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Terzo millennio: l’era delle dipendenze (per esempio dai TV Series)

Nella dipendenza da serie TV alla base vi sarebbe il pensiero desiderante che ci fa desiderare oggetti non raggiungibili.

Di Federica Liso

Pubblicato il 29 Nov. 2017

Aggiornato il 28 Mar. 2019 13:24

Si ha un problema nella dipendenza da serie TV quando si usa il pensiero desiderante per oggetti o attività dannosi e/o pericolosi non accessibili o non raggiungibili, in quanto in contrasto con la nostra realtà (per esempio, cercare di trasformarsi in “Buffy”, l’ammazza vampiri). In queste condizioni siamo in pericolo e abbiamo bisogno di avere consapevolezza di ciò che siamo, per essere in grado di modificare il nostro stile di pensiero, in quanto rimanere vincolati al pensiero desiderante ci esporrebbe solo a pericoli e/o frustrazioni.

Federica Liso, OPEN SCHOOL STUDI COGNITIVI SAN BENEDETTO DEL TRONTO

 

La dipendenza da serie tv: chi sono i protagonisti?

Non si tratta solo di fumo, droghe e cibo spazzatura, ma una new entry ha percorso il red carpet accompagnata dalla dipendenza da internet e dalla nascita dello streaming online. E’ oramai, universalmente, riconosciuta come una patologia: la dipendenza da serie TV.

Per quanto si possa tentare di negarlo, tutti siamo ossessionati da almeno una serie che ha divorato la nostra anima per mesi e mesi, trasformandoci in bradipi da materasso, in almeno cinque fasi: fatale curiosità (il soggetto viene a conoscenza, per caso, di una imperdibile serie TV e la cerca su google); discesa negli inferi (senza che il soggetto, in questione, possa rendersene conto, la trasformazione in una talpa da pirata streaming ha già avuto inizio); ossessione (il soggetto non ha più vita sociale, i suoi pensieri sono rivolti ad un mondo immaginario, dove potrebbe rischiare la vita in ogni momento; il soggetto crede di essere un eroe, un cavaliere o una ricca e bella ragazza in giro per New York, tutto ciò mentre affonda il cucchiaino nell’ennesimo barattolo di Nutella; si avvicina ad una condizione di non ritorno); trasformazione completa (l’umanità del soggetto è solo un vago ricordo) e, infine, l’incapacità di intendere e di volere (quando le risorse nella propria lingua scarseggiano o non sono disponibili online, il soggetto è disposto a seguire gli episodi della sua serie TV preferita in qualunque altro tipo di lingua e/o proveniente da qualunque sito internet, anche a pagamento).

Ma per quale assurdo motivo avviene questo tipo di messa in atto di determinati comportamenti? Innanzitutto, il soggetto cerca emozioni diverse da quelle che vive nel contesto di vita quotidiana, come un adolescente che desidera diventare bella e popolare come Kelly di “Beverly Hills” o Jen di “Dawson’s Creek”; una donna di oltre 30 anni che immagina di indossare i bei vestiti di Carrie di “Sex and the City” o avere le sue stesse amiche con le quali condividere tutto ciò che le accade di piacevole o di spiacevole nella vita. Non si aspetta di guardare la puntata la settimana successiva, ma è possibile vederne 15 di fila. Perché no? Questo crea dipendenza da un mondo immaginario, un mondo che non esiste nella vita reale dello spettatore ed è bene che la persona si prenda cura di questo aspetto.

Gli effetti della dipendenza da serie tv

Nel dettaglio, esistono alcune serie TV che appagano i bisogni di ciascuno di noi.

In primo luogo, la fiction “Don Matteo”, da parecchi anni, oramai, sui nostri schermi, con delle trame centrate sui buoni sentimenti e, soprattutto, sul lieto fine, permette a Don Matteo di rappresentare il buon padre, la persona che può dare sicurezza, la persona che può aiutarci in qualunque circostanza, così come “Un Medico in Famiglia”, fiction caratterizzata da un nucleo familiare molto unito e affiatato, in certi momenti, allargato, che ricorda la famiglia Cunningham di “Happy Days”, una tipica famiglia degli anni ’50, dove si creano le dinamiche di identificazione di quello che ciascuno di noi potrebbe e/o vorrebbe vivere. Questo identifica il bisogno di appartenenza e di sicurezza.

Poi, si distinguono i bisogni di stima e di autorealizzazione, piuttosto importanti nel contesto di vita quotidiana, ben trattati nelle seguenti serie TV: “Friends”, dove un gruppo di amici comincia a esplorare il mondo degli adulti, ad avere rapporti di coppia più seri, che sfociano nel matrimonio o nella nascita dei figli. D’altronde, si ricorre, anche, ad altre serie TV, come “Er” oppure “Dottor House”, dove si diventa adulti, anche, da un punto di vista professionale. In entrambi i casi, si va ad illustrare la vita che si ha all’interno di una struttura ospedaliera, una delle professioni che ha più fascino ed autorevolezza.

Esiste, anche, una categoria che permette, a ciascuno di noi, di avvicinarci a qualcosa di morboso o di proibito che, nella vita reale, non potremo mai vivere, ma identificandoci con i personaggi di quel telefilm, potremo provare ad essere qualcun altro in un altro contesto. A tal proposito, si ricorda la serie TV “Twin Peaks”, dove si racconta la storia morbosa, in bilico tra il surreale e la lentezza, con cui scorreva una giornata in un paesino sperduto. Attualmente, si guarda “Gomorra” o “Romanzo Criminale”, che ci portano ad identificarci, indistintamente, sia con i personaggi appartenenti alla categoria “bravi”, sia, al contrario, alla categoria “cattivi”, che presentano una complessità caratteriale ed una dinamicità di relazioni e di motivazioni, che, talvolta, ce li fa sentire vicini, nonostante, non si condivida la medesima scala valoriale.

Alla fine, i personaggi principali della serie TV preferita diventano i nostri migliori amici, quindi, quando se ne vanno, si diventa tristi. Si ricorda il caso recente del Dottor Shepperd in “Grey’s Anatomy” o Ridge Forrester in “Beautiful”. Secondo uno studio della Ohio State University, la fine della propria serie TV preferita può scatenare sintomi depressivi e un senso di angoscia e di smarrimento simile a quella generata dalla fine di un amore importante.

Quindi, quando diventa un problema?

Quando diventa un problema la dipendenza da serie TV: il pensiero desiderante

Si ha un problema quando si usa il pensiero desiderante per oggetti o attività dannosi e/o pericolosi non accessibili o non raggiungibili, in quanto in contrasto con la nostra realtà (per esempio, cercare di trasformarsi in “Buffy”, l’ammazza vampiri).

In queste condizioni siamo in pericolo e abbiamo bisogno di avere consapevolezza di ciò che siamo, per essere in grado di modificare il nostro stile di pensiero, in quanto rimanere vincolati al pensiero desiderante ci esporrebbe solo a pericoli e/o frustrazioni.

Il desiderio può diventare, anche, uno strumento, grazie al quale si induce un immediato piacere virtuale o ci si distrae da altre preoccupazioni o pensieri non funzionali alla nostra realtà. Il soggetto è costretto a rimanere all’interno dei suoi pensieri disfunzionali o negativi, desiderando di avere qualcosa che esiste solo in video e con il tempo, il piacere dell’ipotesi di avere qualcosa di bello diventa il dolore di non averlo davvero. Ciò potrebbe portare il soggetto a pensare, quasi in maniera ossessiva ad un determinato personaggio televisivo e prendere questo come un esempio da imitare, sostituendo, così, le figure autorevoli che, nell’arco degli anni, hanno gestito i suoi comportamenti ed azioni.

Immaginare di essere qualcun altro, diverso da sé, genera una sorta di gratificazione simile, anche fisiologicamente, a quella ottenuta dal reale raggiungimento dell’oggetto o, in questo caso, soggetto desiderato.

L’individuo potrebbe rimanere bloccato in un limbo, in cui non riesce a distinguere quale sia la propria realtà o quella di Meredith Grey di “Grey’s Anatomy”.

Nasce, così, il bisogno di farsi accompagnare in un percorso di psicoterapia con indirizzo cognitivo – comportamentale, in grado di occuparsi dei processi cognitivi, coinvolti nell’ esperienza del desiderio in modo chiaro ed esaustivo.

La psicoterapia cognitivo – comportamentale è un approccio terapeutico finalizzato a promuovere un cambiamento positivo nelle persone, per alleviare alcune forme di sofferenza emotiva e per affrontare numerosi problemi di carattere psicologico, sociale o comportamentale. Gli psicoterapeuti ad indirizzo cognitivo identificano e trattano le difficoltà personali che emergono dai pensieri disfunzionali degli individui.

Dipendenza da serie tv o da sostanze? Tutta colpa della dopamina

In particolare, il “binge watching” appartiene al cluster delle dipendenze comportamentali e consiste in una dipendenza da serie tv.

La parola “binge”, letteralmente “baldoria”, indica che la persona si abbandona ad un consumo smodato dell’oggetto, sostanza o comportamento.

Questa classe di disturbi non è ancora stata inserita nei manuali ufficiali delle psicopatologie, nonostante rappresenti una realtà tangibile nell’attività clinica e con conseguenze negative.

La persona, passando molto tempo davanti ad uno schermo, toglie tempo ad altre attività e subisce gli effetti psicofisiologici, deficit attentivi, insonnia, aumento di peso.

La quantità di tempo consumato a guardare serie tv ostacola la produttività in altre aree importanti dell’attività lavorativa e relazionale.

La sintomatologia risulta essere molto simile a quella della tossicodipendenza.

La terapia efficace

Si conclude suggerendo una terapia focalizzata sul craving, ovvero sulla ricerca di occasioni, in cui poter abbuffarsi di puntate. Al tempo stesso, si lavora sulle credenze disfunzionali, irrazionali all’origine dell’uso acritico del mezzo televisivo (“mi consola” o “mi fa compagnia” o “mi aiuta a riflettere su di me”).

A livello comportamentale, la persona dovrebbe essere motivata a dirigere i suoi interessi anche ad altre attività. Impiegare il tempo in maniera più produttiva.

Netflix è, sicuramente, la sostanza più a portata di mano e più comune del nostro millennio, ma il punto di ogni terapia dovrebbe essere quello di far capire al paziente che la propria vita può essere interessante, anche fuori dallo schermo, basta concentrarsi sulla propria e non su quella dei personaggi delle serie tv.

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