Understanding the Link Between Spatial Distance and Social Distance
Justin L. Matthews and Teenie Matlock – Cognitive and Information Sciences, University of California, Merced, CA, USA
ABSTRACT:
Why do people use spatial language to describe social relationships? In particular, to what extent do they anchor their thoughts about friendship in terms of space? Three experiments used drawing and estimation tasks to further explore the conceptual structure of social distance using friendship as a manipulation. In all three experiments, participants read short narratives and then drew what they imagined happened during the narrative and estimated passing time. Overall, the results of these exploratory studies suggest that the conceptual structure of friendship is linked to thought about space in terms of path drawing. Results are discussed in light of social distance and intercharacter interaction.
Con i lettori di State of Mind, questa volta ho pensato di condividere una lezione di mindfulness. Forse sarebbe più opportuno chiamarla “un’esperienza di mindfulness”. Si tratta di una lezione tenuta da Jon Kabat-Zinn nella sede centrale di Google nel 2007.
Dopo una introduzione ai temi centrali della mindfulness, tra cui il “doing mode”, la “modalità del fare”, Kabat-Zinn invita i molti partecipanti a sperimentare la pratica di mindfulness insieme a lui. Il tema centrale della prima parte della lezione di Kabat-Zinn è la contrapposizione tra la modalità dell’essere e la modalità del fare.
Un secondo tema affrontato è la pratica, come praticare abitualmente senza farsi agganciare dai giudizi e dalle idealizzazioni rispetto alla pratica (come ad esempio: “devo assolutamente trovare un’ora al giorno per praticare”).
La parte centrale della lezione, in buona tradizione mindfulness, è la conduzione di una pratica da parte di Kabat-Zinn in persona.
Un’ottima occasione per concedersi un’ora per seguire il video e praticare insieme ai dipendenti di Google…
Terapie di fantasia: Affrontare, in maniera coerente e positiva, i piccoli o grandi momenti di disagio che ciascun individuo può trovarsi a vivere? Si può, se si acquisisce, o si rafforza, l’abilità del problem solving, grazie ad un processo cognitivo teso ad identificare il problema, analizzarlo, e individuarne la soluzione.
E se strumento per “imparare” a pensare e agire in modo più funzionale, per migliorare la nostra qualità di vita, fosse la musica? E se, autore dei testi, e delle evocative melodie, fosse un dottore in Tecnica della Riabilitazione Psichiatrica e Psicosociale? Si tratterebbe, verrebbe spontaneo rispondere, di vere e proprie “terapie” musicali a forte impatto emozionale, veicolo di messaggi maggiormente “attendibili” proprio perché frutto di approfonditi studi e pratiche sperimentazioni sul valore terapeutico della musica.
Ma eliminiamo il condizionale, perché a luglio 2012 il Cantautore/Musicoterapeuta Ventruto ha trasfuso in dieci brani, il suo bagaglio musicale e professionale, regalandoci un cd di grande spessore, produzione Latlantide e distribuzione Edel: “Terapie di fantasia”. Questo il titolo dell’ultimo lavoro di Ventruto, artista a trecentosessanta gradi, cantautore, musicista, virtuoso chitarrista ritmico e solista di impostazione Rock-Blues-Folk, perfezionatosi presso la scuola Jazz “Il pentagramma”. Ma Ventruto è molto di più. Ha nel suo bagaglio una solida preparazione che va oltre la musica, e vi si interseca.
Laureatosi, con lode, presso la Facoltà di Medicina e Chirurgia di L’Aquila, stupisce discutendo – con la Tesi “La comunicazione attraverso la musica: spot Aci per la vita “questa vita è mia” – orientamento psicoeducativo delle persone alla guida” – un suo brano, divenuto Spot nazionale Aci nella campagna di Sicurezza Stradale, inserito nell’Antologia della canzone Vol. 3 e nel Cantatutto Vol. 4 (Universal/Ricordi).
Si innestano in questo percorso, in netta ascesa, le sue “Terapie di Fantasia”. Il cofanetto si apre con le raffinate note di “Fantasie”, che invitano ad una rinascita emotiva, spezzando una lancia in favore di un sentimento denso, capace di restituirci “un’emozione sommersa” per saper “amare di più” chi ci è accanto, con le sue particolarità, le sue “manie” e le sue “follie”, segni di una specialità da apprezzare.
Segue il “Il Diario”, pezzo ritmico di contrappeso a un testo profondo, centrato sull’esigenza di fermarsi a riflettere, e liberarsi delle intime “debolezze”, affidandole ad “un nero su bianco dipinto di pianto”. Istante nostalgico che, sul chiudersi del brano scandito da note festose, esalta la forza di un Cuore che “se vuole, resiste al dolore”, riscoprendo la voglia di “sognare, vivere, andare”.
Ad incalzare, poi, è “Dove sei” che, narrando di una storia finita, insegna a superare quel “bisogno totale” dell’altro, scavando a fondo nella relazione che si è conclusa “per capire, la Verità” e scoprire, magari, che la persona che ci manca, in realtà, non è quella che ci ha lasciato, ma quella che avevamo idealizzato.
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Motivazione valida, per aprirci a nuove prospettive. Sulla Verità, questa volta da pretendere a noi stessi, è centrata anche “La mia vanità”, ballata dalla melodia suggestiva, fortemente evocativa di quei momenti in cui ci “scende un’emozione al cuore” e si fanno i conti con i rimpianti e con l’orgoglio, che “è solo un tormento”, ma ne trarremmo lezione, e sapremo dirci “in ciò che ho sbagliato potrò capire quel che sarò”.
Percorso inside, che caratterizza “L’Autostima”, brano a puro sfondo terapeutico, che ci suggerisce come fronteggiare, con “pensieri semplici da fare”, gli “sbalzi di umore” provocati da chi “ti mette in discussione”. Basterà “credere in qualcosa”, “non sentirsi mai banali” e apprezzare le nostre abilità!
Dinamiche prettamente sentimentali, accendono “Saprei cosa fare”, pezzo che, su un cantato brioso, esorta la coppia ad un dialogo costante, collante che consente di elaborare le proprie “colpe”, e proiettarle su “un futuro immaginato migliore” ma coerente, perché “dietro una favola, c’è sempre un po’ di Verità”. Si respira, invece, atmosfera fiabesca, in “Un angelo”, inno, per nulla scontato, ad un amore che “è pura poesia”, “film al lieto fine”, intesa totale, alchimia mentale, racchiusa in un “il guardarci negli occhi, anche se non mi tocchi e la tua anima sento che mi porta via”.
Anima che continua a sognare su “Strade di baci” su cui ritrovarsi per vivere le emozioni più trasparenti, “gioia infinita”, che si prova, del resto, quando ci si relaziona con una persona “Semplice e pura”. Questo, il titolo della track n. 9, che accende i riflettori su un valore sempre più raro: la semplicità e la purezza di chi, libero da “pregiudizi” o “assurdi vizi”, vive “in un mondo che cambia la gente e non TE”, proseguendo il suo percorso senza subire condizionamenti da un contesto “sbagliato”.
Chiude il lavoro, racchiudendone l’essenza, il suggestivo “Comprendo”. Il brano, muovendosi da dimensioni religiose (“Tu che sei la Passione, con Giuseppe e Maria voglio scegliere te”), ne estrapola Valori universali, comuni a chi desidera un Mondo che sappia comprendere “l’amore per un bambino” o di chi ti “sta vicino”, per “cambiare la vita” e godere del piacere trasmesso da chi “ti guarda negli occhi e dice non è finita”.
È comunicazione a forte impatto, dunque, densa di contenuti sociali e terapeutici, quella che l’artista ci consegna, e che sperimenta – sia attraverso i suoi brani, che quelli di noti cantautori – durante gli incontri di Musicoterapia, individuale e di gruppo, che effettua nel capoluogo abruzzese. Ma parliamone con lui.
Pascasi: Ci può spiegare in che modo la Musica può “fare” Terapia?
Ventruto: “La musica ha, sull’individuo, un forte effetto terapeutico. Il mio ruolo, di Cantautore e Operatore Psichiatrico con orientamento in Musicoterapia, me lo conferma. Da anni, difatti, svolgo la mia attività, oltre che nella prevenzione primaria (scuole per l’infanzia e di secondo grado), anche in strutture quali il Servizio Psichiatrico Universitario Diagnosi & Cura di L’Aquila, dove entro in contatto con utenti affetti da disturbi Psichiatrici (Depressione Maggiore, Schizofrenia, Disturbo Bipolare). Ebbene, il mio intervento consiste nell’individuare (e conseguire) obiettivi di tipo Terapeutico – coinvolgendo la Sfera Emotiva (Emozioni/Umore e Sentimenti) e le Funzioni Cognitive – e di tipo Psicoeducativo. Il fine, è quello di rendere l’utente consapevole del concetto di stress, spiegandogli anche le modalità di coping, dunque di concreto fronteggiamento di tale stress, da adottare per superare momenti “no”.
V: Gli incontri, individuali e di gruppo, si svolgono con modalità studiate in base ad un metodo specifico. Durante le sedute è presente l’Operatore/Conduttore (il sottoscritto) che presenta canzoni d’autore, eseguendole dal vivo, solitamente voce e chitarra, e, di seguito, ne commenta il testo con il gruppo o l’utente singolo. In linea di massima, opto per brani dotati di melodie evocative di stati d’animo ed emozioni, e testi in grado di trasmettere messaggi positivi. Così, ogni pezzo, appositamente scelto nel panorama cantautorale, diviene input e molla per discutere di situazioni di vita, esperienze e sentimenti, siano essi di fratellanza, amore, amicizia.
P: Durante gli incontri, utilizza anche i suoi brani, visto l’indubbio supporto che riescono a fornire nell’ambito di un percorso Terapeutico e Riabilitativo multidisciplinare?
V: Certamente si, per due motivi. In primis, si tratta di testi (supportati da melodie evocative dei temi trattati) che invitano ad elaborare gli eventi in maniera costruttiva. In secondo luogo, perché le mie canzoni nascono da storie di vita reali (vissute in prima persona o da familiari, amici, conoscenti) o immaginate, in cui ciascuno può identificarsi, ritrovarsi, e riflettere su quale potrebbe essere la strada migliore da percorrere per superare “un calo di energie”.
P: In che senso, la strada migliore?
V: Nel senso che ogni esperienza, anche “negativa”, va letta e interpretata in maniera funzionale e non disfattista. È il mio approccio, del resto, quando veicolo i pensieri nella giusta direzione, sia nella vita di ogni giorno, che quando scrivo canzoni.
V: Solitamente c’è un’idea musicale che mi viaggia nella mente (legata agli stati d’animo del momento) che trova veste comunicativa attraverso i testi. Un legame naturale tra tema e melodia.
P: I suoi, mi permetta il termine, interventi musicali, sono stati d’ausilio anche in seno ai percorsi terapeutici dedicati alla popolazione colpita dal sisma del 2009, che ha pressoché distrutto la città dove vive e lavora. Mi spiega in che modo?
V: Si. Iniziamo con il dire che L’Aquila, a seguito del terremoto, ha perso punti di aggregazione e di riferimento per i cittadini, disorientati e catapultati in una realtà completamente diversa. Di qui, l’esigenza di intervenire per tentare di dare una risposta positiva a questa fonte di disagio. È nell’interfacciarsi con gli utenti, che torna il concetto di coping di cui le parlavo, inteso come gestione concreta dello stress subito. A livello accademico, poi, in occasione del Congresso Sirp 2010, ho esposto due Poster, e coordinato due progetti universitari, tesi alla promozione della rete di aggregazione degli studenti aquilani nel post-sisma.
P: A proposito di congressi, ho appreso della consegna di una targa conferita – durante il recente congresso nazionale di Psichiatria, svoltosi a Perugia – al reparto dove opera, proprio per l’attività di Musicoterapia da lei svolta. E’ così?
V: Si. Durante il congresso dal titolo ”Progetto Musica Mente”, è stata presentata (anche attraverso un video) e premiata, l’attività di Musicoterapia individuale e di gruppo che effettuo all’interno del reparto, in collaborazione con i Tutor ed i professionisti del reparto.
P: Un’ultima domanda: lei ama esibirsi coprendo il volto con una maschera veneziana. Quale messaggio vuole trasmettere?
V: La scelta della maschera non è casuale, né è una velleità artistica. Indossare una maschera è un po’ come interpretare un copione, e avere la possibilità di dar voce a istanze interne, come il senso di giustizia, la ricerca dell’amore, la forza, il coraggio, la combattività, il potere, tutti fattori che rappresentano costanti dell’animo umano. Costanti che, a mio parere, possono essere liberamente espresse sotto un’altra identità. La maschera, con sotteso riferimento a Kubrick, ha un significato ben preciso, provocatorio, legato al mio ruolo e al Progetto Ventruto/Musicoterapia. Purtroppo viviamo in una società priva di abilità sociali, dove la gente si sente in diritto di sopraffare gli altri, dove vige la maleducazione, specie nei confronti delle persone buone e sensibili cui, però, a lungo andare, le prevaricazioni possono creare fastidio. È, quindi, un modo per far capire che ciascuno di noi, ha anche “un lato” del carattere capace di affrontare questo stato di disagio e di violenza verbale, che procura stress psicologico. È come dire “state al posto vostro” (di qui, la scelta di una maschera rigida).
P: Bene. La ringrazio per la disponibilità.
V: Grazie a lei, e alla redazione di State of Mind.
I risultati di una nuova ricerca, condotta su un campione di roditori, offrono una nuova spiegazione di come lo stress possa portare a disturbi dell’umore.
Sembra infatti che, nell’interazione dinamica tra mente e corpo, durante l’interpretazione di stress prolungato, le cellule del sistema immunitario – i monociti – siano richiamati al cervello, favorendo l’insorgenza di sintomi ansiosi.
A differenza di una infezione, traumi o altri problemi che attraggono le cellule immunitarie al corpo, questo reclutamento di monociti non danneggia il tessuto del cervello, ma induce sintomi di ansia. I monociti potrebbero quindi diventare bersaglio di farmaci per il trattamento di disturbi dell’umore.
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La ricerca, condotta alla Ohio State University, ha mostrato che il cervello, sotto stress prolungato, invia segnali al midollo osseo, richiamando monociti. Le cellule migrano in regioni specifiche del cervello – in diverse aree legate alla paura e all’ansia, tra cui la corteccia prefrontale, l’amigdala e l’ippocampo – generando l’infiammazione che causa sintomi ansiosi.
Nei roditori è stato indotto uno stato di stress simile a quello che le persone provano in risposta a fattori stressanti della vita quotidiana. Ai topi maschi che vivono insieme è stato dato il tempo di stabilire una gerarchia, poi un maschio aggressivo è stato aggiunto al gruppo per due ore. Questo cambiamento ha provocato nei topi una risposta del tipo “fight or flight”, come se venissero ripetutamente sconfitti.
L’esperienza della sconfitta sociale porta a comportamenti di sottomissione e allo sviluppo di sintomi ansiosi. L’esperienza della sconfitta sociale veniva ripetuta ciclicamente, una, tre sei volte, e ogni volta il campione veniva testato per i sintomi ansiosi.
Come previsto più cicli di sconfitta sociale elicitano maggiori sintomi ansiosi, che a loro volta corrispondono a livelli più alti di monociti migrati al cervello degli animali attraverso il sangue. Ulteriori esperimenti hanno mostrato che queste cellule non hanno origine nel cervello, ma migrano dal midollo osseo. In studi precedenti, questo stesso gruppo di ricerca ha dimostrato che le cellule del cervello chiamate microglie, la prima linea di difesa immunitaria del cervello, sono attivate da stress prolungato e sono in parte responsabili dei segnali che richiamano i monociti dal midollo osseo.
Esattamente quello che succede a questo punto nel cervello non si sa, ma la ricerca offre degli indizi. I monociti che migrano al cervello non rispondono agli steroidi antinfiammatori naturali del corpo e hanno caratteristiche peculiari quando sono in uno stato infiammatorio. Questi risultati indicano che l’espressione genica infiammatoria si verifica nel cervello in risposta al fattore di stress.
Questi risultati non sono applicabili a tutte le forme di ansia, dicono i ricercatori, ma sono rivoluzionari nel campo della ricerca sui disturbi dell’umore legati allo stress.
“I nostri dati alterano l’idea della neurobiologia dei disturbi dell’umore“, ha detto Eric Wohleb, primo autore dello studio, “e indicano che un sistema bidirezionale, piuttosto che le vie tradizionali del neurotrasmettitore, può modulare alcune forme di reazioni ansiose: qualcosa al di fuori del sistema nervoso centrale, qualcosa nel sistema immunitario, ha un profondo effetto sul comportamento“.
Scienze Cognitive: La percezione delle distanze spaziali in relazione alla presenza di amici
Quale relazione sussiste tra la percezione di distanza affettiva e distanza spaziale?
Sappiamo che in molte culture le relazioni sociali sono definite attraverso l’utilizzo di metafore spaziali (ad esempio il lampante close friends in inglese).
In questo interessante esperimento Justin L. Matthews e Teenie Matlock, ricercatori della University of California Merced, scoprono come la percezione della lunghezza spaziale di un ponte da attraversare diminuisca quando dall’altra parte del ponte, ad aspettarci, ci sono i nostri amici più “vicini”.
Questo esperimento, presentato in una poster session al 35° Congresso Annuale della Cognitive Science Society (COGSCI 2013), fa parte di un corpus di ricerca di più ampio respiro i cui risultati sono pubblicati nell’articolo:
Understanding the Link Between Spatial Distance and Social Distance
Justin L. Matthews and Teenie Matlock – Cognitive and Information Sciences, University of California, Merced, CA, USA
ABSTRACT:
Why do people use spatial language to describe social relationships? In particular, to what extent do they anchor their thoughts about friendship in terms of space? Three experiments used drawing and estimation tasks to further explore the conceptual structure of social distance using friendship as a manipulation. In all three experiments, participants read short narratives and then drew what they imagined happened during the narrative and estimated passing time. Overall, the results of these exploratory studies suggest that the conceptual structure of friendship is linked to thought about space in terms of path drawing. Results are discussed in light of social distance and intercharacter interaction.
Tribolazioni 12 – La sindrome del Titanic – Psicologia
Il condizionamento dei pari in adolescenza e il Progetto ProYouth
I condizionamenti da parte del gruppo dei pari sono una forza onnipresente, il cui potere può essere osservato pressoché in ogni dimensione del comportamento adolescenziale.
Nel corso dello sviluppo psicologico, le interazioni con i gruppi dei pari, ovvero quei bambini e adolescenti che hanno pressoché lo stesso livello di età e/o di maturazione fisica e psicologica, assumono una importanza fondamentale.
I condizionamenti da parte del gruppo dei pari sono una forza onnipresente, il cui potere può essere osservato pressoché in ogni dimensione del comportamento adolescenziale, come la decisione di come vestirsi, quale musica ascoltare, quale linguaggio adottare, a quali valori aderire, come gestire il tempo libero … (Santrock, 2007)
I condizionamenti da parte dei pari possono avere effetti positivi sul benessere degli adolescenti; possono ad esempio portare a sviluppare comportamenti pro-sociali come iscriversi ad una associazione di volontariato, oppure semplicemente aiutarsi a fare i compiti scolastici. Inoltre, il condizionamento da parte dei pari potrebbe prevenire (ma anche rinforzare) comportamenti disadattivi, come fumare o bere alcolici, grazie alla manifesta (dis)approvazione da parte di amici e compagni di classe.
Articolo consigliato: ProYouth: un Progetto per la Prevenzione dei Disturbi Alimentari online
Tuttavia, il gruppo dei pari rinforza molto più frequentemente i comportamenti disadattavi, rispetto a quelli positivi. Questi, a loro volta, potrebbero tradursi in comportamenti antisociali quali furti e vandalismo, abuso di droghe e alcolici, utilizzo di un linguaggio scurrile, prendersi gioco degli insegnanti o dei familiari.
Quali sono gli adolescenti maggiormente a rischio di rimanere vittime delle influenze negative da parte dei pari? La risposta sembrerebbe essere: tutti sono a rischio, poiché ogni adolescente, nel corso dello sviluppo, incontrerà forme di pressione al conformismo da parte dei pari. Tuttavia, ci sono alcune condizioni che rendono gli adolescenti particolarmente vulnerabili all’adozione di comportamenti negativi, quali ad esempio:
Provenire da una famiglia con un solo genitore
Avere genitori estremamente permissivi, o all’opposto molto autoritari
Una bassa stima di sé
Dinamiche familiari disfunzionali
Esposizione a comportamenti antisociali da parte dei pari o della famiglia
Inoltre, gli adolescenti potrebbero non essere pienamente consapevoli che determinati atteggiamenti, o comportamenti, vengano messi in atto a seguito delle pressioni ricevute dal gruppo dei pari.
Infatti, il mondo adolescenziale tende ad essere connotato dal conformismo, ovvero dal processo in cui un individuo assume atteggiamenti o comportamenti di altri, a causa di una pressione (reale o immaginaria) ad adottarli (Santrock, 2007). È esperienza comune quanto spesso il modo di vestirsi degli adolescenti subisca una trasformazione al momento del passaggio alla scuola superiore, con il contatto con un mondo relazionale nuovo, popolato da nuovi compagni e da nuove regole.
La scuola gioca un ruolo molto delicato nella gestione delle influenze dei pari: qui gli adolescenti trascorrono gran parte del loro tempo, e in questo contesto hanno la possibilità di incontrarsi e socializzare con altri pari; inoltre, le interazioni con i coetanei continuano spesso anche al di fuori degli spazi scolastici, poiché spesso vi nascono amicizie che vengono coltivate nel tempo libero.
La scuola si configura quindi come un luogo in cui hanno origine molte delle pressioni al conformismo da parte dei pari, ma anche come il luogo maggiormente deputato ad intervenirvi, rinforzando atteggiamenti positivi e ostacolando lo sviluppo di comportamenti negativi o antisociali.
Cercando di ottimizzare il tempo che i ragazzi trascorrono a scuola e la qualità delle attività svolte, la nostra proposta per contrastare la pressione tra pari e l’eventualità che questa porti alla diffusione di disagio e difficoltà psicologiche è il progetto ProYouth.
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Il Progetto ProYouth è co-finanziato dalla Executive Agency for Health and Consumers nell’Health Programme della Commissione Europea, vede la partnership di 7 Paesi Europei, ha avuto inizio il 1 Aprile 2011 e terminerà nel marzo 2014. In Italia il progetto è implementato dalla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale “Studi Cognitivi”, che lo sta promuovendo all’interno della Regione Emilia Romagna e di alcune singole province esterne (Firenze, Milano e Alessandria).
Il progetto si sta espandendo tra gli adolescenti e i pre-adolescenti attraverso il contatto con scuole secondarie superiori e centri di aggregazione giovanili per diffondere presso i ragazzi informazioni utili sul benessere in adolescenza, sulle possibili difficoltà e sui problemi che si possono incontrare, con un focus particolare sui Disturbi Alimentari.
In un’ottica di continuità e di disponibilità al dialogo e alla psicoeducazione approfondita, il progetto fornisce gratuitamente la consulenza da parte di psicologi e psicoterapeuti formati disponibili a incontri virtuali con i ragazzi in forma anonima attraverso chat individuali e di gruppo sulla piattaforma www.proyouth.eu.
Santrock, John (2007). Adolescence. New York: The McGraw-Hill Companies, Inc. (DOWNLOAD)
Liberamente tratto e adattato dall’opuscolo “A teacher’s guide to peer pressure” pubblicato dalla Northern Illinois University con il permesso del Prof. Lee Shumow. (DOWNLOAD)
Il Neuroimaging al servizio di Cal Lightman: Le neuroscienze per scoprire le menzogne.
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Dall’università Bicocca di Milano nuovi studi che tornerebbero molto comodi a Cal Lightman, il super-esperto di espressioni facciali e smascheramento di menzogne della fortunata serie televisiva Lie to Me. Lightman, che altri non è che la versione romanzata di Paul Ekman, è già praticamente infallibile da solo, ma un aiuto dalle neuroscienze elimenerebbe ogni dubbio all’investigatore della bugia.
Lo studio, “Can You Catch a Liar? How Negative Emotions Affect Brain Responses when Lying or Telling the Truth”, è stato realizzato da Alice Proverbio, associato di psicobiologia a Milano, Maria Elide Vanutelli e Roberta Adorni. Le aree del cervello più attive dal punto di vista “elettrico” quando una persona sta mentendo sarebbero la regione frontale e prefrontale dell’emisfero sinistro e la corteccia cingolata anteriore.
«Attraverso un approccio di studio basato sull’elettrofisiologia cognitiva – spiega Alice Proverbio, professoressa associata di Psicobiologia e coordinatrice della ricerca – siamo in grado di vedere come reagisce il cervello di una persona quando riconosce qualcosa di familiare. È come se l’attività bioelettrica (derivante dall’attività cerebrale) esclamasse un “aha!”».
Un recente studio ha riscontrato nei bambini adottati minor precisione nella distinzione delle espressioni facciali di tristezza e paura rispetto ad altri
I bambini con disturbo dell’apprendimento non verbale hanno difficoltà di giudizio sociale e scarse capacità di riconoscere emozioni e stati d’animo altrui
L’interezza dell’emozione provata da qualcuno può essere descritta solo prendendo in considerazione sia le espressioni facciali sia il linguaggio del corpo
Il disturbo depressivo maggiore è associato a una compromissione del funzinamento sociale, compromettendo la qualità di vita e il funzionamento globale
La capacità di elaborare le espressioni facciali, uno dei processi alla base dell’empatia, potrebbe essere influenzato e alterato dall'utilizzo di cannabis.
La Mindful Interbeing Mirror Therapy fa parte delle psicoterapie di ultima generazione e lavora sull'asse integrazione/dissociazione della personalità.
I Disturbi dell'umore, depressione o disturbo bipolare, hanno una maggiore incidenza nella popolazione femminile. Tale dato, associato ad un'alterazione di questi soggetti nella valutazione degli stati emotivi altrui, potrebbe comportare una serie di difficoltà alle madri nell'interazione con il proprio bambino.
Persone con alti livelli di tratti di psicopatia mostrano una ridotta capacità di discriminare le espressioni di disagio autentiche da quelle finte. In particolare sembrerebbe che questi soggetti abbiano maggiori difficoltà nel discriminare l'autenticità delle emozioni di tristezza e paura.
Secondo un recente studio della Binghamton University State di New York, i figli di genitori molto critici mostrano meno attenzione alle emozioni espresse e comunicate attraverso le espressioni facciali. Ciò influenzerebbe le loro relazioni sociali e sembra essere legato a un maggiore rischio di sintomi psicopatologici
Dopo un interesse per la psicologia sociale e per gli studi transculturali, Paul Ekman si è focalizzato sullo studio delle emozioni e delle espressioni facciali ad esse collegate. Il rigoroso approccio scientifico e sperimentale lo ha portato a ricevere numerosi riconoscimenti e a sviluppare strumenti all'avanguardia.
Le esperienze di attaccamento, secondo i diversi stili identificati e descritti in letteratura, influenzano lo sviluppo dell'individuo in numerosi aspetti: dalla propria identità, alla capacità di regolare le proprie emozioni, di interagire con gli altri e, non da ultimo, anche nella postura.
Secondo una ricerca pubblicata sul Journal of Personality and Social Psychology le persone con un atteggiamento disposizionale positivo hanno una forte tendenza ad apprezzare le cose, mentre le persone con un atteggiamento disposizionale negativo hanno una forte tendenza a non apprezzarle.
Il costrutto “atteggiamento disposizionale” rappresenta una nuova prospettiva in cui gli atteggiamenti non sono semplicemente una funzione delle proprietà degli stimoli in esame, ma sono anche una funzione delle proprietà del valutatore.In altre parole alcune persone possono semplicemente essere più inclini a concentrarsi su aspetti positivi e altre su aspetti negativi, indipendentemente dallo stimolo in questione.
Per scoprire se le persone differiscono nella tendenza ad apprezzare o a non apprezzare le cose, Justin Hepler, Dolores Albarracín, autori dello studio, hanno costruito una scala per raccogliere gli atteggiamenti delle persone verso una grande varietà di stimoli non correlati, come l’architettura, le docce fredde, la politica e il calcio.
L’idea è che se gli individui differiscono nella tendenza generale ad apprezzare le cose, gli atteggiamenti verso oggetti indipendenti possono effettivamente essere correlati. I ricercatori hanno scoperto che le persone con atteggiamenti disposizionali generalmente positivi sono più aperte rispetto alle persone con atteggiamenti disposizionali generalmente negativi e quindi potenzialmente più sensibili a un gran numero di situazioni, come ad esempio il rispetto di regole sociali (raccolta differenziata, la guida prudente ecc) o le campagne pubblicitarie.
“Questa scoperta sorprendente dimostra che un atteggiamento non è semplicemente una funzione della proprietà di un oggetto, ma è anche in funzione delle proprietà del soggetto che valuta l’oggetto e che l’atteggiamento disposizionale, come costrutto di significato, ha importanti implicazioni per la teoria e la ricerca dell’atteggiamento e delle decisioni“, concludono i ricercatori.
Psicologia delle Emozioni – La rivincita di Darwin?
Gli studi più curiosi che hanno fatto la storia della Scienza delle Emozioni.
Natura o cultura? Questo è il dilemma. Da sempre.
Chissà se Charles Darwin era consapevole della bagarre che avrebbe scatenato nei secoli a venire, quando in The expression of emotion in man and animals (1872) avanzò l’ipotesi che le espressioni facciali emotive fossero universali, biologicamente innate e adattive dal punto di vista evolutivo.
Darwin fu tacciato di scarsa scientificità dai neopositivisti “hard”, che trovavano inaccettabile una teoria inferita da meri dati osservativi. Fu così che per diversi decenni l’idea predominante rimase quella sulle origini culturali delle espressioni emotive: così come ogni cultura ha il proprio linguaggio verbale, allo stesso modo ha anche un proprio linguaggio delle espressioni facciali.
Si dovette aspettare Tomskin per riabilitare il povero Darwin: partendo dalla teoria che le emozioni sono alla base della motivazione umana e che la loro sede principe è il volto, Tomskin e McCarter (1964) dimostrarono che le espressioni facciali erano associate in maniera affidabile a determinati stati emotivi.
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La loro ricerca fece da apripista a quelli che furono successivamente definiti gli “universality studies”. Questi studi rilevarono, per esempio, un elevato accordo nella valutazione delle espressioni emotive facciali sia nelle culture letterate che pre-letterate, e documentarono come membri appartenenti a culture differenti producessero spontaneamente, di fronte a video emotivi, le medesime espressioni facciali.
Da quel dì è stato un impressionante susseguirsi di ricerche svolte in tutto il mondo, in diversi laboratori, con metodologie differenti, su soggetti appartenenti a svariate culture, che hanno confermato l’universalità di sette espressioni facciali emotive: rabbia, tristezza, disprezzo, disgusto, paura, felicità e sorpresa.
Ma non è finita qui! Per la gioia di Darwin diversi studi hanno portato prove a favore dell’ipotesi dell’origine biologica e genetica delle espressioni: per esempio,persone cieche dalla nascita producono spontaneamente le stesse espressioni facciali emotive di persone vedenti; inoltre le loro espressioni sono molto più simili a quelle dei loro familiari rispetto a quelle di estranei.
La teoria che le espressioni emotive siano innate, universali e abbiano origine biologica sembra pertanto fondarsi su un solido corpus di ricerche scientifiche (per una panoramica più esaustiva vedi Matsumoto & Hwang, 2011).
Ciò però non significa che la cultura non giochi anch’essa un ruolo importante! Secondo Paul Ekman esistono una serie di “display rules”, regole di esibizione culturalmente apprese che prescrivono come manifestare le espressioni emotive in base al contesto sociale: intensificandole, attenuandole, inibendole o mascherandole.
A tal proposito, è passato alla storia l’esilarante studio condotto da Friesen (1972) in cui ad un gruppo di Americani e ad un gruppo di Giapponesi furono mostrati dei filmati di raccapriccianti operazioni chirurgiche. Se gli individui erano da soli, non vi erano differenze tra i gruppi circa l’espressione di disgusto mostrata. Ma in presenza dello sperimentatore era tutto un altro discorso: i Giapponesi mascheravano l’espressione di disgusto stampandosi un finto sorrisone sul volto, mentre sullo schermo comparivano scene non adatte a stomaci sensibili. La spiegazione di questo comportamento sembra risiedere nell’influenza che la cultura esercita sulla manifestazione delle emozioni: mostrare emozioni negative in pubblico in Giappone è considerato disdicevole e viene mascherato tramite un sorriso.
Dato un substrato biologico (per la gioia di Darwin) “praticamente tutti gli aspetti della comunicazione delle emozioni, dall’accuratezza del riconoscimento delle emozioni universali fino alle differenze nell’attribuzione di intensità dell’espressioni emozionali o ai diversi significati associati a certe emozioni, sono influenzati da aspetti culturali specifici” (Matsumoto & Crtini, 2001) che non possono essere trascurati, anche solo per evitare gaffes o incidenti diplomatici. Infatti, persino un sorriso può acquisire significati diversi a seconda del contesto culturale (Furo, 2009). Insomma, se vi trovate in Giappone a cena, non sorridete troppo di fronte ad un bel pezzo di sashimi: voi sarete anche felicissimi di strafogarvi di sushi, ma loro potrebbero pensare che vi faccia veramente schifo!
Friesen, W. V. (1972). Cultural differences in facial expressions in a social situation: An experimental test of the concept of display rules. Doctoral dissertation, University of California, San Francisco. (DOWNLOAD)
Tomkin, S. S., & McCarter, R. (1964). What and where are the primary affects? Some evidence for a theory. Perceptual and Motor Skills, 18(1), 119-158. (DOWNLOAD)
La singolarità come matrice di differenze: teoria del big bang e funzione relazionale del sintomo.
Nell’ambito della letteratura sistemica, grande importanza viene attribuita alla funzione del sintomo/problema a cui si conferisce l’attributo relazionale.
Infatti questa qualifica consente al terapeuta che abbia questa forma mentis di avere come vademecum osservativo e metodologico l’idea che il disagio della persona si alimenti “in relazione a….”.
In virtù di questo, grande importanza riveste il concetto di “relazione” (di importanza primaria quella familiare) che consente al clinico di usufruire di una lente che favorisca una lettura delle dinamiche relazionali complesse.
Rivedendo, anche se in modo sintetico, la teoria del “big bang” circa le origini dell’universo, secondo la quale a partire da una singolarità (la famosa particella di Dio) si è originata un fenomenologia variegata (pianeti, stelle, galassie) diversa per forma, contenuto e funzione, ma accomunata da una stessa presunta origine, ho pensato ad una sorta di relazione, a mio avviso presente, tra questa teoria e la funzione relazionale del sintomo come matrice, per certi versi, della nascita di nuovi equilibri familiari.
Volendo, in seconda istanza, estendere il concetto sistemico di “circolarità” alla teoria del big bang, verrebbe da chiedersi quale sia il feedback che le galassie, i pianeti, le stelle, rimandano alla loro “ particella di Dio”? Beh, credo che proprio “la differenza” di questi non possa che confermare come un qualcosa forse non del tutto definito nei suoi costituenti, in virtù di un big bang (un sintomo in chiave di teoria sistemica) possa favorire un processo di definizione e differenziazione (pianeti, galassie; sistemi familiari con pattern relazionali diversi), podromo di nuove possibili realtà.
Il terapeuta, così come lo scienziato fisico, si barcamenano nell’arduo compito di ricerca di una plausibile spiegazione di questo mare magnum con il quale si trovano a doversi relazionare e, in virtù di questo, ciò che, a mio avviso, dovrebbe essere elemento indispensabile nel loro kit personale, non è la mera speranza di scorgere la vera origine delle cose (a mio avviso non facile da ricercare) bensì di usufruire delle risorse con le quali interagiscono (famiglia, contesto sociale per il terapeuta e elementi astrofisici per il fisico) al fine di cogliere la dinamica dell’incastro e comprendere come la diversità (personalitàdiverse; stelle, pianeti) possa coesistere in una danza relazionale promotrice di significati illuminanti circa l’equilibrio del loro essere.
Rapporto dal congresso APA 2013 – Honolulu, Hawaii
APA 2013
American Psychological Association
Honolulu, Hawaii
Un congresso mastodontico che volutamente non segue un filo comune. È un contenitore universale e il luogo di incontro degli psicologi americani.
Come sapete, (Leggi: APA 2013 – Il congresso annuale della American Psychological Association) all’inizio di agosto ho partecipato al congresso annuale dell’APA, l’American Psychological Association. Ci ero andato per contribuire a un simposio dedicato alla diffusione della REBT, la terapia razionale emotiva comportamentale fondata da Albert Ellis, nel mondo.
Il mio simposio, si è svolto sabato mattina e ha visto una buona partecipazione. La REBT da sempre è una sorta di alter ego della CBT, una versione più ibrida e più flessibile, con maggiori apporti provenienti dalla client centered therapy di Rogers e maggiori punti di contatto con aspetti cognitivi di “terza ondata”. L’importanza del pensiero secondario, definito non a caso meta-emotivo nelle ultime formulazioni, facilita la scambio tra REBT e modelli metacongitivi.
Nel simposio si è riflettuto su come la REBT si sia evoluta emigrando dagli USA in paesi per alcuni aspetti molto differenti: in India, Sudamerica, Inghilterra, Italia o Romania.
La REBT è molto centrata sulla critica razionale dei pensieri disfunzionali, in un stile molto pragmatico e -a tratti- aggressivo. Presuppone un atteggiamento franco e poco cerimonioso. In paesi come India o in paesi europei questo aspetto va temperato. Un altro aspetto che va incontro a modifiche culturali è la gravità dei pensieri disfunzionali.
Le doverizzazioni a quanto pare sono una caratteristica dei clienti dei paesi occidentali, mentre in India prevale per gravità l’autosvalutazione e l’inferiorità.
Il resto del congresso era caratterizzato dall’estrema varietà di interessi.Teniamo conto che L’APA è un congresso generalista, che non privilegia un’area particolare, ma l’intera psicologia. C’erano così la psicologia del lavoro o la psicologia dello sport, la ricerca di base più sperimentale e la ricerca clinica naturalistica.
Se c’era un argomento dominante forse era la guerra. Nelle plenarie ho visto spesso lavori sulle conseguenze psicologiche e sui problemi psicologici della guerra. Una centralità della guerra inimmaginabile per noi europei. Una delle presentazioni più interessanti era dedicata all’inserimento sociale delle famiglie dei militari.
Hazel Atuel, dell’University of Southern California, in una sessione dal titolo “Trattamento di bambini e coniugi di personale militare” ha descritto una ricerca condotta raccogliendo informazioni sulla percezione che hanno i genitori che stanno nell’esercito del clima scolastico, dell’impegno scolastico, della qualità dei programmi scolastici e dei problemi scolastici come il bullismo.
Le famiglie dei militari percepiscono il clima della scuola meno favorevolmente, e le scuole incoraggiano meno il coinvolgimento dei genitori militari. Insomma, intorno ai militari si crea un’atmosfera di lontananza e di diffidenza, che potrebbe essere pagata dai bambini.
Questi è solo un esempio dei problemi trattati all’APA. Il ventaglio degli interessi era molto ampio, dalla violenza sessuale al ruolo degli psicologi nella gestione dei disastri naturali, dalle infedeltà coniugali agli atteggiamenti di dominanza e sottomissione sociale, passando per l’efficacia dei feedback per limitare lo spreco di energia all’eterno problema del razzismo e dei suoi risvolti psicologici.
Una delle presentazioni più popolari è stata quella di sull’intelligenza dei cani condotta da Stanley Coren, della University of British Columbia. L’intelligenza dei cani è soprattutto di tipo imitativo e per interagire con loro dobbiamo soprattutto effettuare operazioni di modelling, mostrare le cose da fare, piuttosto che indurli a fare indicandole. Qui ci sono dei video teneri e divertenti proiettati da Coren durante la sua presentazione:
Personalmente ho seguito attentamente alcune sessioni di psicoterapia. La prima era una sorta di report sulla situazione della psicoterapia negli USA. La sessione era presieduta da Ray DiGiuseppe. Accanto ai dati positivi sulla sempre crescente diffusione e domanda di psicoterapia e sulla diminuzione costante dello stigma, della vergogna di andare in psicoterapia, c’erano anche le notizie negative.La principale è che il livello di frammentazione sta aumentando e ha colpito, dopo la psicoanalisi e le terapia psicodinamiche, anche le altre terapie.
In particolare la terapia cognitiva, che pareva immune alla piaga della frammentazione e della moltiplicazione delle etichette e delle sottoscuole. Un tempo c’era (apparentemente) solo una terapia cognitiva, o al massimo due: al CBT classica alla Beck, poi c’era la REBT, la sorella terribile fondata da Ellis, e poi il progenitore comportamentale, la BT. Oggi, con la terza ondata si assiste a un proliferare di sigle: ACT, compassione therapy, terapie metacognitive di vario genere, mindfullness, solo per citarne alcune.
Nella seconda sessione a cui ho assisto si visionava e si commentava una seduta videotrasmessa. La seduta era condotta da Stevan L. Nielsen dell’Università dello Utah. Nielsen è un terapista REBT ortodosso, forse anche troppo. Un “child” di Ellis, lo ha definito Raymond DiGiuseppe, che era uno dei discussant insieme a Michael Lambert, il cui prestigio è salito alle stelle dopo il successo universale del suo OQ 45, ed Elizabeth Williams, psicoterapeuta di orientamento femminista e multiculturale.
Il paziente era un ragazzo timido e depresso, un po’ isolato socialmente e affettivamente. Nielsen lo ha aiutato a darsi una scossa, utilizzando un tipico stile REBT stimolante e incoraggiante. Perfino troppo, attirandosi le critiche di DiGiuseppe, terapista REBT anche lui ma più propenso a lasciare spazio al paziente e a tacere. Ancor più scettico Lambert, che ha molto sottolineato invece la bontà degli interventi di validazione e accoglimento. Lambert, infatti, è un seguace della emotion focused therapy di Greenberg a sua volta figlia della client centered therapy di Rogers. Infine la Williams ha mantenuto un atteggiamento intermedio. Ha in parte criticato l’eccesso di zelo di Nielsen, che effettivamente a tratti avrebbe fatto bene a parlare un po’ meno e a lasciare il tempo al paziente di riflettere. Dall’altra però la Williams ha anche apprezzato la capacità motivante di Nielsen, che ha saputo trasmettere un po’ della sua energia al ragazzo sofferente.
Una sessione su cui riflettere e in cui, ancora una volta, è emerso quanto sia differente una seduta reale dalle sue descrizioni teoriche. Insomma, un congresso mastodontico che volutamente non segue un filo comune. È un contenitore universale e il luogo di incontro degli psicologi americani.
Chiudo con una nota di colore. Ho conosciuto molti colleghi “Italian-american”, tutti commossi nell’incontrare un “Italian-italian”, come dicevano loro. In particolare ho trascorso molto tempo con Bernardo Carducci, professore di psicologia alla Indiana University e studioso esperto di timidezza, argomento interessantissimo sul quale ha rilasciato un’intervista a State of Mind. Carducci, infine, è presidente e fondatore della Italian-American Psychology Assemby, un’associazione che riunisce i colleghi psicologi italo-americani e di cui sono diventato membro onorario. Da buon paisà.
La relazione tra Medico e Paziente: sullo stesso fronte. Psicologia
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Oggi il modo migliore per passare i messaggi importanti è metterli su pellicola, farci un film o un corto.
Così è per Insieme, film presentato a Venezia. Film sul cancro e sulla battaglia di una donna che ha al suo fianco persone con le quali può non nascondersi. Dalla sorella che le sta a fianco quasi come fosse anche lei a vivere questa malattia, al medico al quale può dire anche i dubbi più banali e trovare risposte alle sue sofferenze.
Lo scopo di questo film è proprio quello di far emergere un pò quelle che sono le credenze spesso sbagliate di chi vive una situazione del genere.
Avere supporto di amici e parenti quindi non nascondersi ma condividere, di poter PARLARE con il medico di tutto, lui è l’esperto ma in quel momento anche chi ascolta non solo chi dice cosa fare.
Si sa il supporto adeguato e le cure possono insieme sconfiggere la battaglia.
Bisogna interrompere quel circolo vizioso secondo il quale l’oncologo non chiede e il paziente non parla perché convinto che la chemio, per funzionare, debba per forza farlo star male.
Presentato alla Mostra del Cinema di Venezia e liberamente ispirato a una storia vera, racconta la quotidianità e i problemi di una giovane donna colpita da tumore (…)
Scopo dello studio di Boškailo e colleghi (2021) è stato quello di indagare l'associazione tra resilienza e qualità di vita nelle donne con tumore al seno
"La cura del paziente oncoematologico" racconta competenze e vissuto personale degli operatori in oncoematologia, oltre alle riflessioni di questi pazienti
Se l'aumento del rischio di gliomi fosse associato all'uso del telefono cellulare, dovrebbe riflettersi in un'aumentata incidenza, ma non sembra essere così
Le malattie aumentano i bisogni spirituali degli individui: la spiritualità alimenterebbe le speranze e la capacità di trovare un significato alla malattia.
"Affrontare il cancro. Come gestire le emozioni con la DBT" pone il focus sull'accettazione profonda della realtà, presupposto chiave della mindfulness
Vista l’emergenza sanitaria Covid-19, è stata condotta un’indagine conoscitiva per valutare lo stato psicologico del personale che opera in area oncologica
L’intolleranza all'incertezza potrebbe avere un ruolo significativo nell'esacerbare il disagio e ridurre il benessere psicologico nei casi di tumore ovarico
La chemioterapia può dare effetti collaterali come nausea, vomito, affaticamento e alopecia, impattando anche sull'immagine di sé dei pazienti oncologici
Un bambino con malattia oncologica costituisce una realtà spaventosa soprattutto per i genitori per cui è fondamentale la possibilità di ricevere supporto
La psiconcologia si sta orientando sul trattare eventuali disturbi psicologici legati alla patologia oncologica con interventi di terza onda come ACT e MCT
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Leadership negli Sport di Squadra #6: Leader istituzionale o intimo
La caratteristica propria dello sport di squadra, è la possibilità di distinguere un leader istituzionale da un leader intimo. Il primo viene definito a priori mentre il secondo si determina a livello inconscio all’interno di quella che Mazzali [1995] definisce: anima gruppale.
Nel capitolo precedente sono stati analizzati i processi e i modelli di riferimento alla base della assunzione e gestione del ruolo di leader. A questo punto, concentrando l’attenzione sull’ambito sportivo si può osservare come la condizione di leader risulti particolare all’interno di un gruppo di questo tipo.
La caratteristica propria dello sport di squadra, è la possibilità di distinguere un leader istituzionale da un leader intimo.
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Il primo viene definito a priori mentre il secondo si determina a livello inconscio all’interno di quella che Mazzali [1995] definisce: anima gruppale.
Difficilmente quindi si può parlare di una singola figura di leader anche se in alcuni casi rari l’assenza di un giocatore dotato delle necessarie capacità può far sobbarcare tutte le responsabilità del capitano sul ruolo dell’allenatore. Molto spesso, al contrario, si possono distinguere queste due diverse posizioni nella gerarchia di status (l’allenatore e il capitano) la cui armonia gioca un ruolo fondamentale sia a livello di prestazione che a quello di soddisfazione per tutti i componenti del gruppo. Molte ricerche ne hanno messo in evidenza alcune differenze, le quali influenzano anche le aspettative e le funzioni che svolgono all’interno della squadra. Nella tabella seguente vengono riassunte le più importanti:
E’ importante sottolineare che queste due categorie rappresentano solo degli idealtipi, chiari, semplici e utili a livello teorico, ma altrettanto irreali nelle dinamiche quotidiane intragruppi dove, solitamente, si pongono entrambe lungo un continuum in ciascuna delle dimensioni prese in considerazione.
Lo stesso Mazzali [1995], pur riconoscendo all’allenatore un principale orientamento al raggiungimento degli obiettivi imposti dalla dirigenza e al capitano un principale orientamento alle relazioni, non nega la necessità di un atteggiamento intermedio da parte di entrambi perché si possa raggiungere la stabilità interna, necessaria ad affrontare senza esagerate esultanze i momenti di vittorie e senza disgregazioni interne in periodi di sconfitte, e per mantenere elevato l’impegno del gruppo. Questa tipologia di leader che sa utilizzare la propria autorità ma che la trae dall’accettazione del gruppo (guadagnandola quando la sua origine non dipende da questa) è definito dall’autore un leader “catalizzatore”.
Tutte queste caratteristiche risultano elementi determinanti per la soddisfazione e la prestazione della squadra secondo il modello multidimensionale, presentato nell’articolo precedente, di Chelladurai [1990]. Questo concetto è ribadito dall’idea esposta da Mazzali che la gestione dello spogliatoio, e quindi delle problematiche socio-emotive e prestazionali della squadra, è sempre un momento transitorio in cui non esistono comportamenti universalmente validi poiché ogni gruppo rappresenta una realtà a sé stante.
E’ indispensabile quindi che il leader possegga abilità che gli permettano di adattare il proprio comportamento per affrontare nel modo migliore le più svariate situazioni problematiche. Alla luce, quindi, di quello che si è osservato essere la caratteristica principale per il successo del leader (la versatilità comportamentale), questa associazione tra il tipo di leader e gli stili comportamentali ideati da Bales e Slater [1955], pur mantenendo un fondo di verità, appare eccessivamente rigida. Sia l’allenatore che il leader interno alla squadra devono risultare in grado di attivare l’uno o l’altro stile comportamentale.
Detto questo rimangono due differenze sostanziali tra questi ruoli, che riguardano la loro posizione rispetto al collettivo e la loro origine.
Rispetto al primo punto è necessario ricordare che l’allenatore appartiene alla sub-struttura ufficiale dello spogliatoio [Giovannini e Savoia, 2002] e per questo mantiene sempre un certo distacco rispetto alla collettività; possiede un ruolo importante e correlato con le dinamiche della squadra ma esterno ad esse. In relazione al comportamento dell’allenatore questa distanza dalla collettività può essere più o meno colmata ma non può essere mai esaurita poiché è una qualità fondante la posizione a cui appartiene; l’allenatore prescrive l’allenamento ma non lo esegue, prepara le partite ma non le gioca assieme agli altri. Ciò che non riesce a colmare dipende quindi da quelle esperienze comuni che quotidianamente condividono i giocatori alle quali non appartiene.
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Esattamente l’opposto si può dire per il leader intimo, che fa parte della sub-struttura ufficiosa dello spogliatoio, in quanto il suo ruolo non è determinato ufficialmente ma emerge dalle dinamiche di gruppo. Al contrario dell’allenatore il leader intimo condivide con i compagni di squadra tutte le dinamiche dell’allenamento e della partita vivendo in prima persona il gioco di squadra.
Per quanto riguarda l’origine esiste una differenza importante già segnalata nella Tab1. L’allenatore, essendo un ruolo istituzionalmente determinato, viene imposto, come figura, ai membri della squadra, dalla dirigenza. I giocatori, di norma, non hanno alcun potere nella sua elezione, il che può indicare che, al di là della professionalità di ciascun atleta, il rapporto inizialmente è del tutto superficiale anche se si potrà costruire con il tempo.
Il capitano, pur essendo difficile determinare quali sono gli esatti processi che portano alla sua elezione, viene scelto dai membri del gruppo che lo riconoscono come legittimo possessore di questo status. Il processo di costruzione del ruolo di leader segue quindi delle dinamiche diametralmente opposte: per l’allenatore l’elezione è istituzionale e in un secondo momento può essere riconosciuta e accettata dalla collettività; per il capitano, al contrario, la posizione viene assegnata dal gruppo ed eventualmente, e in un secondo tempo, riconosciuta e accettata ufficialmente dall’allenatore.
Come è già stato accennato risulta piuttosto semplice riconoscere chi detiene il ruolo di leader interno alla squadra, mentre è alquanto complesso individuare i motivi e i processi decisionali che hanno portato il gruppo a eleggerlo, soprattutto perché questa scelta, il più delle volte, non è dettata da raziocinio ma da processi inconsci appartenenti all’anima gruppale della squadra.
Con questo concetto Mazzali [1995] si riferisce a “una sorta di <impalpabile rete> che si crea spontaneamente quando un insieme di individui continua a vivere esperienze comuni e si percepisce solo quando se ne è parte” [Mazzali, 1995, p.24]. Secondo l’autore è da queste rete di rapporti emozionali che emerge l’assegnazione del ruolo di leader, non tanto per doti fisiche o intellettive particolarmente eclatanti o positive, quanto perché possiede una sensibilità intuitiva (per lo più innata) che gli permette di comprendere e influenzare la stessa anima inconscia del gruppo.
Influenzare l’anima gruppale vuol dire, prima di tutto, essere in grado di “stimolare in modo produttivo o negativo il sentimento collettivo” [Mazzali,1995]. Prunelli [2000] sottoscrive un decalogo comportamentale a proposito del buon capitano che sottolinea in che direzione quest’influenza deve essere orientata. Le norme comportamentali che descrive sono riportate di seguito.
I “dieci comandamenti”del buon capitano
Pensa per te e per gli altri e non sentirti sminuito se devi metterti a disposizione dei compagni.
Cerca di essere tranquillo ed equilibrato, trasmetti sicurezza, rivolgiti all’arbitro nelle dovute maniere.
Intervieni a sostegno di un compagno in difficoltà o incapace di sottostare alle regole del gruppo. Mostrati positivo.
Non defilarti se non sei in giornata, se l’avversario è più forte e il risultato compromesso.
Se occorre fai le veci dell’allenatore: assumi responsabilità. Prendi decisioni.
Nei momenti di difficoltà della squadra sforzati di essere creativo e coraggioso, diffondi ottimismo.
Tieni conto delle esigenze e dei problemi di ogni compagno.
Armonizza i rapporti all’interno dello spogliatoio.
Diventa leader, ma proponiti in modo tale che ogni componente del gruppo, in determinate situazioni sia leader a sua volta.
Fai in modo di essere credibile senza aver bisogno del sostegno dell’allenatore.
Prunelli [2000]
E’ importante ricordare che all’interno della squadra esiste anche un leader tecnico rappresentato da colui che occupa il ruolo sportivo centrale negli schemi tattici del team (il centromediano nel calco, il playmaker nella pallacanestro ecc…) che rappresenta un punto di riferimento nel corso delle prestazioni della squadra in quanto è colui che detta i ritmi del gioco.
Questa figura, assolutamente importante, può coincidere con quella del leader intimo della squadra ma il più delle volte risulta essere una posizione distinta da questa in quanto richiedono diverse abilità. In sostanza la squadra può possedere un leader tecnico esperto e estremamente abile (che tutti gli altri giocatori vorrebbero avere al proprio fianco in momenti critici di una partita) ma non avere le qualità sociali e psicologiche per essere riconosciuto come leader intimo.
E’ facile osservare, a questo punto, come la leadership interna ad una squadra sia un fenomeno variegato e con una struttura diversa e unica per ogni team sportivo che viene preso in considerazione. Spesso infatti possono esistere più leader in aperta ostilità tra loro, magari ciascuno supportato da una parte della squadra, la cui convivenza diviene un problema importante per far si che non si ripercuota sulle prestazioni di tutti.
Una delle caratteristiche distintive dell’essere umano è la capacità di provare empatia. Un nuovo studio della University of Virginia suggerisce che il riuscire a mettersi nei panni degli altri dipenda dalla forte associazione che creiamo tra noi e le persone care che ci stanno intorno nel quotidiano, come se con la familiarità queste diventassero parti di noi, come se “il nostro sè includesse le persone che sentiamo vicine”, per usare le parole del ricercatore James Coan, a capo dello studio.
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James Coan, professore di psicologia al U.Va.’s College of Arts & Sciences, usando la risonanza magnetica funzionale ha scoperto, infatti, una forte correlazione tra le scansioni cerebrali di persone familiari tra loro.
Coan e il suo team hanno condotto lo studio su 22 soggetti adulti; l’esperimento prevedeva che i 22 partecipanti venissero monitorati con la fMRI mentre correvano il rischio che delle lievi scosse elettriche colpissero loro stessi, degli amici o degli sconosciuti.
I risultati indicano, come previsto dai ricercatori, che le regioni del cervello coinvolte nella risposta alle minacce – insula anteriore, putamen e giro sopramarginale – si sono attivate sotto la minaccia di shock per il sé. Nel caso in cui, invece, era un’estraneo ad essere minacciato, le scansioni hanno mostrato poca attivazione in quelle stesse aree cerebrali.
Tuttavia, quando la minaccia di shock era rivolta ad un amico l’attività cerebrale dei partecipanti è risultata essenzialmente identica all’attività visualizzata sotto la minaccia al sé.
“La scoperta dimostra la notevole capacità del cervello di modellare il sé su quello degli altri, che le persone vicine a noi diventano una parte di noi stessi e che questo non è solo metaforico o poetico, ma è molto reale. Ci sentiamo letteralmente minacciati quando un amico è in pericolo, ma non è la stessa cosa quando lo è uno sconosciuto“, ha detto Coan “Questa probabilmente è la fonte dell’empatia, è parte del processo evolutivo: una minaccia per noi è una minaccia per le nostre risorse. Quando ci facciamo degli amici, possiamo fidarci e affidarci a chi, in sostanza, è diventato parte di noi, le nostre risorse si espandono, ci guadagnamo. L’obiettivo dell’altro diventa il mio obiettivo. È’ parte della nostra capacità di sopravvivenza.”
Post-vacation blues, la sindrome da rientro al lavoro
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Per alcuni è diventata patologia: lo stress da rientro vacanze, la ripresa della quotidianità, del lavoro, degli impegni è da considerarsi fonte di “depressione”. Oggi colpisce circa 6 milioni di persone.
Così quando si rientra in città l’ umore cambia con un misto di emozioni, dalla tristezza per il cambio di stato da “vacanziero” a lavoratore, alla frustrazione o nervosismo per l’incombere di impegni e scadenze da rispettare.
Tutto il buon umore e relax che si acquisisce in vacanza svanisce in un secondo.
Si presentano quindi sintomi quali ansia, tristezza, nervoso, insonnia, spossatezza etc..difficili da gestire.
Ecco allora qualche accortezza e suggerimento per combattere o rendere gestibile lo stress da rientro vacanze.
“Fisiologicamente tendiamo a tracciare una linea tra un passato trionfale, quello del periodo vacanziero, e un futuro problematico e conflittuale, quello del rientro al lavoro. Si tratta di una linea – spiega – che va in picchiata, da un trionfo a un declino, e che rappresenta solo la nostra paura e le nostre ansie”, spiega Piero Barbanti, neurologo dell’Irccs San Raffaele Pisana di Roma
A differenza del problem-solving, il rimuginio è un pensiero statico e ripetitivo che rallenta la capacità di affrontare in modo efficace le difficoltà
La diagnosi di autismo rappresenta per molti genitori una frattura emotiva profonda, legata alla perdita del figlio immaginato e alla rielaborazione delle aspettative
Valutazioni logopediche e interventi personalizzati per disturbi di linguaggio, voce, deglutizione e apprendimento presso la Clinica Età Evolutiva
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Teoria e Clinica del Perdono: intervista a Francesco Mancini su Rai 1
Pubblichiamo con piacere il link a questa intervista a Francesco Mancini sul nuovo volume “Teoria e clinica del perdono”, curato da Barbara Barcaccia e Francesco Mancini, edito da Raffaello Cortina.
Nel libro Teoria e clinica del perdono, si affronta il perdono, ovviamente da un punto di vista psicologico, non religioso o filosofico. Che cosa è il perdono? Se si considera la parola “perdono”, si nota come sia composta di un prefisso rafforzativo “per”, cioè super, e dalla parola “dono” cioè regalo. Il perdono dunque come grande regalo, come atto di magnanimità con cui la vittima rimette il debito a chi lo ha offeso o ingiustamente danneggiato e, allo stesso tempo, riconosce al colpevole la sua dignità di essere umano e dunque il suo diritto a non essere escluso e disprezzato.
E’ importante chiarire che cosa non è il perdono. Il perdono non è oblio, non è negazione del torto, non è giustificazione, non è rassegnazione a subire. Il perdono non implica necessariamente riconciliazione piena, la ripresa di un rapporto sentimentale o di amicizia. Il perdono è la fase conclusiva di un processo che è spesso molto lungo e difficile, a volte psicologicamente troppo difficile, e che inizia con il riconoscersi vittima di un torto e dunque con rabbia, risentimento e desiderio di vendetta.
Non esistono modelli del tutto soddisfacenti di questo processo, tuttavia è possibile indicare alcuni fattori che lo facilitano: la richiesta del perdono da parte della vittima, la capacità di mettersi empaticamente nei panni del colpevole, il desiderio di pacificazione, il timore che la vendetta faccia passare dalla parte del torto, il desiderio di liberarsi dalla ruminazione rancorosa, la capacità di trovare attenuanti e dunque di contrastare l’outrage heuristic tipica di colui che a subito un torto.
Il perdono fa bene a chi perdona, naturalmente va salvaguardata la prudenza, cioè perdonare non significa correre i rischi di riavvicinarsi a persone pericolose, vendicarsi, al contrario, sembra che non aiuti a chiudere la ruminazione rancorosa, non sempre fa bene al perdonato che può sentirsi ancora più in colpa o umiliato dalla magnanimità del perdonatore.
Il perdono può essere la strada per uscire dalle conseguenze di abusi maltrattamenti e ingiustizie, dal ruolo di vittima rancorosa.
Francesco Mancini cerca di rispondere a queste domande. L’intervista è andata in onda su Rai 1 ieri mattina, ed è disponibile cliccando questo link: INTERVISTA
ATTENZIONE: Per andare direttamente all’intervista saltando le altri parti del programma posizionarsi al minuto 10:25.
COGSCI 2013 Report dal Congresso della Cognitive Science Society. Di Bruno Bara
Dal 31 luglio al 3 agosto 2013 si è svolto a Berlino il 35esimo congresso della Cognitive Science Society, una delle principali società scientifiche della scienza cognitiva. Pubblichiamo con piacere le istruttive e divertenti mail del prof. Bruno Bara, che ha partecipato al congresso.
COGSCI 2013
Cronache dal Congresso della Cognitive Science Society
Eccomi a Berlino per il megaconvegno di Cognitive Science, 1.300 partecipanti, battuti tutti i record precedenti. Tradizionalmente i convegni in Europa sono il meglio. Mentre negli USA ci vanno solo post-doc vestiti da surfisti californiani, qui sono presenti gli scienziati di punta, i direttori di laboratorio assieme alle promesse future. Tutti carini, gentili ed eleganti, niente braghette corte e molti vestitucci in fiore.
Inizia John Duncan, del Medical Research Council di Cambridge. Per me è un ritorno a casa: ci sono stato per mesi e mesi quando lavoravo con Johnson-Laird. Duncan ha vinto il premio Heineken 2013, il Nobel della scienza cognitiva, e ascoltandolo si capisce perché. Parla del MD, il Multiple Demand System, un sistema neurale distribuito che spiega l’intelligenza fluida, splendido nome per indicare la nostra capacità di risolvere problemi difficili o in sequenze complesse.
Quando la complessità della situazione aumenta, perdiamo le componenti cognitive più vulnerabili, oppure se la richiesta attentiva diventa troppo forte, dimentichiamo alcune porzioni di informazione. La mente chiara, la clear mind, è secondo lui quella capace di rivolgere l’attenzione alle sottoparti utili, trascurando le parti non significative, e spiega come riesce il cervello a realizzare questo.
Segue un delizioso simposio su “Evoluzione di Linguaggio e Gesti”, tutto il meglio dei primatologi sulla piazza, gente che ha passato minimo 5 anni nelle foreste pluviali: Call, Liebal, Hobaiter, Tomasello, con l’aggiunta di Susan Goldin-Meadow, la grande esperta di sordi.
Su una cosa concordano tutti: gorilla e scimpanzé sono straordinari, ma l’uomo è un’altra cosa. I video di baby chimp che per giocare svegliano la madre addormentata e di gorillone seduttive che fingendo di negarsi provocano sessualmente il maschio tonto sono irresistibili, difficile non riconoscervi figli e fidanzate. La tentazione antropomorfa colpisce senza pietà. Conclusione: non è il linguaggio la strada per l’evoluzione della comunicazione, ma la capacità di condividere, cosa che manca ai nostri competitivi cugini.
A pranzo ci sono 210 poster da guardare, e ogni giorno ce ne saranno altri 200 nuovi, vi racconto il top. Monica Bucciarelli coi suoi collaboratori ne presenta uno innovativo sulla versione scritta del linguaggio dei segni, nessuno ci aveva pensato prima: lavoro intelligente e utile socialmente.
Amory Danek, una studiosa che nega l’esistenza dello insight nei problemi di insight, sostiene sulla base di ingegnosa evidenza sperimentale che l’esperienza di insight si riferisce solo al solutore e al suo atteggiamento mentale, mentre non sta nel problema e tantomeno nella sua soluzione. È molto incinta e la bacerei, ancora una volta tutto sta nella nostra mente e non nel mondo esterno.
Il mio favorito è Justin Matthews, che fa vedere immagini inquietanti di ponti sospesi e ti fa stimare quanto sono lunghi, immaginando di essere soli, o con qualcuno, o con un amico che ti aspetta all’altro capo del ponte. In inglese suona meglio, perché il close friend, l’amico stretto, ti fa percepire il ponte più close, più breve. Vicinanza affettiva e spaziale si mescolano, una gioia per noi terapeuti incarnati.
Berlino è esattamente come la immaginate: facile, libera, giovane, rispettosa. Tutto è concesso, basta non dare fastidio. Uso come misura le coppie gay, con figli e senza, che affollano le ordinate strade piene di locali all’aperto dove puoi mangiare, bere e fare qualunque cosa desideri.
Il ricevimento a inviti è una delusione, una sorta di aperitivo leggero per tedeschi chic, clamorosamente insoddisfacente, si salutano i colleghi e si va via. A cena con Monica debuttiamo in una grande birreria con il tradizionale maiale in ogni sua forma, ma poi lasciamo quasi tutto, troppo impegnativo se il giorno dopo tocca lavorare. Ma è un rito dovuto, da domani si cercano ristoranti migliori.
Non fa troppo caldo, il riposo è il benvenuto.
2 agosto 2013
Il secondo giorno inizia con Michael Bratman, che in plenaria parla di condivisione. Ha una posizione controcorrente, di sfida a Searle e Gilbert, sostiene che non ci sono stati mentali primitivi collettivi, ma che tutto è riducibile a stati individuali. Dopo 30 anni che seguo Searle, sia in Italia sia a Berkeley, proprio non ce la faccio a mandare tutto all’aria.
Il punto critico sono i bambini: se ha ragione Bratman, come fanno a condividere tutto ben prima che la potenza cerebrale li metta in grado di gestire stati mentali complessi? Domanda fatta, e la candida risposta è stata che non ne ha la minima idea. Vabbé che i filosofi giocano in libertà, ma proprio trascurare ogni evidenza sperimentale!
Dopo un ansiogeno coffee break, i miei valorosi dottorandi Francesca Capozzi e Tiziano Furlanetto mi accompagnano nella Room 1, dove si tiene il simposio sulle intenzioni comunicative nella mente e nel cervello.
La sequenza è Michael Tomasello su bambini e scimpanzé, Nick Chater su scelte economiche, Rosemary Varley sulle intenzioni negli afasici, e ultimo io sul circuito neurale della intenzionalità. Teniamo mezz’ora per la discussione finale, sala piena, dibattito vero, domande cattive e risposte perfide. A sorpresa ci troviamo d’accordo su una serie di punti critici tipo l’interazione fra gesti e linguaggio, e le domanda dedicate a me sono una delizia, so miracolosamente cosa rispondere. Ci divertiamo, Wayne Gray (editor di Topics) vorrebbe ne facessimo un numero speciale di Topics on Cognitive Science, a tutti piace l’idea ma nessuno si prende l’onere di proporsi come special editor, peccato.
Dovrei essere più nonchalant? E quando mi capita più di essere con cotanti scienziati, a Berlino, di fronte a qualche centinaio di miei colleghi europei?
Fra i 200 poster del giorno vi segnalo quello sull’impegno congiunto studiato attraverso le emozioni e il comportamento extralinguistico, presentato da Francesca Morganti, con fra gli autori nientemeno che Antonella Carassa e Giorgio Rezzonico!
Mi colpisce più di tutti Josh Hemmerich, che studia conoscenza e soddisfazione nei pazienti che devono prendere una decisione su come trattare il proprio cancro ai polmoni. La maggioranza vuole avere voce in capitolo, mentre il 20% più anziano preferisce affidarsi totalmente al chirurgo. Non indaga le differenze individuali, ma qualcosa che serve davvero fa piacere ascoltarlo.
Andiamo a cena nel più antico ristorante di Berlino, dove troviamo miracolosamente posto, e ci godiamo ottimi birroni e polpettone. Ancora un mojito prima di andare a dormire, e una giornata che non dimenticherò termina in gloria.
3 agosto 2013
Terza giornata di questa maratona ricca e impegnativa. La plenaria del mattino è affidata a Elizabeth Spelke, uno spettacolo di bravura e intelligenza. È famosa per i suoi studi sulla matematica e la geometria nei bambini, si è spostata sulla cognizione sociale confermando le sue doti di scienziata aperta e capace di rinnovarsi.
Mostra le meraviglie che i bambini di 3 mesi sono già in grado di fare in termini di azioni efficaci, e sostiene che a 4 mesi iniziano a comportarsi da agenti sociali, a patto che si stabilisca con loro un contatto oculare: ciò che ogni genitore sa, vale a dire che suo figlio è un genio, viene confermato sperimentalmente.
A 8 mesi si accorgono delle somiglianze sociali, amano imitare ed essere imitati (questo dura tutta la vita per molti), pian piano diventano più selettivi sulle persone con cui interagire, in quanto comprendono come le azioni abbiano effetto sulle relazioni sociali.
Si chiede cosa rende gli umani così intelligenti, e cosa permette la rivoluzione del primo anno, in concomitanza coll’insorgere del linguaggio. Secondo lei il vantaggio umano sta nelle nostre capacità cognitive sociali, perché molte altre abilità non sociali si trovano anche in altri animali.
Il dibattito se sia il linguaggio o la cognizione a determinare la svolta del primo anno attraversa il congresso. L’idea della cognizione sociale è la più convincente a mio interessato parere. E non vi venga in mente di dire che tutto importa, linguaggio, cognizione e cognizione sociale, perché fareste la figura di un cerchiobottista. Spelke conclude che se siamo così intelligenti socialmente non si capisce come mai usiamo tanto male le nostre capacità sociali, riducendoci sull’orlo della catastrofe planetaria a ogni crisi. In effetti non è facile nemmeno capire la questione, forse riflettere seriamente sulle patologie della cognizione sociale dovrebbe diventare primario per gli scienziati.
Salto ancora una volta il pranzo, che mi dicono peraltro modesto, perché presento un poster con Rosalba Morese primo nome, Daniela Rabellino, Angela Ciaramidaro e Francesca Bosco, sulla punizione altruistica. Me lo sistema alla perfezione l’ottima Francesca Capozzi, un po’ perché i miei dottorandi sono gentili, un po’ perché non si fidano di me.
È un eccellente lavoro in risonanza magnetica sul fatto che siamo disposti a investire risorse per punire chi non si comporta correttamente, in particolare se lo scorretto è uno del nostro gruppo e tratta male uno del nostro stesso gruppo. Parecchie domande, critiche tecniche cui non so rispondere, me la cavo meglio sulle questioni teoriche.
In tema vi cito un elegantissimo poster di Giulia Andrighetto, Francesca Giardini e Rosaria Conte del CNR di Roma, tutto teorico sulla differenza fra vendetta e punizione, e uno divertente di Maryam Tabatabaeian sulla disonestà come tendenza umana automatica. I temi morali contano, cominciamo ad affrontarli finalmente.
Vado infine a un simposio sulla cooperazione, il meglio è Valentina Cardella che parla delle società animali e umane. Molto speculativa, lei punta sul linguaggio come strumento tecnico di differenziazione umana, ma in un convegno molto attento all’evoluzionismo risulta non del tutto convincente, il linguaggio cui si riferisce lei è quello evoluto di homo sapiens, come la mettiamo col paio di milioni di anni precedenti? Comunque è giovane e competente, dibatte con precisione. Ne sentiremo parlare se non la comprano all’estero come stanno facendo con tutti i dottorandi italiani di qualità.
Incontro Herbert Clark alla stessa sessione, il primo a impostare il tema della conoscenza di background nella comunicazione, gentile come sempre e come sempre capace di critiche affilate. Ci troviamo a ogni congresso, e siamo stati spesso insieme nei simposi, il nostro microcosmo è davvero micro.
Basta, neppure gli organizzatori vanno alla cerimonia finale, troppo caldo e troppi eventi. Tutti esausti, andiamo a vedere Nefertiti, per controllare se è davvero straordinaria come dicono.
Lo è, lo è, questa affascinante principessa nera merita ogni ammirazione, un prototipo di bellezza difficile, non banale, non sexy ma seducente da tremila anni. A cena ora, statemi bene e riflettete sul fatto che è stato un ebreo a donare alla città di Berlino la sua opera d’arte più famosa.