Ricerche cliniche hanno dimostrato l’esistenza di due principali fattori in grado di influenzare la percezione di “cattivo sonno” in soggetti che soffrono di insonnia. Da una parte la difficoltà di saper riconoscere i segnali che precedono il sonno e che spingono a prepararsi a dormire e dall’altra la presenza di credenze erronee sull’idea di “buon sonno”.
Per “percezione del sonno” si intende la capacità dell’individuo sia di saper identificare il proprio sonno, distinguendolo da uno stato di veglia sia di essere in grado di valutarne soggettivamente la qualità. Tale percezione risulta essere alterata nei soggetti insonni ed è questo che fa sì che tali fattori rivestano un importante ruolo nel mantenimento e nella genesi dell’insonnia (Giganti et al., 2016). Esaminiamoli più da vicino.
Segnali che precedono il sonno
Un primo fattore che influenza la percezione che un individuo ha della propria qualità di sonno è la capacità di saper riconoscere il sopraggiungere del sonno sulla base di alcuni segnali fisici come la riduzione dell’attività motoria, la chiusura delle palpebre, il bruciore agli occhi, la sonnolenza, la difficoltà a mantenere la concentrazione e la graduale modificazione dell’attività celebrale che assume via via le caratteristiche del sonno REM (Salzarulo, 2003).
Nei soggetti insonni, tali segnali non sono però tenuti in considerazione al momento della decisione di coricarsi mentre risultano privilegiati segnali esterni, come ad esempio l’orario (Giganti et al., 2014). La conseguenza del basarsi esclusivamente sull’orario per capire se è ora di andare a letto, senza tener conto della propria tipologia circadiana (cioè della naturale propensione a dormire che differisce da persona a persona), è che l’individuo potrebbe mettersi a letto ad un orario anticipato senza per questo riuscire a dormire. Il non sopraggiungere del sonno in poco tempo, potrebbe poi portare l’individuo a ruminare sulle preoccupazioni quotidiane e sulle possibili conseguenze negative prodotte dal “cattivo sonno” (Van Egeren et al., 1983) creando un circolo vizioso che mantiene svegli. La ruminazione, favorendo l’attivazione cognitiva che a sua volta correla con l’attivazione fisiologica sia a livello corticale (Kertesez e Cote, 2011) che neurovegetativo (Bonnet e Arand, 2010) impedirà al corpo e alla mente di rilassarsi e di far sopraggiungere il sonno (Morin et al., 2002).
Credenze erronee sul sonno
Altro fattore che influenza la percezione della qualità del proprio sonno è quello psicologico legato a idee e credenze, a loro volta modulate da fattori culturali, sociali e da esperienze personali (Giganti et al., 2016).
Una prima credenza ritiene che la durata ottimale del sonno, necessaria a sostenere un buon funzionamento durante il giorno, sia di otto ore a notte (Morini et al., 2002). Tale visione non tiene conto però di numerosi fattori tra cui le differenze inter-individuali relative alla tipologia del dormitore e le modificazioni fisiologiche dovute all’età. Con l’invecchiamento per esempio, tendono a venir anticipati gli orari di addormentamento e di risveglio ed aumenta il numero di coloro che dormono per periodi più brevi.
Altra falsa credenza è quella per cui basta una sola notte di sonno disturbato per produrre delle conseguenze negative diurne. In realtà le ricerche dimostrano che i meccanismi fisiologici consentono normalmente di far fronte ad episodiche perdite di sonno senza conseguenze obiettive (Harvey e Greenall, 2003).
Ulteriore idea comune è che una buona qualità di sonno non debba presentare risvegli notturni (Bruck et al., 2015). In realtà, i risvegli notturni possono essere presenti ma mentre in individui normo-dormitori, bastando 2-4 minuti effettivi di sonno per avere la percezione di aver dormito, la presenza di risvegli notturni non comporta una percezione di “cattiva qualità del sonno”, diversa è la situazione dei soggetti insonni, a cui servono circa 15 minuti di sonno per avere la percezione di aver dormito. La conseguenza, per questi ultimi, è quindi di avere maggiori possibilità di provare la sensazione di non aver affatto riposato se vi saranno più risvegli consecutivi separati da brevi episodi di sonno (Knab e Engel, 1988).
Infine è utile ricordare che tali pensieri disfunzionali tendono ad associarsi ad atteggiamenti controproducenti come ad esempio il restare a letto sforzandosi di dormire che, se favoriti nel tempo, inducono l’associazione tra lo stare a letto e uno stato di iperattivazione che rende ancor più difficile l’addormentamento (Perlis et al, 1997).
In conclusione, tali evidenze dimostrano come i soggetti insonni siano meno capaci, rispetto agli individui normo-dormienti, di discriminare il sonno dalla veglia; mostrano anche come gli insonni tendano a percepire la durata del sonno inferiore rispetto a quella reale e come sovrastimino il tempo di addormentamento arrivando a valutare il proprio sonno di “cattiva qualità” (Ohayon e Reynolds, 2009). Ad influire su tali percezioni intervengono inoltre fattori psicologici e cognitivi come le caratteristiche di personalità (Edinger et al., 2000), il tono dell’umore (Edinger et al., 2000) e la memoria (Perlis et al., 1997).
Interventi comportamentali
Sulla base di quanto analizzato, il trattamento dell’insonnia non dovrebbe avere come focus l’aumento del tempo totale di sonno o la riduzione della latenza di addormentamento quanto piuttosto l’obiettivo di modificare le credenze erronee sul sonno ed i comportamenti disfunzionali ad esse associati (Harvey, 2002).
A questo proposito, gli interventi di tipo comportamentale che utilizzano tecniche quali “la restrizione del sonno” ed “il controllo degli stimoli” si sono rivelati utili sia al fine di rendere maggiormente consapevole il soggetto insonne dell’aver dormito, riducendo le preoccupazioni associate al sonno, sia migliorando l’abilità di individuazione dei segnali corporei che indicano il sopraggiungere del sonno (Giganti et al., 2014).