Mercoledì 11 settembre, in seconda serata – ore 00.09 – andrà in onda su RAI3 il Documentario “Ciò che mi nutre mi distrugge”, interamente girato presso la UOSD Disturbi del Comportamento Alimentare ASL RomaE.
L’iniziativa è stata fortemente voluta dai due registi, genitori di un paziente precedentemente seguito presso il mio servizio.
SINOSSI
Il film si sviluppa nell’arco di un anno, si raccontano i percorsi di cura di 4 pazienti, l’evoluzione del disturbo, le sconfitte subite e i traguardi raggiunti in una malattia difficile da combattere. Le storie delle 4 pazienti costituiscono l’asse portante della struttura narrativa e il luogo sono le sedute di psicoterapia. L’accesso alle sedute è un’occasione unica per far luce su un tema altrimenti molto difficile da raccontare nella sua reale essenza. La camera registra le storie, gli scontri, i ricordi, le sensazioni, i sentimenti, nel momento in cui si svelano alle persone stesse, nel momento in cui vengono tirate fuori dal profondo. Vediamo le persone cambiare, crollare, sperare di nuovo, curare e curarsi. Sentiamo il male profondo, lo vediamo uscire, manifestarsi o lo sentiamo nascondersi, rifugiarsi.
Il terapeuta provoca la discussione, aiuta i pazienti ad esprimersi, li aiuta ad aprirsi, a capirsi, anche quando fa male. Attraverso il confronto tra linguaggio verbale e linguaggio non verbale si costruisce la drammaticità del film si scopre quello che si nasconde dietro i gesti, si svela quello che le parole da sole non potrebbero mai dire.
In alcuni casi la paziente è sola di fronte al terapista, altre volte insieme alla famiglia. La tensione è forte, alle spalle ci sono giorni passati in silenzio tra le mura domestiche, senza riuscire a comunicare. Qui lentamente si abbattono quelle barriere che prima sembravano invalicabili e tra dolore e speranza si riapre il dialogo. L’espressione del disagio, localizzata nella distorta percezione del corpo e nel rapporto col cibo, mostra le sue radici. Gli autori del film, dal loro osservatorio privilegiato, registrano quelle parole mai dette, intercettano quegli sguardi mai scambiati.
L’unità di luogo del film è il Centro per la cura dei Disturbi Alimentari della ASL RME, struttura pubblica che ha sede presso il Comprensorio di Santa Maria della Pietà.
DI ILARIA DE LAURENTIIS E RAFFAELE BRUNETTI
PRODUZIONE B&BFILM
DURATA 70 MIN CIRCA
IN COPRODUZIONE CON RAI3
CON IL CONTRIBUTO DEL PROGRAMMA MEDIA DELLA COMUNITÀ EUROPEA
FILM RICONOSCIUTO DI INTERESSE CULTURALE DAL MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI
Il maggiore volume della corteccia orbito-frontale, infatti, potrebbe essere caratteristico di tutti i disturbi alimentari e indurre chi soffre di anoressia nervosa a smettere di mangiare prima di avere mangiato abbastanza.
Secondo i risultati di un nuovo studio, condotto dai ricercatori della University of Colorado’s School of Medicine, le adolescenti con anoressia nervosa avrebbero cervelli più grandi rispetto alle coetanee che non sono affette da questo disturbo alimentare.
Articolo Consigliato: Pro ANA – Disturbi del Comportamento Alimentare su Internet
Due gruppi di adolescenti sono state sottoposte a risonanza magnetica per studiarne i volumi cerebrali. L’insula, una parte del cervello che si attiva quando gustiamo il cibo, e la corteccia orbito-frontale, che ci dice quando smettere di mangiare (la cosiddetta “sazietà sensoriale specifica”), sono risultate di dimensioni maggiori nelle 19 ragazze anoressiche del gruppo sperimentale rispetto alle 22 del gruppo di controllo. Inoltre nei soggetti con anoressia nervosa, il volume della materia grigia orbito-frontale correlava negativamente con i sapori dolci.
Sulla base di questi dati, replicati in un secondo studio che ha messo a confronto due gruppi di adulti, Guido Frank, assistente professore di psichiatria e neuroscienze alla CU School of Medicine, sostiene che la maggiore dimensione di queste aree cerebrali può spiegare il “lasciarsi morire di fame” tipico di questo disturbo alimentare.
“La correlazione negativa tra piacevolezza del gusto e il volume della corteccia orbito-frontale in individui con anoressia nervosa potrebbe contribuire all’evitamento del cibo“, sostiene Frank.
Il maggiore volume della corteccia orbito-frontale, infatti, potrebbe essere caratteristico di tutti i disturbi alimentari e indurre chi soffre di anoressia nervosa a smettere di mangiare prima di avere mangiato abbastanza. Inoltre l’insula destra, che elabora il gusto e che integra la percezione del corpo, potrebbe contribuire alla percezione di essere sovrappeso, pur essendo sottopeso.
Questo studio è complementare a un altro, pubblicato nel 2013 nel Journal of Psychiatry, che ha riscontrato differenze nella dimensione del cervello in adulti con anoressia e in individui guariti da questa malattia.
Syd Barrett: l’eclissi di un diamante pazzo – Musica & Psicologia
di Filippo Baldin e Gaspare Palmieri.
Remember when you were young, You shone like the sun. Shine on you crazy diamond.
Now there’s a look in your eyes, Like black holes in the sky. Shine on you crazy diamond. Pink Floyd, Shine on you crazy diamond, 1974
Roger Barrett (1946-2006), soprannominato Syd dai tempi degli scout, è stato tra i fondatori della band britannica progressive rock Pink Floyd, considerata tra le principali esponenti della psichedelia. La sua militanza attiva nel gruppo è durata solo tre anni, dal 1965 al 1968, quando manifestò una grave forma di disagio psichico che lo costrinse a lasciare le scene e a trascorrere il resto della vita in modo ritirato.
Penultimo di cinque fratelli, crebbe in un ambiente domestico amorevole, prospero e sicuro, nella tranquilla ma stimolante città di Cambridge. Viene descritto dalla sorella Rosemary come un bambino irrequieto, che gridava tutto il tempo, fino al giorno in cui imparò a disegnare, diventando più tranquillo. Suo padre Max era un medico che dedicò la sua vita al lavoro e la sua morte prematura nel 1961, rappresentò di sicuro un evento traumatico per Syd.
La madre era gentile e premurosa, ha sempre sostenuto il figlio, sia nei momenti spensierati della sua infanzia, sia nei momenti bui di ritiro autistico, che hanno caratterizzato la vita dopo i Pink Floyd.
Syd era molto creativo e, oltre a dipingere, iniziò a strimpellare brani rhythm‘n’ blues con la chitarra acustica, focalizzando la sua attenzione più sul suono che sulla melodia. Terminati gli studi primari, si iscrisse alla London’s Camberwell School Of Art, dove la sua figura eccentrica e misteriosa conquistò l’attenzione dei compagni e dei professori. In questo periodo entrò in contatto con Roger Waters (ex compagno di liceo), Nick Mason e Richard Wright, dando vita ai futuri Pink Floyd. I ragazzi abbandonarono ben presto gli studi accademici per dedicarsi solo alla musica e dopo un paio d’anni di gavetta firmarono un contratto con la EMI, imponendosi nel panorama avanguardistico e psichedelico underground londinese. Registrarono negli studi di Abbey Road il loro primo album The Piper at the Gates of Dawn, che fu un successo, ma rappresentò l’inizio dei problemi per l’artista. Come molti ragazzi di quel decennio, anche Syd fu vittima dell’ Acid casualty, cioè delle conseguenze dell’abuso del potente acido lisergico dietilamide (LSD).
Articolo consigliato: Chi Muore Rockstar è Caro agli Dei?
In quegli anni ci fu un boom di consumo di tale sostanza, con una sottovalutazione delle possibili conseguenze. In pochi sanno che per un periodo l’LSD fu utilizzato anche in ambito psichiatrico, come “amplificatore” della psicoterapia (Baker, 1964), in pazienti affetti da disturbi nevrotici e della personalità, per via del suo effetto di potenziare le percezioni e le capacità associative. Il suo uso venne poi prontamente smesso in quanto tra gli effetti collaterali vi è la comparsa di stati psicotici, ampliamente confermati dalla letteratura recente (Abraham e Aldridge, 1993; Marona Lewicka et al, 2011). Gli acidi in quel periodo erano inoltre più potenti di quelli di oggi e un trip poteva comportare l’assunzione fino a 250 microgrammi di sostanza.
Le biografie riportano come Syd fosse un grandissimo consumatore di LSD e a questo si aggiungeva il consumo di marijuana, alcol e metaqualone (il famoso Mandrax).
Le testimonianze dei colleghi di Syd evidenziano un quadro psichico davvero preoccupante, che ricorda una psicosi esogena con sintomi confusionali.
Il cantante degli UFO Joe Boyd racconta ad esempio nel 1967 che Syd “mi guardava in modo assente. Non c’era un guizzo o una luce nei suoi occhi. Come se non ci fosse nessuno in casa”. Anche sul palco mostrava comportamenti inadeguati, come nel tour americano del 1967, quando suonò con la chitarra completamente scordata e si presentò sul palco dopo essersi versato un intero barattolo di gel per capelli, che si scioglieva come cera sotto le luci di scena. Il disorientamento spazio-temporale lo portò a salutare un discografico a Los Angeles dicendo di essere contento di trovarsi a Las Vegas. Nella primavera del 1968 Roger Waters tentò senza successo di portare Syd dallo psichiatra R.D. Laing ed in quell’anno il chitarrista venne escluso dalla band e rimpiazzato da David Gilmour.
Dopo aver vissuto senza fissa dimora per circa due anni, Syd fece ritorno nella città natale dove venne ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Fulbourne, da cui fu poi seguito ambulatorialmente. Negli anni successivi non venne mai curato contro la propria volontà ed assunse in certi periodi di maggiore agitazione il neurolettico clorpromazina. Risale a quel periodo la registrazione, con l’aiuto degli ex compagni della band, dei due album solisti dell’artista The Madcap Laughs (1970) e Barrett (1971).
Riprese col tempo a dipingere e ad ascoltare musica. Dipingeva con una grande varietà di stili: paesaggi, quadri astratti, nature morte, studi di luce, esercizi sui colori. Sembrava un tipo di attività autoterapeutica, senza un particolare interesse ad esibire le proprie opere. Era infatti solito distruggere i quadri dopo averli dipinti, come se l’interesse fosse più concentrato sul processo creativo che sull’opera finita.
All’inizio degli anni ’80 trascorse un periodo in una residenza psichiatrica a Greenwoods nell’Essex, da cui poi fuggì per tornare a vivere con la madre e la sorella, a cui era legatissimo.
E’ stato ipotizzato che Syd soffrisse di Sindrome di Asperger, un disturbo dello spettro autistico, caratterizzato soprattutto dalla compromissione del funzionamento sociale e relazionale.
Le persone affette da questa malattia possono presentare assenza di empatia, di consapevolezza di sé e possono sviluppare disturbi psichiatrici secondari nell’adolescenza e nell’età adulta (Tantam D, Girgis S., 2009). Questa seconda fase della vita di Syd fu caratterizzata dall’estremo ritiro sociale e dalla forte limitazione nelle relazioni con gli altri, se si escludono alcuni negozianti e il proprio medico di base, che visitava spesso. Contro questa ipotesi potrebbe essere sottolineato il temperamento infantile e adolescenziale di Syd, descritto come vivace, che amava essere al centro dell’attenzione e con una tendenza ad essere il leader. Queste caratteristiche difficilmente si trovano in disturbi dello spettro autistico.
L’altra ipotesi diagnostica, forse più probabile, è un disturbo dello spettro schizofrenico, a cui i Pink Floyd dedicarono successivamente l’intero album The Wall (1979), che descrive la tragedia personale ed il progressivo isolamento sociale della rock-star Pink, alter-ego di Roger Waters (Pellizza, 2007).
A sostegno di questa ipotesi, oltre alla coartazione emotiva e al ritiro regressivo, possiamo sottolineare il rapporto simbiotico con la figura materna, tipico di questi tipi di disturbi. L’uso massiccio di LSD può slatentizzare l’insorgenza di psicosi schizofreniformi in soggetti predisposti, cioè con una vulnerabilità congenita.
Dopo la morte, avvenuta nel 2006 per tumore al pancreas, sono stati messi all’asta vari oggetti trovati nella sua casa e tra questi The Oxford Textbook of Psychiatry, in cui l’artista appuntò alcune pagine relative alla gestione di sindromi organiche da abuso di droghe, alle demenze e alle sindromi paranoiche.
Si può dunque ipotizzare che Syd avesse una consapevolezza di malattia o quanto meno un interesse a tentare di capire da solo i propri disturbi mentali. Negli anni del ritiro ricevette numerose visite di fans, giornalisti e curiosi, a cui cercò in ogni modo di negarsi, rifiutando di voler parlare di quella che era ormai diventata una vita precedente, quando Roger era ancora per tutti lo psichedelico Syd (Chapman, 2012).
Questi risultati sono il prodotto di una ricerca svolta in concerto dalle Università di Exeter, Oxford e Cambridge con 522 ragazzi inglesi dai 12 ai 16 anni della scuola secondaria.
Gli adolescenti sono stati divisi in due gruppi: il primo ha svolto il curriculum standard previsto dalla scuola e il secondo ha partecipato al Mindfulness in Schools Programme. Tale intervento di mindfulness prevede un training della durata complessiva di nove settimane, una in più del classico programma MBCT, con frequenza di una sessione a settimana. Il Mindfulness in Schools Programma rientra pienamente nella tradizione dei protocolli mindfulness (come MBCT, MBSR e MBRP).
Articolo Consigliato: MBRP – Mindfulness Based Relapse Prevention per la prevenzione delle ricadute nelle dipendenze
Il Programma è stato strutturato traendo ispirazione da alcuni principi che guidano l’efficacia del lavoro con persone adolescenti. Tra questi principi, gli autori ricordano: esplicitazione dei concetti, adattare e abbreviare gli interventi in modo che siano fruibili dai destinatari, considerare il range di età e agire in modo coerente e adatto ad esso, l’uso dell’interazione, l’importanza della componente esperienziale e di disporre di strumenti adeguati all’età che permettano di portare i temi appresi nella quotidianità di tutti i partecipanti. Per quest’ultimo principio, sono stati distribuiti ai ragazzi un libretto informati con i temi principali del corso, un set di pratiche di mindfulness su CD e MP3.
Agli adolescenti che hanno partecipato alla ricerca sono stati somministrati alcuni questionari self-report prima del programma di mindfulness, a due e a tre mesi dalla fine del training.
Alla fine del training, i risultati mostrano con evidenza significativa un abbassamento dei livelli di depressione e di stress e un aumento considerevole del benessere percepito.
Nello specifico, rispetto al primo gruppo, gli adolescenti che hanno partecipato al training mindfulness hanno riportato livelli significativamente inferiori alla scala Center for Epidemiologic Studies Depression Scale (CES-D) della depressione (p = 0.004) e al follow-up (p = 0.005) e livelli bassi di stress (p = 0.05) nella fase post-intervento, misurato con il Perceived Stress Scale (PSS). Inoltre, al follow-up, i risultati mostrano punteggi più alti di benessere (P = 0.05), misurato con la scala Warwick–Edinburgh Mental Well-being Scale (WEMWBS).
Dal presente studio, emerge un altro dati interessante che rappresenta una conferma rispetto all’importanza fondante della pratica personale. Infatti, il grado di pratica svolta dai partecipanti tra una sessione e l’altra è associato al miglioramento del benessere personale (p<0.001), all’abbassamento dei livelli di stress (p = 0.03) e all’abbassamento dei livelli di depressione (p =0.04) al follow-up di tre mesi.
Questo lavoro porta avanti un filone di ricerca molto importante. Infatti, sebbene ad oggi gli interventi mindfulness siano stati validati maggiormente nella popolazione adulta, sarebbe auspicabile investire sulla ricerca delle applicazioni della mindfulness anche nei giovani adolescenti e nei bambini. In questo modo, si potrebbe avere un backgruond scientifico forte da cui derivare proposte e interventi di mindfulness all’interno del contesto scolastico.
“Agire” per il leader vuol dire innanzitutto “prendere decisioni” e “decidere” significa: “selezionare un’alternativa fra più opportunità, allo scopo di raggiungere l’obiettivo desiderato” [Cei, 1998].
Tutti i processi che implicano una scelta di questo tipo, sempre secondo Cei, necessitano di un lavoro su due livelli che considerano rispettivamente: a) aspetti cognitivi e, b) aspetti sociali. Mentre i primi si possono sintetizzare nella risoluzione dei problemi logici inerenti l’ostacolo in questione, i secondi presentano difficoltà maggiori, se non altro per l’apparente ambiguità sulla loro efficacia. Questa ambiguità emerge, in particolar modo, nel momento in cui si confrontano le opinioni e le ricerche espresse al riguardo in ambito sociale e in ambito sportivo.
Per comprendere questa ambiguità bisogna prima di tutto specificare che quando si parla di aspetti sociali in quest’ambito si fa principalmente riferimento alle opportunità offerte dal leader agli altri soggetti di partecipare ai processi decisionali.
In effetti le ricerche che si sono concentrate sull’analisi degli stili decisionali in ambito sociale hanno focalizzato la loro attenzione sul ruolo che assume all’interno del gruppo il conflitto di opinioni. In particolare Moscovici e Zavalloni [1969] osservarono che le prese di posizione espresse dai soggetti dopo una discussione di gruppo su di uno specifico problema tendeva ed essere significativamente diversa, e in particolare modo più vicina a uno dei poli del ventaglio di opinioni, di quanto non fosse precedentemente. Questa dinamica interna al gruppo venne definita dagli autori come polarizzazione e cioè come: “incremento dato dal gruppo ad un orientamento già presente nei singoli componenti” Palmonari [in Arcuri, 1995]. Tuttavia i risultati della loro ricerca dimostrarono come, in realtà, esistessero due diverse e opposte tendenze. Vi erano gruppi che raggiungevano un consenso su atteggiamenti più polarizzati, altri invece lo raggiungevano su opinioni meno polarizzate e più vicine alla media della totalità delle alternative appoggiate dai soggetti individualmente (processo definito come normalizzazione). La tipologia di conflitto presente all’interno dei gruppi è ritenuta essere la variabile primaria che orienta lo stile decisionale verso un processo di polarizzazione o normalizzazione. In particolare nei gruppi in cui il conflitto tende a sfociare in un’aperta discussione e confronto (in cui quindi le opportunità di partecipazione dei membri sono elevate) si sviluppa un processo di polarizzazione, al contrario in quelli in cui il confronto è ridotto al minimo (in cui le opportunità di partecipazione sono pressoché nulle) si sviluppa un processo di normalizzazione.
Articolo consigliato: Postura e decision Making, quando a sinistra si sottostima l’ignoto…
Secondo Palmonari [1995] le caratteristiche della leadership risultano essere, assieme al senso di coinvolgimento dei membri e alla formalità del gruppo, uno dei fattori determinanti della tipologia di conflitto che caratterizza le decisioni. Va sottolineato, ed è il punto in cui emerge l’ambiguità, che, partendo da queste considerazioni, Moscovici e Doise [1991] considerano il tipo di conflitto socio-cognitivo, quello cioè basato su un esplicito e diretto confronto dei punti di vista, quello maggiormente produttivo ai fini del raggiungimento degli obiettivi del gruppo.
Gli studi che, al contrario, si sono specificamente orientati all’analisi degli stili decisionali nell’ambito sportivo sembrano aver raggiunto considerazioni diametralmente opposte. Le caratteristiche del leader che influenzano la tipologia di conflitto presente all’interno della squadra, e quindi la possibilità da parte dei membri di partecipare ai processi decisionali, sono state riassunte in cinque diversi stili decisionali da Chelladurai e Haggerty [1978]. Ciascuno di questi stili correlati al comportamento del leader influenzano la possibilità che i problemi vengano affrontati attraverso un’aperta discussione dei diversi punti di vista o semplicemente attraverso l’orientamento generale verso l’opinione individuale del leader. I cinque stili decisionali in questione sono:
– stile autocratico I: in cui il leader prende autonomamente le decisioni sulla base delle sue sole conoscenze.
– stile autocratico II: in cui il leader prende autonomamente le sue decisioni sulla base di informazioni raccolte dai membri del gruppo.
– stile consultivo I: in cui il leader discute dei problemi con i membri più influenti del gruppo, tiene in considerazione le loro opinioni ma decide da solo.
– stile consultivo II: in cui il leader discute dei problemi con tutti i membri del gruppo, tiene in considerazione le loro opinioni ma decide da solo.
– stile di gruppo: in cui il leader discute dei problemi con tutti i membri del gruppo e lascia che elaborino insieme le possibili soluzioni e decidano quale mettere in atto. La sua funzione, in questo caso, è quella di semplice coordinatore.
Osservando questa distinzione risulta palese la possibilità di assimilare i diversi stili decisionali alle più ampie categorie di stili comportamentali, riferiti al leader, espressi da Bales e Slater [1955] e ancor più chiaramente a quelli distinti da Lewin, Lippit e White [1939]. In particolar modo gli stili autocratici possono essere associati a una leadership principalmente centrata sul compito, mentre quelli consultivi e lo stile di gruppo rappresentano una leadership più focalizzata sull’aspetto relazionale. A questo punto emerge il contrasto con le conclusioni tratte da Moscovici e Doise [1991] in quanto sappiamo dalle ricerche di Fidler [1964] che un leader centrato sul compito (e quindi stili decisionali autocratici) risulta essere molto più efficace per la produttività del gruppo specialmente davanti a situazioni caratterizzate da un controllo elevato o, al contrario estremamente basso. Al contrario in condizioni intermedie uno stile decisionale consultivo o di gruppo può ottenere risultati migliori. Per questo la presenza o l’assenza del conflitto all’interno di un processo decisionale influisce sulla produttività di un gruppo anche in relazione a variabili situazionali. Questo è dimostrato anche da svariate ricerche in campo sportivo [Gordon, 1986; Chelladurai e Arnott, 1985; Chelladurai, Haggerty e Baxter, 1989] attraverso le quali gli autori hanno osservato come sia gli allenatori che i giocatori appaiono convinti che lo stile autocratico, in cui il leader decide da solo, sia da preferire soprattutto quando le situazioni da risolvere risultano particolarmente complesse o troppo banali. Cei [1998] precisa comunque l’importanza, da parte del leader, di saper utilizzare differenti stili decisionali in relazione alle diverse situazioni poiché solo in questo modo può essere in grado di affrontare qualsiasi problema in modo da promuovere positivamente la produttività della squadra, ribadendo così che non esiste una scelta universale ma che il leader deve essere in grado di adattare le proprie azioni e scelte.
Psicologia – Corso di Preparazione all’Esame di stato. Torino
Insonnia cronica: alcuni aspetti cognitivi e comportamentali
L’insonnia cronica è un disturbo molto comune (circa il 30% della popolazione ne soffre), è più frequente nelle donne e negli anziani (Burton, 2006) e può presentarsi sia come conseguenza o aspetto di un altro disturbo medico o psichiatrico (insonnia secondaria) oppure come forma indipendente e autonoma nella sua eziologia e nel suo sviluppo (insonnia primaria).
di Andrea Ballesio
Le classificazioni internazionali dei disturbi del sonno definiscono tale disturbo come una reiterata difficoltà ad iniziare o a mantenere il sonno associata ad un mal funzionamento diurno (cattivo umore, irritabilità, difficoltà cognitive, eccessiva sonnolenza nelle ore diurne) (Devoto & Violani, 2010).
Articolo Consigliato: La Deprivazione di Sonno influenza l’Espressione Genica
L’International Classification of Sleep Disorders (ASDA, 2005) distingue cinque forme di insonnia primaria: disturbo di insonnia da adattamento, insonnia soggettiva, insonnia da inadeguata igiene del sonno, insonnia idiopatica, insonnia psicofisiologica.
L’insonnia psicofisiologica è la più comune forma di insonnia primaria ed è quella in cui entrano maggiormente in gioco fattori di mantenimento cognitivi e comportamentali. Secondo Hauri e Fisher (1986) tale forma di insonnia cronica si svilupperebbe a causa di due elementi principali: le preoccupazioni del soggetto riguardo all’insonnia ed alcuni processi di condizionamento. Per quanto riguarda il primo aspetto occorre sottolineare come nel paziente insonne si sviluppi una sorta di problema secondario legato al fatto stesso di avere difficoltà nell’addormentamento.
Dall’insonnia acuta a insonnia cronica
Dopo una occasionale notte insonne dovuta a motivi di stress, eventi ansiogeni o traumatici, lutti o problemi di salute, il soggetto, in prossimità dell’ora in cui abitualmente va a dormire, svilupperebbe dei pensieri intrusivi disfunzionali riguardo all’insonnia (“e se nemmeno stasera riuscissi a dormire?”, “non ci vorrebbe proprio un’altra nottata in bianco!”, “devo assolutamente riuscire a dormire”, “domani ho una giornata impegnativa, non posso permettermi di non dormire”), che hanno due conseguenze negative per il sonno: da una parte tali pensieri determinano un bias attentivo tale per cui l’attenzione si focalizza sul riuscire o meno a dormire e il soggetto si “sforza” a dormire con il risultato paradossale di rimanere sveglio in quanto il sonno è per definizione spontaneo e non a comando, dall’altra parte la preoccupazione per la possibilità di non dormire e il ricordo delle notti precedenti passate insonni determinano un eccessivo arousal emotivo, cognitivo e fisiologico che impedisce il rilassamento fisico e psichico necessario per dormire.
Dal punto di vista comportamentale invece, si sottolinea come gli stimoli interni (i pensieri, gli stati mentali) ma anche ambientali (la camera da letto, le abitudini, i rituali che precedono il sonno) si associno in breve tempo al non dormire (Devoto & Violani, 2010).
In altre parole, mentre i normodormienti associano le abitudini pre-sonno e le caratteristiche della propria stanza da letto ad uno stato di rilassamento che li predispone e li induce al sonno, le persone che soffrono di insonnia cronica associano la stanza da letto con lo stare svegli.
In conclusione si può affermare che sono le implicazioni cognitive e comportamentali a fungere da fattori di mantenimento e a far divenire insonnia cronica un’insonnia acuta e situazionale.
Psicologia sociale – Alla (non) ricerca della Felicità
Ad oggi, le emozioni sono uno dei più studiati costrutti psicologici: sono stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicofisiologiche, che si verificano in risposta a stimoli interni o esterni, naturali o appresi. In termini evolutivi, o darwiniani, la loro principale funzione consiste nel rendere più efficace la reazione dell’individuo a situazioni in cui si rende necessaria una risposta immediata ai fini della sopravvivenza: nell’immaginario comune è ricorrente una concezione dell’emozione come reazione automatica e non mediata dalla cognizione, come anche spesso viene raffigurata nell’arte.
Tuttavia, la letteratura scientifica ha ampiamente confermato come questo processo psicologico sia ampiamente regolato da fattori cognitivi, ovvero ad esempio da come valutiamo cognitivamente un determinato evento, o da quali sono le nostre aspettative verso esso.
Uno degli aspetti più controversi è il ruolo della nostra societàsu ciò che proviamo e su come lo esprimiamo. Studi recenti nell’ambito della psicologia sociale hanno evidenziato l’importanza delle opinioni altrui nella produzione delle nostre emozioni: ad esempio, Evers e colleghi (2005) hanno trovato che le donne sono meno inclini degli uomini ad esprimere la rabbia perché più portate a pensare alle conseguenze sociali negative che ne seguirebbero.
Articolo Consigliato: Come Ti Senti? La migliore risposta sono le Emozioni in 3D
Un recente articolo di Bastian e colleghi del 2012, ha indagato come la desiderabilità sociale di certe emozioni rispetto ad altre influenzi l’esperienza emotiva della persona e più in generale il suo benessere psicologico.
Dai risultati emerge che più forte è la percezione dell’aspettativa sociale di non provare emozioni negative, più frequenti e intense sono le emozioni negative provate. In altre parole, gli Autori sostengono che il fatto che una persona senta di non dover provare certi sentimenti, promuove lo stato di disagio emotivo e di auto-svalutazione quando li prova.
Nel momento in cui le persone non riescono a soddisfare queste aspettative, tendono a sentirsi “fallite”. Tale riflessione negativa su sé stessi aggrava ulteriormente queste emozioni (Moberly & Watkins, 2008; Nolen-Hoeksema, 2000). Questo studio è importante nel clima sociale odierno, dove apparire felici e funzionanti sembra essere una necessità. Rispetto a questo gli autori rilevano una differenza tra la cultura individualistica tipica dei Paesi d’Occidente e quella collettivistica dei Paesi d’Oriente: in questi paesi l’accettazione da parte del gruppo e l’equilibrio emotivo sono valutate come più importanti rispetto al perseguimento della felicità individuale. Le persone dell’Est Asiatico si dimostrano infatti piuttosto esitanti nell’esplicitare e riflettere sulle emozioni positive e riportano punteggi inferiori ai questionari sul benessere psicologico e sulla felicità, rispetto agli Occidentali (Diener, Suh, Smith & Shao, 1995).
Al contrario, le emozioni negative come tristezza e ansia sono meno stigmatizzate e medicalizzate, con la conseguenza che ci sono meno aspettative sociali verso le emozioni negative (Bastian et al., 2012).
Per quanto riguardo la cultura occidentale, le aspettative sociali stabiliscono degli “standard” di riferimento su come dovremmo sentirci, ovvero degli obiettivi emozionali che sono allo stesso tempo utopici e necessari, difficili da raggiungere e difficili da abbandonare (Watkins, 2008).
In conclusione, nessuno è immune dalle aspettative sociali in quanto siamo cittadini che vivono all’interno di una comunità. Norme sociali e culturali non scritte regolano buona parte delle nostre interazioni con gli altri. Questo articolo propone un buon punto di riflessione per domandarci quanto i modelli culturali e le norme sociali interiorizzate modellino le emozioni che dovremmo provare e quelle che dovremmo esprimere. Non esistono emozioni di tipo A o B, emozioni buone o cattive, ma tutte hanno la stessa importanza per la sopravvivenza reale e sociale dell’essere umano pur essendoci, come abbiamo visto, differenze culturali nel valore e nel ruolo sociale ad esse attribuito.
Un po’ come provocazione ed un po’ come sfida verso noi stessi, proviamo invece a riflettere sui benefici che hanno portato (o che potrebbero portare) nella nostra vita le emozioni negative: pensiamo al loro potenziale creativo (Wilson, 2008), alla loro importanza nelle relazioni interpersonali (McNuilty, 2010) e al ruolo fondamentale che svolgono nella realizzazione di una vita ricca ed appagante (Hayes, Strosahl, & Wilson, 1999).
Autismo & Asperger: SAP avvia il reclutamento di persone autistiche per il collaudo di software
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
La tedesca Sap punta ad assumere centinaia di persone affette da autismo nei prossimi sette anni, da impiegare come collaudatori e programmatori di software. L’obiettivo di Sap è trovare persone “che pensano in modo diverso”, per favorire l’innovazione. L’azienda punta a raggiungere una percentuale dell’1% del personale affetto di autismo, su un totale di 64mila dipendenti.
La casa tedesca annuncia il reclutamento di centinaia di persone affette da autismo da inserire in azienda come collaudatori di piattaforme. Hanno grandi… (…)
Le dispercezioni sensoriali nei disturbi dello spettro autistico possono influenzare la quotidianità, con effetti rilevanti sulla socialità e sull’autonomia personale
Riflessioni dal corso “Profili diagnostici e bias clinici in Asperger/Autismo livello 1, ADHD, DSA e APC (Alto Potenziale Cognitivo)” - 6-7 e 8 marzo 2025
L’esperto mondiale di autismo Tony Attwood risponde alle nostre domande su come funzionano le persone nello spettro autistico e sulle sfide che affrontano in contesti lavorativi
Ieri è stato presentato “Il Mondo di Leo”, progetto multimediale inclusivo che racconta le avventure di un bambino con disturbo dello spettro autistico
'L’autismo a scuola' propone, dopo una sezione introduttiva, quattro parti che analizzano in modo concreto ed esemplificativo le linee strategiche di lavoro
I risultati di un nuovo studio condotto dai ricercatori del Rush University Medical Center mostrano che un improvviso calo di testosterone, l’ormone sessuale maschile, può causare sintomi quali il Parkinson nei topi maschi.
Il morbo di parkinson è una malattia neurodegenerativa ad evoluzione lenta e progressiva, che coinvolge principalmente alcune funzioni del controllo del movimento e dell’equilibrio. La malattia è presente in tutto il mondo ed in tutti i gruppi etnici. Si riscontra in entrambi i sessi con una lieve prevalenza in quella maschile.
Articolo Consigliato: ADHD & Parkinson: Un aiuto diagnostico dai movimenti oculari.
Le strutture coinvolte nella malattia di Parkinson si trovano in aeree profonde del cervello note come i gangli della base (nucleo caudato, putamen, e pallido) che partecipano alla corretta esecuzione dei movimenti. La malattia si manifesta quando la produzione di dopamina cala progressivamente nel cervello, a causa della degenerazione dei neuroni.
I risultati di un nuovo studio condotto dai ricercatori del Rush University Medical Center mostrano che un improvviso calo di testosterone, l’ormone sessuale maschile, può causare sintomi quali il Parkinson nei topi maschi. I risultati sono stati recentemente pubblicati dal Journal of Biological Chemistry.
Uno dei principali ostacoli per scoprire dei farmaci efficaci contro il morbo di Parkinson è la indisponibilità di un modello animale affidabile per questa malattia. Sebbene la malattia di Parkinson (PD) è una malattia neurodegenerativa progressiva, i modelli animali disponibili non mostrano neurodegenerazione irreversibile, e questo è un grosso ostacolo nel trovare un farmaco efficace contro questa malattia.
Mentre gli scienziati utilizzano differenti tossine e un certo numero di approcci genetici complessi per la malattia di modello di Parkinson nei topi, i ricercatori hanno trovato che l’improvviso calo dei livelli di testosterone dopo la castrazione è sufficiente a causare persistente Parkinson come patologia e incremento dei sintomi nei topi maschi, ha spiegato il Dr. Kalipada Pahan autore principale dello studio. Si è riscontrato che la supplementazione di testosterone nella forma di 5-alfa-diidrotestosterone (DHT) inverte la patologia di Parkinson nei topi maschi.
Negli uomini, i livelli di testosterone sono strettamente accoppiati a molti processi di malattia hanno affermato i ricercatori. In genere, nei maschi sani, il livello di testosterone è al massimo fino ai trenta anni, poi diminuiscono circa l’uno per cento ogni anno. Tuttavia, i livelli di testosterone possono diminuire drasticamente a causa di stress o di svolta improvvisa di altri eventi di vita. Pertanto, la conservazione di testosterone nei maschi può essere un passo importante per diventare resistenti alla malattia di Parkinson.
Ulteriori ricerche devono essere condotte con lo scopo di comprendere il funzionamento di questa malattia, agire dunque sui livelli di questo ormone nell’organismo potrebbe rilevarsi un metodo di prevenzione e di cura.
“Io so aspettare, so pensare, so digiunare” diceva il Siddartha di Herman Hesse. Attendere è un’attività umana complessa e tutt’altro che passiva, quasi una forma d’arte, soprattutto se si tratta dell’attesa di una nuova vita.
L’idea che un uomo, seppure esperto della materia, possa raccontare il percorso emotivo di una gravidanza, è come per una donna raccontare il servizio di leva (quando era obbligatorio e l’esercito era solo maschile). L’autore è consapevole della difficoltà e al contempo della sfida empatica che ha deciso di affrontare.
Come maschio mi sono trovato a sforzarmi in una doppia immedesimazione, in un collega che si immedesima in una donna in attesa. Non è stato facile.
Il libro emana confidenza fin dal formato, un libricino piccolo piccolo, come un diario, con l’elastico a chiusura come le moleskine.
Fa parte infatti della collana Passaggi di Erickson, che comprende libri di Narrativa Psicologicamente Orientata, libri per capirsi e libri che ti capiscono, non solo da leggere, ma da utilizzare in modo interattivo.
Articolo Consigliato: Facebook & Mamme Moderne: Vi presento il mio bambino!
Alla fine del volumetto, c’è infatti uno spazio per scrivere le riflessioni stimolate dal racconto, come utile esercizio di auto narrazione. Per rendere più rilassante ed evocativa la lettura, o forse per iniziare ad abituarsi ai libri per bambini, ci sono anche le illustrazioni.
Il libro descrive il percorso emotivo della gravidanza di una coppia modello (Mulino Bianco?), che vive i nove mesi in modo fiabesco e idilliaco. D’accordo, qualche sfumata preoccupazione emerge dal racconto: c’è la paura della donna di faticare ad accettare le metamorfosi fisiche (titolo del capitolo: Il mio corpo che cambia, come la canzone dei Litfiba), il lieve timore di essere un bravo genitore, un fuggevole pensiero al fatto che il bimbo possa non essere sano. Per fortuna a un certo punto compare un incubo della mamma, che crea un po’ di azione.
La retorica abbonda in frasi tipo: lasciavo che il mio corpo diventasse oceano in cui tu facevi rollare la nave del tuo desiderio (sì dice proprio rollare), io sarò per te la mamma più bella del mondo (dlin-dlin-dlin…suono di carillon), etc.
Le reazioni paterne sono forse più realistiche: c’è il bisogno di immaginare il bambino studiando scrupolosamente le immagini delle ecografie, c’è la preparazione della cameretta che rende più concreta l’attesa, c’è la preoccupazione quando la compagna resta da sola.
Come dice anche la sessuologa Alessandra Graziottin nella prefazione “purtroppo la gravidanza non è sempre così tenera, voluta o assaporata, né così condivisa dalla coppia”.
Forse la mia deformazione professionale fatica a pensare a un percorso così lineare come quello descritto nel libro, ma in realtà c’è da augurarsi che la maggior parte delle gravidanze si avvicinino il più possibile a quella descritta dall’autore.
Da notare a pagina 73 un piccolo refuso di stampa. Lei dice “Mi avvicino allo sportello e consegno l’avviso di giacenza, come fossi in uno stato di trans” (immagino intendesse trance). L’identificazione nel sesso opposto può generare simpatici lapsus…
La voce del Partner? Diventa rumore di fondo. – Psicologia
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Una ricerca della Queen’s University di Kingston (Ontario) ha analizzato la percezione della voce del partner in comparazione con una seconda voce di controllo nei soggetti campione dell’esperimento. I risultati sono interessanti e sembrano indicare la tendenza a ignorare in maniera selettiva la voce del partner. Lo stesso esperimento mostra al tempo stesso la maggiore capacità di recepire e ritenere informazioni dal proprio partner rispetto a una voce “estranea” di controllo.
davanti alla voce del partner su cui invece si è concentrati attentamente, si reagisce meglio e si apprende più velocemente rispetto alla voce di uno sconosciuto. La lista della spesa dettata da una voce metallica dunque, verrà ricordata meno di quella memorizzata davanti a una moglie. Ma attenzione, perché se le due voci si mischiano, tenderemo sempre a zittire l’orecchio proteso verso la compagna o il compagno di una vita…
'Come diventare indistraibili' prende in considerazione gli attuali problemi di distrazione nonché le possibili soluzioni per gli adulti e per i più piccoli
Per la teoria di Nideffer (1976) le persone hanno uno stile di concentrazione preferenziale e se necessario passano più o meno agevolmente da uno all'altro
I serious games hanno effetti benefici nei soggetti con demenza su molti aspetti del funzionamento cognitivo, come memoria, attenzione e funzioni esecutive.
Il sistema 1 di elaborazione salta alle conclusioni, risparmiando tempo e fatica, il 2 dubita e considera le informazioni in modo sistematico e analitico.
Una tecnica usata per intervenire sul rimuginio è l’Attention Training Tecnique, la cui efficacia è stata testata in un campione di studenti universitari
L’uso di Internet può avere effetti acuti e sostenuti a livello cerebrale e sulle nostre capacità cognitive di attenzione, memoria e interazione sociale.
Un recente studio mostra come la curiosità è un fenomeno eterogeneo e che le persone curiose si distinguono nel modo in cui richiedono le informazioni.
Secondo Giuseppe Riva, tra i massimi esperti italiani in materia di fake news, queste notizie agiscono in particolare sulle emozioni e sull'attenzione.
Le neuroscienze ambientali uniscono psicologia ambientale, sociale, cognitiva, neurobiologia e neuroscienze nel tentativo di spiegare il comportamento umano
La ruminazione nello sport porta gli atleti a focalizzarsi sugli errori commessi durante la prestazione. La mindfulness può rivelarsi una grande alleata..
La Grande Bellezza di Paolo Sorrentino (2013) – Locandina
Ciò che non convince de “La grande bellezza” è la ridondanza del contenuto, che si dipana in assenza di un’autentica trama e piuttosto affidandosi a una sequela talora estenuante di frammenti dal medesimo significato, riempiti da individui che replicano se stessi nel compimento di azioni patetiche, bizzarre, amorali.
“La grande bellezza” di Sorrentino ha diviso pubblico e critica, ricevendo consensi e critiche. Il regista si misura con un soggetto estremamente complesso cercando di raccontare il vuoto di valori dell’Italia contemporanea, e in particolare di un ambiente alto borghese romano frequentato da personaggi in cerca di affermazione ma costantemente incapaci di sottrarsi al fuoco fatuo della mondanità.
Il film inizia con la lunga scena di una festa in cui donne e uomini si abbandonano ad un divertimento senz’anima, stravagante nelle intenzioni e penosamente banale nell’artificiosità dei comportamenti, e si tratta di una sequenza che colpisce lo spettatore facendogli sentire sulla pelle la corrosività del degrado culturale.
Articolo Consigliato: Il Grande Gatsby- Cinema & Psicoterapia #09
Dopodiché il film perde di intensità e originalità, risultando sovente un’accozzaglia di ritratti scarsamente legati tra loro il cui unico scopo appare quello di ribadire una volta di più la prospettiva che muove l’opera.
Il personaggio principale, interpretato da Toni Servillo, è un giornalista con aspirazioni di scrittore naufragate in un unico tentativo letterario di molti anni prima; a Roma diventa il protagonista della mondanità, perdendosi in un labirinto di umanità incompiute che anestetizzano la propria desolazione attraverso uno stile di vita senza pensiero e senza scopo.
Molti gli chiedono perché non ha più pubblicato romanzi e nel corso del film la risposta prende corpo: il tentativo di trovare la grande bellezza della vita, il significato più elevato dell’esperienza, è fallito nel vortice immobile di una società che divora ogni senso profondo temendo che da esso possa derivare un doloroso confronto con la vacuità dell’immagine.
Ciò che non convince de “La grande bellezza” è la ridondanza del contenuto, che si dipana in assenza di un’autentica trama e piuttosto affidandosi a una sequela talora estenuante di frammenti dal medesimo significato, riempiti da individui che replicano se stessi nel compimento di azioni patetiche, bizzarre, amorali.
Anche non considerando alcuni tonfi evidenti del racconto – le comparsate di Fanny Ardant e di Venditti sono ingiustificabili, l’incontro di Toni Servillo con una bambina che dovrebbe mettere a nudo gli impacci della sua superbia si risolve in uno scambio di battute senza un prima e un dopo narrativi – il film procede per didascalie, messaggi preconfezionati, la visita al mago truffatore, il prelato nel ristorante dei poteri corrotti, l’arresto del mafioso insospettabile accasato nell’alta finanza.
Alcune figure – la vecchia religiosa che compare nella parte finale, il cardinale che in modo ridicolo si sottrae alle domande sullo spirito – sono funzioni più che personaggi reali, investite del compito di simboleggiare un concetto.
Il protagonista racconta la vana aspirazione di Flaubert di scrivere un romanzo sul nulla, e questo rappresenta la trappola in cui cade anche Sorrentino; la descrizione del vuoto esistenziale viene ricercata attraverso l’utilizzo di immagini che vorrebbero essere visionarie ma rimangono a metà del guado, il film proclama “ora vi parlo del nulla” e il cinema d’autore mal si concilia con le dichiarazioni d’intenti, specie quando condite da slogan nient’affatto sottili.
L’obiettivo di far rivivere la magia felliniana di una Roma contesa fra l’eterno della bellezza e l’effimero grottesco degli uomini produce così una tangibile nostalgia del modello originale.
A rivelarlo è uno studio diretto da un gruppo di ricercatori degli Stati Uniti (UCLA’s Cousins Center for Psychoneuroimmunology) e dell’Università del North Carolina al termine di una serie di ricerche compiute nell’arco di circa dieci anni.
Steven Cole e colleghi, tra cui Barbara L. Fredrickson (University of North Carolina) hanno studiato per lungo tempo le conseguenze sui nostri geni di sentimenti come la tristezza, lapaura, lo stress.
In questo studio, invece, il tema approfondito si rifà agli effetti di fattori psicologici positivi sull’espressione genica umana, ovvero stati di benessere e di felicità.
Articolo consigliato: Il Rilassamento modifica L’espressione Genica.
I ricercatori hanno cercato di valutare le implicazioni biologiche di forme di benessere eudemonico ed edonico. Il primo riguarda una forma di felicità che proviene dal possedere un profondo senso di determinazione, assumendo la felicità come fine naturale della vita; il secondo, invece, propone come fine dell’azione umana il conseguimento di un benessere immediato.
Vennero analizzati i campioni di sangue di un gruppo sperimentale di 80 soggetti adulti, con lo scopo di mappare gli effetti delle diverse forme di felicità attraverso la valutazione dei profili di espressione genica.
I risultati mostrano che una forma di benessere eudemonico comporta dei profili favorevoli di espressione genica nelle cellule immunitarie dei soggetti, che si traducono in una forte espressione di geni antivirali e anticorpi. Una forma di felicità edonica, invece, comporta un profilo caratterizzato da una forte espressione genica infiammatoria e bassa espressione antivirale. Già studi precedenti avevano evidenziato il fenomeno per cui le cellule immunitarie circolanti mostrano una variazione nei profili di espressione genica in seguito a periodi di stress.
Questo effetto, definito CTRA (conserved transcriptional response to adversity) è caratterizzato da un aumento dell’espressione di geni coinvolti nell’infiammazione e una diminuita espressione di geni coinvolti nelle risposte antivirali.
Questo studio mette in luce che sentirsi bene ed essere felici influenza in modo diverso il genoma umano. Le due forme di benessere studiate, però, avevano gli stessi effetti positivi sugli stati emotivi dei soggetti.
Le persone con alti livelli di benessere edonistico, infatti, non si sentivano peggio di quelli dell’altro gruppo. Le implicazioni biologiche sul genoma, però, risultarono differenti.
Sembra, quindi, che il genoma umano sia molto sensibile alle diverse modalità con cui le persone, inconsapevolmente, cercano di raggiungere la felicità.
Fredrickson, B. L., Grewen, K. M., Coffey, K. A., Algoe, S.B., Firestine, A. M., Arevalo, J. M. G., Ma, J., & Cole, S. W. (2013). A functional genomic perspective on human well-being. Biological Sciences Psychological and Cognitive Sciences. PNAS, DOI
Insonnia: Chi Non dorme non piglia pesci
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Il team di Matthew Walher della University of California, San Diego ha studiato come mai gli insonni hanno molte difficoltà sul lavoro dopo una notte in bianco ed in particolare quali difficoltà abbiano.
Secondo lo studio alcune aree del cervello rimangono attivate dalla notte alla mattina, aree cerebrali che non sono utili o necessarie per i compiti che ci vengono richiesti durante il giorno: è come se il nostro cervello continuasse a lavorare senza ottimizzare le sue risorse. Queste sono le conseguenze dell’insonna.
Il nostro cervello continua a sognare ma ad occhi aperti durante la giornata, come se volesse recuperare ciò che non ha fatto di notte e continua a tenere impegnata anche la memoria di lavoro, quindi sarà molto più difficile avere prestazioni buone sul lavoro.
Chi non dorme ha difficoltà a concentrarsi e a portare a termine compiti che per una persona senza carenza di sonno risultano semplici. Ma finora non era chiaro esattamente cosa succede di giorno al cervello di un insonne
Nel corso della giornata il cervello \’crolla\’, perché non riesce a disattivare le aree neurali cosiddette dei sogni a occhi aperti. Diventa difficile concentrarsi e lavorare. Lo rivela una ricerca della University of California, pubblicata sulla rivista Sleep (…)
Quante fasi (o stadi) del sonno esistono? Quali sono le aree cerebrali coinvolte e quali i disturbi più comuni? Esiste un legame tra sonno e attaccamento?
Uno studio ha indagato il legame tra perfezionismo ed insonnia considerando il ruolo delle cognizioni disfunzionali legate al sonno e dei sintomi ansiosi
La CBT per l'insonnia comprende tecniche cognitivo-comportamentali per modificare credenze errate sul sonno e comportamenti disfunzionali che la mantengono
Il cronotipo serale sembra essere maggiormente associato a problemi di salute come abuso di sostanze, abitudini alimentari malsane e ridotta attività fisica
Rimuginio e ruminazione, in particolare legati al sonno e alla preoccupazione di non riuscire a dormire, rivestono un ruolo centrale nei disturbi del sonno
La CBT- I è un protocollo breve per il trattamento non farmacologico dell’insonnia primaria e cronica descritto nel libro 'Curare l'insonnia senza farmaci'
Nell'insonnia sembra esserci una difficoltà a riconoscere il giungere del sonno sulla base di alcuni segnali fisici e minore consapevolezza di aver dormito
Questo è uno dei risultati di uno studio condotto da Anthony Little dell’università di Stirling e di Benedict Jones dell’università di Glasgow, pubblicato recentemente sul British Journal of Psychology.
Lo scopo della ricerca era di verificare se l’attrazione verso determinate caratteristiche del viso (femminile) sia influenzata dall’intenzione, nell’uomo, di ricercare una relazione a breve o a lungo termine.
Nella ricerca, condotta online, sono stati reclutati 393 uomini di orientamento eterosessuale. Di questo gruppo, 203 hanno affermato di essere coinvolti in una relazione sentimentale. Ai partecipanti sono stata mostrate 10 coppie di immagini, raffiguranti volti femminili.
Articolo Consigliato: Dalla Famiglia d’origine alla scelta del partner.
Ciascuna coppia raffigurava lo stesso volto ritoccato, che presentava da una parte tratti più marcatamente femminini e dall’altra tratti più mascolini.
Ai partecipanti veniva richiesto di indicare, qualora si optasse per una relazione sia a breve termine sia a lungo termine, quale dei due volti veniva considerato più attraente.
I risultati indicano che gli uomini fidanzati, quando ricercano una relazione a breve termine, tendono a scegliere le donne con caratteristiche del volto più femminine.
Inoltre, uomini che valutano se stessi come attraenti tendono a preferire volti con caratteristiche più femminile, rispetto a uomini che si percepiscono meno attraenti.
Questa preferenza potrebbe indicare che gli uomini che si percepiscono come attraenti si sentono in grado di competere per la conquista di una partner più desiderabile, in contesti di breve durata.
Inoltre, quando un uomo è coinvolto in una relazione, il timore di essere scoperto potrebbe accrescere la sua selettività verso una partner di breve-durata, mentre gli uomini single potrebbero accrescere il loro potenziale di seduttivitá mantenendo degli standard più elastici.
Secondo gli Autori, l’espressione di queste preferenze potrebbe avere un valore strategico importante nella ricerca di una relazione: le donne con caratteristiche più femminine potrebbero essere valutate come maggiormente infedeli rispetto a donne con caratteristiche più mascoline, le quali potrebbero essere preferite per relazioni più stabili (mantenendosi comunque una porta aperta per flirtare con donne più attraenti).
Scritto da autori psichiatri e psicoterapeuti di matrice cognitivista il testo si propone, tramite una raccolta di contributi originali di autori sia italiani che stranieri, di fornire una panoramica aggiornata sulla valutazione e trattamento delle psicosi.
Concentrato principalmente sulla schizofrenia, più che sui disturbi psicotici in generale, propone una descrizione a 360 gradi, dai primi studi nosografici, definizioni categoriali del disturbo e interventi terapeutici sino alla descrizione degli approcci di diagnosi e cura più moderni e validati empiricamente, secondo l’approccio cognitivo.
Articolo Consigliato: TERAPIA COGNITIVO COMPORTAMENTALE DELLE PSICOSI – RECENSIONE
Il testo comprende 17 capitoli divisi in 3 parti. La prima parte, che prende i primi 4 capitoli del libro, affronta il tema della valutazione delle psicosi con un breve ma esaustivo excursus storico. Dalle prime descrizioni e metodi di cura della malattia, che risalgono all’inizio dell’800, al lavoro di Kraepelin, all’inizio del ‘900, che usando il termine dementia praecox lo identificherà come un disturbo a insorgenza precoce, in grado di determinare una pervasiva e persistente compromissione in svariati ambiti, con disturbi del pensiero, deliri e allucinazioni e un decorso progressivo verso il deterioramento della personalità.
Solo successivamente si arriverà al termine di “schizofrenia” (mente divisa) con Bleuler, per evidenziare la caratteristica di frammentazione nella formulazione ed espressione del pensiero, e alle prime classificazioni e allo sviluppo del DSM e dell’ICD. Grande importanza viene data alle caratteristiche sintomatologiche dei disturbi psicotici, divisi in sintomi positivi e negativi, e deficit cognitivi e metacognitivi. Tutto ciò affrontato nelle varie fasi della malattia e cioè dai prodromi, utilissimi per l’attuazione di interventi precoci, fino alla remissione.
L’ultimo capitolo della prima parte, in fine, ci offre un ricco elenco con descrizione degli strumenti di valutazione per l’assessment dei pazienti a rischio di insorgenza o per il riconoscimento delle compromissioni in pazienti già in fase di malattia.
Nella seconda e terza parte del testo, sempre con la stessa meticolosità e ricchezza di informazioni già distinta nella prima parte, sono approfonditi i modelli di funzionamento cognitivo e di diagnosi delle psicosi e i diversi protocolli di trattamento nelle diverse fasi della malattia.
Si rivela essere un manuale ben strutturato in grado di offrire, a chi si avvicina al mondo clinico delle psicosi da profano, un quadro esaustivo dei disturbi psicotici che solo l’inserimento di qualche esempio pratico delle fasi di assessment e trattamento, avrebbe potuto rendere questo testo, già ottimo, eccellente.