Gli psicologi sociali e gli psicologi che si occupano di sviluppo umano riflettono sul ruolo dell’amicizia nella vita umana e sui suoi aspetti psicologici.
La prima forma dei rapporti di amicizia si presenta nella prima infanzia. Mentre inizialmente i bambini non prestano attenzione al sesso del proprio compagno, con l’età comincia a cambiare questo rapporto.
Articolo consigliato: L’amicizia tra uomini e donne… mai?!. – Immagine: Harry ti presento sally. 1989
Nella scuola primaria c’è già una forte differenziazione in questo senso: le ragazze sono amiche con le ragazze, i ragazzi vogliono giocare solo con i ragazzi.
Contrariamente a ciò che è stato scritto in uno dei libri più famosi di J. Gray “Gli uomini vengono da Marte e le donne da Venere” (1993), una relazione amicale tra due persone del sesso opposto può essere di gran lunga più stabile delle amicizie con persone dello stesso sesso.
Si deve dare particolarmente attenzione all’aspetto caratteriale di uomini e donne.
Gli uomini all’interno di un rapporto sono visti come più onesti e diretti. Le donne invece nelle relazioni sono descritte come più attente, ma meno oneste con se stesse. Inoltre, le donne sono più rivali, mentre gli uomini si concentrano più su di se stessi (Buss, 2005, 2007). La combinazione di queste caratteristiche fa sì che sempre più persone preferiscono avere amici del sesso opposto. Le relazioni così sono più soddisfacenti, e quindi più durature.
Secondo le ricerche, anche quelle che non si concentrano sulla questione del genere sessuale, l’amicizia è importante nella vita adulta così come nell’infanzia (Buhs, 2013).
Le persone che intraprendono amicizie più durature sono più soddisfatte della loro vita, meno stressate, e considerano migliori le loro condizioni fisiche e mentali (Kornienko, Santos, 2013).
Nel nostro Paese sembra che l’omosessualità debba restare un tabù, che non se ne possa parlare neanche dopo che qualcuno si è tolto la vita perché distrutto dal peso del minority stress, così un ragazzo di 14 anni si getta da un terrazzo e le vere motivazioni legate a questo gesto vengono considerate una “forzatura”.
A proposito della notizia di Andrea, il ragazzo gay di 14 anni che si è ucciso qualche giorno fa, La Repubblica (14 agosto 2013) scrive: “Il giovane, prima di lanciarsi dal tetto del suo palazzo, ha lasciato su una pen-drive la missiva per il padre in cui motiva il tragico gesto legandolo a profondi problemi esistenziali anche di natura sessuale.”
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La Stampa (13 agosto 2013) scrive: “Nuovi sviluppi e interrogativi sulla vicenda della morte del ragazzino che alcuni giorni fa si è tolto la vita lanciandosi dal tetto del suo palazzo a Roma. Un gesto che il giovane aveva spiegato in una lettera lasciata al padre, legandolo alla sua omosessualità.”
Nel nostro Paese sembra che l’omosessualità debba restare un tabù, che non se ne possa parlare neanche dopo che qualcuno si è tolto la vita perché distrutto dal peso del minority stress, così un ragazzo di 14 anni si getta da un terrazzo e le vere motivazioni legate a questo gesto vengono considerate una “forzatura” nonostante il ragazzo abbia lasciato scritto a chiare lettere un messaggio che ha più volte modificato nel corso degli ultimi giorni prima del suicidio, prova del fatto che non si sia trattato di un atto impulsivo ma al contrario di un gesto premeditato accuratamente.
“Bisogna fare attenzione con queste etichette e definizioni.” Questa frase è già di per sé pregna di omofobia, perché vorremmo ricordare al Dott. Orlando del Don che non vi è nulla di male nell’essere omosessuali se a circondarci è una società civile ed emancipata, dove le differenze vengono considerate come una risorsa e non come una minaccia, e che non spera di cambiare ed omologare il futuro delle persone perché le accetta per quello che sono. Il male è piuttosto insito nei soggetti che stigmatizzano orientamenti sessuali diversi da quello eterosessuale rendendo devastante l’impatto con la società ed in particolare con i compagni di scuola.
Quasi tre decenni di ricerche scientifiche in questo ambito hanno dimostrato che un ambiente sociale che esclude e stigmatizza i giovani LGBT spinge molti di loro a vedere il suicidio come unica via di fuga alla depressione, alla solitudine e alla disperazione. In particolare, esperienze negative a scuola (conseguenti dalla rivelazione della propria identità LGBT) hanno avuto un impatto cruciale sul suicidio e sull’autolesionismo.
L’esperienza di bullismoè stato un fattore chiave utile a capire se l’intervistato ha tentato il suicidio, e l’omofobia da parte degli altri studenti è stato un fattore chiave utile a capire se l’intervistato ha considerato il suicidio. Il suicidio sembra essere la prima causa di morte tra i giovani omosessuali; una grande percentuale di essi ha pensato almeno una volta alla possibilità di suicidarsi.
Tutti questi dati suggeriscono che il fatto di essere omosessuali costituisca un fattore di rischio aggiuntivo alla possibilità di commettere suicidio rispetto agli adolescenti eterosessuali. Il 25% dei suicidi fra giovani europei di età compresa fra i 16 e i 25 anni è attribuibile all’omofobia, ma se fosse vero quello che leggiamo nell’articolo scritto da Del Don non potremmo spiegare come genitori che si scoprono omosessuali in età adulta non decidano di fare la stessa fine di Andrea.
Non è sentirsi omosessuali ma sentirsi esclusi, derisi, soli che crea disagio, confusione e sensi di colpa.
Non è la parola omosessuale ad uccidere ma gli atti omofobici, il mancato riconoscimento dell’altro come diverso da sé, il mancato riconoscimento della parità di diritti e bisogni che ogni adolescente, eterosessuale, omosessuale, bisessuale può manifestare.
Il cambiamento può e deve avvenire sul fronte dell’educazione, della formazione e della cultura, nel rispetto del cambiamento dei tempi, dei risultati delle ricerche scientifiche ma soprattutto dell’uguaglianza dei diritti umani, indipendentemente da etnia, status sociale, orientamento sessuale, credo religioso.
È necessario cercare di far capire ai giovani che l’eterosessualità non è un dovere imprescindibile, che esistono infiniti orientamenti sessuali che non costituiscono un’etichetta ma che creano un’individualità unica e irripetibile, che va rispettata e salvaguardata ogni giorno perché rende speciale ognuno di noi. È la società che crea quello stato di confusione e smarrimento rispetto al proprio orientamento sessuale e alla propria identità, quindi è la società che va modificata nel suo modo di vedere le persone nella loro individualità, non si può pensare neanche lontanamente di mettere in guardia tutti i giovani dal loro personale sentire, come se quello che sentono sia sbagliato “ma solo temporaneo”, solo frutto di una temporanea confusione legata alle fasi evolutive della vita. Questo non farebbe altro che alimentare il principio cardine di qualunque terapia riparativa, detta anche terapia di conversione dell’orientamento sessuale, l’effetto collaterale di una dilagante omofobia che in Italia trova ancora pane per i suoi denti perché non vi è una legge pronta a contrastarla.
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In questo commento la Dott.ssa Sassaroli giudica una “forzatura” (lo stesso termine utilizzato successivamente da Orlando del Don) considerare la crisi economica come la motivazione principale alla base del recente suicidio di molti imprenditori. La Dott.ssa scrive: “Questo è importante perché non mi piace mai dare la colpa alle cose e basta ma ragionare sugli aspetti psicologici in modo più utile che applicare tout court a una difficoltà oggettiva le categorie diagnostiche dell’ansiao della depressione senza metterci in mezzo la lettura idiosincratica che ciascun individuo costruisce della sua realtà. Occorre guardare a ciascun individuo, alle sue storie, al suo modo di reagire in modo psicologico, fine.”
Pensiamo che questo discorso non faccia una piega e potremmo sottoscriverlo in ogni suo punto, ma non è possibile estenderlo al minority stress dovuto ad un orientamento sessuale omosessuale in adolescenza, come invece si evince dall’articolo scritto dal Dott. Orlando del Don. Una crisi economica è un fattore esterno, che è fuori dalla portata di un lavoratore che viene lasciato a casa, la cassa integrazione o il licenziamento sono eventi molto spiacevoli che a volte si inseriscono all’interno di panorami psicologici già molto gravi, portando quindi al suicidio persone che si trovano già in età adulta. La crisi economica in questo caso avrebbe un effetto fatale, ma solo a titolo soggettivo.
Diversa è la questione se parliamo di omosessuali in età adolescenziale che non vedono nascere all’esterno la causa del proprio malessere, bensì all’interno, dentro di sé, come un male incurabile che abbassa i livelli di autostima e amor proprio, costituendo un macigno che pesa sulla propria identità, un peso che spesso risulta troppo grande da trascinare anche se il soggetto adolescente non proviene da una situazione pregressa di disagio psicologico o familiare.
La società non educa i genitori ad accogliere un figlio gay, come si può pensare quindi che tutti i giovani omosessuali siano in grado di accettare se stessi, di accogliere la propria attrazione omosessuale, dandosi così una possibilità per essere felici restando se stessi?
Insomma ci sembra ovvio che una persona che decide di togliersi la vita è una persona estremamente fragile e poco resiliente, così come è altrettanto ovvio che non vi sia una singola ragione alla base di una sintomatologia depressiva ma piuttosto che vi sia una vera e propria costellazione di motivazioni. Tuttavia non si può negare che in una percentuale dei casi molto alta, la vera causa scatenante che spingerebbe una persona a saltare da un terrazzo non sia mai più di una sola, mentre le altre possono considerarsi delle conseguenze della medesima.
Spesso si decide di lasciare scritta questa motivazione su un bigliettino, esattamente come ha fatto Andrea quando ha parlato di omosessualità, quindi la domanda che dovremmo fare allo psichiatra che ci ha spinto a scrivere questo articolo è: “Si può pensare di INTERPRETARE un suicidio IGNORANDO le ultime parole scelte da queste persone prima di andarsene per sempre?”.
Conclusione. L’orientamento sessuale è una componente fondante e pervasiva dell’individualità umana, non definisce il soggetto nella sua globalità ma sicuramente ne influenza aspetti importantissimi del benessere psicologico, come le relazioni interpersonali e il modo di vedere se stessi.
Per venire contro la tesi del Dott. Orlando Del Don possiamo sicuramente confermare che dietro un gesto estremo come il suicidio possano esserci diverse tipologie di disagio, ma stando alle ricerche scientifiche non si può non prendere in considerazione il peso tragico della non accettazione sociale dovuto all’omofobia.
L’impossibilità di sentirsi accolti e sostenuti per ciò che si è veramente è una spinta insormontabile verso l’autodistruzione. Quindi perché evitare la questione omosessualità per spostare il focus sull’adolescenza in generale? Perché non si parla di come la società italiana è organizzata per far fronte all’omofobia? Perché i professionisti della salute mentale non divulgano informazioni per la frammentazione di questa piaga sociale, dando indicazioni rispetto a percorsi di intervento nelle scuole ad esempio, piuttosto che negare l’impatto che oggi l’omosessualità egodistonica può avere su un soggetto adolescente?
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In Inghilterra, il progetto UK Schools Report ha riscontrato vantaggi significativi nelle scuole in cui sono stati presi provvedimenti positivi:
• in quelle che hanno avuto una specifica politica contro il bullismo omofobico, il 60% dei giovani LGB non è stato vittima di bullismo e il 70% si sentiva sicuro a scuola;
• gli studenti che andavano nelle scuole dove gli insegnanti erano reattivi agli episodi omofobici hanno sentito più di tre volte la loro scuola come un luogo accogliente e tollerante, dove si sono sentiti i benvenuti;
• il 60% degli studenti cui erano stati dati insegnamenti positivi sulle tematiche gay e lesbiche era più felice a scuola e il 40% si sentiva più rispettato.
Questi risultati sono supportati da uno studio americano, da cui risulta che i giovani LGB che avevano impressioni positive nei confronti dei loro insegnanti erano significativamente meno portati ad avere esperienze di difficoltà di ampio raggio all’interno della scuola rispetto ai loro coetanei. Ciò ha dimostrato che gli insegnanti che offrono supporto ai giovani LGB potevano aiutare a prevenire i loro problemi.
L’indifferenza e la negazione del problema nutrono l’omofobia.
“Il grande problema che non è mai stato risolto e che non sono ancora riuscito a risolvere, malgrado i miei trent’anni di ricerche sull’animo femminile è: Was will das Weib? – Cosa vuole la donna?”
È questa la domanda davanti alla quale Sigmund Freud ammette di essersi arreso, l’enigma oltre al quale non sa procedere. Tale quesito, lungi dal costituire solamente un aforisma ad effetto estrapolato dagli scritti epistolari del medico viennese, rappresenta in realtà uno scoglio che si configura quale ‘punto cieco’ del sistema psicoanalitico.
La donna rappresenta infatti un’alterità perturbante dalla quale il primo nucleo della psicoanalisi si origina (si pensi ai primi casi di isteria femminile trattati da Freud e dal collega Breuer e ai casi clinici di donne, da Dora ad Anna O., grazie ai quali il sapere psicoanalitico si plasma, al contempo mettendosi alla prova) ma la cui natura sembra rimanere territorio effettivamente inesplorabile.
Il “continente oscuro della sessualità femminile” (secondo la definizione di Freud in “Tre saggi sulla teoria sessuale”), in tutto il suo mistero perturbante e la sua inquietante perversione, è al cuore dell’ultimo film di Lars von Trier, Nymphomaniac, la cui uscita è programmata il giorno di Natale 2013.
È notizia recente (resa nota da Il Secolo XIX il 3 agosto nel seguente articolo: http://www.ilsecoloxix.it/p/cultura/2013/08/03/AP0yRO8F-nymphomaniac_forse_vedremo.shtml ) che la pellicola in Italia potrebbe non arrivare nelle sale: al momento nessuna società di distribuzione cinematografica italiana ha in programma il film di Lars von Trier, nemmeno Lucky Red e Bim, distributrici dei più recenti controversi lavori del regista danese. Il film, che uscirà in versione ‘soft’ e in versione incensurata, narra in otto capitoli la vita erotica della protagonista -ninfomane, secondo la definizione del personaggio stesso- dall’adolescenza all’età di cinquanta anni.
La possibile assenza di questo racconto sui nostri schermi è metafora di un paese che di donne parla continuamente e che donne mostra senza tregua ma che sfodera censure e resistenze di fronte alla nudità del desiderio femminile in tutta la sua scandalosa essenza ed alterità.
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La protagonista di von Trier, donna che decide di confessare la propria vita erotica ad un ascoltatore maschile secondo un paradigma prettamente analitico, potrebbe (per ora abbiamo solo qualche anticipazione e trailer) pericolosamente ribellarsi alla narrazione dominante secondo la quale il desiderio femminile non fa scandalo laddove sia inquadrato –e normalizzato- secondo la logica dello sguardo maschile (desidero specificare che quando parlo di desiderio, utilizzo i termini ‘maschile’ e ‘femminile’ in senso non meramente biologico. Mi riferisco piuttosto a ‘modelli di desiderio’ caratterizzati da modalità desideranti ‘maschile’ e ‘femminile’, che possono essere propri di uno e dell’altro sesso indifferentemente. Secondo la teorizzazione di Jacques Lacan, infatti, al di là del dato biologico, il desiderio segue un percorso di ‘sessuazione’ per cui si diventa uomini o donne al di là della propria appartenenza anatomica ad un sesso).
Se, come afferma il filosofo contemporaneo Slavoj Žižek nel suo documentario psicoanalitico sul cinema “The Pervert’s Guide to Cinema”, il cinema è l’arte più perversa perché non offre ciò che si desidera ma piuttosto comunica allo spettatore ‘come’ desiderare, Nymphomaniac potrebbe incrinare la spesso domesticata (dunque presunta) libertà sessuale della donna. La donna non scandalizza quando desidera come un uomo, conformandosi ai suoi archetipi di desiderio e rendendo la propria ricerca del piacere l’ombra mimetica di quello maschile. Annullando la sua alterità perturbante in nome di un modello di liberazione sessuale la cui essenza è soprattutto fallica, la donna è ridotta a volere ciò che vuole l’uomo, così che la carica perturbante sia incanalata in una gratificante, e tranquillizzante, somiglianza erotica.
Per quanto si potrebbe obiettare che la ninfomania della protagonista, se inquadrata come eccitante perversione, rischia di appiattirsi su un dongiovannismo al femminile, ciò che probabilmente più turba è il rischio che la ninfomania della protagonista incarni invece, metaforicamente, l’eccedenza del desiderio femminile, il suo porsi oltre la logica di soddisfacimento oggettuale.
Se la vertigine del desiderio di Don Giovanni è quella seriale e oggettuale, il ‘plus’ di desiderio della donna si delinea secondo un paradigma anarchico e rizomatico, che flirta con la natura illimitata del desiderio stesso: una forza (quella stessa medicalizzata nei casi di isteria delle donne di inizio Novecento) impossibile a delimitarsi in termini organici ed orgasmici.
Si può dunque supporre che la ‘nymphomaniac’ del regista danese perturba il panorama cinematografico non tanto per il contenuto pornografico esplicito del film, quanto per il fantasma maschilista implicito che la pellicola potrebbe mettere in crisi. La ‘buona infinità’ del desiderio femminile è ridotta spesso ad una subdola deprecazione da parte di un mascolino incapace di fronteggiare l’enigma del desiderio femminile –acefalo e slegato dalla logica pulsionale- per cui il tentativo è quello di castrare il “fuori-norma” e lo “sconfinato” del godimento della donna (Recalcati, 2012, p. 469).
Al momento non è naturalmente possibile sapere se la narrazione di Lars von Trier sia stata realmente capace di raccontare, capitolo per capitolo, la “visceralità indicibile” del desiderio femminile; allo stesso modo, almeno fino all’uscita della versione originale, è lecito domandarsi se la macchina da presa sia stata davvero in grado di mostrare l’eccedenza di un godimento altro, senza ridursi ad ‘inquadrarlo’.
Perverso o scandaloso, riuscito o meno, c’è però una cosa che non si può aspettare a chiedere: che la censura non privi il cinema italiano del dibattito sul desiderio femminile nel modo più subdolo, con un’assoluta -e silenziosa- rimozione.
Storie di Terapie: Anche i Cognitivisti hanno un cuore – Psicoterapia
Anche i cognitivisti hanno un cuore. In queste storie di terapie, utilizzabili nella formazione, si mostrano le importanti dinamiche emotive che concorrono a determinare l’esito della terapia. La grande tradizione dei proverbiali casi clinici descritti dagli psicoanalisti è qui ripresa in ambito cognitivista, spesso considerato disattento alla relazione terapeutica e alle emozioni.
Le storie di terapie raccontate in questo libro si distribuiscono lungo tutto l’arco delle diagnosi categoriali e soprattutto sono situazioni miste, perché i pazienti si ostinano a non studiare il DSM IV per collocarsi correttamente nelle sue categorie e a presentarsi come persone sofferenti, con mille acciacchi diversi sovrapposti.
In queste situazioni ci sono di scarso aiuto i protocolli clinici; si tratta, per ciascun caso, di identificare quali siano i meccanismi con cui la persona si autoinfligge sofferenza e, dopo averli smascherati, provare a modificarli costruendo alternative.
Ho cercato di raccontare il paziente, quello che è avvenuto tra noi in terapia e come sono andate le cose, insuccessi e errori compresi; transfert e controtransfert, o come si voglia chiamare quel miscuglio di sentimenti che coinvolge paziente e terapeuta.
Lo scopo è fornire un modello del procedere clinico che utilizza strategie di provata efficacia, ma si plasma di volta in volta sulle specificità del paziente. Le storie sono utilizzabili nella formazione, per avere casi di cui discutere, o in privato per tirarsi su il morale considerando gli errori che anche terapeuti stagionati commettono.
Roberto Lorenzini, psichiatra, psicoterapeuta. Didatta della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva.
Docente delle Scuole di Specializzazione post-universitaria “Studi Cognitivi” di Milano, “APC” di Roma e Humanitas –
LUMSA di Roma.
È stato direttore del Dipartimento di Salute Mentale dell’Azienda Sanitaria Locale di Viterbo. Autore di numerose pubblicazioni. Nelle nostre edizioni ha pubblicato:
Una recente ricerca messa a punto dal Massachusetts General Hospital e della Harvard Medical School ha rivelato che non esiste una relazione diretta tra il tipo di personalità e la risposta positiva all’ Effetto Placebo, ma che occorre considerare una serie di diversi fattori.
Le risposte positive ai trattamenti placebo non dipendono dal profilo di personalità del soggetto, bensì sono il risultato di un insieme di elementi tra cui il tipo di terapia, il contesto e il carattere della persona.
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Una recente ricerca messa a punto dal Massachusetts General Hospital e della Harvard Medical School ha rivelato che non esiste una relazione diretta tra il tipo di personalità e la risposta positiva al placebo, ma che occorre considerare una serie di diversi fattori.In questo studio Jian Kong e colleghi si sono serviti di due sessioni sperimentali al fine di valutare gli effetti analgesici dell’agopuntura, della simulazione di un trattamento con l’agopuntura e di una pillola placebo nella sensibilità al dolore su un gruppo di soggetti sani.
Inizialmente, i ricercatori posizionarono un elettrodo caldo sull’avambraccio di ogni soggetto sia prima che dopo ognuna delle tre condizioni sperimentali, quella con il trattamento analgesico, autentico o simulato. Venne registrato, quindi, il momento in cui la temperatura dell’elettrodo diventava insopportabile per il soggetto.
Dopo due settimana da questa prima fase dello studio, i ricercatori utilizzarono una sessione sperimentale in cui i soggetti furono sottoposti ad una prova in cui venne monitorato il loro livello di attivazione dei circuiti cerebrali del dolore.
In realtà, la risonanza magnetica mostrata ai soggetti non mostrava davvero indici di attivazione cerebrale, bensì riproduceva valori in modo casuale. Questa sessione sperimentale aveva lo scopo di stimare l’effetto placebo tramite tecniche di suggestione e condizionamento attraverso stimoli visivi.
I risultati mostrano che non vi è una relazione diretta tra i diversi partecipanti e la risposta ai trattamenti in grado di spiegare che l’effetto placebo dipenda da uno specifico assetto di personalità. I soggetti, infatti, risposero in maniera diversa ai vari metodi placebo, confermando come la risposta non dipenda esclusivamente dal carattere della persona, ma invece vari in relazione a fattori contestuali e ambientali, coinvolgendo così tratti personali e situazionali.
Al variare del trattamento placebo varia anche la risposta del soggetto. Dai risultati emerge, inoltre, una relazione tra l’aspettativa di successo di un determinato trattamento e il dolore percepito in relazione allo stimolo. Nel complesso, questi risultati evidenziano che al variare della terapia variano anche gli effetti del trattamento placebo, il cui esito sembra essere legato ad aspetti non esclusivamente relativi alla personalità del soggetto.
Alzheimer: il ruolo del rame nella formazione delle placche nel sistema nervoso.
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
“È chiaro che, con il tempo, l’effetto cumulativo del rame è quello di danneggiare i sistemi cerebrali dai quali non può essere rimossa la proteina beta-amiloide”, ha spiegato Rashid Deane, ricercatore del Dipartimento di Neurochirurgia dello University of Rochester Medical Center (URMC) che ha coordinato lo studio. “Occorre però cautela nel valutare questi risultati perché il rame non è un elemento fondamentale per molti processi fisiologici e l’esposizione utilizzata nella ricerca è equivalente a quella consumata da molti cittadini con la normale dieta”.
L’esposizione a limitate concentrazioni di rame è in grado di alterare la funzionalità della proteina LRP1, cruciale per lo smaltimento della proteina beta-amiloide che forma le placche caratteristiche della malattia di Alzheimer. Lo afferma un nuovo studio che presenta la prima prova sperimentale di un coinvolgimento del metallo nell\’insorgenza della patologia (…)
A causa dell’alto carico assistenziale, la demenza comporta una ricaduta psicologica importante sul caregiver, le cui emozioni possono essere percepite dal paziente
"Sostenere chi sostiene" presenta i principali disturbi neurocognitivi, il profilo del caregiver di una persona con demenza e le conseguenze di tale impegno
L’anosognosia, cioè la mancata consapevolezza di malattia, e la metacognizione, cioè il monitoraggio e la regolazione dei processi cognitivi, sono correlate
Le terapie non farmacologiche sono un'interessante strategia di cura complementare per dolore e disturbi dell'umore nei pazienti con malattia di Alzheimer
L'irisina, un ormone scoperto recentemente prodotto dall’organismo durante l’attività muscolare, sembra avere effetti protettivi nella malattia di Alzheimer
La gestione dell'Alzheimer per il malato e la sua famiglia è difficile. Quali sono le novità su diagnosi e cura? Quale ruolo può ricoprire lo psicologo?
Bier e colleghi hanno confrontato diverse tecniche di memory training per l’apprendimento dell’associazione volto-nome in pazienti con Demenza di Alzheimer
Fin dai primi stadi della malattia di Alzheimer inizia un progressivo deterioramento del linguaggio utile per distinguerla da mutamenti attribuibili all’età
Nella demenza il pasto è un’attività complessa che, se non adeguatamente supportata, può far sperimentare all'anziano un senso di fallimento e inadeguatezza
Individui NDAN avrebbero la capacità di attivare una risposta cerebrale antiossidante efficace al punto da far fronte alla neurodegenerazione dell’Alzheimer
Le persone con demenza sono spesso oggetto di stigma e, insieme alle loro famiglie, interiorizzano le rappresentazioni negative che vengono loro attribuite
Le terapie contro l'Alzheimer iniziano troppo tardi. Il declino cognitivo soggettivo potrebbe essere un indicatore del rischio di sviluppare la malattia.
Non perdere il ciclo di incontri "Sostegno per malati, famiglie e caregiver di patologie neurovegetative" da martedì 7 luglio online.
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«L’ indice di massa corporea va in pensione»
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
L’indice di massa corporea viene mandato in pensione, così sembrerebbe dopo che alcuni studi americani mettono in dubbio la sua reale efficacia e validità.
Da questi studi infatti sembrerebbe che non sia sufficiente il valore di BMI a considerare una persona in “salute” a livello di peso.
Lo studio stravolge i parametri sostenendo che ci possono essere persone con un BMI alto, da considerarsi in sovrappeso, più in salute di persone con BMI basso/nella norma, quindi come persone in sovrappeso potrebbero avere una prospettiva di vita più lunga. Tutto il contrario di quello che si sosteneva prima! il motivo? che il BMI è troppo riduttivo come solo indice al quale affidarsi! Viene suggerito un nuovo indice, molto più complesso che tiene conto anche di parametri metabolici, della misura della vita, della disposizione del grasso…etc.. Ma veramente necessitiamo di un nuovo strumento dopo 200 anni che usiamo questo quando in realtà basterebbe un integrazione di parametri a cui tendenzialmente qualsiasi esperto del settore fa riferimento?
Anche chi ha un indice normale, sottolineano gli autori, non può stare tranquillo, perché in realtà un Bmi basso può nascondere uno status nutrizionale povero, in cui il corpo non riesce a metabolizzare correttamente alcune sostanze.
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Spazio Psicologia ai Macchianera Awards 2013
Laura Duranti.
Ho ideato Spazio Psicologia nel 2005, quando ero da poco entrata in specializzazione a Studi Cognitivi. con la finalità di ricreare in rete uno spazio supervisionato di contenuti, utile per favorire una cultura sana e corretta della psicologia e di ciò che ad essa è correlato.
Il progetto era partito come un blog personale, fondato sulla mia esperienza di psicologa, psicoterapeuta e sessuologa e sugli argomenti a me più cari, ma via via nel tempo, si è strutturato sempre di più, fino ad aprirsi ai contributi di giovani colleghi, che sono divenuti collaboratori fissi, contribuendo allo sviluppo di un progetto comune di informazione psicologica.
Nei nostri progetti non c’era però certo quello di concorrere ad un premio.
Con nostra grande sorpresa, abbiamo scoperto il 23 agosto 2013 che tra le più di 140.000 persone che hanno votato, tra tutti i blog italiani, le candidature al Macchianera Italian Awards 2013, una buona parte ha segnalato “Spazio Psicologia” per la sezione Educational, facendoci così entrare di diritto tra i 10 concorrenti in gara per la finale.
Non possiamo che esserne contenti e ritenere questo il miglior risultato possibile per un blog che si sostiene solo grazie all’impegno di tutti i suoi 11 collaboratori, senza alcuna sponsorizzazione e che si è ritrovato in gara con “Big” del calibro, tanto per citarne alcuni, di Focus, National Geographic, Rai Educational e Wikipedia Italia.
Siamo l’unico blog di psicologia e peraltro l’unico senza alcuno sponsor, a concorrere per questa categoria e, dovendo competere con i Big di cui sopra, abbiamo bisogno di tutto l’aiuto possibile. Dunque chiediamo a tutti i colleghi, futuri colleghi e appassionati di psicologia di votarci e condividere questo appello, il più possibile.
E’ possibile votare fino a giovedì 19 settembre 2013, dopodiché i risultati saranno messi al sicuro fino alla cerimonia di premiazione, che si terrà presso il Teatro Ermete Novelli di Rimini (Via Cappellini 3 – 47921 – Rimini), nel corso della BlogFest, la sera del 21 settembre 2013 alle ore 21, alla quale in ogni caso presenzieremo.
L’evento riunisce, ogni anno, tutto ciò che in Italia gravita attorno alle community della rete, che abbiano origine dai blog, da Facebook, da Twitter, dalle chat e dai forum e da qualsiasi altra forma sociale di comunicazione.
Perché la scheda sia ritenuta valida è necessario votare per almeno 10 categorie a scelta.
Ci auguriamo, con molta umiltà, di poter rappresentare la psicologia al meglio, fieri della passione che ci contraddistingue per l’informazione e la buona cultura psicologica, che crediamo appartenga alla gran parte della nostra categoria e speriamo nel supporto di chi ama la psicologia quanto e più di noi e vorrebbe che una buona cultura psicologica rivestisse nei media, in primis su internet, il ruolo che merita.
Il film racconta una concezione nuova di approcciarsi alla malattia mentale, si prende il compito di raccontare una visione che pone al centro del progetto terapeutico-riabilitativo il malato con le sue risorse e capacità, soggetto di diritti, con potenzialità che vanno sviluppate allo scopo di reinserire nella società a pieno titolo quelle persone che erano state recluse, isolate e rese marginali dal manicomio.
Info
Diretto da Giulio Manfredonia, con Claudio Bisio, Anita Caprioli, Giuseppe Battiston, Giorgio Colangeli, Bebo Storti. Commedia. Italia 2008.
Trama
Ispirato a storie vere delle cooperative sociali nate per dare lavoro ai pazienti dimessi dal manicomio in seguito all’approvazione della Legge Basaglia.
Nello è un sindacalista ritenuto scomodo. È allontanato dal sindacato e relegato al ruolo di direttore della Cooperativa 180, un’associazione di malati di mente impegnati in attività assistenziali. Il sindacalista venuto a contatto con i suoi nuovi “collaboratori” resta in una prima fase un po’ sbigottito, poi si rimbocca le maniche e andando contro lo scetticismo dello psichiatra che ha in cura i malati cerca di valorizzare le risorse e le potenzialità di ognuno di loro. La cooperativa riuscirà a inserirsi con successo nel mercato con attività produttive innovative.
“La follia è una condizione umana. In noi la follia esiste ed è presente come lo è la ragione. Il problema è che la società, per dirsi civile, dovrebbe accettare tanto la ragione quanto la follia, invece incarica una scienza, la psichiatria, di tradurre la follia in malattia allo scopo di eliminarla”. Questa era l’ispirazione di Basaglia che portò all’approvazione della legge 180/78.
I manicomi, prima dell’approvazione di questa legge, erano spazi di contenimento fisico dove venivano utilizzati metodi sperimentali di ogni tipo che calpestavano la dignità umana dei malati. Il film racconta una concezione nuova di approcciarsi alla malattia mentale, si prende il compito di raccontare una visione che pone al centro del progetto terapeutico-riabilitativo il malato con le sue risorse e capacità, soggetto di diritti, con potenzialità che vanno sviluppate allo scopo di reinserire nella società a pieno titolo quelle persone che erano state recluse, isolate e rese marginali dal manicomio.
La narrazione evidenzia gli aspetti positivi senza enfatizzarli e li affianca alle criticità dovute ad una società ancora largamente impreparata ad accogliere una rivoluzione culturale di tale portata e alle difficoltà di una comunità scientifica impreparata e riluttante ad aprirsi alle trasformazioni che mettono in crisi professionalità sclerotizzate.
Nello coinvolge i malati, li fa partecipare alle decisioni, li impegna, valorizzando le capacità di ognuno. I malati rispondono con impegno e responsabilità, la cooperativa ottiene appalti. Il trattamento farmacologico viene diminuito, nonostante le resistenze del Dottor Del Vecchio. Tutto sembra procedere per il meglio, ma si manifesta all’improvviso l’impossibilità di un recupero pieno quando Gigio innamoratosi di Caterina, prima illuso e poi rifiutato da lei, si suicida.
Tutto sembra crollare, il prezzo pagato per l’eccessivo entusiasmo è alto. È un avvertimento alla cautela e alla prudenza che non può bloccare però il nuovo che avanza. Persino il dottor Del Vecchio si rende conto dei miglioramenti dei pazienti e sollecita Nello a riprendere il suo lavoro. Il film si chiude con l’arrivo di nuovi soci da altri manicomi e con la preparazione di pannelli da montare alla metropolitana di Parigi.
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Il lavoro continua ad essere svolto da migliaia di operatori della salute mentale, con l’aiuto di farmaci, di tecniche psicoterapeutiche e riabilitative sempre più efficaci e validate scientificamente, e con una visione della malattia e dell’intervento che deve molto alla rivoluzione di Basaglia.
Indicazioni per l’utilizzo
Si può utilizzare il film per un proficuo lavoro con i malati e le loro famiglie, tenendo conto della possibile identificazione, soprattutto dei pazienti gravi, con alcune situazioni proposte (suicidio).
Il lavoro psicoeducativo rappresenta un momento importante da svolgere anche con l’intera comunità locale per creare le condizioni migliori di inclusione dei malati.
Giovanni Maria Ruggiero racconta, in un’intervista di Luca Mazzucchelli (psicologo, psicoterapeuta sistemico-relazionale) , la Psicoterapia Cognitiva-Comportamentale dalle origini ad oggi, da Ellis e Beck alla “Terza Ondata”, illustrandone il passaggio di prospettiva: dall’idea di poter cambiare le proprie emozioni negative grazie all’elaborazione di pensieri più funzionali, a quella di accettare quelle emozioni.
Ci spiega in cosa consiste la Psicoterapia Cognitiva-Comportamentale, quali sono i principi cardine e le tecniche che un terapeuta cognitivo-comportamentale deve conoscere, con particolare riferimento al disputing (diverso a seconda che si segua l’approccio di Ellis o Beck) e al laddering.
Chiarisce le carratterische della relazione terapeutica secondo la Psicoterapia Congitivo-Comportamentale, quindi una relazione collaborativa in cui il paziente partecipa attivamente anche lavorando a casa con i compiti che il terapeuta assegna.
Non solo, consiglia testi per approfondire l’argomento e delinea le caratteristichedi un terapeuta che sceglie questo orientamento.
APA 2013 – Il congresso annuale della American Psychological Association
APA 2013
American Psychological Association
Honolulu, Hawai
Inizia giovedì 1 agosto a Honolulu il congresso annuale dell’APA (American Psychological Association).
Sbirciando la pagina web del congresso, le dimensioni dell’evento appaiono mastodontiche: circa 1300 sessioni. Naturalmente, riuscirò a descrivere direttamente un numero minimo di eventi. Per ottenere una visione d’insieme do, mentre sono in viaggio, una scorsa preliminare al programma e, in particolare, alle plenary session, che trovate elencate qui.
In cima alla lista troviamo una presentazione sulle dipendenze, le addiction. Il taglio è sia di sensibilizzazione culturale che scientifico. Lo speaker è, almeno in USA, una personalità nota e influente: David Sheff, giornalista, autore di libri e apparso nel 2009 nella lista stilata ogni anno dal Time delle persone più influenti in USA. Sheff è diventato famoso con un libro che racconta la tragedia di suo figlio, tossicodipendente: Beautiful Boy: A Father’s Journey Through His Son’s Addiction. Nella sua presentazione Sheff parlerà anche di dati scientifici, spiegando come la prevenzione più efficace sottolinea la condizione di malato e non di colpevole del tossicodipendente.
La seconda plenaria si annuncia intrigante e divertente: Stanley Coren, professore emerito in Psicologia alla University of British Columbia, parlerà di intelligenza canina: le straordinarie abilità cognitive, emotive e relazionali dei cani. Prevedo un uditorio affollato, entusiasta e attento.
Seguono due plenarie, condotte da Rhonda McEwen e Ben Foss, dedicate all’uso delle tecnologie informatiche e di social network applicate alle terapie psicologiche delle disabilità cognitive. Mary Crawford invece parlerà di possibili attività preventive di tipo psicologico sulla piaga mondiale dello sfruttamento sessuale e del suo gemello, il turismo sessuale. Margarita Alegría e David T. Takeuchi si occuperanno della persistente difficoltà che incontrano alcuni gruppi etnici di immigrati in USA ad accedere ai servizi psicologici e psichiatrici, sia per limiti culturali che per ostacoli di tipo economico. Tema importante anche per noi in Europa. Craig Haney parlerà del rapporto tra psicologia e giurisprudenza negli Stati Uniti. Camilla P. Benbow e David Lubinski presenteranno alcuni dati su come si sviluppa la vita dei ragazzi e delle ragazze con doti intellettuali superiori. John Horgan racconterà i percorsi psicologici di disimpegno dal terrorismo, mentre Janet K. Swim propone riflessioni sulla minore attenzione data da qualche anno ai problemi climatici.
Seguono alcune presentazioni di taglio più scientifico, a cui spero di partecipare. Read Montague riferirà lo stato dell’arte su un eterno problema della psicologia: in che misura le facoltà cognitive sono espressione dei geni? Anche Paul J. Zak si dedicherà all’interfaccia tra cervello e mente e parlerà di un tema molto intrigante: l’ossitocina è davvero il neurostrasmettitore che incentiva le capacità metacognitive e di mentalizzazione?
Infine con Linda Chang si torna a temi sociali: racconterà di come si danneggia il cervello di chi è precocemente esposto alle sostanze stupefacenti.
Insomma, molte sembrano essere le sessioni dedicate a temi sociali scottanti: tossicodipendenza, sfruttamento sessuale, terrorismo. Non è un congresso di aggiornamento scientifico, semmai di focalizzazione sulle ricadute pratiche e sociali del lavoro psicologico.
Researchers suggest that the involvement of relatives in the process of care and information about illness are the satisfaction domains where the mental health services in most sites show the worst performance.
Satisfaction with services has been given increasing attention in mental health services research, as it represents a key component of patients’ access and retention.
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Service satisfaction can be seen as the combined result of (1) the ability of the service to provide a standard of care above a certain quality threshold (e.g., in professional competence, or the availability of specific interventions, or the physical characteristics of the treatment setting), and (2) the perception of the patient that the care received has been tailored to his or her own problems.
A cross sectional study (Ruggieri 2003) that involved five European sites (Amsterdam, Copenhagen, London, Santander and Verona) have shown that:
1- users’ characteristics (such as psychopathology or global functioning) have a weak association with service satisfaction,
2- service characteristics (such as involvement of relatives in care and information about illness) play a major role in service satisfaction in all countries.
Specifically, patients consider relatives’ involvement in the process of care as one of the most important dimensions when evaluating service satisfaction and that the majority of patients are in favor of sharing information between relatives and professionals. This process demands a closer collaboration between mental health professionals and family members.
Recently, some authors (Perreault et al. 2012) have investigated relatives’ satisfaction about mental services. Results highlighted that dissatisfied caregivers referred a lack of contact, information, communication and partnership with health care professionals. Generally, caregivers reported higher satisfaction with services when they perceived a greater collaboration between themselves and the professionals caring for their relative.
In conclusion, researchers suggest that the involvement of relatives in the process of care and information about illness are the satisfaction domains where the mental health services in most sites show the worst performance.
Data demonstrate the importance of obtaining a better understanding of patients’ and caregivers’ satisfaction with services in order to increase their involvement in community integration.
Il disprezzo per le persone grasse le rende solo più grasse (e tristi).
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Due ricercatori della Florida State University College of Medicine hanno indagato scientificamente lo stereotipo culturale riguardo alle persone sovrappeso o con problemi di obesità:
Queste infatti vengono comunemente percepite come pigre, prive di forza di volontà e incapaci di raggiungere obiettivi. Da questo deriva un atteggiamento discriminante spesso motivato dalla credenza che “trattarli male, è per il loro bene, per spronarli a fare meglio“. A quanto risulta dai risultati di un’estensiva ricerca durata 4 anni, non c’è niente di più falso (oltre che crudele).
Le persone vittime di discriminazione per via del loro peso, tendono invece a peggiorare le loro condizioni di forma, in un circolo vizioso che si porta dietro perdita di autostima, emotional eating e sintomi depressivi.
Sutin’s study, published in the latest issue of the online journal PLOS One, wasn’t designed to get at why weight discrimination led many fat people to pack on even more pounds. But other research suggests that increased rates of depression, emotional eating and low-self esteem likely play a role. So does increased stress (and the associated hormonal surges that can trigger even more hunger and eating), as well as the avoidance of exercise.
“If someone’s mean to you at the gym because of your weight or acts like you don’t belong there,” Sutin says, “you’re less likely to go back.”
Some people rationalize that it’s all right to shame or blame someone who’s overweight because it will motivate the victim to lose pounds. News for the slim and smug: It doesn’t work, and it’s not OK. (…)
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Fantasticare ad occhi aperti…che stress!!
A chiunque sarà capitato di trovarsi “con la testa tra le nuvole” o “a sognare ad occhi aperti”. Il fantasticare è un’attività piacevole e comune alla maggior parte di noi; si fantastica su persone, eventi, situazioni più o meno complesse; quando si torna alla vita reale, il gusto delle fantasie permane per un istante a mezz’aria, e poi svanisce.
Daniela Beltrami, Irene Desimoni, Vania Galletti
In alcuni casi, però, il fantasticare è così coinvolgente da ingabbiare il soggetto in una rete dalla quale non può e forse non desidera uscire. Qui si insinua il bisogno compulsivo di rituffarsi appena possibile nella fantasia ed allontanarsi sempre più dal mondo reale.
Somer (2002) ha descritto questa condizione Maladaptive Daydreaming come una ricca produzione di fantasticherie che diventa disfunzionale nel momento in cui interferisce con il funzionamento sociale, lavorativo e scolastico.
Eccesso nel fantasticare: Compulsive Fantasy
Più recentemente, Bigelsen e Schupak (2011) hanno proposto una definizione più precisa del problema affibbiandogli il suggestivo Compulsive Fantasy e delineandone le principali caratteristiche. Gli autori hanno studiato 90 soggetti provenienti da varie parti del mondo, autocandidatisi online come “fantasticatori eccessivi”. Ai volontari è stato somministrato il “Questionnaire on Excessive Daydreaming” finalizzato a cogliere somiglianze e differenze tra le fantasticherie dei partecipanti.
Dai risultati emergono alcuni dati interessanti: innanzitutto, la struttura delle fantasie è notevolmente articolata, spesso connotata da trama e personaggi (ispirati alla vita privata del soggetto o a film, libri, ecc.) ed emotivamente intensa; i soggetti fantasticano per diverse ore al giorno (da 1 a 10) e hanno iniziato a farlo precocemente; la maggior parte di loro riferisce la frequente compresenza di attività motoria (passeggiare, dondolare, sussurrare, ecc.), maggiormente controllabile del fantasticare in sé, soprattutto in presenza di osservatori.
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I “fantasticatori“, infatti, condividono il tentativo di celare queste attività ad amici e familiari, finendo per provare isolamento e vergogna. Tali fonti di disagio sono ulteriormente inasprite dalla necessità di accantonare la vita reale per dare spazio a quella fantastica. A differenza dei “normo-sognatori”, essi percepiscono il bisogno impellente di ritornare nel mondo fantastico appena vengono “risvegliati” da quello reale, per poter continuare il processo di creazione. Si tratta di un vero e proprio craving in cui la sostanza è del tutto immaginaria.
Origini del fantasticare compulsivo
Le origini della Compulsive Fantasy sono poco chiare: accantonata l’ipotesi di una reazione ad un precedente trauma (nonostante il 27% sostenga di esserne stato vittima nella propria vita) e di una mancata discriminazione tra fantasia e realtà (il 98% riferisce di non avere problemi a distinguerle) (Bigelsen e Schupak, 2011), potrebbe trattarsi di una modalità di coping che consente al soggetto di allontanarsi dalla ruvidità o dalla noia della vita quotidiana alla ricerca di tranquillità, felicità o eccitazione (immaginando se stesso come una persona più attraente e ricca di relazioni significative; rivivendo la presenza di una persona cara che è deceduta; pensando ripetutamente di avere una malattia grave per sentirsi amato e curato; ecc.).
I trigger che innescano il fantasticare compulsivo
Similmente a quanto avviene nel Desire Thinking (Caselli e Spada, 2010), il fantasticare può essere condizionato da triggers di duplice natura: stimoli esterni (musica, libri, ecc.) o stati d’animo ed emozioni (noia, rabbia, stress, frustrazione, eccitazione, ecc.); tuttavia, nel caso della Compulsive Fantasy, potrebbe essere più interessante domandarsi cosa è in grado di sospenderla più che scatenarla, poiché pare che le fantasie si attivino automaticamente in un momento di scarso coinvolgimento cognitivo (durante compiti che non richiedono elevato monitoraggio) e vengano bloccate nell’istante in cui il soggetto è stimolato da un’attività interessante. Nonostante l’accesso automatico, la produzione di fantasie non è né inconsapevole né priva di sforzi; ad una prima fase di difficile controllo del bisogno di creare, ne segue una di elaborazione consapevole della fantasia (similmente a quanto descritto in merito alla Elaboration Intrusion Theory of Desire; Kavanagh et al., 2005).
Mind wandering vs compulsive fantasy
A differenza del Mind Wandering (Smallwood e Schooler, 2006), non vi è una vera e propria impossibilità di portare a termine compiti più o meno complessi della vita quotidiana; la maggior parte dei soggetti fantasticatori riporta di non avere rilevanti problemi di interazione sociale, tuttavia riferisce di preferire il mondo irreale e, per questo, di non percepirsi mai completamente presente nelle attività di quello reale. Il disagio maggiore è, infatti, quello provocato dal senso di colpa dovuto al fatto di “rubare” tempo alle persone vere per dedicarne a quelle irreali.
Fantasticare ed eccesso nel fantasticare: conclusioni
Infine, l’attività del fantasticare sembrerebbe essere correlata a creatività ed empatia; il 71% dei soggetti riferisce di avere un talento artistico (musica, pittura, disegno, scrittura) e riuscire ad immedesimarsi nelle vesti altrui.
In conclusione, fantasticare e l’utilizzo della fantasia possono aiutare a risolvere problemi, possono stimolare la creatività ed ispirare opere d’arte e scienza, ma, quando diventano compulsivi, le conseguenze possono essere estremamente dannose (Glausiusz; 2011).
Mental illness is a major global health burdenwith substantial societal and economic consequences. In developed countries, around 66% of people with mental disorders do not receive treatment, but in developing countries this figure reaches 90% .
“I lost my job as an electrician after 30 years of work . . . my wife divorced me. I was too young to take my state pension and too old for anyone to think about employing me.”
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Living in poverty and with no job, M. from western Romania says he was so desperate he decided to take his own life. By fortunate accident, his suicide attempt failed and he says he no longer contemplates killing himself. But he is just one of hundreds of thousands of Romanians in the same position. And whereas he has found the strength to carry on with his life, many others will not.
Mental illness is a major global health burdenwith substantial societal and economic consequences. In developed countries, around 66% of people with mental disorders do not receive treatment, but in developing countries this figure reaches 90% .(WHO, 2001a).
In Europe, after cardiovascular illness, mental disorders account for the second-highest burden of disease.This is particularly the case in the countries in economic and social transition after the communism. Following the collapse of communism, regions in eastern Europe experienced increased mental illness and high suicide rates along with widened socioeconomic inequalities, high mortality from alcohol and tobacco-related diseases, rapidly rising HIV incidence and declines in life expectancy (WHO, 2001a).
The WHO Global Burden of Disease study – which used limited data from the Russian Federation – estimated unipolar depression to account for 4% of the country’s total burden of disease in 2002 (WHO, 2001b).
Psychiatrists in Romania warn that the government is underestimating the extent of psychiatric problems in the country after figures showed cases of depression have doubled and the suicide rate has risen 7% since the fall of communism.
“The transition from communism has caused changes in the pathology of psychiatric illness in Romania”, says Florin Tudose, head of the psychiatric department at one of the largest hospitals in Romania, the University Hospital in Bucharest. “I conducted a study in 1995 to see if there was any change compared to the year 1990. The conclusion was very clear: affective disorders and depression were the top psychiatric diseases in 1995 while in 1990 they were only in fourth place.” These diseases predominantly occurred between the ages of 40 and 55 years, representing exactly that segment of the population which was too old for adaptation [to the new capitalist system]. “These people had been dependent on someone else for their existence, namely the communist state, and when the source of their dependence disappeared, it was replaced by illness and depression.”
The isolation of psychiatry during communism times and limited funding of mental health services severely curtailed access to new evidence.Consequently, most practitioners lack the knowledge and skills required to deliver a range of effective medical and psychosocial treatments necessary for community-based care. Tudose says. “At the very least mental health should be made a top health-care priority. This would bring a big change and while there are so many things that need dealing with a clear signal is important.”
In uno studio cross-culturale pubblicato da poco su Cognitive Neuroscience i ricercatori si sono avventurati nel complesso mondo della consapevolezza corporea introcettiva chiedendosi se vi fossero differenze culturali in tali processi psicologici.
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Ai soggetti sperimentali è stato richiesto di tenere il conto dei propri battiti cardiaci ascoltando il proprio corpo per circa un minuto – una misura che tecnicamente è nota come consapevolezza introcettiva. Il conteggio soggettivo dei partecipanti è stato poi confrontato con una registrazione oggettiva del battito cardiaco. Il campione era composto da 20 individui occidentali e da 20 individui asiatici che hanno completato il compito sia mentre guardavano una fotografia del proprio volto, sia una foto del volto di uno sconosciuto, sia guardando lo schermo di un computer spento.
Il principale dato emerso è che i soggetti occidentali nella condizione in cui guardavano il proprio volto presentavano una maggiore accuratezza nel conteggio del proprio battito cardiaco rispetto alla condizione neutra (in cui fissavano lo schermo del pc). Eppure, tale differenza tra le due condizioni non è stata riscontrata nei soggetti asiatici.
I ricercatori hanno ipotizzato che la vista del proprio viso innesca diverse associazioni per gli occidentali e gli asiatici.
Per le persone occidentali vedere la propria faccia attiverebbe una prospettiva del sé individualista che favorirebbe l’elaborazione di altre informazioni di auto-correlate, compresi i segnali interni del proprio corpo.
Al contrario, per gli asiatici sarebbe più saliente una prospettiva collettivista – di concettualizzazione del sé dal punto di vista collettivistico e sociale che non favorirebbe la focalizzazione su segnali fisiologici strettamente e necessariamente “individuali”.
Questo studio è il primo a esaminare le differenze cross-culturali nell’interazione tra stimoli visivi sovraliminari e consapevolezza introcettiva del proprio corpo.
Depression or just sadness? Mental Health Literacy among young adolescents
Elena Mannelli, Chiara Caruso, Francesca Martino, Michela Muggeo.
Depression or just sadness?
A study of Mental Health Literacy among young adolescents
Neuropsychiatric disorders account for almost 50% of the disease burden in adolescents and young adults (Gore, et all., 2011), and only about half of those children and adolescents that are affected seek professional treatments (Merikangas et all., 2010).
Among many mental health problems, adolescent depression is arguably the most concerning.
Lewinsohn et all., (1998) estimate the disturbingly high figure that approximately 28% of adolescents will have experienced an episode of Major Depressive Disorder by the age of 19 years. There are many reasons for concern apart from just the prevalence of depression, first of all its link to suicide and then there is evidence suggesting that there is a downward developmental trend in the age of onset of depression (Rutter & Smith, 1995).
Health literacy has been defined as the ability to gain access to, understand and use information in ways which promote and maintain good health. Starting from this Jorm et al. (1997) coined the term “mental health literacy” to refer to knowledge and beliefs about mental disorders which aid their recognition, management and prevention, so this means knowing how to seek information knowledge of risk factors and of professional help available.
How much do adolescents know about mental health?
Are they able to recognize symptoms?
Do they know enough about how to seek help?
Burns and Rapee (2006) tried to explore this aspect conducting a study in a sample of 202 adolescents aged 15-17 years, with particular reference to their ability to recognize symptoms of depression in their peers.
The intention of the authors was to use a vignette-based questionnaire “A friend in need” built for this study, that required respondents to generate their own thoughts and beliefs to avoid giving participants multiple-choice answers.
The study presented respondents with vignettes of more than one depressed person and sought to tease out knowledge of depression by comparing the depression vignettes with three other vignettes of non-clinically depressed.
The Friend in Need questionnaire presented to participants five brief vignettes of young people going through a range of life difficulties and their responses to the difficulties. Participants were asked to answer questions about how worried they were about each young person in the vignettes; what they ‘‘think is the matter’’; what parts of the vignettes were the strongest hints that the young person was experiencing emotional difficulties; how long they thought it would take for each young person to feel better; and who they thought the young person needed help from to cope with their problems All these questions were left deliberately open-ended to allow participants to create their own ‘diagnosis’ for each character.
The 5 vignettes reported different situations: in two of those there was strong evidence that the focus character had a significant signs of depression (having at least five symptoms of a Mayor Depressive Episode as described in the DSM-IV) and in the others three vignettes detailed young people going through normal life crisis, such as being dropped by a boyfriend, getting caught by parents when drunk and the death of an elderly relative.
The results revealed a mixed level of knowledge in relation to their ability to ‘label’ depression and to identify the key symptoms.
There was a marked difference across the sample between the labelling response of the two ‘depressed vignettes’; it suggests that the combination of presenting symptoms and the context within which they are presented may be important for adolescents. In one of these, in fact, there were included very blunt comments of suicidal intent and feelings of worthlessness, which were the two most highly noted as “symptoms” from the respondents. In the absence of such obvious symptoms (as per the second “depressed” vignette) there is a minor ability to label the signs together as “depression”, nevertheless, 80% reported that the girls in the vignette who had broken up with her boyfriend also needed help from someone, indicating some lack of discrimination between ‘‘normal’’ reactions of dysphoria and more severe depressive symptomatology.
From this study it appears also clear a gender difference as girls in this sample clearly demonstrated higher mental health literacy, in terms of their ability to correctly label the depression vignettes, their expression of greater concern over a depressed peer than boys, their expectation that depression requires a longer recovery than normal teenage problems and in their ability to identify individual symptoms of depression.
The most important reason to raise adolescent mental health literacy is to increase the likelihood that young people can access the most appropriate help when needed. The most common source of recommended help in this study was the use of ‘‘counselling’’ in marked contrast to the recommendation to access either psychology or psychiatry even if the respondents used a variety of professional labels including the very generic term ‘‘professional’’ reflects this lack of knowledge of the specialization of different professions.
Of particular interest in this study was the finding that adolescents do not consider doctors appropriate helpers for a depressed peer, with doctors being mentioned by less than 2% of this sample. It may be that young people view doctors as a place to go for physical health concerns but not for mental health concerns. Finally a large number of adolescents also rated family as an important source of help. This finding underlines the important influence that parents and other family members can have on a young person’s life and suggest the importance of education for families on adolescent mental health problems and solutions. Similarly, friends were rated by over 40% of the sample as a good option for help and this finding reinforces the importance of mental health literacy for all adolescents.