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Gli effetti del rimuginio e della ruminazione nel sonno

Rimuginio e ruminazione, in particolare legati al sonno e alla preoccupazione di non riuscire a dormire, rivestono un ruolo centrale nei disturbi del sonno

Di Antonella Danesi

Pubblicato il 21 Dic. 2020

Rimuginio, ruminazione e sonno: studi con PET ed EEG dimostrano come in soggetti affetti da disturbi del sonno sia presente una maggior attivazione cognitiva che rimane tale anche durante il sonno.

Antonella Danesi – OPEN SCHOOL Studi Cognitivi San Benedetto del Tronto

 

A chiunque sarà capitato di pensare ripetutamente ad un evento del passato o alle conseguenze di una scelta presa, al fine di trovare nella riflessione la possibilità di compiere azioni migliori. Allo stesso modo, in vista di un evento importante, sarà capitato a tutti di essere particolarmente preoccupati e di aver riflettuto attraverso pensieri e previsioni negative, spesso smentite dall’effettivo esito.

Il pensiero ripetitivo, tipico di questi momenti di riflessione, non rappresenta di per sé un processo disfunzionale o patogeno, poiché risulta essere necessario ed atto a trovare soluzioni ad un problema o a prendere una decisione.

Questi processi, comunemente chiamati rimuginio e ruminazione, sono strategie di regolazione emotiva definibile come la capacità di operare volontariamente sui propri processi mentali, ed che è tesa al raggiungimento degli scopi e al miglioramento dell’adattamento alla realtà.

Tuttavia, tali processi perdono la loro funzionalità quando il soggetto rimane bloccato in pensieri che si ripetono ininterrottamente e che ostacolano sempre di più il raggiungimento della soluzione desiderata.

Il rimuginio

Il rimuginio o worry, studiato per la prima volta da Tom Borkovec nelle sue ricerche sull’insonnia (Borkovec, Ray, Stober, 1998), è definito come una forma di pensiero ripetitivo, negativo e analitico. Il rimuginio può esser definito come un’attività mentale che implica una costruzione ripetuta di ipotetici scenari futuri negativi (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017). È un fenomeno clinico presente in un ampio spettro di disturbi psicologici ma è strettamente legato all’ansia pertanto è piuttosto presente nel Disturbo d’Ansia Generalizzata.

Ciò che caratterizza tale fenomeno mentale, in cui prevalgono valutazioni di natura verbale e astratta, è la presenza di pensieri ripetitivi, pervasivi, negativi se non catastrofici, riferiti ad eventi futuri che sono vissuti come incontrollabili e intrusivi.

Il rimuginatore, avendo un elevato timore delle conseguenze negative degli eventi, tende a tenere tutto estremamente sotto controllo, con l’obiettivo che si evitino le previsioni temute. Il soggetto pertanto, tende a ripetere mentalmente con dialogo interno – caratterizzato per lo più da frasi mentali – gli elementi della situazione problematica, con predizioni catastrofiche relative alla sua evoluzione. Ciò porta ad un’incapacità di scegliere una soluzione e una risposta funzionale al pericolo sul piano operativo, poiché ogni risoluzione viene giudicata dal soggetto come inadeguata e non risolutiva. In tal modo, questa modalità ripetitiva di pensiero risulta essere priva di concretezza ed è caratterizzata da una scarsa elaborazione di piani di coping funzionali.

Alla base di questo processo vi è la convinzione, da parte del soggetto rimuginatore, che questa attività mentale sia una efficace strategia da adottare per fronteggiare situazioni considerate minacciose e, pertanto, complesse da gestire. Attraverso questa modalità di pensiero ripetitivo l’individuo, infatti, crede invano di poter risolvere il problema o di poter ridurre la probabilità che si verifichi.

Alla lunga questa strategia si può cronicizzare, divenendo maladattiva e inducendo in chi rimugina una percezione di sé come debole, fragile, incapace di affrontare i problemi, accompagnata dalla costante sensazione di essere soggiogato da un futuro pericoloso e ingestibile (Clark & Beck, 2010).

Nonostante vi siano, da parte del soggetto, delle credenze relative all’utilità del rimuginio, esistono evidenze sulle ripercussioni negative di questa modalità che vanno ad inficiare la qualità ed il benessere dell’individuo. Dal punto di vista cognitivo il rimuginio riduce le risorse associate alla working memory e, di conseguenza, provocherà difficoltà legate alla concentrazione e attenzione. Risulta inoltre inficiata la capacità di problem solving, dal momento in cui si adotta il rimuginio come strategia elettiva. Il rimuginio cronico, implicando uno stato continuo di allerta verso una possibile minaccia, può provocare tensione muscolare, alterazioni del ritmo-sonno veglia, irritabilità, nausea, dolore cronico e danni alle coronarie in soggetti anziani.

La ruminazione

La ruminazione è un processo cognitivo molto simile al rimuginio, in quanto condivide con esso la ripetitività e la natura negativa ed astratta. Entrambi i processi rappresentano strategie di pensiero ritenute utili da adottare nelle situazioni difficili da gestire e finalizzate all’evitamento delle esperienze interne negative.

La differenza tra le due modalità risiede nel fatto che il rimuginio è rivolto ad eventuali minacce future e riguarda l’evitamento o la prevenzione del pericolo; la ruminazione si focalizza, invece, su eventi passati o stati emotivi presenti, configurandosi come un’attività analitica, volta alla comprensione o attribuzione di significato spesso rintracciabile nel proprio vissuto o nel proprio comportamento. Si configura, in sintesi, come un costante riesame di situazioni passate (Caselli, Ruggiero, Sassaroli, 2017).

La ruminazione, per le sue caratteristiche, tende a generare e mantenere l’emozione di tristezza ed è strettamente connessa con temi di fallimento e perdita, per esempio la fine di una relazione sentimentale, una perdita sul lavoro, un lutto. In tal senso, appare piuttosto inevitabile che la ruminazione rappresenti un processo associato tipicamente a disturbi depressivi (Clark, Beck, Brown, 1989), ma anche a sintomi da stress post-traumatico (Nolem-Hoeksema, Morrow, 1991) e recentemente è stato indagato il suo ruolo anche nel disturbo borderline.

Come il rimuginio, anche la ruminazione può essere considerata una strategia di evitamento cognitivo, poiché alla base di questa attività mentale vi è la credenza positiva che ruminare aiuti a risolvere i propri problemi, a trovare un significato alla propria vita grazie alla comprensione del passato, a conoscere le motivazioni per cui avvengono determinate cose.

Tuttavia questi benefici e credenze positive riferiti, sono stati disconfermati dai dati relativi all’elaborazione dell’amigdala. E’ stato infatti osservato che quando ai ruminatori sono presentati stimoli emozionali negativi, l’amigdala mostra un’attivazione sostenuta, rispetto a quanto accade invece nei non ruminatori (Ray et al. 2005), che contribuisce all’aggravamento e al mantenimento della disforia.

In aggiunta, la mancata risoluzione del problema andrà a rinforzare l’idea di sé come inadeguato e incapace e l’utilizzo prolungato di questa modalità di gestione, peggiora lo stato d’animo negativo provocando un abbassamento del tono dell’umore e una distorsione negativa relativa alla percezione di sé e dell’ambiente (Wells, 2009).

La ruminazione, al pari del rimuginio, può avere implicazioni clinicamente significative sul piano cognitivo, in quanto richiede ed esaurisce le risorse cognitive che potrebbero essere utilizzate per risolvere problemi, raggiungere i propri obiettivi o semplicemente svolgere le normali attività quotidiane.

Gli effetti dei pensieri ripetitivi sul sonno

Le evidenze suggeriscono che i processi cognitivi ripetitivi e metacognitivi, legati al sonno e alla preoccupazione di non riuscire a dormire, svolgono un ruolo centrale nell’eziologia e nel mantenimento dei disturbi del sonno e ciò, nel tempo, ha favorito maggiori approfondimenti nello studio dei meccanismi cognitivi legati a tali disturbi. Studi con PET ed EEG dimostrano, infatti, che in soggetti affetti da disturbi del sonno sia presente una maggior attivazione cognitiva la quale rimane tale anche durante il sonno. Le alte frequenze dell’attività dell’elettroencefalogramma (EEG) sono connesse a processi del pensiero che appaiono maggiormente presenti in soggetti che soffrono di insonnia al momento di iniziare a dormire o di mantenere il sonno. Molti individui che soffrono d’insonnia psicofisiologica, appunto, riportano che gli eventi mentali ostacolano il raggiungimento e mantenimento del proprio sonno.

Studi correlazionali hanno evidenziato, tuttavia, difficoltà del sonno anche in soggetti che non avevano un vero e proprio disturbo. A questo proposito, è stato dimostrato che studenti universitari che manifestano alti livelli di rimuginio, segnalano periodi di sonno più brevi (Kelly, 2002) e che le preoccupazioni legate al lavoro sono associate ad una scarsa qualità del sonno (Rodríguez-Muñoz, Notelaers e Moreno-Jiménez, 2011).

I meccanismi relativi ai pensieri e il modo con cui essi condizionano il sonno sono stati oggetto di grande interesse da parte di studiosi. I primi studi, risalenti agli anni 60 e 70 erano principalmente rivolti ad evidenziare il ruolo dei pensieri ripetitivi relativi al non riuscire a dormire e a constatare quanto le aspettative influenzassero la manifestazione dei sintomi dell’insonnia.

Nel corso degli studi è stata presa in considerazione anche la percezione del proprio sonno che ha permesso di dimostrare come i soggetti con tale disturbo tendano a sovrastimare il tempo di latenza necessario per addormentarsi, e a sottostimare il tempo totale di sonno. Studi recenti, poi, hanno confermato l’importanza della percezione soggettiva di come sia trascorsa la notte nel mantenimento del disturbo.

Lo studio di Lichstein e Rosenthal (Lichstein & Rosenthal 1980) sui pensieri intrusivi ha evidenziato come i soggetti attribuissero a fattori cognitivi quali rimuginio, mancato controllo sui pensieri, ruminazioni, le cause dei disturbi del sonno piuttosto che a fattori somatici. Questo studio ha portato a successive indagini finalizzate a cogliere la relazione tra attivazione cognitiva e misurazione del sonno e a considerare l’insonnia come un disturbo dettato dall’incapacità di interrompere immagini e pensieri intrusivi prima di addormentarsi.

Al fine di confermare tali studi basati su resoconti personali, sono state condotte ricerche sperimentali sul tema, che hanno constatato l’importanza delle preoccupazioni e dell’incapacità di distrarsi nelle persone con difficoltà nel sonno (Haynes et al. 1981; Gross & Borkovec 1982).

Esistono recenti evidenze sulla relazione tra aumento di stress e scarsa qualità del sonno che rappresenta un fattore di rischio per lo sviluppo di malattie mentali e fisiche. Tale relazione è supportata dalla cognizione: un aumento di stress percepito e uno scarso sonno possono aumentare la percezione di un cattivo funzionamento, che a sua volta può contribuire alla percezione di un maggiore stress e di conseguenza di una scarsa qualità del sonno.

Un fattore che media la relazione disadattiva tra stress e qualità del sonno è l’attivazione pre-sonno che si verifica durante il periodo di insorgenza del sonno. Tale attivazione può essere cognitiva, cioè dovuta alla presenza di processi quali ruminazioni, rimuginio, e/o somatica, cioè esperita attraverso manifestazioni fisiologiche quali, ad esempio, elevata frequenza cardiaca o sudorazione. I risultati di questo studio indicano che l’attivazione cognitiva ha un effetto maggiore sulla relazione stress-sonno, rispetto all’attivazione somatica. Questi risultati sono coerenti con il modello cognitivo proposto da Harvey (Harvey, 2002; 2005; Espie et al. 2006) secondo cui l’insonnia sarebbe provocata da una ‘cascata’ di processi cognitivi presenti sia di notte che di giorno. Tale modello sostiene che i soggetti con insonnia soffrono di pensieri intrusivi negativi ed eccessiva paura durante il periodo di pre- addormentamento. Tali paure e ruminazioni provocano un’attivazione fisiologico/emotiva e stress, uno stato ansioso che determina un restringimento del focus attentivo che, a sua volta, porta a monitorare stimoli esterni o stimoli interni che minacciano il sonno. Essendo alto il livello di attenzione e di attivazione, le probabilità di percepire stimoli minacciosi, aumentano. Gli individui, in tal modo, sono portati a sovrastimare l’entità del disturbo e delle conseguenze diurne ma, tuttavia, credono che preoccuparsi prima di addormentarsi porti a dei risultati positivi  Questi processi di sovrastima e sovra attenzione incrementano lo stato di paura iniziale e preoccupazione. In tal modo, tutto ciò va a tradursi come un processo di auto-rinforzo che ritarda l’insorgenza del sonno e che, di conseguenza, mantiene il disturbo. In definitiva, l’attivazione somatica, sebbene abbia un minor impatto rispetto a quella cognitiva, rappresenta tuttavia una parte sostanziale nella relazione stress-sonno, come ulteriormente dimostrato dal modello di Harvey.

Dal momento che la maggior parte dei soggetti insonni ritengono che l’incapacità di gestire i loro pensieri indesiderati sia la causa del problema, spesso mostrano tentativi di fermarli, modificarli o sopprimerli che, oltre ad essere vani, non fanno altro che mantenere l’attivazione cognitiva.

Conoscere approfonditamente questi modelli ha permesso di verificare come i processi ripetitivi del pensiero siano fondamentali nello sviluppo e mantenimento di disturbi legati al sonno. Questi studi, inoltre, permettono di pianificare piani di trattamento e l’adozione di tecniche specifiche ed efficaci per far fronte a queste difficoltà. L’American Academy of Sleep Medicine’s Practice Parameters ha indicato la Terapia cognitivo comportamentale, come il trattamento di prima scelta per l’insonnia primaria (Smith & Perlis 2006).

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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