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Psicoterapia: un grave problema di immagine

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Un articolo molto chiaro e interessante del New York Times su una questione purtroppo nota anche in Europa: il cronico problema di immagine della psicoterapia. Mal rappresentata dai media, preferita dai pazienti rispetto alle sole terapie farmacologiche, avallata da trial scientifici che ne dimostrano inequivocabilmente l’efficacia, osteggiata dalle case fermaceutiche che dispongono di un ben altro arsenale per rappresentare la realtà a colpi di lobbying.

Nei soli USA dal 1998 al 2007 la percentuale di pazienti ambulatoriali curati con la sola psicoterapia è calata del 34% mentre il numero di pazienti che hanno ricevuto la sola terapia farmacologica è aumentata del 23%.

Questo mentre 33 differenti studi indipendenti hanno rilevato che i pazienti preferiscono 3 volte tanto la psicoterapia rispetto al trattamento farmacologico.

Ma non è tutta colpa del Big Pharma, sostiene l’articolo: il problema si trova anche all’interno: ancora troppi psicoterapeuti per un motivo e per l’altro non fanno riferimento a terapie scientificamente provate, a protocolli testati di provata efficacia e sono tanti i casi di professionisti che applicano teorie eccentriche e mai verificate o indulgono in vecchie terapie old school che dovrebbero essere definitivamente abbandonate (come alcune polverose e quasi esoteriche psicoanalisi freudiane).

Il rischio, conclude il giornalista del NYT, è che se i servizi di psicoterapia non si fondano sulle ultime e migliori ricerche scientifiche, l’intera professione verrà lentamente allontanata dai servizi di sanità pubblica, a favore ancora una volta delle terapie farmacologiche.

The answer is that psychotherapy has an image problem. Primary care physicians, insurers, policy makers, the public and even many therapists are largely unaware of the high level of research support that psychotherapy has. The situation is exacerbated by an assumption of greater scientific rigor in the biologically based practices of the pharmaceutical industries — industries that, not incidentally, also have the money to aggressively market and lobby for those practices.

For the sake of patients and the health care system itself, psychotherapy needs to overhaul its image, more aggressively embracing, formalizing and promoting its empirically supported methods.

[…]

 Psychotherapy faces an uphill battle in making this case to the public. There is no Big Therapy to counteract Big Pharma, with its billions of dollars spent on lobbying, advertising and research and development efforts. Most psychotherapies come from humble beginnings, born from an initial insight in the consulting office or a research finding that is quietly tested and refined in larger studies.

The fact that medications have a clearer, better marketed evidence base leads to more reliable insurance coverage than psychotherapy has. It also means more prescriptions and fewer referrals to psychotherapy.

 

Psychotherapy’s Image Problem

Consigliato dalla Redazione

The profession needs to promote its empirically supported methods. (…)

Tratto da:

 

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To be or not to be, vogliamo vivere – Recensione – Cinema & psicologia

Recensione

“To be or not to be, vogliamo vivere!”

(2013)

TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

To be or not to be. Vogliamo vivere! - LocandinaRaramente un film si può definire perfetto. Come trama, tempi recitativi, costruzione dei dialoghi. “To be or not to be,Vogliamo vivere!” nella traduzione italiana -, pellicola del 1942 firmata da Ernst Lubistch e recentemente riproposta nelle sale dopo essere stata restaurata e rimasterizzata, è un film perfetto.

Siamo nella Polonia invasa dai nazisti e le vicende di una coppia di attori teatrali si intrecciano a quelle della Resistenza; il dilemma amletico è una scena che ritorna più volte e puntualmente il protagonista, iniziando il celebre monologo shackespeariano, vede uno spettatore alzarsi da una delle prime file e andarsene: la ferita all’orgoglio d’artista sarebbe ancor più cocente se l’attore sapesse che il camerino di sua moglie è il luogo in cui lo sconosciuto, un giovane e aitante aviatore, si reca ogni sera all’incipit del monologo.

In breve tempo scoppia il conflitto bellico e il triangolo amoroso inaugura un susseguirsi di equivoci e intrighi sottili in cui il marito intuisce senza aver certezza, trovandosi poi costretto dagli eventi a collaborare con il presunto amante della moglie per combattere il comune nemico tedesco.

La compagnia teatrale è al centro di acrobazie pericolose ed esilaranti a stretto contatto con la Gestapo, che viene ripetutamente ingannata e sbeffeggiata a pochi passi dal precipizio mortale.

To be or not to be“, si diceva, è un’opera perfetta; l’ironia con cui viene affrontato un tema complesso come la guerra, l’arguzia utilizzata per descrivere gli stati d’animo dei personaggi non possono essere pienamente trasmesse a chi non ha visto il film: si tratta di una comicità seria, comunicata attraverso espressioni da registro drammatico che vengono sapientemente modulate per ottenere l’effetto della farsa.

I dialoghi sono geniali, spesso serrati e i colpi di scena si susseguono senza diventare ridondanti, le situazioni alternano i diversi piani del racconto e li sovrappongono, variando di continuo i temi, i riferimenti. Le risate dello spettatore sono inevitabili ma non indotte dalla ricerca del ridicolo, poiché ogni scena sarebbe perfettamente plausibile anche in un film drammatico e lo stesso può dirsi per i dialoghi; sono la magistrale espressività degli attori e la superba raffinatezza della sceneggiatura, che in ogni passaggio afferma qualcosa per intendere altro, a generare l’effetto comico.

La regia di Lubistch è eccezionale specie nel lavoro sugli interpreti, che con un gesto quasi impercettibile o un movimento del corpo studiato ad arte fanno comprendere al pubblico le differenti dinamiche dei sentimenti, la gelosia, una reazione indispettita, il gioco divertito tra realtà e finzione o il compiacimento incosciente di un ingenuo Amleto al cospetto del Terzo Reich. La missione di far ridere senza un solo sorriso recitato viene ampiamente portata a termine e l’opera riesce anche a entrare nel cuore, dileggiando la follia nazista con leggerezza penetrante, mettendo a nudo l’ottusità di certi umani ma in fondo di tutti gli umani e mantenendo vivo l’interesse dello spettatore sia verso le intenzioni comiche sia nella riflessione sul destino dei personaggi; un film da assorbire tutto d’un fiato, da amare e rivedere per cogliere i dettagli che nella prima proiezione si perdono.

Vogliamo vivere, ed è molto meglio farlo con questi film.

 

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CINEMA – AMORE E RELAZIONI SENTIMENTALI

OTELLO E LE AREE DEL CERVELLO DELLA GELOSIA

 

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Quando l’umore cambia alla toilette: la “pupuforia” e il nervo vago

Umore alla toilette - PalmieriCi sono ragioni spiegabili fisiologicamente rispetto all’estasi da W.C. e in particolare la stimolazione del nervo vago, dovuta alla distensione del retto, attraverso cui transitano le feci.

Descrivendo un brutto periodo di ansia e depressione, un paziente mi ha detto durante un colloquio “Dottore è un disastro, sto malissimo per la maggior parte della giornata. Ho notato che sto un po’ meglio solo quando vado di corpo”. Un bel periodo di m…, ho pensato per libera associazione.

Poi ho provato a riflettere sul perché il ragazzo stesse meglio proprio durante l’espletamento del bisogno fisiologico. La prima cosa che mi è venuta in mente è stata una possibile regressione freudiana alla fase anale, anche se non vi erano evidenze nella struttura di personalità del soggetto.

Così ho iniziato a documentarmi e ho scoperto l’esistenza in lingua anglosassone della parola “poophoria” e di un vero trattato scritto da due eminenti gastroenterologi (Sheth e Richman, 2007).

Anche l’antica Scuola Medica Salernitana aveva identificato un potere terapeutico nell’evacuazione, probabilmente pensando più ad aspetti di disintossicazione del corpo, ben espressa nel motto  “Defecatio matutina bona tam quam medicina”.

Ci sono ragioni spiegabili fisiologicamente rispetto all’estasi da W.C. e in particolare la stimolazione del nervo vago, dovuta alla distensione del retto, attraverso cui transitano le feci.

Il nervo vago è il decimo nervo cranico che va a ramificarsi fino alla zona addominale. La sua stimolazione determina un effetto di rilassamento con riduzione della pressione arteriosa e del battito cardiaco e una minor perfusione cerebrale. La cosiddetta risposta vagale è il contrario della risposta da stress. Ma attenzione, una diminuzione eccessiva della pressione a livello cerebrale può portare fino alla “sincope da defecazione”, con temporanea perdita di coscienza.

 D’altra parte, già precedentemente agli interessanti studi “pupulogici”, il rapporto tra nervo vago e umore era ben noto. La stimolazione elettrica del nervo vago (Vagus Nerve Stimulation, VNS) è stata utilizzata inizialmente in pazienti epilettici per ridurre la frequenza delle convulsioni. Ben presto si notò come anche l’umore migliorasse in seguito a tale stimolazione, tanto che la Food and Drug Administration americana ha riconosciuto nel 2005 la VNS come trattamento per la depressione resistente (Ogbonnaya S., Kaliaperumal C., 2013). L’azione terapeutica avviene tramite l’impianto di uno stimolatore sottocutaneo al lato del collo, in anestesia generale.

Come per gli antidepressivi, non è ancora del tutto chiaro in quale modo l’uso del VNS migliori l’umore.

Tra le ipotesi c’è l’effetto anticonvulsivo, possibili cambiamenti a livello neuroanatomico regionale, un’aumentata tollerenza allo stress o un’azione diretta a livello dei neuroni noradrenergici e serotoninenrgici.

 

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STRESS – DISTURBI DELL’UMORE – DEPRESSIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Alimentazione: Psicologia del cibo quotidiano – RICERCA

Psicologia del cibo quotidiano – RICERCA

 

PARTECIPA AL QUESTIONARIO

 

Alimentazione: Psicologia del cibo quotidiano – RICERCA. -Immagine: © karandaev - Fotolia.comGli esseri umani avrebbero potenzialmente accesso ad una gamma pressoché infinta di alimenti ma, in pratica, la scelta quotidiana è notevolmente ridotta. Questo avviene perché mangiamo più con la testa che con la bocca.

Il primo pasto è sempre semplice. Per Eva fu un morso di una mela, per un bambino è il latte materno. Tuttavia, con lo sviluppo delle prime esperienze alimentari e dei primi rapporti con l’ambiente esterno, inizia anche un processo di selezione che trascende il valore nutritivo del cibo stesso. In quanto onnivori, gli esseri umani avrebbero potenzialmente accesso ad una gamma pressoché infinta di alimenti ma, in pratica, la scelta quotidiana è notevolmente ridotta. Questo avviene perché mangiamo più con la testa che con la bocca.

Una volta risolto il problema della sopravvivenza, le nostre abitudini alimentari sono fortemente influenzate dalle rappresentazioni mentali di quello che riteniamo commestibile. Per esempio, cavallette ed altri tipi di insetti hanno un valore nutritivo molto alto e sono apprezzate in certe culture africane e orientali, ma non nella nostra. Questo non dipende dal gusto (le avessimo mai assaggiate!) ma dal semplice fatto che per la maggioranza degli Italiani e dei popoli occidentali, questi animali appartengono alla categoria “insetto” e non a quella “cibo”.

La cultura ha una notevole influenza sulle nostre scelte alimentari, condizionando la disponibilità degli alimenti e le pratiche di consumo, ma non solo. Il comportamento alimentare si distingue per l’elevato valore simbolico, che non si esaurisce nella sua funzione nutrizionale ma può essere considerato come atto di comunicazione e di espressione di Sé. In particolare, in alcuni studi di psicologia sociale è emerso come gli individui tendano a giudicare gli altri sulla base degli alimenti scelti, o che suppongono mangino, e che spesso tendiamo a scegliere un cibo per comunicare qualcosa di noi stessi.

Si prenda, per esempio, il caso dei prodotti biologici che, in Italia, sono spesso più cari degli altri, a parità di prodotto. La scelta può dipendere da specifiche esigenze (per esempio, allergie a determinati pesticidi) ma anche essere l’espressione della propria identità, come persona salutista o attenta all’ambiente, nonché la manifestazione del proprio stile di vita alimentare.

Per queste ragioni, quando guardiamo quello che abbiamo nel piatto, dobbiamo considerare che la nostra scelta trascende sia il valore nutritivo che il gusto (non sempre, infatti, ci limitiamo a mangiare quello che ci piace). Mangiare è un processo psicologico, influenzato dalle norme esplicite ed implicite fornite dal contesto sociale in cui viviamo, e dai nostri atteggiamenti nei confronti del cibo. Può fornire informazioni su alcuni aspetti dell’identità della persona, ma anche agire come strumento di comunicazione di bisogni, conflitti ed espressione di Sé.

Solitamente, quando si pensa al rapporto tra psicologia ed alimentazione, il primo pensiero corre al contesto clinico e ai disturbi del comportamento alimentare.

Tuttavia, la psicologia sociale ci aiuta a comprendere la moltitudine di fenomeni che sono alla base delle scelte alimentari quotidiane, non patologiche. Da tempo viene utilizzata dall’industria alimentare per entrare in sintonia col mercato ma, oggigiorno, è anche impiegata in chiave di prevenzione per migliorare il rapporto con il cibo sia sul piano fisiologico che su quello psicologico.

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ALIMENTAZIONEPSICOLOGIA SOCIALE –

 

BIBLIOGRAFIA:

Questionario

 

Cari lettori,

Stiamo conducendo una ricerca sulle abitudini alimentari, in collaborazione con l’università del Surrey (UK), tra i ragazzi tra i 18 e i 31 anni che vivono da soli o con dei coinquilini. La ragione per cui coppie conviventi sono escluse riguarda la necessità di gestire la spesa in autonomia senza eccessive influenze da parte di un partner.

Avendo un target molto vasto da raggiungere non riusciamo ad esaurire il campione tra i soli studenti dell’Università Bicocca e stiamo cercando l’aiuto di tutti per completare la ricerca.

Se qualcuno di voi si riconosce nel campione, potrebbe compilare questo breve questionario? Mediamente, abbiamo visto che ci si mette meno di 10 minuti per completarlo.

In alternativa, potreste far girare il link nella vostra mailing list, sulla vostra pagina facebook o su twitter?

Ringraziandovi in anticipo per disponibilità e cortesia, resto a disposizione di ulteriori chiarimenti.

Elena Cadel.

Sadismo: una questione di Personalità. Psicopatologia della vita quotidiana

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Generalmente tendiamo a evitare di infliggere dolore agli altri, con senso di colpa e rimorso nel caso in cui questo accada. Nel sadismo tuttavia la crudeltà provoca piacere o eccitazione.

Ma senza andare lontano in menti criminali, e senza sconfinare nelle perversioni sessuali, tale fenomeno può essere molto più comune nella nostra normalità di quanto pensiamo.

Due ricerche condotte da Erin Buckels della University of British Columbia hanno studiato tale fenomeno. Anzitutto, come prevedibile, è stato dimostrato sperimentalmente che nelle persone con elevati punteggi di sadismo insorge piacere a seguito di comportamenti di danneggiamento dell’altro.

Secondo i ricercatori tali tendenze sadiche sarebbero frequenti e comuni tali da costituire un tratto della personalità: si traggono benefici emotivi – in termini di piacere esperito – causando oppure osservando dolore inflitto ad altri.

Sono stati reclutati circa settanta soggetti a cui veniva chiesto di scegliere tra diversi compiti generalmente considerati poco piacevoli: uccidere scarafaggi, aiutare uno sperimentatore a uccidere scarafaggi, pulire toilette sporche oppure resistere al dolore mentre si immerge una mano in acqua gelida.

A coloro che sceglievano il compito di uccidere insetti veniva mostrata una sorta di macchina tritura-insetti, in cui dovevano inserire gli scarafaggi e far partire il macchinario. Nel rispetto dell’etica in realtà si tratta di un artificio sperimentale quindi nessun animale è stato realmente ucciso durante l’esperimento: i partecipanti avevano questa credenze mentre in realtà gli scarafaggi venivano fatti “scappare” da una via nascosta.

Tra i 71 partecipanti il 12,7% ha scelto il compito di tolleranza del dolore in acqua gelida, il 33,8% la pulizia delle toilette sporche, il 26,8% ha scelto l’assistenza all’uccisione di insetti e il 26,8% il compito che prevedeva l’uccisione degli insetti.

Dai risultati è emerso – come ci si aspettava – che chi sceglieva il compito di uccisione degli insetti aveva anche punteggi più elevati di impulsi sadici.

In secondo luogo i soggetti con elevati punteggi di sadismo che avevano scelto di uccidere gli scarafaggi riportavano anche un maggior livello di piacere rispetto a coloro che avevano scelto altri task; inoltre il livello di piacere esperito sembra correlato positivamente con il numero di insetti uccisi.

Dunque il sadismo non è solo un fenomeno da devianze sessuali e criminali ma può trovare spazio nella nostra psicopatologia della vita quotidiana; in tal senso questo aspetto personologico risulta ancora poco conosciuto e poco studiato. Gli stessi ricercatori stanno continuando a indagare il sadismo nella vita quotidiana in relazione a comportamenti di trolling online e a diverse forme di sadismo vicario, quali provare piacere dalla visione di scene cruente nei film o nei videogames.

 

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BIBLIOGRAFIA

SFU Milano: Presentazione Corso di Laurea in Psicologia 2013-2014 – Programma

La Sigmund Freud University, con sedi a Vienna, Parigi, Berlino e Linz, presenta la sua nuova sede di Milano, con il primo corso di Laurea in Psicologia che inizierà a dicembre.

In occasione della presentazione, verranno illustrati ai presenti non solo gli argomenti d’esame, ma anche il particolare approccio allo studio e alla formazione che SFU propone ai suoi studenti: classi piccole, tutoraggio individuale, molta pratica e un periodo di studi da svolgere all’estero.

Interverrà alla presentazione il rettore della Sigmund Freud Privat Universitat Wien e il corpo docenti della SFU Milano.

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Ricerca scientifica: il problema delle riviste open access e il controllo della qualità

 

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Scienza web, c’è una fabbrica delle “bufale” a pagamentoConsigliato dalla Redazione

Una clamorosa inchiesta di Science porta alla luce i fumosi meccanismi che si nascondono dietro alla selva delle riviste accademico-scientifiche open access : uno studio privo di fondamento, realizzato ad hoc e riempito di errori elementari, è stato accettato nel 60% dei casi. Basta saldare il bonifico di SIMONE COSIMI (…)

Tratto da: La Repubblica

 

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Genesi e risoluzione dell’Attaccamento materno–infantile – PARTE I

Elena Commodari, Maria Tiziana Maricchiolo

“L’attaccamento è parte integrante del comportamento umano dalla culla alla tomba”.

J. Bowlby

 

LEGGI: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4 – PARTE 5

Genesi e risoluzione dell’attaccamento materno–infantile - PARTE I. -Immagine: © Andres Rodriguez - Fotolia.comCompito biologico, psicologico e sociale della figura d’attaccamento, è quello di rappresentare per il bambino una base sicura da cui si possa affacciare per esplorare il mondo «in sostanza questo ruolo consiste nell’essere disponibili, pronti a rispondere quando chiamati in causa, ma intervenendo solo quando è chiaramente necessario» (Bowlby, 1989).

La teoria dell’attaccamento ha messo in evidenza la predisposizione innata dell’essere umano ad instaurare relazioni affettive con una figura di riferimento, rappresentata solitamente dalla madre, che assicuri la continuità degli accudimenti indispensabili per la sopravvivenza psicofisica, e che svolga la funzione di proteggere la persona in situazioni di pericolo (Bowlby, 1969).

La forte accelerazione tecnologica, i cambiamenti economici e sociali dei giorni nostri, hanno profondamente modificato la famiglia e il rapporto madre figlio.
Oggi i bambini molto piccoli sono più vulnerabili nella primissima fase della loro vita in quanto la figura materna ha più carichi di lavoro e di conseguenza meno possibilità di vivere la fase simbiotica.

La teoria dell’attaccamento di John Bowlby e dei suoi prosecutori rappresenta l’anello di congiunzione fra differenti orientamenti teorici e operativi.

Compito biologico, psicologico e sociale della figura d’attaccamento, è quello di rappresentare per il bambino una base sicura da cui si possa affacciare per esplorare il mondo «in sostanza questo ruolo consiste nell’essere disponibili, pronti a rispondere quando chiamati in causa, ma intervenendo solo quando è chiaramente necessario» (Bowlby, 1989).

A Mary Ainsworth, si deve l’ideazione dello strumento di indagine  denominato Strange Situation (Ainsworth, Blehar, Waters, Wall, 1978) nel quale distingueva gli stili di attaccamento in sicuro, insicuro-evitante ed insicuro ansioso-ambivalente, al fine di identificare le differenti modalità con cui si esplica il comportamento di attaccamento del bambino con il caregiver. Successivamente Main e Salomon (1990) elaborarono un quarto stile, il “disorientato/disorganizzato”, per descrivere la diversa gamma di comportamenti spaventati, strani, disorganizzati e apertamente in conflitto.

Lo stile di attaccamento dunque, prende forma in gran misura dal modo in cui i genitori o altre figure significative interagiscono con il bambino.

Considerato che la metodologia della Strange Situation può essere impiegata solo con bambini,  per i soggetti adolescenti ed adulti sono stati creati altri strumenti, di cui il più noto ed autorevole è sicuramente la Adult Attachment Interview (Crittenden, 1999). Questo dispositivo classifica lo stato mentale di un adulto in relazione alla sua storia di attaccamento, valutando in particolare la coerenza fra emozioni e pensieri. 

La Strange Situation e la Adult Attachment Interview individuano patterns omologhi, laddove quelli presenti nell’infanzia tenderebbero a traslare in quelli strutturalmente identici dell’età adulta. Si tratta quindi di modelli di attaccamento che, mutando progressivamente le modalità espressive, sono presenti lungo tutto l’arco della vita.

LEGGI ANCHE:

TEORIA DELL’ATTACCAMENTOATTACCAMENTO GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ – BAMBINI

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Procrastinare: Tribolazioni pt. 15 – Psicopatologia della vita quotidiana

Tecnostress: quando nella coppia si è in 3 – Psicologia

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Essere una coppia 2.0 è sempre più difficile. Sembra infatti che la tecnologia influenzi la vita di coppia ma in senso negativo.

Quello che emerge dalle ultime indagini effettuate su centinaia di manager ICT, è un calo del desiderio, la mancanza quasi totale, se non totale, di rapporti sessuali nella coppia. La coppia 2.0 si astiene.

Si suppone che l’essere troppo social incida e abbatta la libido

Questo viene anche confermato da studi americani in cui emerge che il 16% degli uomini soffrono di totale assenza di stimoli sessuali nei confronti della partner a causa di un utilizzo troppo intenso o prolungato sui social.

Arrivano però anche consigli del dott. Molinari, dell’Ospedale San Camillo di Roma, su come alimentare il desiderio e risvegliare l’uomo per farlo uscire dal letargo sessuale.

Come prevenire il Tecnostress  e le complicanze legate al benessere sessuale della coppia? Risponde Carlo Molinari, urologo Ospedale San Camillo di Roma: Dialogo con il partner, una maggiore socialità, un po’ di coccole e massaggi per risvegliare i sensi assopiti.

 

 

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Afasia: i vantaggi del bilinguismo – Linguaggio & Comunicazione

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il bilinguismo sarebbe un vantaggio – e non un ostacolo – al processo di recupero e riabilitazione dell’afasia.

Nell’era della globalizzazione , il bilinguismo sta diventando sempre più frequente e comprensibilmente è spesso considerato un plus. Ma cosa accade quando insorge una condizione di afasia?

Secondo alcuni ricercatori dell’ Institut universitaire de gériatrie de Montréal (IUGM) , il bilinguismo sarebbe essere un vantaggio – e non un ostacolo – al processo di recupero e riabilitazione dell’afasia.

Dalla metanalisi di diversi studi emerge che il training della lingua in cui il bilingue è meno competente, e non la lingua dominante, avrebbe effetti di generalizzazione e trasferimento dei riapprendimenti sulla lingua non ancora trattata.

Inoltre le somiglianze tra le due lingue, a livello di sintassi, fonologia e vocabolario, faciliterebbero questo effetto di trasferimento dei riapprendimenti: ad esempio, stimolare la parola tavolo in francese faciliterebbe il recupero della parola table in inglese.

In generale, negli approcci semantici, basati sulla stimolazione dei significati delle parole, il trasfert cross-linguistico si fonda sulle proprietà semantiche di una parola che attraverso associazioni mentali richiamerebbero con più facilità vocaboli semanticamente collegati anche nella lingua non direttamente trattata.

In passato i terapisti del linguaggio avrebbero probabilmente chiesto ai pazienti bilingue di reprimere una delle loro due lingue , e concentrarsi su una sola lingua target. Oggi una visione diversa consente di utilizzare entrambe le lingue in un ottica di ottimizzazione degli effetti riabilitativi.

 

LEGGI ANCHE:

COMUNICAZIONE & LINGUAGGIO – BILINGUISMO

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Sempre più modelle contro l’anoressia

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

Questa volta tocca a Georgina Wilkin a raccontare il suo percorso dentro la malattia dell’anoressia.

Georgina è entrata nella malattia spinta dal timore di non prendere ingaggi come modella o meglio spinta dalla pressione di avere tutti gli ingaggi, la pressione per di voler essere la nuova “Kate Moss.” L’unico modo per riuscirci era essere magra, magrissima.

In questo caso le accuse che spesso vengono indirizzate alla moda, ai grandi marchi sono reali. La moda ha avuto il suo peso. Georgina ha fatto diversi ricoveri, terapia e stava cos’ male che è dovuta arrivare al sondino.

Ora sta meglio e vuole raccontare la sua esperienza così da avvertire le altre ragazze di non sottovalutare il problema, la malattie e soprattutto il loro peso e il loro valore.

‘My lips and fingers were blue because I was so thin that my heart was struggling to pump blood around my body.

‘The make-up artists would have to disguise it with concealer.

Teen model Georgina got so thin her organs were failing. But still fasConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
The agent took one look at 16-year-old Georgina\’s skinny frame and declared: \’Georgina, whatever you are doing, keep doing it.\’ (…)

Tratto da: Mail Online

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Il bambino autistico e i suoi giochi preferiti – Psicologia – Autismo

 

I giochi preferiti dei bambini autistici. -Immagine: www.exploreandmore.orgIl gioco è da sempre riconosciuto come lo strumento di libera espressione per eccellenza ed è per questo che il rispetto della diversità del bambino autistico deve partire proprio dall’abbandono di ogni pretesa di adeguamento al gioco tipico in favore di una valorizzazione degli interessi personali che non sono nemici della socializzazione ma indispensabili intermediari nella relazione con l’altro.

Come ho già avuto modo di sottolineare in altri post, è di fondamentale importanza che il bambino autistico venga riconosciuto e rispettato nella sua neurodiversità. Qualsiasi rapporto umano, a maggior ragione se mira ad essere terapeutico, che non tenga conto della specificità dell’individuo che ha davanti e pretenda da parte dell’interlocutore un adeguamento unilaterale ai propri canali espressivi, è per me gesto di violenza e, passatemi il termine, di razzismo.

Il gioco è da sempre riconosciuto come lo strumento di libera espressione per eccellenza ed è per questo che il rispetto della diversità del bambino autistico deve partire proprio dall’abbandono di ogni pretesa di adeguamento al gioco tipico in favore di una valorizzazione degli interessi personali che non sono nemici della socializzazione ma indispensabili intermediari nella relazione con l’altro.

Uno studio pubblicato di recente sul North American Journal Of Medicine And Science ha evidenziato che bambini con un disturbo dello spettro autistico (DSA) prediligono giochi che stimolano i sensi e generano movimento.

In occasione di un evento tenutosi all’interno del museo per bambini Explore and More nello stato di New York, si è potuto osservare come i bambini autistici, lasciati liberi di scegliere i giochi con cui intrattenersi, si sono indirizzati verso esperienze in grado di offrire un consistente feedback sensoriale, in cui fosse evidente un principio di causa-effetto e che presentassero movimenti ripetuti.

L’attività che ha riscosso più successo è stata la Climbing Stairs, una piccola scala su cui arrampicarsi per poi lanciare una palla e osservarla cadere. Molto apprezzati anche i mulini  azionabili dai bambini e il tavolo colmo di riso in cui tuffare le mani.

Questi tre giochi hanno in comune la tipologia di gratificazione che deriva dal loro utilizzo: il piacere di muoversi, di osservare gli oggetti in movimento, di partecipare a eventi chiaramente connotati da un principio di causa-effetto, di verificare la ripetitività degli avvenimenti. Altra caratteristica comune alle attività predilette è il coinvolgimento del sistema vestibolare, deputato a mantenerci in equilibrio, e della propriocezione, attinente anch’essa alla percezione della posizione del nostro corpo nello spazio e in grado di informarci circa lo stato di tensione dei nostri muscoli.

Le stereotipie motorie, manifestate da molti autistici, sembrerebbero aver lo scopo di soddisfare proprio questo desiderio di continua stimolazione sensoriale. Offrire dunque al bambino un oggetto che lo soddisfi nella stessa misura, potrebbe contribuire ad attenuare i movimenti non finalizzati, come per esempio lo sfarfallio delle mani.

Comprendere cosa piace ai bambini autistici è utile anche in ambito terapeutico poichè solo con tale informazione si possono offrire rinforzi positivi che vengano realmente percepiti tali e solo attraverso la condivisione di un’attività davvero gratificante per tutti si può ambire ad incrementare le capacità di stare in relazione di questi bambini.

Anche i genitori dovrebbero dar spazio alle passioni dei figli, mettendo da parte, almeno per quanto riguarda l’ambito ludico, il pericoloso desiderio di omologarli ai coetanei tipici così da poter promuovere in loro l’autonomia e il senso di efficacia personale.

Ricordo infine quanto sancito dall’articolo 31 della Convenzione Internazionale Sui Diritti Dell’Infanzia: “ Gli Stati parti rispettano e favoriscono il diritto del fanciullo di partecipare pienamente alla vita culturale e artistica e incoraggiano l’organizzazione, in condizioni di uguaglianza, di mezzi appropriati di divertimento e di attività ricreative, artistiche e culturali.

Lasciamo però anche agli autistici il diritto di scegliere il gioco più appropriato per loro.

LEGGI ANCHE:

BAMBINI DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO-AUTISMO

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Leadership negli sport di squadra #7: Relazioni leader/squadra

Leadership negli Sport di Squadra #7:

Relazioni leader/squadra

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

Leadership negli sport di squadra #7 . - Immagine: ©-Monkey-Business-Fotolia.com_.jpg Per quanto riguarda l’allenatore (leader istituzionale), vi sono  alcuni comportamenti generali che deve preoccuparsi di assumere o di evitare nel costruire una relazione con i giocatori.

Rivestendo una posizione diversa all’interno della squadra le due categorie di leader analizzate sviluppano particolari rapporti con gli altri atleti.

Per quanto riguarda l’allenatore (leader istituzionale), nonostante sia ormai chiaro che la caratteristica principale che deve possedere sia quella di essere versatile e cioè di utilizzare le proprie abilità in relazione alle richieste della situazione e dei membri, vi sono comunque alcuni comportamenti generali che deve preoccuparsi di assumere o di evitare nel costruire una relazione con i giocatori. Secondo Mazzali [1995] l’allenatore, in particolar modo, deve:

  • sapersi imporre dato che la forza che impiega nella preparazione diventa la forza stessa dei giocatori al momento della prestazione,
  • far valere le sue idee ai giocatori poiché spetta a lui il compito direttivo,
  • far riconoscere la sua buona fede ai giocatori, così da generare una sorta di fiducia (simile all’idea di credito idiosincratico di Hollander) che gli permetta di non dover spiegare ogni minima decisione,
  • deve mantenere una certa apertura di base nei confronti delle opinioni dei giocatori ed essere disposto ad apprendere da loro,
  • deve rendere chiaro ai giocatori (in quello che può essere considerato il patto allenatore-atleta) che lui possiede funzioni e responsabilità diverse dalle loro e che ogni sua azione deve comunque tener conto anche di queste,
  • non deve mai ritenersi superiore agli altri membri della squadra e arrivare a comportarsi con tirannia,
  • deve essere pronto dal punto di vista affettivo ad affrontare i problemi e le responsabilità che i giocatori caricheranno inevitabilmente su di lui ma deve evitare di scaricare i propri problemi sociali o interiori (come ansie o tensioni) sui giocatori onde evitare di intaccarne la prestazione,
  • non deve identificare nella squadra un mezzo per raggiungere i propri fini personali ma deve cercare di perseguire i suoi e quelli individuali degli altri giocatori (dei quali, come sappiamo, deve essere consapevole) indirettamente ponendo prima di essi gli obiettivi della squadra,
  • deve essere in grado di superare il senso di possesso della squadra che porta a ritenere il gruppo come una proprietà conferitagli dal destino.

Questo elenco di comportamenti a cui l’allenatore deve prestare attenzione dimostra come, in realtà, nel rapporto con altre persone esistano dei limiti invalicabili, o meglio, degli ammonimenti universali che non possono essere oltrepassati indipendentemente dalle caratteristiche della situazione e dal potere legittimo che si possiede. La maggior parte di questi possono essere ricondotti a un eccessivo orientamento verso i poli autocratico e partecipativo dello stile decisionale del leader.

Uno dei modelli che è stato costruito con l’intento di analizzare e descrivere le dinamiche del rapporto tra l’allenatore e il giocatore è quello elaborato da Smoll e Smith [1989] che si basa sull’idea che ad ogni comportamento dell’allenatore corrisponde una reazione valutativa dell’atleta che è mediata dal modo in cui l’atleta percepisce l’azione. L’interpretazione dell’azione da parte del giocatore si basa su tre categorie di variabili:

  1. Fattori situazionali: quali possono essere la disciplina sportiva, il livello agonistico, il contesto, successi o insuccessi antecedenti, il rendimento ecc…
  2. Fattori individuali: che si dividono a loro volta in variabili dipendenti dall’allenatore e variabili dipendenti dall’atleta.
  3. Percezioni dell’allenatore in merito alle attitudini degli atleti.

Partendo da questi tre ordini di fattori, ciascuno dei quali è interrelato con tutti gli altri, gli autori hanno costruito un metodo di classificazione del comportamento dell’allenatore basato, principalmente, sull’osservazione. Questo sistema, denominato Coaching Behavior Assessment System (CBAS) ha rappresentato il primo passo per l’ideazione di un metodo di formazione degli allenatori orientato a coloro che hanno il compito di gestire attività sportive giovanili. Le caratteristiche della relazione che l’allenatore è in grado di instaurare a diversi livelli con l’atleta diventa importante per il supporto e l’insegnamento che fornisce a quest’ultimo, influenzando positivamente la coesione del gruppo e anche la soddisfazione personale dei membri del team. Questo metodo di formazione ha le sue basi, quindi, nelle informazioni derivate dal CBAS e ha prodotto risultati estremamente efficaci. Cei [1998] elenca alcuni dei più significativi:

– gli allenatori, addestrati a enfatizzare comportamenti maggiormente positivi, sono percepiti dai loro atleti come più incoraggianti, esperti in materia e migliori insegnanti,

– gli allenatori che, al contrario, non avevano seguito il programma di formazione erano percepiti come punitivi e indifferenti ai risultati positivi ottenuti dai giocatori,

– il livello di soddisfazione degli atleti risulta essere significativamente superiore ed aumenta anche il desiderio e la motivazione a continuare la pratica sportiva con quell’allenatore,

– allo stesso modo risulta maggiore il senso di appartenenza al gruppo, probabilmente in quanto i comportamenti positivi dell’allenatore sono in grado di aumentare la caratterizzazione positiva percepita dagli atleti riguardo la propria identità di ruolo,

– anche il livello di autostima tende a essere maggiore e ad aumentare nel corso della stagione sportiva.

Il raggiungimento di questi risultati è stato possibile, seguendo il pensiero di Cei, grazie ai due assunti principali alla base del progetto di formazione di Smith e Smoll. Il primo si riferisce alla concezione di successo più come massimo impegno attuabile che come semplice sommatoria di vittorie e sconfitte mentre il secondo riguarda l’approccio positivo ai rapporti sociali che predilige l’incoraggiamento e i rinforzi alle punizioni e alle critiche distruttive.

A questi assunti si affianca l’obiettivo di preparare gli allenatori a non rispondere negativamente ai singoli errori degli atleti, evitando così che si sviluppi la paura della competizione e favorendo al contrario la capacità di prendere decisioni e saper correre rischi. Per fare in modo che questi assunti possano essere rispettati è basilare che l’allenatore sia consapevole delle conseguenze che il proprio comportamento può avere sulla relazione con ciascun atleta. A questo proposito gli autori consigliano sia di lavorare, quando possibile, insieme ai loro collaboratori al fine di scambiarsi opinioni sui rispettivi modi di agire, sia di sviluppare una capacità di automonitoraggio per poter riflettere sulle proprie azioni e sulle loro conseguenze.

Come abbiamo visto in una squadra esiste anche un leader intimo, i cui rapporti affettivi con i compagni appaiono spesso più profondi di quelli permessi al leader istituzionale, questo perché tende, in quanto eletto dal gruppo, a mantenere uno stile di comportamento più legato all’aspetto relazionale che a quello tecnico. In particolare all’interno di ogni squadra si possono individuare alcuni ruoli caratterizzati da particolari e stereotipati rapporti con la figura del capitano. Nella classificazione di Mazzali possono essere distinti:

 – vicecapo: che esercita un ruolo tecnico spesso vicino a quello del leader tanto da poter essere spesso confuso con quest’ultimo. Spesso si trova in uno stato di sudditanza psicologica volontaria rispetto al leader e sicuramente rappresenta uno dei suoi sostenitori più fidati.

I gregari: rappresentano tutti i membri della squadra che hanno contribuito ad eleggere il leader intimo sia per bisogno di dipendenza e di deresponsabilizzazione che per il riconoscimento delle sue reali capacità. All’interno delle dinamiche affettive del gruppo tendenzialmente preferiscono mantenere, per le stesse motivazioni, un comportamento in linea con le direttivi del capitano, ricavandone soddisfazione a meno che non rientrino in un rapporto di sudditanza.

Il mistico: rappresenta una figura abbastanza distante affettivamente dal gruppo ma considerato punto di riferimento e fonte di conoscenza tecnica. Spesso in tacito appoggio al leader, sviluppa con esso una relazione di formale collaborazione.

Gli outsider: sono i membri che si mantengono a una certa distanza dalle dinamiche relazionali interne al gruppo, come se non fossero in sintonia emotiva con il resto della squadra. Data la loro posizione tendono a non riconoscere il potere del leader, proprio perché non ha una valenza istituzionale, e a considerare eccessivo il suo comportamento direttivo. Per questo non è difficile che esploda qualche conflitto tra l’outsider e il capitano le cui conseguenze possono portare a riconfermare lo status del primo o ad abbatterlo ma, in ogni caso, mina la stabilità del gruppo.

Il sindacalista: una sorta di rappresentante dell’opposizione al leader, che guida le critiche al potere di quest’ultimo al fine di rovesciarne la status per abbattere la sudditanza psicologica e la dipendenza che genera. Il conflitto tra il leader intimo e il sindacalista all’interno dello spogliatoio è molto frequente ma altrettanto aperta a possibili conclusioni positive che rendono plausibile una convivenza comune nel momento in cui si giunge a un accordo su quali siano gli obiettivi della squadra e sulla loro relativa importanza. Questo anche perché il sindacalista solitamente non ha le capacità di sostituire il leader ed è in grado comunque di riconoscerne le abilità rispetto al ruolo che riveste. La situazione opposta, quella di un conflitto aperto tra due leader supportati da sottogruppi diversi della squadra è ben più difficile da risolvere positivamente.

Il capro espiatorio: è la persona che riveste il ruolo di fonte di scarica nei momenti in cui i livelli di tensione sono troppo bassi. Sono soliti subire le angherie del gruppo ma in linea di massima mantengono un rapporto positivo con tutti e in particolar modo con il leader intimo che ne riconosce l’utilità per mantenere sereno il clima della squadra.

Il buffone del gruppo: un personaggio quasi costante in tutti i gruppi sportivi, permette di sdrammatizzare i momenti critici, di diminuire la tensione del gruppo, di promuovere una maggior accettazione dei propri difetti, di utilizzare l’autocritica in modo più frequente, di favorire una maggior cordialità dei rapporti e aumentare la comunicazione spontanea attraverso provocazioni umoristiche che spesso hanno come obiettivo proprio il leader anche se non devono superare i limiti del rispetto e del buongusto. Questo rapporto, al contrario di quanto possa sembrare, è facilmente tollerato dal leader che ne riconosce i vantaggi sia per l’atmosfera che circonda il gruppo sia per l’importanza delle critiche costruttive.

Al contrario che con il potere del leader istituzionale il sentimento di dipendenza si genera quindi dall’interno del gruppo (principalmente dai gregari) che, in un certo senso, conferisce al leader la possibilità di intervenire attivamente e con una rilevante influenza sulle caratteristiche della relazione che li lega. Un leader di questo tipo che appaia in grado di stimolare e gestire la squadra e che appaia saldo nella sua posizione risulta essere di per sé la fonte di un sentimento di soddisfazione dettato, come già accennato, dalla necessità di deresponsabilizzazione e dipendenza che li caratterizza. E’ naturale che questa soddisfazione di base che può vantare rispetto all’allenatore dovuta all’origine dell’assegnazione del proprio ruolo, deve poi essere coltivata come se fosse un credito idiosincratico da non deludere. Per fare ciò il capitano deve saldare ciò che già c’è e che l’allenatore-leader, con maggior difficoltà, cerca di costruire dall’esterno.

Non con tutti i membri del gruppo il rapporto può essere socievole e connotato positivamente. In particolar modo, i problemi sorgono con chi riveste un ruolo marginale all’interno delle dinamiche dello spogliatoio (gli outsider) e con chi si erge come rappresentante della minoranza del gruppo (il sindacalista) oppure ancora con altri leader, supportati spesso da una parte della squadra. Queste condizioni di conflitto, se tenute sotto controllo dalle capacità diplomatiche, gestionali ed empatiche del leader non arrivano a causare problemi seri al gruppo. L’associazione, al contrario di variabili ambientali con un’incapacità del leader, si sviluppa un conflitto aperto che riduce la soddisfazione sia direttamente che indirettamente attraverso la sua influenza sull’atmosfera del gruppo, sulla relazione con i compagni e sulla prestazione dell’intera squadra.

 

LEGGI:

PSICOLOGIA DELLO SPORT – RAPPORTI INTERPERSONALI –  LEADERSHIP NELLO SPORT

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

EABCT 2013 – Report dal congresso di Marrakesh. Di Michele Procacci

Michele Procacci

EABCT 2013 MARRAKESH

EABCT 2013 – Report dal congresso

 

EABCT 2013 MarrakeshDal 25 al 28 settembre 2013 si è svolto a Marrakesh il congresso della European Association for Behavioural and Cognitive Therapies (EABCT), una delle principali società scientifiche della terapia cognitiva.

Pubblichiamo con piacere l’istruttiva mail del dott. Michele Procacci, che ha partecipato al congresso.

Si è concluso da pochi giorni il congresso 2013 dell’EABCT, la European Association for Behavioural and Cognitive Therapies. Notevole l’afflusso, più di 1200 partecipanti, provenienti da 60 diversi paesi, inclusi i paesi del nordafrica, del medio oriente, e un gruppo di canadesi e di nordamericani. Buona quindi idea di scegliere come sede 2013 Marrakesh in Marocco. Philip Tata e il Board EABCT hanno affrontato un impegnativo lavoro di organizzazione degli spazi dei simposi in parallelo (fino a 15 per sessione), letture in plenaria, sessioni poster e 43 workshop pre- e intra- congresso.

Era presente la ricerca di base applicata alla clinica, la classica ricerca di efficacia sui protocolli cognitivi comportamentali standard per i disturbi emotivi, e dati preliminari su nuovi interventi di tipo processuale su worry, rimuginio, errori di ragionamento, social ranking processes, processi di regolazione emotiva, e così via.

La CBT si apre a forme di parziale superamento dei trattamenti standard: Schema Therapy per disturbi di personalità, terapia dell’accettazione e impegno (Acceptance and Committment Therapy) per i disturbi depressivi, terapie centrate sulla mindfulness (MBCT, mindfulness based cognitive therapy, e MBSR, mindfulness based stress reduction) e terapie metacognitive varie.

Antonio Pinto ha presentato un programma di simposi di otto Special Interest Group che ha visto alcuni ricercatori italiani tra i promotori, un modo di mettere in rete esperienze cliniche e di ricerca tra colleghi di diversi paesi, appartenenti a società affiliate alla EABCT, una novità di questo congresso. Non sono mancati alcuni relatori di spicco nella EABCT: Arntz ha parlato di tecniche di imagery per il trauma, Rapee del suo modello di trattamento per l’ansia infantile e adolescenziale, Gilbert del sua Compassion Therapy, Cottraux di personalità, Purdon di ossessività, Pinto-Guveia, Sungur ha esposto il modello metacognivo di Wells, e così via.

L’abbondanza degli interventi in parallelo ha fornito un programma articolato e anche inevitabili sovrapposizioni di sessioni, creando talvolta l’imbarazzo nella scelta. Le sessioni dei simposi e dei poster hanno fornito interessanti lavori, con una generazione di clinici e ricercatori giovani agguerriti e preparati.

La sede del convegno era un palazzo dei congressi e strutture alberghiere in un palmeto a circa 10 chilometri dal centro della città. L’atmosfera di Marrakesh ha fatto da splendida cornice al congresso. Di sera è stato piacevole recarsi nella Medina e confondersi nella folla di venditori e spettacoli in strada musicali e con animali. Marrakesh antica porta verso le montagne dell’ Atlante e verso il deserto, ha mantenuto l’atmosfera del vicino oriente mescolata ad una gioventù  che ha familiarizzato con i costumi europei. Porteremo negli occhi e nelle orecchie colori e suoni di questa città.

LEGGI ANCHE:

EABCT – EUROPEAN ASSOCIATION FOR BEHAVIOURAL AND COGNITIVE THERAPIES – RIMUGINIO (WORRY) E RUMINAZIONE (RUMINATION)

 ARTICOLI SUI CONGRESSI EABCT

Le Cellule BNST quanto interferiscono con la sensazione di fame?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Lo studio suggerisce che una disfunzionalità sinaptica nelle cellule BNST potrebbe interferire con la fame o la sazietà e potrebbe contribuire alla costruzione di modelli teorici e di trattamento integrati e interdipendenti – ma non esclusivamente biologicamente riduttivi -sui disturbi del comportamento alimentare.

Sessanta anni fa, gli scienziati stimolavano elettricamente una regione del cervello dei topo, con il risultato di indurre il topo ad alimentarsi indipendentemente dalla sensazione di fame. Ora i ricercatori UNC School of Medicine hanno individuato le connessioni cellulari responsabili di indurre quel comportamento alimentare. La scoperta  è stata pubblicata il 27 settembre su Science.

Lo studio si è focalizzato su un tipo di cellula – i neuroni GABA nel nucleo della stria terminale (o BNST) che costituisce un ponte tra l’amigdala (essenziale nella regolazione emotiva) e l’ ipotalamo laterale, la regione del cervello che guida alcune funzioni primarie come il mangiare, il comportamento sessuale e l’aggressività .

Il team di ricerca ha stimolato le sinapsi delle cellule di questa area cerebrale mediante una complessa tecnica di stimolazione attraverso la luce.

Non appena le sinapsi di quest’area BNST sono state stimolate i topi hanno iniziato a mangiare voracemente, anche se erano già stati precedentemente ben nutriti. Inoltre, i topi hanno mostrato una forte preferenza per i cibi molto grassi. Il rovescio della medaglia è che ostacolando le sinapsi dell’area BNST i topi hanno mostrato poco interesse per mangiare, anche in condizione di privazione ​​di cibo .

Lo studio suggerisce che una disfunzionalità sinaptica nelle cellule BNST potrebbe interferire con la fame o la sazietà e potrebbe contribuire alla costruzione di modelli teorici e di trattamento integrati e interdipendenti – ma non esclusivamente biologicamente riduttivi -sui disturbi del comportamento alimentare.

LEGGI ANCHE:

NEUROPSICOLOGIA – ALIMENTAZIONE

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

Sei più intelligente dello scimpanzé? – Psicologia Comparativa

Ogni anno la British Psychological Society promuove con dei bandi la divulgazione scientifica della ricerca evidence-based nel campo della psicologia.

Nel 2012 Katie Slocombe (dell’Università di York) e Bridget Waller (Università di Portsmouth) hanno vinto una borsa per sviluppare un progetto di installazioni interattive per promuovere la psicologia comparativa negli zoo. Questi videogiochi interattivi sono stati proposti negli zoo delle città di Edimburgo e Marwell e sono ora disponibili online.

 

SEI IL PIÙ INTELLIGENTE TRA I PRIMATI?

Questo gioco vi permette di mettere a confronto le vostre abilità mentali con quelle di altri primati. Provate questi 5 esperimenti per verificare se siete più bravi di scimmie o scimpanzé in certe determinate operazioni. Potreste rimanere stupiti!

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Educazione dei figli: urlare non serve e può danneggiare gli adolescenti – Psicologia

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

L’impatto psicologico di una dura disciplina verbale è molto simile all’uso della violenza con i figli. Uno studio della University of Pittsburgh su un periodo di 2 anni.

“From that we can infer that these results will last the same way that the effects of physical discipline do because the immediate-to-two-year effects of verbal discipline were about the same as for physical discipline,” Wang said. Based on the literature studying the effects of physical discipline, Wang and Kenny anticipate similar long-term results for adolescents subjected to harsh verbal discipline.

Yelling Doesn’t Help, May Harm Adolescents, Pitt-Led Study Finds | University of Pittsburgh NewsConsigliato dalla Redazione

State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche. Twitter: @stateofmindwj - State of Mind's Tweets Cover Image © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservata
PITTSBURGH—Most parents who yell at their adolescent children wouldn’t dream of physically punishing their teens. Yet their use of harsh verbal discipline—defined as shouting, cursing, or using insults—may be just as detrimental to the long-term well-being of adolescents. (…)

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

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