrate “conosci te stesso, fino a quando non conosci te stesso non potrai mai cambiare”. Un famoso terapeuta mi ha detto “non potrai mai cambiare una cosa se non sai cosa stai facendo”, questa conoscenza deriva solo della mindfulness. Noi, ad oggi, non consideriamo la mindfulness solo come tecnica psicologica, ma come un’ abilità fondamentale per la crescita e lo sviluppo personale.
Som: Abbiamo parlato della terapia sensomotoria e dell’EMDR e di come in ogni fase le tecniche della psicoterapia sensomotoria possano andare ad implementare l’efficacia del protocollo EMDR. Ci puo dire in sitensi qual è la forza di questa integrazione e quale il valore aggiunto dell’utilizzare tecniche della psicoterapia sensomotoria nel protocollo EMDR?
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Io ritengo che l’ EMDR sia una tecnica di elaborazione estramamente potente, e già include il corpo nel suo protocollo, più che altro in termini di consapevolezza corporea. Ci si è concentrati molto nell’ EMDR su come elaborare le convinzioni negative, sono stati spesi molti sforzi nel metodo nella teoria e nella ricerca e lo stesso dicasi per le emozioni, si è spesa molta enfasi su come lavorare con le emozioni con l EMDR. Ora quando parliamo del corpo, invece, troviamo poca ricerca, e sicuramente c’è spazio per molta altra ricerca in questo settore.
Pat Hodgen ha cercato la ragione del lavoro sul corpo sin dal 1978, mentre io mi sono associato a lei nel 1988 da li ci siamo concentrati molto sull’obiettivo di ragionare sul funzionamento del corpo, su quale era la logica delle risposte sottocorticali difensive e animali, su quale fosse la logica delle ferite di attaccamento nel corpo, in quale modo le ferite di attaccamento rimangano “incorporate”, in che modo l’apprendimento procedurale influenza l’elaborazione emotiva e cognitiva e in che modo è possibile modificare le ferite di attaccamento a livello somatico.
Basti pensare che la letteratura sull’attaccamento è estremamente focalizzata sul corpo, momento per momento viene studiato il comportamento fisico della madre e del neonato e le loro modalità di comunicazione\relazione corpo a corpo, ma in molte tecniche di psicoterapia non c’è lo stesso focus momento per momento.
Direi che l’EMDR è un modello aperto e si possono integrare aspetti da diversi punti di vista: sono 30 anni che studiamo la logica del corpo e molti esponenti della scuola dell’ EMDR sono interessati alla nostra ricerca per poter integrare il nostro modello nelle 8 fasi del protocollo. Credo che la forza per ogni approccio psicoterapico dovrebbe essere quella di avere un modello aperto all’integrazione con nuovi modelli e teniche, e bisognerebbe porsi una domanda: Funziona? Se non funziona lo si butta via, mentre se funziona lo si utilizza.
Per favore non credete alle mie parole senza farne esperienza se funziona per voi, se funziona nella vostra pratica clinica allora utilizzatelo altrimenti buttatelo, la terapia è un po’ come un grosso esperimento, un grosso laboratorio. Ed è poi quello che facciamo nella psicoterapia sensomotoria un piccolo esperimento con il paziente volta per volta, ci chiediamo sempre se per quel paziente funziona, avendo ben in testa che se non funziona si proverà qualcos’altro, trovando un’altra tecnica più adatta per lui.
SOM:quali sono nella sua esperienza clinica i pazienti che lavorano meglio con la psicoterapia sensomotoria?
Direi per due tipi di pazienti. Con i pazienti che hanno subito un trauma il lavoro sul corpo è estramamente efficace e diventa molto importante lavorare con la loro capacità di autoregolarsi, lavorare con la mindfulness e lavorare con le risposte somatiche di difesa estrema. Per il lavoro con questi pazienti trovo che le tecniche della psicoterapia sensomotoria siano molto efficaci.
Per quanto riguarda la seconda categoria, parliamo del lavoro sugli aspetti delle ferite di attaccamento, come ho già detto la teoria e la ricerca sull’attacamento sono estremamente orientati sul corpo, nel modo in cui il corpo della madre e del bambino comunicano tra loro, non credo, quindi, sia possibile lavorare con le ferite dell’attaccamento solo ad un livello astratto, credo che il lavoro vada fatto all’interno della relazione con il contatto oculare, con la relazione corpo a corpo, e c’è sempre il contatto oculare il tono di voce, la vostra postura che comunica un qualcosa al paziente e allo stesso modo il corpo del paziente vi sta dicendo qualcosa, che forse il paziente meglio non saprebbe esprimere.
Per cui il paziente deve imparare che il corpo in una relazione è la sostanza che trasmette il materiale necessario alla relazione stessa.
Ci sono due accenti nell’ambito della relazione terapeutica che secondo me vale la pena di studiare uno è quello di prendere le esperienze di attaccamento mancanti e di trasformarle in un esperimento con il paziente e ovviamente questo non lo si fa nel vuoto ma nel concreto nella relazione con il paziente.
Un altro modo di lavorare sul corpo è quello che pone l’accento sulla differenziazione, l’abilità di tollerare i propri stati interiori che vengono attivati in una relazione e di auto regolarli senza proiettarli sull’altro, lavorare con il proprio disagio interiore, lavorare sullo stress di stare in un ralazione, sullo stress di stare in una relazione intima, di far si che qualcun altro ci conosca profondamente e riuscire a rimanere aperti in questa esperienza.
Molte delle nostre ferite di attaccamento nelle relazioni fanno si che le persone si chiudano a livello mentale emotivo e somatico e spesso le persone non sanno nemmeno di chiudersi a tutti e tre i livelli, quindi aprirsi di nuovo ed essere in contatto intimo con un’altra persona non comporta solo un elaborazione astratta, ma significa provarlo da dentro in una relazione e per molti la prima persona con cui la si
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prova è proprio il terapeuta, quindi bisogna esperire in una relazione cosa significa essere aperti in una relazione, un po’ come in un laboratorio, non parliamo solo di relazioni, ma le mattiamo in pratica in vivo.
Tante riflessioni mi porto via da questo convegno e dalla chiacchierata che ho avuto la possibilità di fare con Kekuni: ritorna la Mindfulness e la possibilità di insegnare ai nostri pazienti a riflettere sul sé, sulle proprie emozioni e pensieri, aiutandoli ad aumentare la finestra di consapevolezza e di conseguenza aumentando le possibilità di scelta rispetto alle proprie azioni, passando non solo attraverso pensieri ed emozioni, ma anche e soprattutto attraverso l’esperienza corporea. Ritorna la relazione come veicolo importante di cambiamento.
Citiamo infine una frase di Van der Kolk “Finchè si è in grado di elaborare in parallelo o in duplice consapevolezza, non si viene ritraumatizzati. La corteccia prefrontale ci consente di avere questa presenza osservante ed essa deve essere coltivata con i pazienti. Ma essa non si coltiva facendo loro rivivere ripetutamente i traumi e facendoli abreagire, quando incoraggiamo la riesperienza spesso feriamo il paziente ancora di più”.
La noia viene concettualizzata come un’esperienza caratterizzata da un desiderio non appagato di fare-esperire qualcosa di soddisfacente.
Guardereste per lungo tempo un video di pesca o di un uomo che silenziosamente stende i panni? Questi sono alcuni degli stimoli che utilizzano i ricercatori psicologi per studiare scientificamente la noia.
La noia è un’esperienza universale e molto comune, ma finora si è data poca attenzione scientifica a tale fenomeno emotivo. Secondo Eastwood (Eastwood, Frischen, Fenske, Smilek, 2012) la noia viene concettualizzata come un’esperienza caratterizzata da un desiderio non appagato di fare-esperire qualcosa di soddisfacente.
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Lo stesso autore la definisce uno stato di “unengaged mind”: la noia come stato aversivo che si presenta quando a) non siamo in grado di impegnare in modo efficace la nostra attenzione verso stimoli interni o esterni, b) ci focalizziamo sul fatto che non siamo in grado di impegnare la nostra mente in una attività soddisfacente, c) attribuiamo la causa del nostro stato aversivo a fattori esterni.
Inoltre la noia sarebbe caratterizzata sia da un basso che da un elevato arousal (attivazione fisiologica). In alcune situazione è una sfida anche tenere gli occhi aperti mentre in altre essere annoiati può portare a uno stato di nervosa agitazione.
Effettivamente la noia sembra proprio una faccenda di attenzione. In uno studio del 2012 è stato riscontrato che le persone più propense a provare noia ottengono prestazioni peggiori nei compiti che richiedono attenzione sostenuta con una maggiore probabilità di presentare sintomi di ADHD e di depressione (Malkovsky,Merrifield, Danckert, 2012).
Pensando alla depressione, anche se possono avere strette somiglianze e elevate correlazioni, la noia e lo stato depressivo sono esperienze emotive distinte (Goldberg, Eastwood, LaGuardia, & Danckert, 2011): si potrebbe speculare che le noia porti a una maggior focalizzazione sui processi ruminativi in un ciclo vizioso di mantenimento dello stato depressivo. E gli alessitimici sarebbero particolarmente propensi alla noia (Eastwood, Cavaliere, Fahlmana, Eastwood, 2007).
Le ricerche di laboratorio si sono concentrate sugli effetti comportamentali della noia: in un recente studio condotto presso la University of Limerick studiando gli effetti della noia sul recupero mnestico hanno scoperto che le persone cui era stato indotto un elevato stato di noia richiamavano alla memoria ricordi estremamente più nostalgici (van Tilburg, Igou, Sedikides, 2013).
In un altro studio condotto dagli stessi ricercatori i soggetti sottoposti a condizioni più noiose sarebbero anche più aggressivi nell’infliggere pene ipotetiche più severe a criminali immaginari (Van Tilburg, Igou, 2011).
In un contesto educativo alcuni ricercatori tedeschi stanno invece studiando le modalità di fronteggiamento della noia negli studenti delle scuole superiori: alcuni utilizzerebbero strategie di re-appraisal più raffinate a livello cognitivo come ad esempio ricordare a sé stessi quanto lo studio possa aiutarli per la loro futura carriera mentre altri sarebbero più propensi a strategie di evitamento dello stimolo emotigeno (chiacchierare con i compagni di banco).
Dai risultati è emerso che l’impiego di strategie di re-appraisal facilita la diminuazione dell’esperienza di noia rispetto alle strategie di evitamento (Net, Goetz, Hall, 2011).
Questi spunti di ricerche che si stanno muovendo sia in ambito clinico che di psicologia generale suggeriscono che altro che emozione cenerentola, la noia può concorrere a una migliore comprensione di fenomeni clinici e comportamentali al pari di altre emozioni e stati mentali finora più studiati.
Sembrerebbe una banale storia d’amore, di un amore fallito rovinosamente, ma nell’amore di James Gatz, questo era il vero nome del protagonista del film, c’è di più, una forte componente narcisistica che lo spinge a lottare con tutti i mezzi, anche illegali, per diventare “Il Grande Gatsby”.
Nella cornice dell’America degli anni venti, piena di entusiasmo e felici promesse che verranno spazzate via dalla Grande Crisi del ventinove si snoda la storia d’amore tra Gatsby e la bella Daisy.
I due hanno avuto una relazione che si è interrotta a causa della guerra e per la sete di successo e di denaro dell’uomo, sicuro che la sua amata sarebbe rimasta ad aspettarlo, mentre si impegnava nel compito di arricchirsi con attività illecite. Lo ritroviamo, infatti, ricco e proprietario di un’enorme e lussuosa villa, situata di fronte alla casa dove Daisy, che nel frattempo si è sposata con un miliardario, adultero e razzista, trascorre le vacanze.
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Gatsby è convinto di poter riconquistare la sua donna, anche perché ora può offrirle quel genere di vita a cui lei ha sempre guardato con desiderio. Sarà deluso e la storia finirà tragicamente, con la sua morte.
Motivi d’interesse
Sembrerebbe una banale storia d’amore, di un amore fallito rovinosamente, ma nell’amore di James Gatz, questo era il vero nome del protagonista del film, c’è di più, una forte componente narcisistica che lo spinge a lottare con tutti i mezzi, anche illegali, per diventare “Il Grande Gatsby”.
L’essere pari o superiore a quanti fanno da contorno a Daisy, il riconquistarla, la pretesa che Daisy possa andare da Tom, suo marito a dirgli: “Non ti ho mai amato”, per poi tornare con lui e sposarsi in casa di lei come se fossero stati ancora al punto di cinque anni prima è il sogno che incarna Gatsby e che simboleggia il self made man, il desiderio di cose sempre troppo grandi, la necessità di raggiungere traguardi sempre più alti in una escalation che non ha mai fine.
Gatsby lotta, la sua sfida con se stesso e con un mondo da conquistare lo rende un uomo solo, senza veri amici, al più gli altri sono strumenti per realizzare il suo sogno. Nato povero ha coltivato fin dall’infanzia la speranza di diventare grande, di salire sempre più in alto fino alla straripante megalomania di organizzare feste grandiose a cui partecipasse tutta la città. Eppure le persone che affollano le sue feste lo dimenticano, spesso lo disconoscono. La speranza è che Daisy prima o poi arrivi, che si possa riannodare quell’amore grande, totale, assoluto, esclusivo, atemporale, un amore che chiede troppo a una donna che non è l’oggetto narcisistico del Grande Gatsby come lui crede.
Daisy è indifferente a qualsiasi altra cosa che non sia il lusso e una vita ricca e sfarzosa che il marito le permette di condurre, niente la lega al sogno idealistico e irrealistico, troppo pretenzioso del protagonista.
D’altra parte Gatsby non è innamorato di Daisy, non la conosce veramente, è innamorato del suo sogno grandioso. Due mondi che non possono incontrarsi perché troppo autocentrati, troppo egotici.
Gatsby rimane il prototipo dell’uomo solo, sul prato della sua villa mentre ha lo sguardo rivolto alla luce verde che si riflette sul pontile della casa di Daisy, e persino al suo funerale dove non arriva nessuno.
Questo senso di solitudine nei narcisisti è difficile da gestire, rappresenta una ferita al proprio valore e come reazione difensiva porta ad un senso esagerato della propria importanza, ad atteggiamenti superbi e arroganti, a pretese eccessive, ad aspettative irrealistiche nei confronti degli altri.
Le parole che Daisy rivolge a Gatsby quando le chiede davanti al marito di dirgli che non lo ama, che non lo ha mai amato, che ama solo lui sono emblematiche “pretendi troppo”.
Indicazioni per l’utilizzo
Il film presenta contenuti che possono essere discussi in terapia con pazienti narcisisti. Offre un’ottima occasione per incrementare la consapevolezza di alcuni temi problematici e degli stati mentali, grandioso, depresso-terrifico, di vuoto devitalizzato, di transizione. Ottimo a fini didattici.
L’idea che le donne siano più resilienti degli uomini in risposta a situazioni stressanti è convinzione comunemente diffusa. Adesso è arrivata la conferma scientifica da parte del Dipartimento di Psicologia e Biofisica dell’Università di Buffalo (UB School of Medicine and Biomedical Sciences), che ha evidenziato i motivi alla base di questo fenomeno.
Zhen Yan, infatti, ha cercato di confermare le passate scoperte circa la maggiore resistenza allo stress delle donne rispetto ai uomini, con l’intento di comprenderne il perché.
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Lo studio ha evidenziato che le donne dei ratti esposte a ripetute situazioni stressanti rispondono meglio rispetto agli uomini, esposti alla medesima condizione, a causa dell’effetto protettivo degli estrogeni. Nella ricerca le donne dei ratti, infatti, sottoposte a una settimana di stress ripetuto, non hanno mostrato alcun danneggiamento nell’abilità di ricordare oggetti appena mostrati, mentre gli uomini hanno evidenziato un danneggiamento della memoria a breve termine.
La compromissione della capacità di ricordare episodi recenti è connesso ad un deficit nella capacità di segnalazione da parte dei recettori di glutammato nella corteccia prefrontale, la regione cerebrale deputata al controllo della memoria a breve termine, dell’attenzione, dei processi emotivi e di altre funzioni esecutive. Una ricerca dello scorso anno dello stesso gruppo di studiosi aveva mostrato come situazioni di stress continuo comportino la perdita di ricettori di glutammato nella corteccia prefrontale in giovani ratti maschi. Il recettore di glutammato, infatti, rappresenta la molecola che controlla la risposta allo stress.
L’attuale ricerca, però, ha evidenziato che questo fenomeno non avviene per le donne, per cui il recettore di glutammato non subisce deficit a fronte di stress ripetuto. Come spiegare questi risultati? I ricercatori hanno deciso di manipolare la quantità di estrogeni prodotti nel cervello sia nei uomini che nelle donne per verificarne le possibile conseguenze.
Quando la segnalazione degli estrogeni nelle donne era bloccata si evidenziava un effetto nocivo dello stress nei circuiti cerebrali, mentre quando la via di segnalazione degli estrogeni era attivata nei uomini allora le conseguenze dannose dello stress erano bloccate.
I risultati ottenuti hanno mostrato l’effetto positivo che gli estrogeni prodotti nel cervello hanno nel proteggere da situazioni di stress ripetuto, spiegando, così, la maggior resilienza delle donne allo stress cronico. In particolare, è l’enzima aromatasi, che produce estradiolo, un ormone estrogeno, ad essere presente in grande quantità nella regione prefrontale del cervello femminile e ad essere responsabile, quindi, della maggiore resilienza femminile.
Questa scoperta muove verso la possibilità di utilizzare trattamenti per la cura di problemi connessi allo stress attraverso la somministrazione di sostanze simili agli estrogeni, in modo da evitare gli effetti collaterali di ormoni e ottenere risultati positivi in questo genere di disturbi.
Wei, J., Yuen, E. Y., Liu, W., Li, X., Zhong, P., Karatsoreos, I. N., McEwen, B. S., & Yan, Z. (2013). Estrogen protects against the detrimental effects of repeated stress on glutamatergic transmission and cognition. Molecular Psychiatry, 1-11. (DOWNLOAD)