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Problem Solving

Negli anni 70-80 ogni attività orientata verso degli obiettivi (goal-oriented) era considerata problem solving. Ma esiste, ad oggi, una definizione univoca?

Da un punto di vista cognitivo, il problem solving può essere definito come un processo cognitivo che coinvolge: (a) la formazione di una rappresentazione iniziale del problema (ovvero una presentazione esterna del problema viene codificata in una rappresentazione interna); (b) la potenziale pianificazione di sequenze di azioni (es. strategie, procedure) per risolvere il problema e (c) l’esecuzione del piano e la verifica dei risultati.

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Negli anni ’70 e ’80, la definizione di problem solving è stata ampliata fino a comprendere praticamente ogni attività cognitiva diversa dalla percezione e dalla memoria. Essenzialmente, ogni attività orientata verso degli obiettivi (goal-oriented) era considerata problem solving (Burns e Vollmeyer, 2000). Si ritiene che questo ampliamento della definizione ne comprometti tuttavia l’utilità a livello teorico e di ricerca (Quesada et al. 2005).

Problem solving: un problema di definizione?

Nel corso degli anni, si sono susseguite varie affermazioni sul significato di problem solving:

  • Il problem solving è definito come qualsiasi sequenza di operazioni cognitive diretta all’obiettivo. (Anderson, 1980, p. 257)
  • Il problem solving è definito qui come una sequenza finalizzata all’obiettivo di operazioni cognitive e affettive, oltre che comportamentali, messe in atto allo scopo di adattarsi a richieste o sfide interne o esterne. (Heppner & Krauskopf, 1987, p. 375)
  • Ciò fai quando non sai cosa fare. (Wheatley, 1984, p. 1)

Queste definizioni sono esempi delle tante definizioni di problem solving che continuano a essere offerte in letteratura.

Ad un certo punto, negli anni ’90, sia i ricercatori europei che americani hanno ritenuto opportuno distinguere tra problem solving semplice e problem solving complesso. Per problem solving “semplice” si intende il processo messo in atto nella soluzione di compiti cognitivi e/o pratici che possono essere risolti attraverso semplici programmi di ragionamento, usando la logica pura (Quesada, 2005). Il problem solving complesso invece riguarda (Frensch e Funke, 1995b) quelle attività di risoluzione di un problema che sono: (1) dinamiche, perché richiedono delle prime azioni da svolgere nell’ambiente a partire dalle quali sono poi prese successive decisioni. Le caratteristiche dell’attività e dell’ambiente, inoltre, possono cambiare indipendentemente dalle azioni del risolutore; (2) dipendenti dal tempo,perché le decisioni devono essere prese al momento giusto in relazione all’ambiente; e (3) complesse, nel senso che la maggior parte delle variabili non sono correlate l’una all’altra in rapporto uno a uno. In queste situazioni, il problema non richiede una sola decisione, ma una lunga serie di decisioni, in cui le prime condizionano le successive.

I passaggi del problem solving

Sebbene molti individui siano naturalmente più predisposti al problem solving, non va dimenticato che questa è una competenza che può essere anche acquisita (University2business, 2019). Il metodo di problem solving più usato prevede quattro fasi o passaggi:

  • 1- Definizione del problema. Questa è una fase molto importante, analizzare una situazione e capire il vero nocciolo del problema è fondamentale. Molto utile, a questo proposito, può risultare scomporre il problema in piccoli problemi secondari e capire come poterli gestire e/o risolverli singolarmente.
  • 2- Creazione di alternative. Si tratta di una fase in cui, attraverso le informazioni che possediamo, cerchiamo di realizzare un piano per gestire il problema.
  •  3- Valutazione e selezione di alternative. Dopo aver preso in considerazione diverse soluzioni alternative, si può poi selezionare quella più idonea a raggiungere i nostri scopi.
  • 4- Implementazione delle soluzioni. Scelta la soluzione e realizzato il piano di attuazione, questo va implementato, e dunque eseguito (University2business, 2019).

Il problem solving in campo clinico

Avere una buona capacità di problem solving aiuta ad affrontare le difficoltà che si palesano nella vita di tutti i giorni e dunque ad uscire da momenti di impasse che, altrimenti, avrebbero effetti negativi sulla nostra salute psico-fisica. Nell’ambito dei disturbi alimentari, ad esempio, con il protocollo di Fairburn si aiutano i pazienti a sviluppare maggiori capacità di problem solving.

Eppure l’uso del problem solving per gestire i problemi emotivi sia nei disturbi alimentari che in generale può sembrare inizialmente un po’ semplicistico. Possibile che le ansie e i disagi del paziente possano essere gestiti con una tecnica razionale e pragmatica di gestione dei problemi? La difficoltà del paziente ad assumere un atteggiamento più razionale e meno emotivo non risiede forse in paure per affrontare le quali non basta apprendere a ragionare in un modo diverso, meno emotivo? Sono obiezioni per nulla infondate. Il protocollo di Fairburn punta al problem solving e, almeno per un certo numero (non piccolo) di pazienti, funziona. Le percentuali di successo variano dal 40 al 70% dei casi in cura. Queste cifre suggeriscono che effettivamente molti di questi pazienti, sebbene afflitti da paure significative e profonde, avevano bisogno di apprendere un modo diverso di ragionare, meno ‘di pancia’ e più controllato razionalmente.

Uno studio pubblicato sulla rivista Psychology and Aging ha dimostrato che un intervento di potenziamento cognitivo su adulti anziani è stato in grado di modificarne la personalità. È l’apertura al cambiamento – cioè l’essere flessibili e creativi, abbracciare nuove idee e portare avanti sfide intellettuali o culturali – il tratto della personalità che sembra essere correlato con le capacità cognitive e con il loro andamento. I partecipanti allo studio, tutti tutti di età compresa tra i 60 e i 94 anni, si sono impegnati per 16 settimane consecutive in compiti di problem solving, parole crociate e sudoku; l’allenamento, in accordo con il miglioramento delle prestazioni dei partecipanti, diventava ogni settimana più impegnativo. I risultati dell’esperimento indicano non solo che l’allenamento cognitivo e i compiti di problem solving hanno notevolmente incrementato le abilità legate al pensiero induttivo, ma anche che questo andava di pari passo con un aumento, moderato ma significativo, dell’apertura al cambiamento.

Biblografia:

  • Quesada, J., Kintsch, W., & Gomez, E. (2005). Complex problem-solving: A field in search of a definition? Theoretical Issues in Ergonomics Science, 6(1), 5–33. https://doi.org/10.1080/14639220512331311553
  • Burns, B.D. and Vollmeyer, R., 2000, Problem solving: phenomena in search for a thesis. In Proceedings of the Cognitive Science Society Meeting, 13–15 August 2000, Pittsburgh, USA, pp. 627–632 (Lawrence Erlbaum Associates: NY).
  • Anderson, J. R. (1980). Cognitive psychology and its implications. New York: Freeman.
  • Heppner, P. P., & Krauskopf, C. J. (1987). An information-processing approach to personal problem solving. The Counseling Psychologist, 15, 371–447.
  • Wheatley, G. H. (1984). Problem solving in school mathematics. (MEPS Technical Report No. 84.01). West Lafayette, IN: Purdue University, School Mathematics and Science Center.
  • Frensch, P., Funke, J. (1995) Complex Problem Solving: The European Perspective.
  • University2Bussiness (2019) Cos’è il problem solving e come sviluppare questa competenza. AVAILABLE HERE
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