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Il counseling in adolescenza

 

Counseling in adolescenza . - Immagine: © auremar - Fotolia.comL’adolescenza si configura come una fase della vita complessa, sfaccettata, eterogenea, caratterizzata da importanti cambiamenti e acquisizioni cognitive, affettive e socio-relazionali.

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La letteratura in proposito (Palmonari, 1997; 2001; Pietropolli Charmet, 2000) propone come concetto cardine attorno a cui strutturare l’analisi dello sviluppo in adolescenza, quello di developmental task o compito di sviluppo.

Tutto il ciclo di vita dell’individuo è costellato da compiti e sfide che devono essere affrontati e risolti nella maniera più funzionale e adattiva allo scopo di favorire lo sviluppo e l’adattamento dell’individuo al proprio ambiente. Se questo non avviene nei tempi e nei modi adeguati, lo sviluppo e il benessere dell’individuo sono potenzialmente compromessi.

Una lettura recente dei compiti di sviluppo propone l’analisi degli stessi in relazione allo stretto rapporto esistente tra individuo, ambiente e appartenenza socio-culturale (Palmonari, 2001). Nelle società occidentali i compiti di sviluppo specifici della fase adolescenziale investono potentemente tutte le aree di sviluppo salienti per l’individuo: corpo, cognizione e metacognizione, affettività, emozioni, relazioni, identità (Erikson, 1968).

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Risulta evidente da questa breve disamina che i compiti evolutivi sono potenzialmente portatori di benessere e adattamento psicosociale così come di disagio e malessere a seconda delle modalità e delle strategie che l’adolescente adotta per affrontarli.

Il disagio adolescenziale, concordemente alla letteratura sia in ambito psicodinamico sia psicosociale, trae origine dalle difficoltà e dal dolore mentale che l’individuo sperimenta nel dover affrontare queste sfide evolutive così importanti e decisive per i successivi processi di sviluppo. La messa in atto di strategie di fronteggiamento e di coping facilmente accessibili ma potenzialmente dannose e pericolose per la salute e il benessere, come ad esempio l’uso di sostanze e alcol, i comportamenti aggressivi, o la guida spericolata, possono compromettere l’adattamento dell’individuo ai suoi contesti di vita e la possibilità per lui di apprendere altre strategie maggiormente costruttive e protettive (Bonino, Cattelino e Ciairano, 2007).

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L’attività di counseling rivolta agli adolescenti si inserisce proprio in questo frangente, e, nello specifico, allo scopo di evitare che un momento di crisi o di stallo evolutivo si trasformi in una vera e propria stagnazione (Hendry & Kloep, 2003) o in quello che Pietropolli Charmet (2000) definisce “scacco evolutivo”. Il counseling si pone l’obiettivo di evitare la paralisi delle competenze adattive dell’individuo e la cristallizzazione di un’identità negativa, favorendo al contrario l’esplorazione e l’attivazione di modalità costruttive e adattive di fronteggiamento dei compiti di sviluppo (Maggiolini, 1997).

L’adolescenza ai tempi della crisi. -Immagine: © olly - Fotolia.com
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Secondo Pietropolli Charmet (2000), “nel caso dell’adolescente non è il tipo di patologia a rappresentare una controindicazione all’analisi, ma è la fisiologia stessa dello sviluppo adolescenziale a costituire una controindicazione, in quanto è la parte sana dell’adolescente a rifiutare la regressione, la dipendenza, l’intrusività dell’adulto, per quanto benevolo, e a cercare nell’azione una soluzione del conflitto e non nella parola”.

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Il colloquio con l’adolescente da parte di un professionista quindi può funzionare solo se ci si allontana da una domanda di cura e da un’idea di malattia; l’adolescente deve essere considerato non come paziente ma come una persona che ha un problema e che, sulla base di una libera scelta, decide attivamente di parlarne con una persona competente (Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004).

Seguendo queste premesse, il counseling si configura dunque come la modalità ideale di colloquio e di ascolto con l’adolescente, in quanto è un intervento breve nel tempo, che riconosce all’adolescente un ruolo attivo, che presuppone un rapporto alla pari con l’adulto e che promuove le capacità decisionali e relazionali.

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In Italia, si assiste da qualche decennio alla costituzione e all’ampliamento di spazi di ascolto per adolescenti non solo all’interno di luoghi istituzionali come la Scuola e i Servizi socio-sanitari, ma anche, e sempre più frequentemente, in contesti di natura informale ed aggregativa, come i centri di aggregazione giovanile, gli oratori o i progetti di educazione di strada e territoriale. Questi spazi di ascolto si sono progressivamente sviluppati e hanno sempre più abbracciato un’idea di prevenzione olistica, in grado di intercettare e affrontare tutte le forme e le sfaccettature del disagio adolescenziale. Non solo quindi la prevenzione delle malattie sessualmente trasmissibili e l’informazione sulla contraccezione, obiettivi centrali dei primi CIC (Centri di Informazione e Consulenza, predisposti a norma di legge in Italia per la prima volta con il “Testo unico delle Leggi in materia di disciplina degli stupefacenti, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza” – DPR 309/90) negli anni 90 in risposta all’emergenza delle infezioni da HIV, ma anche la prevenzione dell’uso di tabacco, alcol e sostanze stupefacenti, la guida sicura, l’accettazione del proprio corpo, la promozione delle competenze socio-relazionali, il benessere in famiglia, a scuola e con i coetanei.

Le richieste e le domande che gli adolescenti pongono agli adulti competenti sono molteplici e abbracciano indistintamente tutte le aree che per loro sono emotivamente e cognitivamente salienti: il proprio corpo, la famiglia, la scuola, le relazioni con i coetanei del proprio e dell’altro sesso (Maggiolini, 1997; Fuligni e Romito, 2002; Maggiolini e Pietropolli Charmet, 2004). L’obiettivo principe del counseling è tuttavia trasversale alle diverse richieste: fornire agli adolescenti strumenti e strategie di coping per fronteggiare difficoltà relative ai compiti di sviluppo prima dell’insorgere di un vero e proprio disagio, facilitando cambiamenti nel comportamento e migliorando le capacità di relazioni interpersonali.

Pietropolli Charmet (2000) rintraccia nella consultazione con l’adolescente diverse richieste che quest’ultimo avanza all’adulto; secondo l’autore, il colloquio è un momento importante in cui l’adolescente chiede simbolicamente all’adulto il permesso di abbandonare le vesti infantili e di nascere socialmente e pubblicamente come persona che sta crescendo: “Quando gli adolescenti vengono a chiedere una consultazione è come se, metaforicamente, chiedessero il permesso di crescere o chiedessero scusa di non averlo ancora fatto, o di essere messi alla prova per verificare le loro capacità di stare ai patti. È come se l’adulto competente rappresentasse agli occhi dell’adolescente una sorta di protesi mentale per valutare realisticamente come stiano le cose […]. Spera di intercettare un allenatore che sa quali siano i percorsi per rifornirsi delle competenze necessarie a realizzare gli obiettivi”.

Il counseling si configura a questo proposito come un efficace strumento di prevenzione in adolescenza (Maggiolini, 1997; Di Fabio, 2000; Martellucci e Spaltro, 2006), in quanto è in grado di rilevare precocemente sintomi di disagio o malessere psicologico e psicosociale, consente di indagare la trama di fattori di rischio e di fattori protettivi per ogni singolo soggetto e permette di incrementare e perfezionare nell’adolescente quelle competenze socio-cognitive e di coping mediante cui affrontare tale disagio e superarlo efficacemente.

Dal punto di vista epistemologico e teorico assumono più che mai importanza i concetti di empowerment, autoefficacia, locus of control e coping, centrali nelle più recenti formulazioni teoriche di stampo socio-costruzionista e negli interventi di prevenzione in ambito psico-sociale. Come bene evidenziano Martellucci e Spaltro (2006) questi concetti esprimono in termini operativi “il potenziamento del senso di padronanza e di controllo sulla propria vita attraverso la conoscenza di sé, dei propri punti di forza, ed anche la conoscenza dei vincoli e delle opportunità offerti dalla famiglia, dal gruppo classe, dalla scuola e dalla comunità territoriale più ampia”.

Il concetto di self-empowerment esprime la capacità di percepirsi come potenzialmente in grado di mobilitare risorse personali per fronteggiare in modo adeguato i problemi, di sentirsi competenti e consapevoli del legame esistente fra le azioni e i risultati ottenuti (Zani e Cicognani, 2000). I fattori che potenziano la percezione di empowerment sui quali è necessario fare leva in sede di colloquio d’aiuto, sono secondo Martellucci (2005), il locus of control interno, la hopefulness, l’autostima e la percezione di autoefficacia. L’autoefficacia percepita (Bandura, 1995) è intesa come la percezione che la persona ha di essere in grado di portare a termine un compito e la consapevolezza di avere aspettative realistiche circa le proprie possibilità di successo in una data situazione problematica. Favorire e potenziare il senso di autoefficacia in adolescenza, mediante attività di counseling significa rendere i ragazzi consapevoli delle proprie potenzialità e maggiormente preparati a mettere in campo le competenze adeguate per affrontare con successo le sfide di sviluppo, attivando strategie di protezione verso i comportamenti a rischio (Bonino, Cattelino e Ciairano, 2003) e favorendo attivamente resilience e adattamento.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Schizofrenia: i nuovi risultati della genetica

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un nuovo GWAS ha individuato 22 sedi, di cui 13 di recente scoperta, che si ritiene abbiano un ruolo nel causare la schizofrenia.

Un genome-wide association study (GWAS) in epidemiologia genetica è un esame di molte varianti genetiche comuni a individui diversi per vedere se qualunque tra queste è associata a un tratto.

Un nuovo GWAS ha individuato 22 sedi, di cui 13 di recente scoperta, che si ritiene abbiano un ruolo nel causare la schizofrenia.

Cervello, Neuroni Specchio. - Immagine: © V. Yakobchuk - Fotolia.com -
Articolo consigliato: Da Freud ai Neuroni Specchio: Schizofrenia e social perception.

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Patrick F. Sullivan, professore nei dipartimenti di genetica e psichiatria e direttore del Center for Psychiatric Genomics alla University of North Carolina School of Medicine, che ha diretto lo studio, sostiene che “Se trovare le cause della schizofrenia è come risolvere un puzzle, allora questi nuovi risultati ci danno gli angoli e alcuni dei pezzi sui bordi. Questo studio ci fornisce l’immagine più chiara fino ad oggi su due diversi percorsi che potrebbero fallire nelle persone con schizofrenia e ora abbiamo urgente bisogno di concentrare la nostra ricerca su questi due percorsi per capire che cosa provoca questa invalidante malattia mentale.

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I risultati si basano su un’analisi multi-fase che ha avuto inizio con un campione nazionale svedese di 5.001 casi di schizofrenia e 6243 controlli, seguita da una meta-analisi di precedenti studi GWAS, e, infine, dalla replica di polimorfismi a singolo nucleotide (SNP) in 168 regioni genomiche in campioni indipendenti. Il numero totale delle persone in studio era più di 59.000.

Una delle due vie individuate dallo studio è un canale via calcio. Questo percorso include i geni CACNA1C e CACNB2, le cui proteine ​​si toccano come parte di un processo importante nelle cellule nervose. L’altra via è quella del micro-RNA 137. Questo percorso comprende il suo gene omonimo, MIR137 – che è un noto regolatore di sviluppo neuronale – e almeno una dozzina di altri geni regolati da MIR137.

La cosa veramente interessante, ha detto Sullivan, è che adesso è possibile utilizzare le tecnologie standard per riempire i pezzi mancanti del genoma. Ora esiste un percorso chiaro e ovvio per ottenere una conoscenza abbastanza completa sugli aspetti genetici della schizofrenia. Tutto questo non sarebbe stato possibile cinque anni fa”.

LEGGI:

SCHIZOFRENIA –  GENETICA & PSICHE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Stephan Ripke, Colm O’Dushlaine, Kimberly Chambert, Jennifer L Moran, Anna K Kähler, Susanne Akterin, Sarah E Bergen, Ann L Collins, James J Crowley, Menachem Fromer, Yunjung Kim, Sang Hong Lee, Patrik K E Magnusson, Nick Sanchez, Eli A Stahl, Stephanie Williams, Naomi R Wray, Kai Xia, Francesco Bettella, Anders D Borglum, Brendan K Bulik-Sullivan, Paul Cormican, Nick Craddock, Christiaan de Leeuw, Naser Durmishi et al.,  Genome-wide association analysis identifies 13 new risk loci for schizophreniaNature Genetics (2013) doi:10.1038/ng.2742, Received 09 December 2012 Accepted 01 August 2013 Published online 25 August 2013

 

La terapia Cognitivo-Comportamentale efficace contro la depressione

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Due nuove ricerche dell’Università del Texas Southwestern Medical Centrer di Dallas e dell’Ospedale Pediatrico di Boston, pubblicate sulla rivista scientifica JAMA Psychiatry confermano nuovamente la grande efficacia della Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale nel trattamento della depressione anche come alternativa preferibile al solo uso dei farmaci.

Esistono dunque alternative valide ai farmaci antidepressivi? Secondo due nuovi studi, sì. E si trovano nella terapia cognitivo-comportamentale che ha dimostrato in diversi casi di essere di pari o superiore efficacia rispetto agli antidepressivi.

 

Depressione: la terapia cognitiva può essere meglio dei farmaciConsigliato dalla Redazione

Secondo due nuovi studi, l’alternativa agli psicofarmaci, o antidepressivi, è la terapia cognitivo-comportamentale che, in molti casi è efficace allo stesso modo, senza effetti collaterali (…)

Tratto da: LaStampa.it

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Stigma: un grande ostacolo per la prevenzione del suicidio – Workshop – Roma

Stigma: un grande ostacolo per la prevenzione del suicidio

10 – 11 settembre 2013, Azienda Ospedaliera Sant’Andrea – Roma

 

ARTICOLI SU: STIGMA

 

Istinto di sopravvivenza e spinta anticonservativa

 

Paolo Cianconi, medico specialista in psichiatria, Casa Circondariale di Regina Coeli di Roma, RMa

 

Con il termine istinto si intendono due concetti: la spinta e la sua qualità innata. L’istinto è la tendenza intrinseca di un organismo vivente a eseguire delle istruzioni comportamentali non deliberate ponderatamente. Gli istinti sono comportamenti automatici che non sono frutto di apprendimento e di scelta personale. Peculiare dell’azione istintiva è la mancanza di base esperenziale su cui giustificare l’azione, come se il tutto derivasse da una caratteristica insita nel patrimonio genetico.

Un istinto deve essere presente negli individui della stessa specie. Le azioni complesse derivate da una spinta istintuale sono così primigenie per il portatore che esse spesso avvengono senza che sia sempre evidente uno scopo.

L’istinto di sopravvivenza è un mistero con cui non solo le neuroscienze si confrontano oggi. Non abbiamo una spiegazione di cosa sia che ci mantiene in vita.

Secondo la teoria darwinista discussa da Dawkins nel libro il “Gene egoista” l’istinto di sopravvivenza sarebbe il prodotto di una volontà di alcuni geni istruttori. La tesi che sostiene Dawkins è che i geni non sono trasmessi a caso o selezionando ciò che serve alla specie (noi o un altro essere vivente), al contrario essi si auto-selezionano secondo ciò che è utile per i loro stessi interessi (interesse del DNA) e non necessariamente seguendo l’interesse dell’organismo. Secondo questa versione il vero organismo vivente è il DNA, non noi; un organismo replicante che vive da millenni in condizioni di concorrenza spietata per le risorse, insieme ad altri proto-replicatori.

I fenotipi, ovvero noi, che viviamo una realtà materiale e percorriamo una vita di alcune decine di anni, siamo dei semplici portatori. Vale a dire che noi siamo strutture virtuali che servono a trasportare il DNA attraverso i millenni. I nostri gruppi, le nostre società, tutta la cultura che è stata prodotta, le centenarie concezioni filosofiche e religiose che abbiamo creato non sono altro che strumenti per assicurare la replicazione della vera realtà, quella genetica.

Visto in questo modo l’istinto di sopravvivenza non solo non sarebbe dell’individuo, ma non sarebbe nemmeno un prodotto del nostro mondo reale. L’istinto di sopravvivenza svela la sua natura di collante che affiora dal livello molecolare, una proprietà emergente che ci costringe al nostro compito, ovvero traghettare di generazione in generazione un entità viva non autocosciente: il DNA della specie.

La definizione che abbiamo di istinto di sopravvivenza è fortunatamente meno distopica: si tratta di un istinto naturale che comprende fenomeni mentali (attività cognitiva ed emotiva, il formulazione di pensieri, creare significati, organizzare moralità) e comportamentali complessi tesi alla conservazione della vita del soggetto. La spinta alla sopravvivenza è detta spinta conservativa1. Contro questa condizione di permanenza in vita si sviluppano, nelle specie, le spinte anticonservative (lo scontro, l’autolesionismo, il sacrificio). La principale spinta all’annullamento, elevata simmetricamente contro la vita, è comunemente nota con il nome di pulsione al suicidio. Ma il suicidio umanisticamente parlando è un fenomeno che irrompe nella vita con una eterogeneità disarmante.

Ieri due ragazze si sono chiuse in macchina in una pietraia e hanno tentato di uccidersi insieme. Nelle loro parole è presente la pericolosa istantaneità dei tempi postmoderni2, in cui ci si gioca tutto per ciò che si sente, impulsivamente, nel vuoto, senza scopi. La crisi economica è stata associata al suicidio di molti piccoli imprenditori, la prigione è connessa a un tasso di pericolo molto alto. Persino il bullismo ha fatto delle vittime. E ancora: il suicidio è una forma di protesta o lotta contro il potere (Tibet), è parte di pratiche culturali per conservare l’onore, ha caratterizzato alcuni fenomeni di massa (veterani, millenarismi). E infine i disturbi psichici sono notoriamente connessi con il suicidio. La psichiatria è stata spesso chiamata in causa per fornire spiegazioni su questi eventi limite. Ma non solo la psichiatria si confronta con fenomeni così eterogenei; non è solo la follia che conduce ai suoi gesti estremi un’esistenza. Il suicidio è un fenomeno alquanto complesso i cui confini sociali, antropologici e medici sono continuamente costretti a confrontarsi con realtà decorrenti e ineguali, a ogni singolo nuovo episodio.

 

 

Bibliografia

  • Cianconi, P.; Addio ai confini del mondo, FrancoAngeli, 2011
  • Dawkins, R.; (1979), Il gene egoista, Mondadori, Milano.
  • Gazzaniga M.; (2011), Chi comanda? ed Codice Torino, 2012

ARTICOLI SUL SUICIDIO

“Do you speak Facebook? Guida per genitori e insegnanti al linguaggio del social network” – Recensione

Recensione del libro

“Do you speak Facebook?

Guida per genitori e insegnanti al linguaggio del social network”

di Anna Fogarolo

Edizioni Erickson (2013)

 

Do you speak Facebook? - RecensioneLa maggior parte di noi ha dimestichezza con tutto quello che offre la Rete, sia in termini di fruizione di informazioni che in termini di “social”, macro categoria che racchiude tutti gli strumenti a disposizione del web che ci consentono di comunicare, interagire e gestire degli scambi sociali.

Smartphone, Tablet, PC: ormai siamo connessi ovunque e

comunque.

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Impossibile non pensare immediatamente a Facebook, la piattaforma sociale più utilizzata e il secondo sito internet più visitato al mondo (secondo solo al motore di ricerca Google), e a come continui ad influenzare, in qualche modo, la nostra vita.

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Il testo di Anna Fogarolo è un piccolo ma preciso manuale che introduce i profani all’utilizzo di Facebook, spiegando passo passo come creare un account, come impostare i paramentri di privacy, come creare un gruppo o una pagina, con particolare attenzione a chi volesse utilizzare questo strumento come risorsa per l’educazione.

Le premesse di questo testo sono duplici: si parte dall’assunto che Facebook, ormai, rappresenti una parte piuttosto consistente della vita dei così denominati “nativi digitali”, quelle generazioni – cioè – che sono nate e cresciute con internet e per questo, alcuni ritengono, siano in grado naturalmente di padroneggiare i suoi strumenti. In realtà nascere in un determinato contesto non significa saperlo gestire o conoscere a fondo, ecco perché i docenti rappresentano un punto di riferimento, o potrebbero rappresentarlo, anche nell’educazione al mondo virtuale e di internet, che non è scevro né da pericoli né da regole, né da limiti in realtà.

Condividere, postare, taggare, sono tutti termini che i pre adolescenti e gli adolescenti di oggi (ma non solo) maneggiano con naturalezza, come parte integrante del loro mondo emotivo, sociale e cognitivo.

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Chi volesse, dunque, riuscire ad entrare in contatto con loro, non può esimersi dall’utilizzare e padroneggiare sia gli strumenti a loro disposizione, sia il linguaggio ormai diffuso e comune.

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La seconda premessa, a mio avviso incoraggiante, viene dallo stesso Facebook che fornisce la disponibilità di creare delle pagine o dei gruppi specifici per le scuole. Interpretando molto bene la tendenza attuale di professori ed educatori che sfruttano le potenzialità di condivisione e di comunicazione della piattaforma, per poter avvicinarsi agli alunni ma anche – e soprattutto – per fare sì che gli stessi alunni si avvicinino ad un mondo variegato e spesso contestato come la Scuola.

L' Invidia del post. - Immagine:©-tarasov_vl-Fotolia.com_1
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Proporre contenuti didattici attraverso Facebook è possibile e rappresenta una svolta nel rapporto alunno-insegnante, ecco perché vale la pena riflettere su questa dinamica e le implicazioni che comporta.

Far sì che i contenuti e le informazioni scolastiche assumano una veste più vicina a quelle che sono le esigenze e i ritmi di apprendimento (ma anche di vita) delle nuove generazioni, significa consentire ad un grande numero di studenti di avvicinarsi, di prendere confidenza, magari – perché no? – di appassionarsi.

Il tutto, naturalmente, senza snaturare il ruolo del docente, che può essere vicino ai suoi studenti e ai loro problemi e alle loro esigenze, ma non può diventarne un amico, nel senso più comune del termine. Può essere un confidente o un alleato, un sostegno e un punto di riferimento, ma – l’autrice suggerisce – non può venir meno al proprio ruolo educativo, che comporta anche l’utilizzo di limiti e di confini.

L’Autrice, nell’introduzione al testo, invita gli adulti a prendere dimestichezza con questo strumento, senza demonizzarlo a priori, anzi, cercando di mostrare come Facebook possa rappresentare l’equivalente del vecchio muro della scuola”, sul quale gli studenti scrivevano le loro proteste o le loro dichiarazioni d’amore. Non è un caso, infatti, che la terminologia di Facebook richiami questa immagine: ogni utente ha un profilo, un diario, e i contenuti che scrive sono pubblicati sul wall (= il muro). Questo strumento, data la facilità di utilizzo, ma soprattutto la visibilità che offre, può certamente spaventare, ma può anche – se utilizzato correttamente- rappresentare un “megafono al servizio dell’educazione”.

Forse ciò che spaventa di più di Facebook è il passaparola, che di per sé non può essere controllato (si sa magari da dove parte ma non si può certo sapere dove andrà a finire), e la così detta “Riprova Sociale”, teorizzata dallo psicologo Robert Cialdini (1995), fenomeno sul quale sembra basarsi il successo di Facebook.

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L’essere umano, infatti, tende ad adattare il suo pensiero e il suo giudizio a quelli prevalenti nel gruppo (o nei gruppi) che frequenta. Il social network creato da Zuckerberg nel 2004 con l’intento di aiutare a conoscere e a intrecciare legami, fa sentire potenti, opinion leader. Attraverso la possibilità di esprimere liberamente la propria opinione, di condividere i propri vissuti, ma soprattutto di visionare e giudicare quelli degli altri, questa piattaforma ha un alto potere aggregativo. Consente, infatti, di sentirsi parte di un gruppo, di appartenere ad un’opinione più allargata, di non essere una goccia nell’oceano.

L’unione fa la forza, e questo meccanismo sicuramente è un’arma a doppio taglio: da un lato incontrollabile e a volte ingestibile nelle sue frange estremiste (rappresentate da veri e propri litigi e scambi di opinione poco educati), ma anche uno strumento per invogliare gli studenti a sentirsi parte integrante di un gruppo di lavoro, che ha uno scopo e una direzione e che, soprattutto, condivide alcuni strumenti per ottenere l’obiettivo.

Apprendere attraverso ciò che già si conosce, inoltre, mi viene da pensare, fa sentire più efficaci e capaci, riduce la distanza tra insegnante e alunno, incuriosisce e stimola.

Il libro, negli ultimi capitoli, porta ad esempio pagine di istituti scolastici in cui i professori hanno notato un maggiore coinvolgimento scolastico dopo l’apertura di uno spazio dedicato alla classe su Facebook.

Infine, l’Autrice, si sofferma a riflettere sulla lingua utilizzata dagli alunni sui social network e sull’allarmismo lanciato negli ultimi anni rispetto all’impoverimento della lingua italiana a causa di un gergo e dell’introduzione di vocaboli tipici del web (abbreviazioni, storpiature, neologismi etc.). La lingua italiana, però, è da sempre in evoluzione e trasformazione, e secondo alcuni eminenti esponenti della linguistica italiana (tra cui la presidentessa dell’Accademia della Crusca) l’allarme non è tanto riguardo ad un nuovo linguaggio, che bisogna però di cercare di circoscriviere, considerandolo come un linguaggio “tecnico” (il linguaggio della chat), ma la mancanza di letture da parte degli italiani.

Come a dire: potremmo esprimerci anche come Manzoni sui social network, ma se non apriamo un libro, non cambierà mai nulla.

E allora, forse, varrebbe davvero la pena di fare di quello che sembra un nemico invincibile (Facebook) un alleato: utilizzando i suoi strumenti e la sua potenzialità per ingaggiare gli adolescenti e mostrare loro che si può essere connessi sempre e comunque ma anche con la Cultura con la C maiuscola.

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LINGUAGGIO E COMUNICAZIONE – PSICOLOGIA SOCIALE 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

ACT, teoria e pratica dell’Acceptance and Commitment Therapy – Recensione

Recensione del libro

ACT,

Teoria e pratica dell’Acceptance and Commitment Therapy

 

ACT, Teoria e pratica dell'Acceptance and Commitment TherapyL’Acceptance and Commitment Therapy è un modello clinico che si fonda sulla promozione dell’efficacia comportamentale, obiettivo centrale del percorso terapeutico a prescindere dall’esistenza di pensieri dolorosi o emozioni spiacevoli.

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A differenza di altri approcci terapeutici che si focalizzano sulla necessità di ridurre l’intensità e la frequenza del disagio psicologico, l’ACT lavora sulle risorse che l’individuo può attivare per tollerare la sofferenza e impegnarsi nella direzione di un cambiamento riconoscendo la presenza di quel malessere senza intervenire su di esso. I processi terapeutici fondamentali dell’ACT sono:

 

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– l’accettazione dell’esperienza;
– la defusione;
– il contatto con il momento presente;
– il sé come contesto;
– il contatto con i propri valori;
– l’azione impegnata.

L’accettazione, concetto che viene descritto solo parzialmente dalle formulazioni verbali e al contrario può facilmente essere colto attraverso l’esperienza, è la disponibilità a vivere anche gli aspetti negativi del proprio percorso esistenziale inserendoli in un quadro coerente di valori e atteggiamenti. L’apertura all’esplorazione, fondamentale per acquisire una buona flessibilità psicologica in antitesi alla rigidità dell’evitamento, implica l’incontro con pensieri, emozioni, stati soggettivi e corporei che si alternano, si intrecciano, dando origine al flusso dell’esperienza che contiene sia emozioni positive sia elementi di sofferenza; le une e gli altri fanno però parte di un’unica realtà che è la vita stessa dell’individuo.

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Fare "ACT" - Russ Harris - Recensione.jpgLa defusione è la separazione tra linguaggio descrittivo e linguaggio valutativo; spesso le categorie che utilizziamo per descrivere un oggetto, che si configurano come reali poiché attribuiscono un colore, una caratteristica fisica, una proprietà funzionale, vengono estese alla valutazione compiuta su un soggetto, e come tali percepite. Così se affermo che “mio figlio è stupido“, il valore associato al linguaggio, ossia la convinzione che descriva la realtà, produce nel soggetto che riceve quella valutazione un impatto emotivo intollerabile. Allo stesso modo il linguaggio prescrittivo – “devo/i essere perfetto” – non viene inteso come uno stato soggettivo dato dalle proprie credenze o dalle aspettative altrui, bensì come indicazione ineludibile legittimata dal potere delle parole. L’ACT sottrae autorità al linguaggio riconducendolo alla dimensione di un’attività simbolica finalizzata a comunicare contenuti relativi e non assoluti.

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Il contatto con il momento presente è la capacità di concentrare l’attenzione sul qui e ora, sugli stimoli da registrare e affrontare nel contesto dell’esperienza immediata, evitando di farsi guidare da pensieri che riguardano il passato e il futuro – rimuginio, ruminazione, previsioni negative – e sottraendosi all’illusione di poter controllare attraverso il pensiero tutto ciò che appartiene all’imprevedibilità e immodificabilità degli eventi. Stando nel presente si possono utilizzare risorse altrimenti assorbite dal tentativo costante di categorizzare e valutare l’esperienza.

Il sé come contesto è il luogo in cui si sviluppano pensieri ed emozioni, il soggetto che vive quegli stati. Chi prova ansia, tristezza o altre emozioni spiacevoli tende sovente ad associare a quei contenuti una valutazione di sé, di come andrebbero affrontati e di quanto colpevole e/o inadeguato sia il suo atteggiamento. In questo modo la sofferenza si accentua creando rappresentazioni che diventano i termini con cui il soggetto si giudica; pensare “io sono ansioso” oppure “in me si è prodotta dell’ansia” genera, nel primo caso un processo mentale inflessibile che costruisce un’idea di sé incentrata sulla percezione di vulnerabilità, nel secondo un riferimento dinamico al contesto esperienziale. Nel quadro complesso che compone il Sé esiste anche il disagio emotivo e questo dato è in continuo divenire, mentre la formazione di un’identità stabilmente definita attraverso circoli viziosi psicopatologici favorisce il loro consolidamento.

Il contatto con i propri valori presuppone che le azioni personali privilegino i significati centrali dell’identità, gli elementi capaci di rappresentare uno scopo soggettivo gratificante e di promuovere la vitalità dell’individuo, fungendo da rinforzo per i comportamenti successivi. I valori cui fa riferimento l’ACT non sono quelli socialmente condivisi bensì appartengono al vissuto del paziente e rientrano nelle sue scelte libere. In quest’ottica possono essere accettate e rielaborate, utilizzando anche strategie di defusione, le emozioni problematiche, che vengono ricondotte alla necessità di perseguire un valore fondamentale, uno scopo sovraordinato; le difficoltà di un contesto esperienziale diventano più tollerabili se è chiaro il legame fra quel contesto e i valori del paziente, come accade per esempio quando lo scopo di essere un genitore supportivo implica la gestione di passaggi emotivi complessi nella relazione con un figlio.

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L’azione impegnata è una componente essenziale dell’ACT, poiché oltre ad accettare gli stati emotivi dolorosi il paziente è chiamato a impegnarsi per modificare attivamente la propria condizione; vengono perciò identificati gli obiettivi coerenti con i valori del soggetto e le strategie funzionali a perseguirli, e la gratificazione ricavata dal raggiungimento degli stessi costituisce un rinforzo positivo determinante nell’accrescere l’approccio vitale alla risoluzione dei problemi. L’impegno è la parte propositiva dell’ACT, coinvolge le risorse che il paziente aveva in precedenza destinato al controllo, al rimuginio e alle altre strategie dimostratesi inefficaci; l’assunto di base è che proprio attraverso la definizione di obiettivi e l’azione concreta finalizzata al cambiamento, possa aumentare la percezione di efficacia e con essa la possibilità di mantenere un atteggiamento esplorativo. In questo modo si favorisce anche l’accettazione consapevole delle difficoltà legate all’evoluzione dell’esperienza.

In conclusione, l’Acceptance and Commitment Therapy fornisce spunti estremamente interessanti nel ripensare la psicoterapia non più come un percorso in cui il paziente deve eliminare l’impatto del proprio malessere, bensì come apprendimento di una prospettiva diversa che permette di accettare la sofferenza, di integrarla nel divenire dell’esperienza e di elaborare strategie attive di risoluzione dei problemi.

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BIBLIOGRAFIA: 

Shyness: Interview with Bernardo Carducci Ph.D at APA 2013 Annual Convention, Honolulu

 

Shyness: Interview with Bernardo Carducci Ph.D

American Psychological Association (APA) 2013 annual Convention. Honolulu, Hawaii

 

Director Giovanni Maria Ruggiero interviews for State of Mind Prof. Bernardo J. Carducci Ph.D, full Professor of Psychology and Director of the Shyness Research Institute at Indiana University Southeast.

Prof. Carducci is a Fellow of the American Psychological Association (APA).

The interview is divided in two parts:

1 – Interview on Shyness ( from beginning to 20’50”)
2 – Interview on the Italian American Psychological Assembly (from 20’50” to end)

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Ciò che mi nutre mi distrugge – ED – Documentario

Ciò che mi nutre mi distrugge

Il documentario su:

I Disturbi del Comportamento Alimentare

 

Mercoledì 11 settembre, in seconda serata – ore 00.09 – andrà in onda su RAI3 il Documentario “Ciò che mi nutre mi distrugge”, interamente girato presso la UOSD Disturbi del Comportamento Alimentare ASL RomaE.

L’iniziativa è stata fortemente voluta dai due registi, genitori di un paziente precedentemente seguito presso il mio servizio.

SINOSSI

Il film si sviluppa nell’arco di un anno, si raccontano i percorsi di cura di 4 pazienti, l’evoluzione del disturbo, le sconfitte subite e i traguardi raggiunti in una malattia difficile da combattere. Le storie delle 4 pazienti costituiscono l’asse portante della struttura narrativa e il luogo sono le sedute di psicoterapia. L’accesso alle sedute è un’occasione unica per far luce su un tema altrimenti molto difficile da raccontare nella sua reale essenza. La camera registra le storie, gli scontri, i ricordi, le sensazioni, i sentimenti, nel momento in cui si svelano alle persone stesse, nel momento in cui vengono tirate fuori dal profondo. Vediamo le persone cambiare, crollare, sperare di nuovo, curare e curarsi. Sentiamo il male profondo, lo vediamo uscire, manifestarsi o lo sentiamo nascondersi, rifugiarsi.

Il terapeuta provoca la discussione, aiuta i pazienti ad esprimersi, li aiuta ad aprirsi, a capirsi, anche quando fa male. Attraverso il confronto tra linguaggio verbale e linguaggio non verbale si costruisce la drammaticità del film si scopre quello che si nasconde dietro i gesti, si svela quello che le parole da sole non potrebbero mai dire.

In alcuni casi la paziente è sola di fronte al terapista, altre volte insieme alla famiglia. La tensione è forte, alle spalle ci sono giorni passati in silenzio tra le mura domestiche, senza riuscire a comunicare. Qui lentamente si abbattono quelle barriere che prima sembravano invalicabili e tra dolore e speranza si riapre il dialogo. L’espressione del disagio, localizzata nella distorta percezione del corpo e nel rapporto col cibo, mostra le sue radici. Gli autori del film, dal loro osservatorio privilegiato, registrano quelle parole mai dette, intercettano quegli sguardi mai scambiati.

L’unità di luogo del film è il Centro per la cura dei Disturbi Alimentari della ASL RME, struttura pubblica che ha sede presso il Comprensorio di Santa Maria della Pietà.

DI ILARIA DE LAURENTIIS E RAFFAELE BRUNETTI
PRODUZIONE B&BFILM
DURATA 70 MIN CIRCA
IN COPRODUZIONE CON RAI3
CON IL CONTRIBUTO DEL PROGRAMMA MEDIA DELLA COMUNITÀ EUROPEA
FILM RICONOSCIUTO DI INTERESSE CULTURALE DAL MINISTERO PER I BENI E LE ATTIVITÀ CULTURALI

Per maggiori informazioni

www.ciocheminutremidistrugge.com.

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LEGGI:

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED – DOCUMENTARI

 

Disturbi alimentari: Maggiore dimensione di alcune aree cerebrali?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il maggiore volume della corteccia orbito-frontale, infatti, potrebbe essere caratteristico di tutti i disturbi alimentari e indurre chi soffre di anoressia nervosa a smettere di mangiare prima di avere mangiato abbastanza.

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Secondo i risultati di un nuovo studio, condotto dai ricercatori della University of Colorado’s School of Medicine, le adolescenti con anoressia nervosa avrebbero cervelli più grandi rispetto alle coetanee che non sono affette da questo disturbo alimentare. 

Pro ANA - Disturbi del Comportamento Alimentare su Internet. - Immagine: © servane roy berton - Fotolia.com
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Due gruppi di adolescenti sono state sottoposte a risonanza magnetica per studiarne i volumi cerebrali. L’insula, una parte del cervello che si attiva quando gustiamo il cibo, e la corteccia orbito-frontale, che ci dice quando smettere di mangiare (la cosiddetta “sazietà sensoriale specifica”), sono risultate di dimensioni maggiori nelle 19 ragazze anoressiche del gruppo sperimentale rispetto alle 22 del gruppo di controllo. Inoltre nei soggetti con anoressia nervosa, il volume della materia grigia orbito-frontale correlava negativamente con i sapori dolci.

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Sulla base di questi dati, replicati in un secondo studio che ha messo a confronto due gruppi di adulti, Guido Frank, assistente professore di psichiatria e neuroscienze alla CU School of Medicine, sostiene che la maggiore dimensione di queste aree cerebrali può spiegare il “lasciarsi morire di fame” tipico di questo disturbo alimentare.

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La correlazione negativa tra piacevolezza del gusto e il volume della corteccia orbito-frontale in individui con anoressia nervosa potrebbe contribuire all’evitamento del cibo“, sostiene Frank.

Il maggiore volume della corteccia orbito-frontale, infatti, potrebbe essere caratteristico di tutti i disturbi alimentari e indurre chi soffre di anoressia nervosa a smettere di mangiare prima di avere mangiato abbastanza. Inoltre l’insula destra, che elabora il gusto e che integra la percezione del corpo, potrebbe contribuire alla percezione di essere sovrappeso, pur essendo sottopeso.

Questo studio è complementare a un altro, pubblicato nel 2013 nel Journal of Psychiatry, che ha riscontrato differenze nella dimensione del cervello in adulti con anoressia e in individui guariti da questa malattia.

LEGGI: 

NEUROPSICOLOGIA – ANORESSIA NERVOSA –  ADOLESCENTI – DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Syd Barrett: l’eclissi di un diamante pazzo – Musica & Psicologia

di Filippo Baldin e Gaspare Palmieri.

 

Remember when you were young, You shone like the sun. Shine on you crazy diamond.

Now there’s a look in your eyes, Like black holes in the sky. Shine on you crazy diamond.
Pink Floyd, Shine on you crazy diamond, 1974

 

Syd BarrettRoger Barrett (1946-2006), soprannominato Syd dai tempi degli scout, è stato tra i fondatori della band britannica progressive rock Pink Floyd, considerata tra le principali esponenti della psichedelia. La sua militanza attiva nel gruppo è durata solo tre anni, dal 1965 al 1968, quando manifestò una grave forma di disagio psichico che lo costrinse a lasciare le scene e a trascorrere il resto della vita in modo ritirato.

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Penultimo di cinque fratelli, crebbe in un ambiente domestico amorevole, prospero e sicuro, nella tranquilla ma stimolante città di Cambridge. Viene descritto dalla sorella Rosemary come un bambino irrequieto, che gridava tutto il tempo, fino al giorno in cui imparò a disegnare, diventando più tranquillo. Suo padre Max era un medico che dedicò la sua vita al lavoro e la sua morte prematura nel 1961, rappresentò di sicuro un evento traumatico per Syd.

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La madre era gentile e premurosa, ha sempre sostenuto il figlio, sia nei momenti spensierati della sua infanzia, sia nei momenti bui di ritiro autistico, che hanno caratterizzato la vita dopo i Pink Floyd.

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Syd era molto creativo e, oltre a dipingere, iniziò a strimpellare brani rhythm‘n’ blues con la chitarra acustica, focalizzando la sua attenzione più sul suono che sulla melodia. Terminati gli studi primari, si iscrisse alla London’s Camberwell School Of Art, dove la sua figura eccentrica e misteriosa conquistò l’attenzione dei compagni e dei professori. In questo periodo entrò in contatto con Roger Waters (ex compagno di liceo), Nick Mason e Richard Wright, dando vita ai futuri Pink Floyd. I ragazzi abbandonarono ben presto gli studi accademici per dedicarsi solo alla musica e dopo un paio d’anni di gavetta firmarono un contratto con la EMI, imponendosi nel panorama avanguardistico e psichedelico underground londinese. Registrarono negli studi di Abbey Road il loro primo album The Piper at the Gates of Dawn, che fu un successo, ma rappresentò l’inizio dei problemi per l’artista. Come molti ragazzi di quel decennio, anche Syd  fu vittima dell’ Acid casualty, cioè delle conseguenze dell’abuso del potente acido lisergico dietilamide (LSD).

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In quegli anni ci fu un boom di consumo di tale sostanza, con una sottovalutazione delle possibili conseguenze. In pochi sanno che per un periodo l’LSD fu utilizzato anche in ambito psichiatrico, come “amplificatore” della  psicoterapia (Baker, 1964), in pazienti affetti da disturbi nevrotici e della personalità, per via del suo effetto di potenziare le percezioni e le capacità associative. Il suo uso venne poi prontamente smesso in quanto tra gli effetti collaterali vi è la comparsa di stati psicotici, ampliamente confermati dalla letteratura recente (Abraham e Aldridge, 1993; Marona Lewicka et al, 2011). Gli acidi in quel periodo erano inoltre più potenti di quelli di oggi e un trip poteva comportare l’assunzione fino a 250 microgrammi di sostanza.

Le biografie riportano come Syd fosse un grandissimo consumatore di LSD e a questo si aggiungeva il consumo di marijuana, alcol e metaqualone (il famoso Mandrax).

Le testimonianze dei colleghi di Syd evidenziano un quadro psichico davvero preoccupante, che ricorda una psicosi esogena con sintomi confusionali.

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Il cantante degli UFO Joe Boyd racconta ad esempio nel 1967 che Syd “mi guardava in modo assente. Non c’era un guizzo o una luce nei suoi occhi. Come se non ci fosse nessuno in casa”.  Anche sul palco mostrava comportamenti inadeguati, come nel tour americano del 1967, quando suonò con la chitarra completamente scordata e si presentò sul palco dopo essersi versato un intero barattolo di gel per capelli, che si scioglieva come cera sotto le luci di scena. Il disorientamento spazio-temporale lo portò a salutare un discografico a Los Angeles dicendo di essere contento di trovarsi a Las Vegas. Nella primavera del 1968 Roger Waters tentò senza successo di portare Syd dallo psichiatra R.D. Laing ed in quell’anno il chitarrista venne escluso dalla band e rimpiazzato da David Gilmour.

Dopo aver vissuto senza fissa dimora per circa due anni, Syd fece ritorno nella città natale dove venne ricoverato nell’ospedale psichiatrico di Fulbourne, da cui fu poi seguito ambulatorialmente. Negli anni successivi non venne mai curato contro la propria volontà ed assunse in certi periodi di maggiore agitazione il neurolettico clorpromazina. Risale a quel periodo la registrazione, con l’aiuto degli ex compagni della band, dei due album solisti dell’artista The Madcap Laughs (1970) e Barrett (1971).

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Riprese col tempo a dipingere e ad ascoltare musica. Dipingeva con una grande varietà di stili: paesaggi, quadri astratti, nature morte, studi di luce, esercizi sui colori. Sembrava un tipo di attività autoterapeutica, senza un particolare interesse ad esibire le proprie opere. Era infatti solito distruggere i quadri dopo averli dipinti, come se l’interesse fosse più concentrato sul processo creativo che sull’opera finita.

All’inizio degli anni ’80 trascorse un periodo in una residenza psichiatrica a Greenwoods nell’Essex, da cui poi fuggì per tornare a vivere con la madre e la sorella, a cui era legatissimo.

E’ stato ipotizzato che Syd soffrisse di Sindrome di Asperger, un disturbo dello spettro autistico, caratterizzato soprattutto dalla compromissione del funzionamento sociale e relazionale.

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Le persone affette da questa malattia possono presentare assenza di empatia, di consapevolezza di sé e possono sviluppare disturbi psichiatrici secondari nell’adolescenza e nell’età adulta (Tantam D, Girgis S., 2009). Questa seconda fase della vita di Syd fu caratterizzata dall’estremo ritiro sociale e dalla forte limitazione nelle relazioni con gli altri, se si escludono alcuni negozianti e il proprio medico di base, che visitava spesso. Contro questa ipotesi potrebbe essere sottolineato il temperamento infantile e adolescenziale di Syd, descritto come vivace, che amava essere al centro dell’attenzione e con una tendenza ad essere il leader. Queste caratteristiche difficilmente si trovano in disturbi dello spettro autistico.

L’altra ipotesi diagnostica, forse più probabile, è un disturbo dello spettro schizofrenico, a cui i Pink Floyd dedicarono successivamente l’intero album The Wall (1979), che descrive la tragedia personale ed il progressivo isolamento sociale della rock-star Pink, alter-ego di Roger Waters (Pellizza, 2007).

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A sostegno di questa ipotesi, oltre alla coartazione emotiva e al ritiro regressivo, possiamo sottolineare il rapporto simbiotico con la figura materna, tipico di questi tipi di disturbi. L’uso massiccio di LSD può slatentizzare l’insorgenza di psicosi schizofreniformi in soggetti predisposti, cioè con una vulnerabilità congenita.

Dopo la morte, avvenuta nel 2006 per tumore al pancreas, sono stati messi all’asta vari oggetti trovati nella sua casa e tra questi The Oxford Textbook of Psychiatry, in cui l’artista appuntò alcune pagine relative alla gestione di sindromi organiche da abuso di droghe, alle demenze e alle sindromi paranoiche.

Si può dunque ipotizzare che Syd avesse una consapevolezza di malattia o quanto meno un interesse a tentare di capire da solo i propri disturbi mentali. Negli anni del ritiro ricevette numerose visite di fans, giornalisti e curiosi, a cui cercò in ogni modo di negarsi, rifiutando di voler parlare di quella che era ormai diventata una vita precedente, quando Roger era ancora per tutti lo psichedelico Syd (Chapman, 2012).

 

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 MUSICA – DROGHE E ALLUCINOGENI – DISTURBI DELLO SPETTRO AUTISTICO – AUTISMO – SCHIZOFRENIA – PSICOSI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Mindfulness: Effetti del Programma di Pratica per la Scuola

 

 

Mindfulness- Effetti del Programma di Pratica per la Scuola. -Immagine: © Minerva Studio - Fotolia.com Praticare la mindfulness a scuola sembra ridurre i sintomi depressivi, lo stress e migliorare il benessere negli adolescenti. 

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Questi risultati sono il prodotto di una ricerca svolta in concerto dalle Università di Exeter, Oxford e Cambridge con 522 ragazzi inglesi dai 12 ai 16 anni della scuola secondaria.

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Gli adolescenti sono stati divisi in due gruppi: il primo ha svolto il curriculum standard previsto dalla scuola e il secondo ha partecipato al Mindfulness in Schools Programme. Tale intervento di mindfulness prevede un training della durata complessiva di nove settimane, una in più del classico programma MBCT, con frequenza di una sessione a settimana. Il Mindfulness in Schools Programma rientra pienamente nella tradizione dei protocolli mindfulness (come MBCT, MBSR e MBRP).

MBRP - Mindfulness Based Relapse Prevention per la prevenzione delle ricadute nelle dipendenze . - Immagine: © kikkerdirk - Fotolia.com
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Il Programma è stato strutturato traendo ispirazione da alcuni principi che guidano l’efficacia del lavoro con persone adolescenti. Tra questi principi, gli autori ricordano: esplicitazione dei concetti, adattare e abbreviare gli interventi in modo che siano fruibili dai destinatari, considerare il range di età e agire in modo coerente e adatto ad esso, l’uso dell’interazione, l’importanza della componente esperienziale e  di disporre di strumenti adeguati all’età che permettano di portare i temi appresi nella quotidianità di tutti i partecipanti. Per quest’ultimo principio, sono stati distribuiti ai ragazzi un libretto informati con i temi principali del corso, un set di pratiche di mindfulness su CD e MP3.

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Agli adolescenti che hanno partecipato alla ricerca sono stati somministrati alcuni questionari self-report prima del programma di mindfulness, a due e a tre mesi dalla fine del training.

Alla fine del training, i risultati mostrano con evidenza significativa un abbassamento dei livelli di depressione e di stress e un aumento considerevole del benessere percepito. 

Nello specifico, rispetto al primo gruppo, gli adolescenti che hanno partecipato al training mindfulness hanno riportato livelli significativamente inferiori alla scala Center for Epidemiologic Studies Depression Scale (CES-D) della depressione (p = 0.004) e al follow-up (p = 0.005) e livelli bassi di stress (p = 0.05) nella fase post-intervento, misurato con il Perceived Stress Scale (PSS). Inoltre, al follow-up, i risultati mostrano punteggi più alti di benessere (P = 0.05), misurato con la scala Warwick–Edinburgh Mental Well-being Scale (WEMWBS).

Dal presente studio, emerge un altro dati interessante che rappresenta una conferma rispetto all’importanza fondante della pratica personale. Infatti, il grado di pratica svolta dai partecipanti tra una sessione e l’altra è associato al miglioramento del benessere personale  (p<0.001), all’abbassamento dei livelli di stress (p = 0.03) e all’abbassamento dei livelli di depressione (p =0.04) al follow-up di tre mesi.

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Questo lavoro porta avanti un filone di ricerca molto importante. Infatti, sebbene ad oggi gli interventi mindfulness siano stati validati maggiormente nella popolazione adulta, sarebbe auspicabile investire sulla ricerca delle applicazioni della mindfulness anche nei giovani adolescenti e nei bambini. In questo modo, si potrebbe avere un backgruond scientifico forte da cui derivare proposte e interventi di mindfulness all’interno del contesto scolastico.

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MINDFULNESS – STRESS – ADOLESCENTI – DEPRESSIONE

 

APPROFONDIMENTI:

 

Bibliografia:

Leadership negli Sport di Squadra #5: Stili decisionali

Leadership negli Sport di Squadra #5:

STILI DECISIONALI

 

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

Leadership negli sport di squadra - Stili decisionali - Parte 4 . - Immagine: © freshidea - Fotolia.com“Agire” per il leader vuol dire innanzitutto “prendere decisioni” e “decidere” significa: “selezionare un’alternativa fra più opportunità, allo scopo di raggiungere l’obiettivo desiderato” [Cei, 1998].

Tutti i processi che implicano una scelta di questo tipo, sempre secondo Cei, necessitano di un lavoro su due livelli che considerano rispettivamente: a) aspetti cognitivi e, b) aspetti sociali. Mentre i primi si possono sintetizzare nella risoluzione dei problemi logici inerenti l’ostacolo in questione, i secondi presentano difficoltà maggiori, se non altro per l’apparente ambiguità sulla loro efficacia. Questa ambiguità emerge, in particolar modo, nel momento in cui si confrontano le opinioni e le ricerche espresse al riguardo in ambito sociale e in ambito sportivo.

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Per comprendere questa ambiguità bisogna prima di tutto specificare che quando si parla di aspetti sociali in quest’ambito si fa principalmente riferimento alle opportunità offerte dal leader agli altri  soggetti di partecipare ai processi decisionali.

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In effetti le ricerche che si sono concentrate sull’analisi degli stili decisionali in ambito sociale hanno focalizzato la loro attenzione sul ruolo che assume all’interno del gruppo il conflitto di opinioni. In particolare Moscovici e Zavalloni [1969] osservarono che le prese di posizione espresse dai soggetti dopo una discussione di gruppo su di uno specifico problema tendeva ed essere significativamente diversa, e in particolare modo più vicina a uno dei poli del ventaglio di opinioni, di quanto non fosse precedentemente. Questa dinamica interna al gruppo venne definita dagli autori come polarizzazione e cioè come: “incremento dato dal gruppo ad un orientamento già presente nei singoli componenti” Palmonari [in Arcuri, 1995]. Tuttavia i risultati della loro ricerca dimostrarono come, in realtà, esistessero due diverse e opposte tendenze. Vi erano gruppi che raggiungevano un consenso su atteggiamenti più polarizzati, altri invece lo raggiungevano su opinioni meno polarizzate e più vicine alla media della totalità delle alternative appoggiate dai soggetti individualmente (processo definito come normalizzazione). La tipologia di conflitto presente all’interno dei gruppi è ritenuta essere la variabile primaria che orienta lo stile decisionale verso un processo di polarizzazione o normalizzazione. In particolare nei gruppi in cui il conflitto tende a sfociare in un’aperta discussione e confronto (in cui quindi le opportunità di partecipazione dei membri sono elevate) si sviluppa un processo di  polarizzazione, al contrario in quelli in cui il confronto è ridotto al minimo (in cui le opportunità di partecipazione sono pressoché nulle) si sviluppa un processo di normalizzazione.

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Postura e Decision Making - Immagine: © olly - Fotolia.com -
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Secondo Palmonari [1995] le caratteristiche della leadership risultano essere, assieme al senso di coinvolgimento dei membri e alla formalità del gruppo, uno dei fattori determinanti della tipologia di conflitto che caratterizza le decisioni. Va sottolineato, ed è il punto in cui emerge l’ambiguità, che, partendo da queste considerazioni, Moscovici e Doise [1991] considerano il tipo di conflitto socio-cognitivo, quello cioè basato su un esplicito e diretto confronto dei punti di vista, quello maggiormente produttivo ai fini del raggiungimento degli obiettivi del gruppo.

Gli studi che, al contrario, si sono specificamente orientati all’analisi degli stili decisionali nell’ambito sportivo sembrano aver raggiunto considerazioni diametralmente opposte. Le caratteristiche del leader che influenzano la tipologia di conflitto presente all’interno della squadra, e quindi la possibilità da parte dei membri di partecipare ai processi decisionali, sono state riassunte in cinque diversi stili decisionali da Chelladurai e Haggerty [1978]. Ciascuno di questi stili correlati al comportamento del leader influenzano la possibilità che i problemi vengano affrontati attraverso un’aperta discussione dei diversi punti di vista o semplicemente attraverso l’orientamento generale verso l’opinione individuale del leader. I cinque stili decisionali in questione sono:

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– stile autocratico I: in cui il leader prende autonomamente le decisioni sulla base delle sue sole conoscenze.

– stile autocratico II: in cui il leader prende autonomamente le sue decisioni sulla base di informazioni raccolte dai membri del gruppo.

– stile consultivo I: in cui il leader discute dei problemi con i membri più influenti del gruppo, tiene in considerazione le loro opinioni ma decide da solo.

– stile consultivo II: in cui il leader discute dei problemi con tutti i membri del gruppo, tiene in considerazione le loro opinioni ma decide da solo.

– stile di gruppo: in cui il leader discute dei problemi con tutti i membri del gruppo e lascia che elaborino insieme le possibili soluzioni e decidano quale mettere in atto. La sua funzione, in questo caso, è quella di semplice coordinatore.

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 Osservando questa distinzione risulta palese la possibilità di assimilare i diversi stili decisionali alle più ampie categorie di stili comportamentali, riferiti al leader, espressi da Bales e Slater [1955] e ancor più chiaramente a quelli distinti da Lewin, Lippit e White [1939]. In particolar modo gli stili autocratici possono essere associati a una leadership principalmente centrata sul compito, mentre quelli consultivi e lo stile di gruppo rappresentano una leadership più focalizzata sull’aspetto relazionale. A questo punto emerge il contrasto con le conclusioni tratte da Moscovici e Doise [1991] in quanto sappiamo dalle ricerche di Fidler [1964] che un leader centrato sul compito (e quindi stili decisionali autocratici) risulta essere molto più efficace per la produttività del gruppo specialmente davanti a situazioni caratterizzate da un controllo elevato o, al contrario estremamente basso. Al contrario in condizioni intermedie  uno stile decisionale consultivo o di gruppo può ottenere risultati migliori. Per questo la presenza o l’assenza del conflitto all’interno di un processo decisionale influisce sulla produttività di un gruppo anche in relazione a variabili situazionali. Questo è dimostrato anche da svariate ricerche in campo sportivo [Gordon, 1986; Chelladurai e Arnott, 1985; Chelladurai, Haggerty e Baxter, 1989] attraverso le quali gli autori hanno osservato come sia gli allenatori che i giocatori appaiono convinti che lo stile autocratico, in cui il leader decide da solo, sia da preferire soprattutto quando le situazioni da risolvere risultano particolarmente complesse o troppo banali. Cei [1998] precisa comunque l’importanza, da parte del leader, di saper utilizzare differenti stili decisionali in relazione alle diverse situazioni poiché solo in questo modo può essere in grado di affrontare qualsiasi problema in modo da promuovere positivamente la produttività della squadra, ribadendo così che non esiste una scelta universale ma che il leader deve essere in grado di adattare le proprie azioni e scelte.

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

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PSICOLOGIA SOCIALE –  PSICOLOGIA DELLO SPORT – RAPPORTI INTERPERSONALI – DECISION MAKING – PERSONALITA’ – TRATTI DI PERSONALITA’

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

Psicologia – Corso di Preparazione all’Esame di stato. Torino

Insonnia cronica: alcuni aspetti cognitivi e comportamentali

L’insonnia cronica è un disturbo molto comune (circa il 30% della popolazione ne soffre), è più frequente nelle donne e negli anziani (Burton, 2006) e può presentarsi sia come conseguenza o aspetto di un altro disturbo medico o psichiatrico (insonnia secondaria) oppure come forma indipendente e autonoma nella sua eziologia e nel suo sviluppo (insonnia primaria).

di Andrea Ballesio

Le classificazioni internazionali dei disturbi del sonno definiscono tale disturbo come una reiterata difficoltà ad iniziare o a mantenere il sonno associata ad un mal funzionamento diurno (cattivo umore, irritabilità, difficoltà cognitive, eccessiva sonnolenza nelle ore diurne) (Devoto & Violani, 2010).

 

La Deprivazione di Sonno influenza l’Espressione Genica. -Immagine:© Ljupco Smokovski - Fotolia.com
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L’International Classification of Sleep Disorders (ASDA, 2005) distingue cinque forme di insonnia primaria: disturbo di insonnia da adattamento, insonnia soggettiva, insonnia da inadeguata igiene del sonno, insonnia idiopatica, insonnia psicofisiologica.

L’insonnia psicofisiologica è la più comune forma di insonnia primaria ed è quella in cui entrano maggiormente in gioco fattori di mantenimento cognitivi e comportamentali. Secondo Hauri e Fisher (1986) tale forma di insonnia cronica si svilupperebbe a causa di due elementi principali: le preoccupazioni del soggetto riguardo all’insonnia ed alcuni processi di condizionamento. Per quanto riguarda il primo aspetto occorre sottolineare come nel paziente insonne si sviluppi una sorta di problema secondario legato al fatto stesso di avere difficoltà nell’addormentamento.

 

Dall’insonnia acuta a insonnia cronica

Dopo una occasionale notte insonne dovuta a motivi di stress, eventi ansiogeni o traumatici, lutti o problemi di salute, il soggetto, in prossimità dell’ora in cui abitualmente va a dormire, svilupperebbe dei pensieri intrusivi disfunzionali riguardo all’insonnia (“e se nemmeno stasera riuscissi a dormire?”, “non ci vorrebbe proprio un’altra nottata in bianco!”, “devo assolutamente riuscire a dormire”, “domani ho una giornata impegnativa, non posso permettermi di non dormire”), che hanno due conseguenze negative per il sonno: da una parte tali pensieri determinano un bias attentivo tale per cui l’attenzione si focalizza sul riuscire o meno a dormire e il soggetto si “sforza” a dormire con il risultato paradossale di rimanere sveglio in quanto il sonno è per definizione spontaneo e non a comando, dall’altra parte la preoccupazione per la possibilità di non dormire e il ricordo delle notti precedenti passate insonni determinano un eccessivo arousal emotivo, cognitivo e fisiologico che impedisce il rilassamento fisico e psichico necessario per dormire.

Dal punto di vista comportamentale invece, si sottolinea come gli stimoli interni (i pensieri, gli stati mentali) ma anche ambientali (la camera da letto, le abitudini, i rituali che precedono il sonno) si associno in breve tempo al non dormire (Devoto & Violani, 2010).

In altre parole, mentre i normodormienti associano le abitudini pre-sonno e le caratteristiche della propria stanza da letto ad uno stato di rilassamento che li predispone e li induce al sonno, le persone che soffrono di insonnia cronica associano la stanza da letto con lo stare svegli.

In conclusione si può affermare che sono le implicazioni cognitive e comportamentali a fungere da fattori di mantenimento e a far divenire insonnia cronica un’insonnia acuta e situazionale.

Psicologia sociale – Alla (non) ricerca della Felicità

 Open School Modena 

 

Alla (non) ricerca della Felicità. -Immagine: © ra2 studio - Fotolia.comQuanto i modelli culturali e le norme sociali interiorizzate modellano le emozioni che dovremmo provare e quelle che  dovremmo esprimere?

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Ad oggi, le emozioni sono uno dei più studiati costrutti psicologici: sono stati mentali e fisiologici associati a modificazioni psicofisiologiche, che si verificano in risposta a stimoli interni o esterni, naturali o appresi. In termini evolutivi, o darwiniani, la loro principale funzione consiste nel rendere più efficace la reazione dell’individuo a situazioni in cui si rende necessaria una risposta immediata ai fini della sopravvivenza: nell’immaginario comune è ricorrente una concezione dell’emozione come reazione automatica e non mediata dalla cognizione, come anche spesso viene raffigurata nell’arte.

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Tuttavia, la letteratura scientifica ha ampiamente confermato come questo processo psicologico sia ampiamente regolato da fattori cognitivi, ovvero ad esempio da come valutiamo cognitivamente un determinato evento, o da quali sono le nostre aspettative verso esso.

Uno degli aspetti più controversi è il ruolo della nostra società su ciò che proviamo e su come lo esprimiamo. Studi recenti nell’ambito della psicologia sociale hanno evidenziato l’importanza delle opinioni altrui nella produzione delle nostre emozioni: ad esempio, Evers e colleghi (2005) hanno trovato che le donne sono meno inclini degli uomini ad esprimere la rabbia perché più portate a pensare alle conseguenze sociali negative che ne seguirebbero.

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Un recente articolo di Bastian e colleghi del 2012, ha indagato come la desiderabilità sociale di certe emozioni rispetto ad altre influenzi l’esperienza emotiva della persona e più in generale il suo benessere psicologico.

Dai risultati emerge che più forte è la percezione dell’aspettativa sociale di non provare emozioni negative, più frequenti e intense sono le emozioni negative provate. In altre parole, gli Autori sostengono che il fatto che una persona senta di non dover provare certi sentimenti, promuove lo stato di disagio emotivo e di auto-svalutazione quando li prova.

Nel momento in cui le persone  non riescono a soddisfare queste aspettative, tendono a sentirsi “fallite”. Tale riflessione negativa su sé stessi aggrava ulteriormente queste emozioni (Moberly & Watkins, 2008; Nolen-Hoeksema, 2000). Questo studio è importante nel clima sociale odierno, dove  apparire felici e funzionanti sembra essere una necessità. Rispetto a questo gli autori rilevano una differenza tra la cultura individualistica tipica dei Paesi d’Occidente e quella collettivistica dei Paesi d’Oriente: in questi paesi l’accettazione da parte del gruppo e l’equilibrio emotivo  sono valutate come più importanti rispetto al perseguimento della felicità individuale. Le persone dell’Est Asiatico si dimostrano infatti piuttosto esitanti nell’esplicitare e riflettere sulle emozioni positive e riportano punteggi inferiori ai questionari sul benessere psicologico e sulla felicità, rispetto agli Occidentali (Diener, Suh, Smith & Shao, 1995).

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Al contrario, le emozioni negative come tristezza e ansia sono meno stigmatizzate e medicalizzate, con la conseguenza che ci sono meno aspettative sociali verso le emozioni negative (Bastian et al., 2012).

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Per quanto riguardo la cultura occidentale, le aspettative sociali stabiliscono degli “standard” di riferimento su come dovremmo sentirci, ovvero degli obiettivi emozionali che sono allo stesso tempo utopici e necessari, difficili da raggiungere e difficili da abbandonare (Watkins, 2008).

In conclusione, nessuno è immune dalle aspettative sociali in quanto siamo cittadini che vivono all’interno di una comunità. Norme sociali e culturali non scritte regolano buona parte delle nostre interazioni con gli altri. Questo articolo propone un buon punto di riflessione per domandarci quanto i modelli culturali e le norme sociali interiorizzate modellino le emozioni che dovremmo provare e quelle che  dovremmo esprimere. Non esistono emozioni di tipo A o B, emozioni buone o cattive, ma tutte hanno la stessa importanza per la sopravvivenza reale e sociale dell’essere umano pur essendoci, come abbiamo visto, differenze culturali nel valore e nel ruolo sociale ad esse attribuito.

Un po’ come provocazione ed un po’ come sfida verso noi stessi, proviamo invece a riflettere sui benefici che hanno portato (o che potrebbero portare) nella nostra vita le emozioni negative: pensiamo al loro potenziale creativo (Wilson, 2008), alla loro importanza nelle relazioni interpersonali (McNuilty, 2010) e al ruolo fondamentale che svolgono nella realizzazione di una vita ricca ed appagante (Hayes, Strosahl, & Wilson, 1999).

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SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA – PSICOLOGIA SOCIALE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Autismo & Asperger: SAP avvia il reclutamento di persone autistiche per il collaudo di software

 

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La tedesca Sap punta ad assumere centinaia di persone affette da autismo nei prossimi sette anni, da impiegare come collaudatori e programmatori di software. L’obiettivo di Sap è trovare persone “che pensano in modo diverso”, per favorire l’innovazione. L’azienda punta a raggiungere una percentuale dell’1% del personale affetto di autismo, su un totale di 64mila dipendenti.

 

Autistici “geni” del software: Sap avvia maxi campagna assunzioniConsigliato dalla Redazione

La casa tedesca annuncia il reclutamento di centinaia di persone affette da autismo da inserire in azienda come collaudatori di piattaforme. Hanno grandi… (…)

 

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Calo del testosterone: provoca sintomi del morbo di Parkinson?

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I risultati di un nuovo studio condotto dai ricercatori del Rush University Medical Center mostrano che un improvviso calo di testosterone, l’ormone sessuale maschile, può causare sintomi quali il Parkinson nei topi maschi.

Il morbo di parkinson è una malattia neurodegenerativa ad evoluzione lenta e progressiva, che coinvolge principalmente alcune funzioni del controllo del movimento e dell’equilibrio. La malattia è presente in tutto il mondo ed in tutti i gruppi etnici. Si riscontra in entrambi i sessi con una lieve prevalenza in quella maschile.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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Le strutture coinvolte nella malattia di Parkinson si trovano in aeree profonde del cervello note come i gangli della base (nucleo caudato, putamen, e pallido) che partecipano alla corretta esecuzione dei movimenti. La malattia si manifesta quando la produzione di dopamina cala progressivamente nel cervello, a causa della degenerazione dei neuroni.

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I risultati di un nuovo studio condotto dai ricercatori del Rush University Medical Center mostrano che un improvviso calo di testosterone, l’ormone sessuale maschile, può causare sintomi quali il Parkinson nei topi maschi. I risultati sono stati recentemente pubblicati dal Journal of Biological Chemistry.

Uno dei principali ostacoli per scoprire dei farmaci efficaci contro il morbo di Parkinson è la indisponibilità di un modello animale affidabile per questa malattia. Sebbene la malattia di Parkinson (PD) è una malattia neurodegenerativa progressiva, i modelli animali disponibili non mostrano neurodegenerazione irreversibile, e questo è un grosso ostacolo nel trovare un farmaco efficace contro questa malattia.

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Mentre gli scienziati utilizzano differenti tossine e un certo numero di approcci genetici complessi per la malattia di modello di Parkinson nei topi, i ricercatori hanno trovato che l’improvviso calo dei livelli di testosterone dopo la castrazione è sufficiente a causare persistente Parkinson come patologia e incremento dei sintomi nei topi maschi, ha spiegato il  Dr. Kalipada Pahan autore principale dello studio. Si è riscontrato che la supplementazione di testosterone nella forma di 5-alfa-diidrotestosterone (DHT)  inverte la patologia di Parkinson nei topi maschi.

Negli uomini, i livelli di testosterone sono strettamente accoppiati a molti processi di malattia hanno affermato i ricercatori. In genere, nei maschi sani, il livello di testosterone è  al massimo fino ai trenta anni, poi diminuiscono circa l’uno per cento ogni anno. Tuttavia, i livelli di testosterone possono diminuire drasticamente a causa di stress o di svolta improvvisa di altri eventi di vita. Pertanto, la conservazione di testosterone nei maschi può essere un passo importante per diventare resistenti alla malattia di Parkinson.

Ulteriori ricerche devono essere condotte con lo scopo di comprendere il funzionamento di questa malattia, agire dunque sui livelli di questo ormone nell’organismo potrebbe rilevarsi un metodo di prevenzione e di cura.

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 MORBO DI PARKINSON –  FARMACOLOGIA – FARMACI –  DEMENZA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

L’attesa. Il percorso emotivo della gravidanza. di A. Pellai (2013) – Recensione

Recensione del Libro:

L’ attesa. Il percorso emotivo della gravidanza

(2013)

di Alberto Pellai

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L'attesa, il percorso emotivo della gravidanza“Io so aspettare, so pensare, so digiunare” diceva il Siddartha di Herman Hesse. Attendere è un’attività umana complessa e tutt’altro che passiva, quasi una forma d’arte, soprattutto se si tratta dell’attesa di una nuova vita.

 

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L’idea che un uomo, seppure esperto della materia, possa raccontare il percorso emotivo di una gravidanza, è come per una donna raccontare il servizio di leva (quando era obbligatorio e l’esercito era solo maschile). L’autore è consapevole della difficoltà e al contempo della sfida empatica che ha deciso di affrontare.

Come maschio mi sono trovato a sforzarmi in una doppia immedesimazione, in un collega che si immedesima in una donna in attesa. Non è stato facile.

Il libro emana confidenza fin dal formato, un libricino piccolo piccolo, come un diario, con l’elastico a chiusura come le moleskine.

Fa parte infatti della collana Passaggi di Erickson, che comprende libri di Narrativa Psicologicamente Orientata, libri per capirsi e libri che ti capiscono, non solo da leggere, ma da utilizzare in modo interattivo.

Facebook & Mamme Moderne: Vi presento il mio bambino!. - Immagine: © Dmitriy Melnikov - Fotolia.com
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Alla fine del volumetto, c’è infatti uno spazio per scrivere le riflessioni stimolate dal racconto, come utile esercizio di auto narrazione. Per rendere più rilassante ed evocativa la lettura, o forse per iniziare ad abituarsi ai libri per bambini, ci sono anche le illustrazioni.

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Il libro descrive il percorso emotivo della gravidanza di una coppia modello (Mulino Bianco?), che vive i nove mesi in modo fiabesco e idilliaco. D’accordo, qualche sfumata preoccupazione emerge dal racconto: c’è la paura della donna di faticare ad accettare le metamorfosi fisiche (titolo del capitolo: Il mio corpo che cambia, come la canzone dei Litfiba), il lieve timore di essere un bravo genitore, un fuggevole pensiero al fatto che il bimbo possa non essere sano. Per fortuna a un certo punto compare un incubo della mamma, che crea un po’ di azione.

La retorica abbonda in frasi tipo: lasciavo che il mio corpo diventasse oceano in cui tu facevi rollare la nave del tuo desiderio (sì dice proprio rollare), io sarò per te la mamma più bella del mondo (dlin-dlin-dlin…suono di carillon), etc.

Le reazioni paterne sono forse più realistiche: c’è il bisogno di immaginare il bambino studiando scrupolosamente le immagini delle ecografie, c’è la preparazione della cameretta che rende più concreta l’attesa, c’è la preoccupazione quando la compagna resta da sola.

Come dice anche la sessuologa Alessandra Graziottin nella prefazione “purtroppo la gravidanza non è sempre così tenera, voluta o assaporata, né così condivisa dalla coppia”.

Forse la mia deformazione professionale fatica a pensare a un percorso così lineare come quello descritto nel libro, ma in realtà c’è da augurarsi che la maggior parte delle gravidanze si avvicinino il più possibile a quella descritta dall’autore.

Da notare a pagina 73 un piccolo refuso di stampa. Lei dice “Mi avvicino allo sportello e consegno l’avviso di giacenza, come fossi in uno stato di trans” (immagino intendesse trance). L’identificazione nel sesso opposto può generare simpatici lapsus…

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

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