Lo studio, pubblicato sull’American Journal of Public Health, ha dimostrato che le informazioni riguardanti l’apporto calorico di fatto non aiutano le persone a ridurre i consumi di cibi altamente calorici.
Jamie Oliver sul suo famoso blog di cucina fa comparire in modo neanche troppo discreto e con un bel carattere grafico la quantità di calorie per ciascuna ricetta che propone. Scelta seguita anche dai molti fast food anglosassoni.
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In generale nel mondo americano l’ossessione informativa sulle calorie sembra essere considerata uno strumento importante nella lotta contro l’ obesita’.
I ricercatori della Carnegie Mellon University hanno indagato scientificamente l’effetto di tali informazioni sul cambiamento di atteggiamenti e comportamenti alimentari delle persone.
Lo studio, pubblicato sull’American Journal of Public Health, ha dimostrato che le informazioni riguardanti l’apporto calorico di fatto non aiutano le persone a ridurre i consumi di cibi altamente calorici.
Il team di ricerca ha analizzato i comportamenti di acquisto di circa mille persone a pranzo presso due McDonald di New York.
In particolare sono state studiate tre diverse condizioni: 1) ricevere informazioni sull’apporto calorico giornaliero raccomandato; 2) ricevere informazioni riguardo l’assunzione di calorie consigliate per pasto; 3) non ricevere alcuna informazione sulle calorie.
I risultati hanno dimostrato che non vi sarebbe alcuna differenza in termini di cambiamento comportamentale nella riduzione del numero di “calorie acquistate” attribuibile alla presenza di specifiche informazioni sull’apporto calorico.
Appare dunque irrealistico aspettarsi che vi sia un cambiamento di atteggiamento e di comportamento alimentare in funzione di una semplice etichetta numerica senza la costruzione di una rete concettuale e motivazionale di più ampio respiro.
Con estrema curiosità e scontato sospetto di poca corrispondenza alla realtà, io che nel bel mezzo dell’attesa mi ci ritrovo, ho letto l’ultimo Libro di Alberto Pellai, Medico, Psicoterapeuta dell’età evolutiva e ricercatore presso la facoltà di Medicina e Chirurgia dell’Università degli Studi di Milano “L’attesa, il percorso emotivo della gravidanza”.
Nella prima parte si delinea un’introduzione delicata e quasi in punta di piedi, da parte dell’autore che, descrivendosi come un osservatore partecipante, premette l’invidia per il senso di onnipotenza che ogni donna proverebbe nello stato di gravidanza e spiega come nasce il libro, concentrandosi su due tipi di riflessioni: una centrata su eventi esterni la donna, fatti dal cambio delle stagioni e dagli elementi che caratterizzano l’autore e che fanno da sfondo, da cassa di risonanza ai cambiamenti interiori, che caratterizzano invece la seconda narrazione, composta da pensieri ed emozioni della stessa protagonista.
Una sorta di diario di bordo, che, nello stile della Narrativa Psicologicamente Orientata, è pensato per far sì che il lettore non sia passivo ma che scopra se stesso e la sua personale storia dietro e dentro le frasi che compongono il testo.
La seconda parte del libro, sempre sulla base delle due prospettive, percorre mese dopo mese, stagione dopo stagione il lungo percorso dell’attesa che va dal momento del concepimento fino alla nascita.
Come una lente di in gradimento, la percezione della donna protagonista appare amplificata e tutti i sensi assumono un potere speciale per cui l’attenzione si posa ogni volta su dettagli semplici e unici allo stesso tempo, assumendo un significato ogni volta più intimo e personale.
Inizia con la Primavera, dal momento del test e del rito che si accompagna a questo, dalla presa di consapevolezza di diventare mamma, pensando a sé come figlia e ripercorrendo alcuni dei momenti più dolci di questa relazione; dalla prima ecografia in cui prende forma incredibilmente ciò che è quasi impercettibile; dal corpo che cambia, lentamente e che impone dolcemente di “inventarsi” un nuovo rapporto con me stessa mentre costruirò dentro di me spazio per te; dalle scelte, quelle più banali e quelle più importanti, che in questo momento vengono fatte utilizzando criteri altri, diversi, in grado di ribaltare le scale di valori di ognuno; al primo movimento che lascia increduli, ma chiaro e netto da spezzare il fiato e da far pregare di sentirlo ancora; alle preoccupazioni e le ansie che inevitabilmente accompagnano questo periodo così delicato seppur per eccellenza fisiologicamente naturale; ai preparativi della cameretta, uno spazio che non è solo fisico, ma mentale, soprattutto per chi, in quanto uomo, papà, non ha un’evidenza biologica se non il guardare la gravidanza avvenire dentro la sua compagna; fino all’Autunno, in cui tutto appare rallentato, in cui si ha la sensazione che qualcosa stia per accadere, in cui l’attesa è nel suo splendore massimo, si sente che qualcosa cambierà, e per sempre, meravigliosamente.
Ogni passo, ogni paragrafo è scandito dai vissuti, dalle emozioni e dai pensieri della protagonista che ripercorre le sue esperienze, i suoi ricordi e i significati ad essi attribuiti, e lo sforzo che l’autore compie in tal senso è lodevole, ma proprio perché si tratta di un’ esperienza unica intimamente, credo che ogni donna in attesa abbia vissuti emozioni e pensieri difficilmente accomunabili, o meglio: possono apparire nei contenuti simili, ma avere una tinta emotiva estremamente soggettiva che tocca corde, smuove mari spostando confini che ogni singola donna conosce, solo lei, individualmente e non per egoismo, ma perché non si può tradurre in parole tutto, si può “solo” meravigliosamente sentire.
È possibile però, così come consente di fare il libro nella terza parte, costruire un percorso di auto esplorazione partendo proprio da contenuti comuni che fungono da frase-stimolo, rivelandosi estremamente utili per permettere alla mente di elaborare aspetti emotivi per i quali è importante potersi soffermare a sentire e a pensare.
Non so quanto sia possibile “riscrivere personalmente” la propria attesa partendo da questa lettura, ma indubbiamente essa consente un momento di riflessione e un momento per sentire alcuni aspetti risuonare dentro, come i momenti in cui sono le sensazioni dell’uomo ad emergere, o meglio lo sguardo della protagonista sul papà, sull’uomo che amorevolmente le è accanto con gesti semplici, pensieri puliti che muovono dentro; così come vedere scritto quanto ho sempre pensato poco possibile, cioè la necessità di fermarsi, e prendersi del tempo, era come se non ci fosse mai un motivo sufficientemente valido.
E che io invece, proprio mentre sto facendo te, scopro che c’è un tempo per stare. Stare con te. Stare con me. Stare con tutto quello che c’è fuori e dentro. Ecco cosa ho imparato in questi mesi: c’è un tempo per fare e un tempo per stare. Il tempo per stare: che grande dono, figlio mio.
“Per favore non credete alle mie parole senza farne esperienza se funziona per voi, se funziona nella vostra pratica clinica allora utilizzatelo altrimenti buttatelo, la terapia è un po’ come un grosso esperimento, un grosso laboratorio.
Ed è poi quello che facciamo nella psicoterapia sensomotoria un piccolo esperimento con il paziente volta per volta, ci chiediamo sempre se per quel paziente funziona, avendo ben in testa che se non funziona si proverà qualcos’altro, trovando un’altra tecnica più adatta per lui.”
Durante il workshop Trauma, attaccamento e corpo tenutosi a roma il 29 e 30 giugno scorsi, ho avuto l’opportunità di intervistare Kekuni Minton, trainer fondatore dell’istituto di psicoterapia sensomotoria a Boulder in Colorado. Mi hanno colpito la disponibilità di Kekuni e la grande competenza nel lasciarsi “traghettare” dalle mie domande…
Som: In questi giorni ci ha parlato di due tipi di ferite: ferite d’attaccamento e ferite traumatiche, quali sono le tecniche specifiche per lavorare con le une e con le altre, e in cosa differiscono maggiormente?
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Per quanto riguarda l’esperienza traumatica, le ferite traumatiche l’attivazione e la minaccia reale e percepita, sono più estreme e potenzialmente letali per l’individuo. Di fronte ad una minaccia estrema affiorano le risposte di difesa animali estreme, e la maggior parte di queste risposte vengono attivate nelle aree sottocorticali del cervello: parliamo di risposte di attacco e fuga all’estremità elevata dello spettro e sottomissione e morte simulata nella parte bassa dello spettro. La dissocizionepuò avvenire in entrambe le estremità dello spettro parliamo, dunque, di difese sottocorticali e primitive.
Quando parliamo di ferite di attaccamento non siamo quasi mai di fronte ad una situazione che viene percepita come potenzialmente letale, molto spesso le difese non sono di tipo sottocorticale ed animale, ma sono difese che si attivano contro oggetti interni dolorosi, emozioni dolorose, stati relazionali dolorosi ed esperienze sul sé dolorose.
Tuttavia ci sono anche delle anologie, entrambe comprendono dei comportamenti appresi a livello procedurale sulla base di esperienze passate.
“La memoria procedurale determina il nostro modo di esperire il presente e di prevedere il futuro, preparandoci nel momento presente a quello che avverrà, sulla base delle nostre esperienze passate”.
Som: La psicoterapia sensomotoria ha un substrato neurobiologico molto forte come è possibile condividere questa cornice con i nostri pazienti?
La sensomotoria è un approccio che si integra facilmente con altri approcci psicoterapici io stesso non uso unicamente la psicoterapia sensomotoria nei miei percorsi terapeutici, con alcuni pazienti, ad esempio, utilizzo maggiormente tecniche sensomotorie, mentre con altri l’EMDR o altri metodi\tecniche.
Quindi la conoscenza del corpo e dei meccanismi di interconnessione tra corpo mente ed emozioni che si ottengono grazie alle tecniche sensomotorie si possono applicare ed integrare con molti altri metodi, e quando sono integrate in un percorso terapeutico il paziente non ha più bisogno di una grossa cornice teorica ma solo di una parte di psicoeducazione. Quando parliamo di ferite traumatiche possiamo parlare di una sofferenza non solo psicologica ed emotiva ma anche corporea, scritta nel corpo, quindi diventa necessario lavorare su tutti e tre i livelli, per questo possiamo usare sia tecniche sensomotorie che di altri strumenti psicoterapeutici.
Diventa utile vedere in che modo il corpo partecipa non solo nelle risposte somatiche ma anche nel modo di elaborare le cognizioni e le emozioni.
Nella mia pratica clinica qualsiasi modello io utilizzi sono sempre consapevole di tutte e tre i livelli: corpo, cognizione ed emozioni. E per quelli che lavorano anche a livello spirituale possiamo dire che ci sono quattro livelli da tenere sempre presenti nel lavoro con il paziente. Per cui io includo sempre il corpo nel mio lavoro e ritengo basti davvero un po’ di psicoeducazione per avvicinare i pazienti a questa tecnica.
Som: L’abilità di Mindfulness sembra essere trasversale nell’applicazione di tecniche della psicoterapia sensomotoria, qual è secondo lei il goal e il valore aggiunto di questa abilità?
Ottima domanda. Noi pensiamo alla mindfulness in due modi: da una parte come tecnica psicoterapeutica che pervade tutto il nostro sistema di lavoro, tecniche metodi e teorie, dall’altra consideriamo la mindfulness come una capacità neurologica e psicologica, è la capacità di riflettere su stessi, e senza la capacità di riflette su stessi diventa molto difficile autoregolarsi e notare i nostri pattern di apprendimento procedurale, pattern emotivi e cognitivi abituali.
Da qui il fatto che una volta che abbiamo la capacità di riflettere su di noi siamo capaci di osservare i nostri pattern abituali, quindi prima di tutto notiamo di avere una specifica credenza negativa e successivamente possiamo notare gli effetti di questa credenza negativa sul corpo sulle emozioni sul pensiero, e proprio grazie alla mindfulness abbiamo la possibilità di scegliere, abbiamo davanti diverse opzioni di pensiero e di comportamento.
Questo è di fatto il messaggio centrale degli esistenzialisti, Sartre, Heidegger ed Hegel, l’abilità di riflettere su noi stessi ci consente di cambiare ci consente di essere una persona diversa; e anche i filosofi esistenziali moderni concordano su questo e lo stesso dicasi per i filosofi buddisti antichi e stiamo parlando di milioni di anni fa, l’abilità centrale che bisogna apprendere per cambiare noi stessi profondamente è l’autoconsapevolezza.
E’ come il motto di Socrate “conosci te stesso, fino a quando non conosci te stesso non potrai mai cambiare”. Un famoso terapeuta mi ha detto “non potrai mai cambiare una cosa se non sai cosa stai facendo”, questa conoscenza deriva solo della mindfulness. Noi, ad oggi, non consideriamo la mindfulness solo come tecnica psicologica, ma come un’ abilità fondamentale per la crescita e lo sviluppo personale.
Som: Abbiamo parlato della terapia sensomotoria e dell’EMDR e di come in ogni fase le tecniche della psicoterapia sensomotoria possano andare ad implementare l’efficacia del protocollo EMDR. Ci puo dire in sitensi qual è la forza di questa integrazione e quale il valore aggiunto dell’utilizzare tecniche della psicoterapia sensomotoria nel protocollo EMDR?
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Io ritengo che l’ EMDR sia una tecnica di elaborazione estramamente potente, e già include il corpo nel suo protocollo, più che altro in termini di consapevolezza corporea. Ci si è concentrati molto nell’ EMDR su come elaborare le convinzioni negative, sono stati spesi molti sforzi nel metodo nella teoria e nella ricerca e lo stesso dicasi per le emozioni, si è spesa molta enfasi su come lavorare con le emozioni con l EMDR. Ora quando parliamo del corpo, invece, troviamo poca ricerca, e sicuramente c’è spazio per molta altra ricerca in questo settore.
Pat Hodgen ha cercato la ragione del lavoro sul corpo sin dal 1978, mentre io mi sono associato a lei nel 1988 da li ci siamo concentrati molto sull’obiettivo di ragionare sul funzionamento del corpo, su quale era la logica delle risposte sottocorticali difensive e animali, su quale fosse la logica delle ferite di attaccamento nel corpo, in quale modo le ferite di attaccamento rimangano “incorporate”, in che modo l’apprendimento procedurale influenza l’elaborazione emotiva e cognitiva e in che modo è possibile modificare le ferite di attaccamento a livello somatico.
Basti pensare che la letteratura sull’attaccamento è estremamente focalizzata sul corpo, momento per momento viene studiato il comportamento fisico della madre e del neonato e le loro modalità di comunicazione\relazione corpo a corpo, ma in molte tecniche di psicoterapia non c’è lo stesso focus momento per momento.
Direi che l’EMDR è un modello aperto e si possono integrare aspetti da diversi punti di vista: sono 30 anni che studiamo la logica del corpo e molti esponenti della scuola dell’ EMDR sono interessati alla nostra ricerca per poter integrare il nostro modello nelle 8 fasi del protocollo. Credo che la forza per ogni approccio psicoterapico dovrebbe essere quella di avere un modello aperto all’integrazione con nuovi modelli e teniche, e bisognerebbe porsi una domanda: Funziona? Se non funziona lo si butta via, mentre se funziona lo si utilizza.
Per favore non credete alle mie parole senza farne esperienza se funziona per voi, se funziona nella vostra pratica clinica allora utilizzatelo altrimenti buttatelo, la terapia è un po’ come un grosso esperimento, un grosso laboratorio. Ed è poi quello che facciamo nella psicoterapia sensomotoria un piccolo esperimento con il paziente volta per volta, ci chiediamo sempre se per quel paziente funziona, avendo ben in testa che se non funziona si proverà qualcos’altro, trovando un’altra tecnica più adatta per lui.
SOM:quali sono nella sua esperienza clinica i pazienti che lavorano meglio con la psicoterapia sensomotoria?
Direi per due tipi di pazienti. Con i pazienti che hanno subito un trauma il lavoro sul corpo è estramamente efficace e diventa molto importante lavorare con la loro capacità di autoregolarsi, lavorare con la mindfulness e lavorare con le risposte somatiche di difesa estrema. Per il lavoro con questi pazienti trovo che le tecniche della psicoterapia sensomotoria siano molto efficaci.
Per quanto riguarda la seconda categoria, parliamo del lavoro sugli aspetti delle ferite di attaccamento, come ho già detto la teoria e la ricerca sull’attacamento sono estremamente orientati sul corpo, nel modo in cui il corpo della madre e del bambino comunicano tra loro, non credo, quindi, sia possibile lavorare con le ferite dell’attaccamento solo ad un livello astratto, credo che il lavoro vada fatto all’interno della relazione con il contatto oculare, con la relazione corpo a corpo, e c’è sempre il contatto oculare il tono di voce, la vostra postura che comunica un qualcosa al paziente e allo stesso modo il corpo del paziente vi sta dicendo qualcosa, che forse il paziente meglio non saprebbe esprimere.
Per cui il paziente deve imparare che il corpo in una relazione è la sostanza che trasmette il materiale necessario alla relazione stessa.
Ci sono due accenti nell’ambito della relazione terapeutica che secondo me vale la pena di studiare uno è quello di prendere le esperienze di attaccamento mancanti e di trasformarle in un esperimento con il paziente e ovviamente questo non lo si fa nel vuoto ma nel concreto nella relazione con il paziente.
Un altro modo di lavorare sul corpo è quello che pone l’accento sulla differenziazione, l’abilità di tollerare i propri stati interiori che vengono attivati in una relazione e di auto regolarli senza proiettarli sull’altro, lavorare con il proprio disagio interiore, lavorare sullo stress di stare in un ralazione, sullo stress di stare in una relazione intima, di far si che qualcun altro ci conosca profondamente e riuscire a rimanere aperti in questa esperienza.
Molte delle nostre ferite di attaccamento nelle relazioni fanno si che le persone si chiudano a livello mentale emotivo e somatico e spesso le persone non sanno nemmeno di chiudersi a tutti e tre i livelli, quindi aprirsi di nuovo ed essere in contatto intimo con un’altra persona non comporta solo un elaborazione astratta, ma significa provarlo da dentro in una relazione e per molti la prima persona con cui la si
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prova è proprio il terapeuta, quindi bisogna esperire in una relazione cosa significa essere aperti in una relazione, un po’ come in un laboratorio, non parliamo solo di relazioni, ma le mattiamo in pratica in vivo.
Tante riflessioni mi porto via da questo convegno e dalla chiacchierata che ho avuto la possibilità di fare con Kekuni: ritorna la Mindfulness e la possibilità di insegnare ai nostri pazienti a riflettere sul sé, sulle proprie emozioni e pensieri, aiutandoli ad aumentare la finestra di consapevolezza e di conseguenza aumentando le possibilità di scelta rispetto alle proprie azioni, passando non solo attraverso pensieri ed emozioni, ma anche e soprattutto attraverso l’esperienza corporea. Ritorna la relazione come veicolo importante di cambiamento.
Citiamo infine una frase di Van der Kolk “Finchè si è in grado di elaborare in parallelo o in duplice consapevolezza, non si viene ritraumatizzati. La corteccia prefrontale ci consente di avere questa presenza osservante ed essa deve essere coltivata con i pazienti. Ma essa non si coltiva facendo loro rivivere ripetutamente i traumi e facendoli abreagire, quando incoraggiamo la riesperienza spesso feriamo il paziente ancora di più”.
La noia viene concettualizzata come un’esperienza caratterizzata da un desiderio non appagato di fare-esperire qualcosa di soddisfacente.
Guardereste per lungo tempo un video di pesca o di un uomo che silenziosamente stende i panni? Questi sono alcuni degli stimoli che utilizzano i ricercatori psicologi per studiare scientificamente la noia.
La noia è un’esperienza universale e molto comune, ma finora si è data poca attenzione scientifica a tale fenomeno emotivo. Secondo Eastwood (Eastwood, Frischen, Fenske, Smilek, 2012) la noia viene concettualizzata come un’esperienza caratterizzata da un desiderio non appagato di fare-esperire qualcosa di soddisfacente.
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Lo stesso autore la definisce uno stato di “unengaged mind”: la noia come stato aversivo che si presenta quando a) non siamo in grado di impegnare in modo efficace la nostra attenzione verso stimoli interni o esterni, b) ci focalizziamo sul fatto che non siamo in grado di impegnare la nostra mente in una attività soddisfacente, c) attribuiamo la causa del nostro stato aversivo a fattori esterni.
Inoltre la noia sarebbe caratterizzata sia da un basso che da un elevato arousal (attivazione fisiologica). In alcune situazione è una sfida anche tenere gli occhi aperti mentre in altre essere annoiati può portare a uno stato di nervosa agitazione.
Effettivamente la noia sembra proprio una faccenda di attenzione. In uno studio del 2012 è stato riscontrato che le persone più propense a provare noia ottengono prestazioni peggiori nei compiti che richiedono attenzione sostenuta con una maggiore probabilità di presentare sintomi di ADHD e di depressione (Malkovsky,Merrifield, Danckert, 2012).
Pensando alla depressione, anche se possono avere strette somiglianze e elevate correlazioni, la noia e lo stato depressivo sono esperienze emotive distinte (Goldberg, Eastwood, LaGuardia, & Danckert, 2011): si potrebbe speculare che le noia porti a una maggior focalizzazione sui processi ruminativi in un ciclo vizioso di mantenimento dello stato depressivo. E gli alessitimici sarebbero particolarmente propensi alla noia (Eastwood, Cavaliere, Fahlmana, Eastwood, 2007).
Le ricerche di laboratorio si sono concentrate sugli effetti comportamentali della noia: in un recente studio condotto presso la University of Limerick studiando gli effetti della noia sul recupero mnestico hanno scoperto che le persone cui era stato indotto un elevato stato di noia richiamavano alla memoria ricordi estremamente più nostalgici (van Tilburg, Igou, Sedikides, 2013).
In un altro studio condotto dagli stessi ricercatori i soggetti sottoposti a condizioni più noiose sarebbero anche più aggressivi nell’infliggere pene ipotetiche più severe a criminali immaginari (Van Tilburg, Igou, 2011).
In un contesto educativo alcuni ricercatori tedeschi stanno invece studiando le modalità di fronteggiamento della noia negli studenti delle scuole superiori: alcuni utilizzerebbero strategie di re-appraisal più raffinate a livello cognitivo come ad esempio ricordare a sé stessi quanto lo studio possa aiutarli per la loro futura carriera mentre altri sarebbero più propensi a strategie di evitamento dello stimolo emotigeno (chiacchierare con i compagni di banco).
Dai risultati è emerso che l’impiego di strategie di re-appraisal facilita la diminuazione dell’esperienza di noia rispetto alle strategie di evitamento (Net, Goetz, Hall, 2011).
Questi spunti di ricerche che si stanno muovendo sia in ambito clinico che di psicologia generale suggeriscono che altro che emozione cenerentola, la noia può concorrere a una migliore comprensione di fenomeni clinici e comportamentali al pari di altre emozioni e stati mentali finora più studiati.
Sembrerebbe una banale storia d’amore, di un amore fallito rovinosamente, ma nell’amore di James Gatz, questo era il vero nome del protagonista del film, c’è di più, una forte componente narcisistica che lo spinge a lottare con tutti i mezzi, anche illegali, per diventare “Il Grande Gatsby”.
Nella cornice dell’America degli anni venti, piena di entusiasmo e felici promesse che verranno spazzate via dalla Grande Crisi del ventinove si snoda la storia d’amore tra Gatsby e la bella Daisy.
I due hanno avuto una relazione che si è interrotta a causa della guerra e per la sete di successo e di denaro dell’uomo, sicuro che la sua amata sarebbe rimasta ad aspettarlo, mentre si impegnava nel compito di arricchirsi con attività illecite. Lo ritroviamo, infatti, ricco e proprietario di un’enorme e lussuosa villa, situata di fronte alla casa dove Daisy, che nel frattempo si è sposata con un miliardario, adultero e razzista, trascorre le vacanze.
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Gatsby è convinto di poter riconquistare la sua donna, anche perché ora può offrirle quel genere di vita a cui lei ha sempre guardato con desiderio. Sarà deluso e la storia finirà tragicamente, con la sua morte.
Motivi d’interesse
Sembrerebbe una banale storia d’amore, di un amore fallito rovinosamente, ma nell’amore di James Gatz, questo era il vero nome del protagonista del film, c’è di più, una forte componente narcisistica che lo spinge a lottare con tutti i mezzi, anche illegali, per diventare “Il Grande Gatsby”.
L’essere pari o superiore a quanti fanno da contorno a Daisy, il riconquistarla, la pretesa che Daisy possa andare da Tom, suo marito a dirgli: “Non ti ho mai amato”, per poi tornare con lui e sposarsi in casa di lei come se fossero stati ancora al punto di cinque anni prima è il sogno che incarna Gatsby e che simboleggia il self made man, il desiderio di cose sempre troppo grandi, la necessità di raggiungere traguardi sempre più alti in una escalation che non ha mai fine.
Gatsby lotta, la sua sfida con se stesso e con un mondo da conquistare lo rende un uomo solo, senza veri amici, al più gli altri sono strumenti per realizzare il suo sogno. Nato povero ha coltivato fin dall’infanzia la speranza di diventare grande, di salire sempre più in alto fino alla straripante megalomania di organizzare feste grandiose a cui partecipasse tutta la città. Eppure le persone che affollano le sue feste lo dimenticano, spesso lo disconoscono. La speranza è che Daisy prima o poi arrivi, che si possa riannodare quell’amore grande, totale, assoluto, esclusivo, atemporale, un amore che chiede troppo a una donna che non è l’oggetto narcisistico del Grande Gatsby come lui crede.
Daisy è indifferente a qualsiasi altra cosa che non sia il lusso e una vita ricca e sfarzosa che il marito le permette di condurre, niente la lega al sogno idealistico e irrealistico, troppo pretenzioso del protagonista.
D’altra parte Gatsby non è innamorato di Daisy, non la conosce veramente, è innamorato del suo sogno grandioso. Due mondi che non possono incontrarsi perché troppo autocentrati, troppo egotici.
Gatsby rimane il prototipo dell’uomo solo, sul prato della sua villa mentre ha lo sguardo rivolto alla luce verde che si riflette sul pontile della casa di Daisy, e persino al suo funerale dove non arriva nessuno.
Questo senso di solitudine nei narcisisti è difficile da gestire, rappresenta una ferita al proprio valore e come reazione difensiva porta ad un senso esagerato della propria importanza, ad atteggiamenti superbi e arroganti, a pretese eccessive, ad aspettative irrealistiche nei confronti degli altri.
Le parole che Daisy rivolge a Gatsby quando le chiede davanti al marito di dirgli che non lo ama, che non lo ha mai amato, che ama solo lui sono emblematiche “pretendi troppo”.
Indicazioni per l’utilizzo
Il film presenta contenuti che possono essere discussi in terapia con pazienti narcisisti. Offre un’ottima occasione per incrementare la consapevolezza di alcuni temi problematici e degli stati mentali, grandioso, depresso-terrifico, di vuoto devitalizzato, di transizione. Ottimo a fini didattici.
L’idea che le donne siano più resilienti degli uomini in risposta a situazioni stressanti è convinzione comunemente diffusa. Adesso è arrivata la conferma scientifica da parte del Dipartimento di Psicologia e Biofisica dell’Università di Buffalo (UB School of Medicine and Biomedical Sciences), che ha evidenziato i motivi alla base di questo fenomeno.
Zhen Yan, infatti, ha cercato di confermare le passate scoperte circa la maggiore resistenza allo stress delle donne rispetto ai uomini, con l’intento di comprenderne il perché.
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Lo studio ha evidenziato che le donne dei ratti esposte a ripetute situazioni stressanti rispondono meglio rispetto agli uomini, esposti alla medesima condizione, a causa dell’effetto protettivo degli estrogeni. Nella ricerca le donne dei ratti, infatti, sottoposte a una settimana di stress ripetuto, non hanno mostrato alcun danneggiamento nell’abilità di ricordare oggetti appena mostrati, mentre gli uomini hanno evidenziato un danneggiamento della memoria a breve termine.
La compromissione della capacità di ricordare episodi recenti è connesso ad un deficit nella capacità di segnalazione da parte dei recettori di glutammato nella corteccia prefrontale, la regione cerebrale deputata al controllo della memoria a breve termine, dell’attenzione, dei processi emotivi e di altre funzioni esecutive. Una ricerca dello scorso anno dello stesso gruppo di studiosi aveva mostrato come situazioni di stress continuo comportino la perdita di ricettori di glutammato nella corteccia prefrontale in giovani ratti maschi. Il recettore di glutammato, infatti, rappresenta la molecola che controlla la risposta allo stress.
L’attuale ricerca, però, ha evidenziato che questo fenomeno non avviene per le donne, per cui il recettore di glutammato non subisce deficit a fronte di stress ripetuto. Come spiegare questi risultati? I ricercatori hanno deciso di manipolare la quantità di estrogeni prodotti nel cervello sia nei uomini che nelle donne per verificarne le possibile conseguenze.
Quando la segnalazione degli estrogeni nelle donne era bloccata si evidenziava un effetto nocivo dello stress nei circuiti cerebrali, mentre quando la via di segnalazione degli estrogeni era attivata nei uomini allora le conseguenze dannose dello stress erano bloccate.
I risultati ottenuti hanno mostrato l’effetto positivo che gli estrogeni prodotti nel cervello hanno nel proteggere da situazioni di stress ripetuto, spiegando, così, la maggior resilienza delle donne allo stress cronico. In particolare, è l’enzima aromatasi, che produce estradiolo, un ormone estrogeno, ad essere presente in grande quantità nella regione prefrontale del cervello femminile e ad essere responsabile, quindi, della maggiore resilienza femminile.
Questa scoperta muove verso la possibilità di utilizzare trattamenti per la cura di problemi connessi allo stress attraverso la somministrazione di sostanze simili agli estrogeni, in modo da evitare gli effetti collaterali di ormoni e ottenere risultati positivi in questo genere di disturbi.
Wei, J., Yuen, E. Y., Liu, W., Li, X., Zhong, P., Karatsoreos, I. N., McEwen, B. S., & Yan, Z. (2013). Estrogen protects against the detrimental effects of repeated stress on glutamatergic transmission and cognition. Molecular Psychiatry, 1-11. (DOWNLOAD)
AFASIA – RIABILITARE LA COMUNICAZIONE – SIMPOSIO NAZIONALE
Mental health literacy (MHL) is a term that refers to the ‘knowledge and beliefs about mental disorders which aid their recognition, management or prevention’
It is now well recognised that up to 70% of individuals with mental health disorders do not seek help (Farrer, Leach, Griffiths, Christensen, Jorm, 2008).
The advantages of early help seeking have been clearly articulated, with early help seeking providing the opportunity for early intervention and improved long-term outcomes for mental disorders.
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One reason for this observation may in part lie in practical and financial constraints—actually having sufficient treatment resources available in the places where they are needed. This alone, however, does not explain the unchecked rates of mental disease. One recent and significant development in the study of mental health that has the potential to help explain and more importantly, alleviate the difficulty of ensuring people get appropriate help when they need it has been the field of mental health literacy.
Mental health literacy (MHL) is a term that refers to the ‘knowledge and beliefs about mental disorders which aid their recognition, management or prevention’( Jorm, Korten, & Jacomb, 1997).
MHL consists of different components, including:
the ability to recognize specific mental disorders and the attitudes that promote this recognition;
knowledge of psychological distress risk factors and self-help interventions;
knowledge of how to seek mental health information and the available professional
MHL has been studied in many countries and the results have shown poor levels of mental disease recognition and beliefs about treatment that differ from those of health care professional.
In the first significant study of mental health literacy in Australia, Jorm, et al. (1997) presented over 2000 subjects with two case vignettes (one of a person with depression, and one with schizophrenia). Only 39% could correctly identify depression, while only 27% of subjects could correctly label schizophrenia. In the same study they also asked to subjects which could be the best solution for this kind of problem and the results show that only half of the respondents thought that a psychiatrist or psychologist would be helpful for the person in the depression vignette, a proportion less than that cited for GPs, counsellors, close friends, family, and telephone counselling. While psychiatrists and psychologists were rated as relatively more helpful for the person in the schizophrenia vignette, they were nevertheless less likely to be rated as helpful than counsellors or GPs. This suggests that public perceptions of mental health specialists need to be changed.
However more recent studies suggest that there are age and gender differences in Mental Health Literacy.
The survey company AC Nielsen conducted, in 2003-2004, a national clustered household survey of Australian adults reporting that the age differences occurred primarily between the oldest age group and all other ages. In particular, respondents in the oldest age group were less likely to correctly identify the mental illness described in the vignette, endorsed fewer sources of treatment as helpful, and were more likely to believe that schizophrenia was related to character weakness. Younger people have better mental health literacy concerning depression than schizophrenia. Although the 18– 24 years age group were superior at correctly identifying depression, they were less competent at correctly identifying schizophrenia, and were more likely to misdiagnose schizophrenia as depression. Younger people also tend to identify informal treatment sources as helpful, while the elderly rate fewer sources as helpful overall (Farrer, et al. 2008)
Mela, Tartani, Forsner, Edhborg, Forsell (2009) adapted the established vignettes developed by Jorm et al (1997) to evaluate the MHL in a group of adolescent. In fact among the many mental health problems, adolescent depression remains the most concerning for its link to suicide and because of the earlier age of onset (Rutter & Smith, 1995). The results show that only 42.7% of the respondents were able to identify depression and significantly fewer, 34.7%, were able to identify schizophrenia.
In this study, they also found that females, compared to males, were better at identifying depression in line with previous studies (Burn & Rapee, 2006) but with no gender differences in the schizophrenia vignette. Respondents in our study, who failed to recognize depression and schizophrenia, often misattributed the symptoms to stress, loneliness and a bad lifestyle. Only a minority of the respondents suggested help offered by health care professionals for managing depression (22.5%) or schizophrenia (32.6%).
The majority suggested non-standard forms of help, including social and physical activities, ways of entertain-ment, or lifestyle improvements. This fact could be important to implement Mental health awareness programms in schools that have been shown to be effective in changing young people’s opinions about mental health matters and help-seeking (Battaglia, Coverdale, & Bushong, 1990) and psychoeducation programms should be considered by the authorities as part of the mandatory school curriculum; this in order to increase levels of MHL among adolescents and prevent the development of stigmatizing attitudes towards mental illness (Melas et al, 2009).
Il gioco degli scacchi può migliorare la concentrazione, la pazienza e la perseveranza e può svilupparne il senso di creatività, l’intuito e la memoria oltre alle capacità analitiche e decisionali; Gli scacchi insegnano inoltre determinazione, motivazione e spirito sportivo
“Scacco matto!”. Quante volte abbiamo sentito esclamare questa espressione, o l’abbiamo usata noi stessi, magari davanti ad una scacchiera oppure come metafora all’interno di un discorso? Probabilmente molte, ma poche volte ci siamo forse fermati a riflettere sul valore che gli scacchi possono avere nella formazione e nell’educazione dei ragazzi, specialmente all’interno del contesto scolastico.
Recentemente, in una direttiva, il Parlamento Europeo ha posto l’accento sul valore socio psico educativo di questo gioco/sport. Riprendendo diversi studi e ricerche nel campo, infatti, l’Unione Europea ha invitato gli stati membri ad introdurre il gioco degli scacchi nei sistemi di istruzione e nei piani formativi a partire dal 2012.
Nella direttiva si legge che: “[…] Il gioco degli scacchi è accessibile ai ragazzi di ogni gruppo sociale, può contribuire alla coesione sociale e a conseguire obiettivi strategici quali l’integrazione sociale, la lotta contro la discriminazione, la riduzione del tasso di criminalità e persino la lotta contro diverse dipendenze. […] Indipendentemente dall’età dei ragazzi, il gioco degli scacchi può migliorarne la concentrazione, la pazienza e la perseveranza e può svilupparne il senso di creatività, l’intuito e la memoria oltre alle capacità analitiche e decisionali; considerando che gli scacchi insegnano inoltre determinazione, motivazione e spirito sportivo”.
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Da queste considerazioni e da un lungo lavoro di ricerca clinica, nasce il manuale “A scuola con i Re. Educare e rieducare attraverso il gioco degli scacchi”, a cura di Giuseppe Sgrò, psicologo clinico ed esperto in psicologia dello sport del CONI.
Il volume presenta un’offerta integrata, modulare e flessibile di tutte le attività educative, rieducative e formative in contesto scacchistico e propone contributi di personaggi autorevoli in diversi campi, da quello della ricerca clinica a quello sportivo.
Il volume, infatti, può essere consultato nella sua completezza, che prende le mosse da un monumentale lavoro di meta analisi di tutte le ricerche condotte, ad oggi, sul gioco degli scacchi. Oppure può essere consultato per i moduli, autoconclusivi, che consentono di declinare il modello scacchistico nei più svariati ambiti: preventivo, scolastico, di ricerca, ma anche di formazione aziendale.
L’obiettivo, come sottolinea il dott. Sgrò nel manuale e nella presentazione dello stesso, è di utilizzare gli scacchi come strumento educativo, in particolare ma non solo nel contesto scolastico in ottica supportiva e preventiva, senza puntare all’insegnamento del gioco in sé.
Il progetto può essere impiegato in ogni grado della scuola, adattandosi facilmente alle diverse esigenze di sviluppo ed utilizzando strumenti vicini alle capacità tipiche di ogni fascia di età.
Esperienze di gioco-sport, narrazione, psicomotricità su scacchiera gigante da pavimento, oltre che da tavolo, sono solo alcune delle possibili declinazioni degli scacchi come strumento psico-educativo, che va a potenziare la meta cognizione e a prevenire il disagio, attraverso la trasmissione di concetti fondamentali quali limite, responsabilità e rispetto, specialmente a livello non verbale, fondamentali per l’espressione e la modulazione dell’aggressività già dall’infanzia [Sgrò, 2012].
Come sostiene il dott. Sgrò nella prefazione del manuale: “Il gioco/sport, e in particolar modo il gioco degli scacchi, favorisce, a livello etico e sociale, l’acquisizione, soprattutto sul piano della comunicazione non verbale, di alcuni concetti fondamentali alla convivenza civile, quali la regola, la responsabilità e il limite, che permettono sia al bambino che all’adulto di incanalare e modulare l’aggressività e la competitività, che connotano ogni percorso di crescita, in forme socialmente accettabili, favorendo l’instaurarsi di relazioni sociali positive e/o nuovi inizi e negoziazioni di esse”.
In una società in cui proprio la mancanza di limite e incapacità di gestione dell’aggressività sembrano connotare le relazioni umane, così come il vissuto personale, mi sembra utile pensare ad uno strumento declinabile nei più differenti contesti e avvicinabile a tutte le diverse fasce di età.
Il lavoro del dott. Sgrò prende le mosse sia da una lunga attività di ricerca clinica sul gioco degli scacchi, sia dal lavoro condotto dalla UONPIA della ASL Roma H/4 Pomezia e dal gruppo di ricerca ad essa afferente EllePi, coordinato dal dott. Miletto, neuropsichiatra infantile.
Il gruppo di ricerca, sin dagli anni ’90, ha realizzato esperienze psicoeducative in svariati ambiti sperimentali, utilizzando, in particolare, la scacchiera gigante come spazio di mediazione educativa, nell’ambito di una didattica interdisciplinare.
Il Manuale “A scuola con i Re” è diviso in due sezioni: la prima riguarda i Fondamenti teorico-scientifici e si compone di nove capitoli, mentre la seconda riguarda Progetti, esperienze e ricerche e si compone di diciassette capitoli. Si pone come un punto di riferimento a cavallo tra la ricerca teorica e l’applicazione pratica di uno strumento che a volte può essere considerato – nell’immaginario collettivo – “solo” un gioco da cervelloni, ma che in realtà, in Italia, rappresenta una realtà sempre in crescita.
Si stima, infatti, che in Italia i tesserati della Federazione (FSI) siano circa 14.000, numero al quale vanno ad aggiungersi i giocatori amatoriali.
La disciplina degli scacchi, che per concentrazione e attivazione fisica può essere considerata un vero e proprio sport, contribuisce allo sviluppo delle facoltà logico-razionali, intuitive e di fantasia. I giocatori, infatti, sono chiamati a misurarsi con le proprie capacità e i propri limiti, non tanto sul piano fisico, quanto più su quello intellettivo, nell’ambito del rigore scientifico, del metodo e del calcolo.
Gli scacchi sembrano coniugarsi molto bene con l’attività scolastica: non richiedono l’utilizzo di spazi particolarmente attrezzati; possono essere praticati anche da alunni diversamente abili (ipovedenti e/o ipoacusici); assicurano una validità educativa perfino nelle situazioni di degrado sociale e di recupero di giovani pre-devianti come efficace mezzo per la lotta alla dispersione scolastica.
Chi pratica questa disciplina, infatti, acquisisce una più profonda capacità di concentrazione e potenzia senza sforzo le caratteristiche elaborative del cervello, con notevoli effetti benefici anche in altri campi (organizzazione del proprio lavoro e apprendimento delle materie scolastiche).
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Il gioco degli Scacchi, quindi, agisce positivamente su diverse capacità meta cognitive [Sgrò, 2012]: Attenzione, Immaginazione e previsione, Memorizzazione, Creatività, Logica matematica, Pianificazione.
Il tutto inserito in una cornice di regole e di rispetto per l’avversario, per le sue tempistiche e le sue mosse, che consentono di sviluppare anche abilità di negoziazione, di controllo dell’ impulsivitàe di gestione del conflitto.
Il messaggio del manuale redatto dal dott. Sgrò e dai suoi collaboratori è molto chiaro: non è necessario e non serve diventare campioni di scacchi per trarre beneficio dalla cornice di un gioco di tradizione millenaria, che consente di sedersi e di astrarsi dai propri problemi quotidiani ma che, al contempo, consente di apprendere capacità che saranno utili per affrontarli. E’ importante, invece, in ottica preventiva, cominciare a prendere in considerazione un’intersecazione tra il gioco inteso come momento ludico-istruttivo e la scuola, ambiente da sempre deputato alla formazione psico-sociale dell’individuo.
Martinengo L, Sgrò G. (2010), Intensità e direzione dell’ansia competitiva in un gruppo di giocatori di scacchi. GIPS- Il Giornale Italiano di psicologia dello Sport, 7 Gen/Apr. 2010: 3-10. (DOWNLOAD)
Miletto R., Pompa A., Fucci M. R., Morrone F. (2005), I bambini e gli scacchi. Armando Editore, Roma.
Una nuova ricerca messa a punto dal team di Danielle Dick (Virginia Commonwealth University) ha mostrato alla comunità scientifica il ruolo predittivo dei fattori temperamentali nello spiegare problemi legati all’abuso di alcool in adolescenza.
Dick e colleghi hanno indagato un ambito poco approfondito dalle ricerche passate, ovvero quello relativo ai fattori di personalità che già durante l’infanzia contribuiscono allo sviluppo di disturbi legati all’abuso di alcool. Il panorama scientifico di riferimento concerne perlopiù lo studio su soggetti in età adolescenziale.
Questa ricerca, invece, mira ad esplorare le differenze di personalità in soggetti tra i sei mesi e i 5 anni d’età. Il periodo adolescenziale rappresenta un momento critico durante il quale si sviluppano problematiche legate all’abuso di alcool, in quanto è storicamente un periodo di rilevanti scoperte e cambiamenti.
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Valutare, però, i fattori predittivi a partire dall’adolescenza rischia di oscurare il ruolo delle precoci esperienze del soggetto, esperienze di fondamentale importanza per definire le differenze di personalità. I soggetti sperimentali provengono da un campione della Avon Longitudinal Study of Parents and Children (ALSPAC), un vasto campione epidemiologico di donne gravide con termine di gravidanzacompreso tra l’Aprile 1991 e il Dicembre 1992.Le caratteristiche temperamentali del campione, mediamente diviso tra maschi e femmine, furono identificate attraverso 6 valutazioni, effettuate tra i 6 ed i 69 mesi d’età. I problemi legati all’abuso alcoolico furono invece valutati a 15 anni.
I risultati identificarono i diversi stili temperamentali, che emergono prima dei 5 anni, in grado di predire problemi di abuso. Queste caratteristiche temperamentali precoci risultano piuttosto diversificate, evidenziando come sia soggetti con consistenti problemi emotivi e comportamentali sia quelli con un buon livello di socievolezza erano a rischio rispetto a storie di abuso di alcool.
Questi dati mostrano quanto sia variegato l’insieme dei fattori implicati nello sviluppo di problemi di questa entità. L’elemento interessante è rappresentato dalla scelta di indagare gli aspetti temperamentali precoci, rispetto ai fattori di personalità, che si sviluppano invece nel corso della crescita dell’individuo.
Inoltre, il risultato per cui gli aspetti di socievolezza siano correlati all’abuso di alcool in adolescenza rimanda alla questione relativa agli aspetti più “sociali” del consumo di alcool tra giovani. Il gruppo di ricerca pone allora l’accento sulla necessità di approfondire e riconoscere quei fattori precoci che possono predire il fenomeno dilagante dell’eccessivo consumo di alcoolici in età adolescenziale, con l’obiettivo di poter identificare i soggetti a rischio già nelle prime fasi dello sviluppo.
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Terapia cognitivo-comportamentale con le coppie e le famiglie – RECENSIONE
RECENSIONE DEL LIBRO
Terapia cognitivo-comportamentale con le coppie e le famiglie
Terapia cognitivo-comportamentale con le coppie e le famiglie di Frank M. Dattilio è curato, nell’edizione italiana, dalla dottoressa Montano, direttrice dell’Istituto Beck.
In questo testo l’autore si propone di fornire agli psicoterapeuti, che si trovano a lavorare con le coppie o a dover gestire all’interno di un percorso di terapia individuale temi legati alla crisi di coppia, una serie di tecniche in origine utilizzate nella terapia cognitivo-comportamentale e adattate al percorso di coppia.
Il manuale, integrando la CBT con i concetti chiave delle teorie neurobiologiche, sistemicho-relazionali, dell’attaccamento e della regolazione emozionale, guida passo per passo il terapeuta nel percorso con la coppia e la famiglia, facendo uso di molti esempi clinici, a cui è dedicato anche il capitolo finale del libro.
Per chi abbia una formazione sistemica relazionale e conosca la letteratura sul lavoro con coppie e famiglie la sensazione è quella che il lavoro con la coppia descritto in questo volume sia in parte sovrapponibile a quello di un terapeuta sistemico relazionale. La ricostruzione dei propri modelli di relazione all’interno della famiglia di origine e della storia di attaccamento e di come questi impattino sul problema attuale della coppia è però solo una parte del lavoro, che si concentra poi, con modalità tipiche della CBT, sull’identificazione e la ristrutturazione di schemi, distorsioni cognitive e pensieri automatici che danno vita alle dinamiche relazionali problematiche per la coppia e la famiglia, con l’obiettivo di modificare le aspettative irrealistiche che ciascuno ha nei confronti degli altro/altri, correggere le interpretazioni errate che impediscono una corretta e funzionale comunicazione, diminuire le interazioni distruttive.
Per usare termini cari alla terapia cognitivo-comportamentale gli schemi (Beck et al. 1979), che le persone utilizzano come modelli sui quali elaborare le informazioni relative alle esperienze di vita, hanno anche una componente “familiare”, cioè rivelano come le persone all’interno della famiglia di origine hanno percepito le ripetute interazioni familiari nel corso degli anni.
Gli schemi familiari, credenze condivise sulla maggior parte degli eventi che accadono in famiglia, danno vita a gran parte delle interazioni familiari quotidiane, infatti le componenti cognitive, emotive e comportamentali degli schemi familiari di ciascuno sono in grado di elicitare risposte, spesso prevedibili, negli altri membri della famiglia.
Gli schemi familiari, insieme a quelli sulla relazione di attaccamento con le figure significative dell’infanzia, fungono da modello di interpretazione e previsione delle realtà relazionali successive, influenzando la vita di coppia e le relazioni coni figli e stanno alla base di molte delle distorsioni nella percezione dell’altro.
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Gli schemi hanno anche una componente intergenerazionale, cioè si tramandano attraverso le generazioni con meccanismi di proiezione familiare boweniani, ben esplorati dal modello sistemico-relazionale. Gli schemi individuali e quelli familiari, centrali nei conflitto/disagio di coppia e familiare devono essere affrontati nelle fasi iniziali del trattamento, già nella fase di assestment. L’autore indica anche uno strumento ad hoc che guida il terapeuta in questa indagine, il Family of Origin Inventory di Richard Stuart.
Il piano generale di trattamento prevede di aiutare la coppia a prendere consapevolezza di come il passato relazionale di ciascuno influenzi il presente – con l’assunzione di ruoli e lo strutturarsi di credenze e schemi cognitivi disfunzionali – distorcendo la percezione che si ha dell’altro e influenzando la comunicazione disfunzionale in coppia.
Il passo successivo è aiutare i membri della coppia a prendere distanza dalle proprie credenze e ristrutturare i propri schemi; favorendo al contempo una ricontrattazione della relazione che comprenda una certa dose di accettazione dell’altro.
Un capitolo è dedicato all’assessment in cui sono elencati, oltre all’uso del genogramma familiare, molti questionari utili a raccogliere informazioni sul funzionamento generale della coppia e della famiglia e che possono servire da traccia per l’approfondimento, nei colloqui successivi, di alcuni temi e dinamiche interpersonali salienti.
Inoltre molte sottoscale forniscono un profilo nelle aree di forza e in quelle di debolezza all’interno delle relazioni. Nonostante la parte più consistente della valutazione avvenga all’inizio, la concettualizzazione del caso procede per il corso dell’intero trattamento. Nella parte del volume dedicata all’assesment vengono anche date indicazioni su alcune situazioni e alcuni elementi del sistema cui è necessario, fin dalla fase di valutazione iniziale, porre particolare attenzione: la richiesta di mantenere informazioni riservate, la presenza di segreti familiari, l’analisi dei confini, i meccanismi di triangolazione, l’assunzione di ruoli rigidi, la distribuzione del potere e del controllo all’interno della coppia o della famiglia.
L’osservazione diretta delle interazioni di coppia e familiari da parte del terapeuta è un elemento molto importante, perchè permette al terapeuta di cogliere il non verbale della comunicazione e di identificare i pattern di comunicazione più significativi che contribuiscono a mantenere il problema relazionale. Particolare attenzione viene data alle azioni costruttive e collaborative e a quelle distruttive, oppositive e manipolative. Una tecnica usata per osservare un interazione familiare strutturata è quella del problem solving familiare, che permette al terapeuta di osservare direttamente, ed eventualmente di intervenire, sulle difficoltà di comunicazione della coppia o della famiglia. La motivazione al cambiamento è un altro degli elementi che deve essere testato fin dall’inizio del percorso, a questo scopo vengono assegnati dei compiti da svolgere a casa (homework): lo svolgimento di questi compiti è un buon indicatore della volontà dei pazienti di impegnarsi; inoltre il come questi compiti vengono svolti fornisce ulteriori informazioni sulle dinamiche di coppia e familiari.
Molta attenzione viene data alla comprensione di come i propri schemi, le distorsioni cognitive, le attribuzioni e le doverizzazioni influenzino i pensieri automatici.
L’identificazione dei pensieri automatici e delle risposte emozionali e comportamentali, che fanno da sfondo ai temi relazionali problematici che la coppia porta in terapia, è uno dei passaggi fondamentali del protocollo di coppia del manuale; uno strumento ad hoc per usato per familiarizzare con questa pratica è il Dysfunctional Tought Record, una scheda di registrazione dei pensieri disfunzionali.
Questo lavoro, che viene svolto sia in seduta che a casa, ha lo scopo di aumentare la consapevolezza di come le reciproche risposte emotive e comportamentali negative possano essere controllate, grazie all’identificazione dei pattern di pensieri che le elicitano. Ciascuno, insomma, dovrà assumersi maggiore responsabilità in merito alle proprie reazioni emotive e comportamenali nei confronti del partner. Segue il processo di disputing e ristrutturazione dei pensieri automatici grazie al quale la coppia inizia a mettere a fuoco le distorsioni nel proprio ragionamento e viene incoraggiata a considerare gli eventi relazionali da una prospettiva differente.
Un ampia parte del volume è dedicata alle tecniche cognitivo comportamentali: oltre agli immancabili homework – che vanno dall’identificazione dei pensieri automatici, all’automonitoraggio degli stati interni tra una seduta e l’altra, alla programmazione di attività congiunte, alla lettura di testi specifici, fino videoregistrazione delle interazioni casalinghe – vale la pena citare il training di comunicazione, in cui i partners imparano ad esprimere pensieri ed emozioni e ad ascoltarsi reciprocamente, empatizzando e validando ciò che l’altro sente; questa tecnica aiuta a ridurre le distorsioni cognitive e a modulare l’espressione delle emozioni, migliorando le interazioni comportamentali problematiche; il problem solving congiunto; i contratti di scambio dei comportamenti
desiderati, in cui ciascuno viene incoraggiato a farsi avanti nei confronti degli altri; il training di assertività, in cui la coppia impara a riconoscere la differenza tra risposte assertive, passive e aggressive e come l’assertività favorisca interazioni più sane; gli interventi paradossali, generalmente efficaci nei casi di stallo e maggiore gravità e da usare solo dopo che il paziente ha appreso e utilizzato con successo le abilità di comunicazione e problem solving; l’inversione di ruolo, in cui, per facilitare il decentramento di ciascun membro della famiglia, ciascuno è incoraggiato, in un role playng, ad assumere la prospettiva dell’altro.
La parte finale del volume è dedicata a come affrontare i più comuni ostacoli terapeutici e situazioni particolari come il divorzio, la coppia omosessuale, le violenze domestiche, l’uso di sostanze, le relazioni extraconiugali.
Although each year approaching 30% of the population worldwide has some form of mental illness, at least two thirds receive no treatment. This under-treatment occurs even in countries with the best resources, while the proportions of people with mental illness who are treated in low and medium resource countries (LAMIC) are far less (Wang et al., 2007).
Two factors which contribute towards this degree of neglect are the reluctance of many people to seek help for mental illness related problems because of their anticipation of stigma should they be diagnosed, and the reluctance of many people who do have a diagnosis of mental illness to advocate for better mental health care for fear of shame and rejection if they disclose their condition (Kohn et al., 2004a).
Stigma is believed to be one of the major barriers to seeking treatment, because both possession of a psychological diagnosis and the act of seeking treatment appear to be stigmatizing.
Stigma is related to treatment avoidance in at least two ways: First, people wish to avoid possibly being publically identified and labeled as “mentally ill” by seeking mental health counseling. Second, by seeking treatment people implicitly accept the label of “someone who needs psychological help” which can threaten self-esteem.
Public stigma may be defined as the typical societal response that people have to stigmatizing attributes, and self-stigma represents the internalized psychological impact of public stigma. Through self-stigmatization, people can experience losses in self-esteem and self-efficacy. Though common, such losses are not the automatic consequences of possessing a stigmatizing characteristic. Awareness and endorsement of public stigma as well as application to the self are thought to be necessary to generate self-stigma and the emotions of shame, fear, embarrassment, and alienation are central to self-stigma.
In which way it can be assumed that self-stigma and public stigma would influence attitudes toward help-seeking?
In a study from Bathje & Pryor (2011) self-stigma was found to fully mediate the relationship between awareness of public stigma and attitudes toward help-seeking and partially mediate the relationship between the most prominent component of endorsement of public stigma (sympathy) and attitudes toward help-seeking. Thus, simply being aware that mental illness is stigmatizing does not directly impact attitudes toward help-seeking. Instead, it appears that it is the internalization of stigmatizing beliefs and the resulting harm to self-esteem (self-stigma) that leads an individual to have negative attitudes toward help-seeking.
Self-stigma only partially mediated the relationship between endorsement of public stigma and attitudes toward help-seeking, meaning that both the sympathy and controllability components of endorsement directly influence attitudes.
Finally, attitudes toward help-seeking were found to fully mediate the relationship between self-stigma and intentions to seek counseling when mental health concerns are experienced.
Il fenomeno dell’invecchiamento cerebrale è naturale e fisiologico ma è confermato che tenere allenata la mente riduce l’invecchiamento e potenzia la memoria.
Con l’avanzare dell’età le strutture dell’organismo si indeboliscono gradualmente con la conseguenza che le capacità funzionali diminuiscono. Uno dei primi sintomi dell’invecchiamento è la perdita della memoria a breve termine. Si possono dimenticare parole o nomi di persone che prima ci risultavano più semplici diventano più difficoltose.
Il fenomeno dell’invecchiamento cerebrale è naturale e fisiologico ma è confermato che tenere allenata la mente riduce l’invecchiamento e potenzia la memoria, “prendere parte ad attività di questo tipo durante tutta la vita di una persona, dall’infanzia alla vecchiaia, è importante per la salute del cervello in età avanzata”, ha dichiarato l’autore dello studio Robert S. Wilson, del Rush University Medical Center di Chicago.
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Una nuova ricerca suggerisce che possiamo rallentare questo procedimento tenendo in allenamento costante il cervello tramite la lettura di libri, la scrittura e la partecipazione alle attività che stimolano il cervello a qualsiasi età, può preservare la memoria. Lo studio è stato pubblicato il recentemente sulla rivista on line Neurology ®, la rivista medica dell’American Academy of Neurology.
Per lo studio, 294 persone sono state sottoposte a test che misuravano la memoria e il pensiero, ogni anno per circa sei anni prima della loro morte a un’età media di 89 anni. Queste persone inoltre, hanno risposto a un questionario per verificare se hanno letto libri, si sono dedicati alla scrittura o hanno partecipato ad altre attività mentalmente stimolanti durante l’infanzia, l’adolescenza, la mezza età ed alla loro età attuale.
Dopo la morte, i loro cervelli sono stati esaminati con l’autopsia per la prova dei segni fisici di demenza, quali lesioni, placche cerebrali e grovigli.
La ricerca ha scoperto che le persone che hanno partecipato alle attività mentalmente stimolanti sia durante la vecchiaia che nel corso della vita, avevano un ritmo più lento di declino della memoria rispetto a coloro che non avevano partecipato a tali attività nel corso della loro vita, dopo aggiustamento per diversi livelli di placche e grovigli nel cervello. L’attività mentale rappresenta quasi il 15 per cento della differenza nel declino, al di là di ciò che viene specificato da placche e grovigli nel cervello.
Sulla base di questi risultati, non dobbiamo sottovalutare gli effetti delle attività di tutti i giorni, come la lettura e la scrittura, per i nostri figli, noi stessi ed i nostri genitori o nonni sottolineano i ricercatori.
Lo studio ha rilevato che il tasso di declino è stato ridotto del 32 per cento nelle persone con attività mentale frequente nella vita, rispetto alle persone con attività mentale media, mentre il tasso di declino delle persone con attività poco frequenti è stato del 48 per cento più veloce rispetto a quelli con attività media .
Lo studio è stato sostenuto dal National Institute of Aging e il Dipartimento di Sanità Pubblica dell’Illinois.
PROYOUTH: LA PREVENZIONE DEI DISTURBI ALIMENTARI VIA WEB
Progetto PROYOUTH
Video di presentazione del ProYouth, un Progetto Europeo per la prevenzione dei Disturbi Alimentari e la promozione del benessere psicologico in adolescenza.
Il ProYouth è attivo dal 2011 in sette Paesi Europei e in Italia è promosso dalla Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva e Cognitivo-Comportamentale “Studi Cognitivi”.
Il ProYouth si propone come supporto agli adolescenti, che potranno usufruirne in modo gratuito e anonimo interfacciandosi con la piattaforma che si trova all’indirizzo proyouth.eu
Stigma is a word which has evaded clear, operational definition: it can be considered as an amalgamation of three related problems: a lack of knowledge (ignorance and misinformation), negative attitudes (prejudice), and excluding or avoiding behaviors (discrimination) (Thornicroft, 2006b).
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People with mental disorders often wait for a long time before looking for help, with average delays before seeking help of 8 years for mood disorders, and at least 9 years for anxiety disorders. Those who wait longer than average before receiving care are more likely to be young, old, male, poorly educated, or a member of a racial/ethnic minority (Morgan & Fearon, 2007).
How do people judge where to go for help? A large national survey in Germany described vignettes of people with depression or schizophrenia and asked about how to find help. Revealingly the general public thought that mental health staff is useful for treating people with schizophrenia, but not for depression. The reason for this is that most people felt that schizophrenia was caused by biological or uncontrollable influences, while they understood depression to be a consequence of ‘social disintegration’ (including unemployment, drug or alcohol misuse, marital discord, family distress or social isolation) so that people with depression were more often recommended to seek help and social support from a friend or confidant (Angermeyer et al., 1999).
Similar findings also emerged from a study in Iowa where people living in the most rural environments were more likely to hold stigmatizing attitudes toward mental health care than people in towns, and such views strongly predicted willingness to seek care (Hoyt et al., 1997). So it seems to be true that stigma about mental illness is no less in many rural areas, and it may be even stronger than in towns and cities. In part this may be based upon fears that a rural community will learn details about a period of mental illness, while it is easier in cities to remain anonymous. But relatively little research has been done in rural areas to understand these processes in more detail.
It seems to be clear, however, that stigma plays an important role in determining people’s Help Seeking Behavior.
Diversi sono i progetti nati per assistere e compensare le difficoltà che possono presentare le persone con una sindrome dello spettro autistico. Le Tecnologie dell’Informazione e della Comunicazione (TIC) promuovono la capacità di anticipazione e la strutturazione del tempo e delle attività.
Inoltre lo sviluppo di competenze sociali è potenziato dagli strumenti multimediali e dalle realtà virtuali, in grado anche di favorire il gioco di finzione.
Grazie all’uso di dispositivi tecnologici è possibile generare degli ambienti intelligenti in grado di promuovere i processi di percezione – azione, comprensione, pianificazione, problem-solving e relazione. Inoltre, grazie alla portabilità di alcuni dispositivi, è possibile riprodurre gli ambienti virtuali intelligenti nei diversi contesti in cui una persona con autismo vive. Alcuni studi hanno dimostrato come, a differenza dei mezzi convenzionali, le nuove tecnologie offrano la possibilità di aumentare il livello di attenzione durante la presentazione degli stimoli e nello svolgimento dei compiti, adattandosi alle capacità individuali e allo stile e al ritmo di apprendimento personale.
Tic-Tac è un software per facilitare la comprensione e la gestione del tempo in soggetti autistici. Il concetto di tempo è rappresentato utilizzando un codice visibile, udibile e tangibile (vibrazione del dispositivo su cui è installato), accompagnato da pittogrammi o fotografie che identificano l’attività svolta o la situazione sperata. Nella modalità visiva, ad esempio, il passare del tempo si rappresenta attraverso la diminuzione o l’aumento di bastoni, cerchi o da clessidre che si riempiono progressivamente. Tutte le opzioni presenti nell’orologio (come ad esempio i colori, il tipo di immagine usata, la durata) possono essere adattate alla situazione e alla persona che ne usufruisce.
Visualizzazioni di sostegno
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Si tratta di un portale web studiato per facilitare l’uso delle metodologie della Pianificazione Centrata nella Persona (PCP) seguendo le quali è la persona con disabilità che deve scegliere obiettivi, necessità e aspettative, contando sul supporto dell’altro per il raggiungimento delle mete prefissate. Famiglia, amici e operatori permetteranno la costituzione del Piano di Sviluppo Personale del soggetto, inserendo informazioni che permettano di conoscere la persona con autismo da diversi punti di vista. Ciascuno ha a disposizione uno spazio in cui inserire le informazioni rilevanti, la storia, le preferenze, i sogni, le paure e i progressi della persona autistica. Lo spazio è mediato da un facilitatore, figura utile per la pianificazione delle attività, per la coordinazione dei diversi interlocutori e di eventuali incontri o riunioni.
TAAC
Si tratta di un’applicazione “Touch Augmentative and Alternative Communication” nata con l’obiettivo di aiutare chi fatica a comunicare verbalmente, promuovendo le capacità di entrare in relazione di chi questi problemi li vive quotidianamente. Con l’obiettivo di aiutare nel comporre frasi, ricorre alle immagini e al text to speech. Per certi aspetti, funziona come la tastiera di un Blackbarry, predicendo la parola o il concetto che si vuole esprimere, in base a quello che si scrive, lavorando però con le immagini: quando si clicca su un’immagine, appaiono quelle correlate. Taac sintetizza le parole e trasforma i concetti in voce, ma non solo: un aspetto interessante è la possibilità di personalizzare le carte usate, associando -ad esempio- al concetto di genitori le foto della mamma e del papà del ragazzo.
T4A è un acronimo per indicare una piattaforma “Touch for Autism” nata per favorire il coordinamento dei diversi attori in dialogo con la persona autistica, riducendo il rischio di frammentazione a cui si può assistere nella presa in carico della persona stessa. Si tratta di un progetto di educazione e riabilitazione che prevede la gestione dell’intero processo da parte di un operatore case manager che, attraverso l’uso di un banco madre (tavolo multitouch interattivo-riabilitativo), può dialogare con uno strumento portatile (tablet) che accompagna il bambino e gli adulti di riferimento. Dopo una prima fase sperimentale, T4A è oggi una piattaforma tecnologica altamente innovativa in grado di guidare l’apprendimento, la comunicazione, le abilità sociali e personali del bambino con autismo attraverso strumenti utilizzabili con il tocco.
ZO’E’
Zo’è è un comunicatore dinamico che mira a supportare i processi comunicativi di tutte le persone che non sono in grado di utilizzare voce o gesti per esprimersi. E’ attualmente utilizzato in progetti riabilitativi ed educativi, con l’obiettivo di sviluppare l’autonomia dell’utente.
Si tratta di un’applicazione fornita su tablet, con la quale è possibile interagire attraverso il display touchscreen. E’ uno strumento adattabile all’utente, in base alle sue esigenze specifiche. E’ infatti possibile personalizzare le immagini utilizzate e i testi associati ad ognuna di queste. Per aumentare la personalizzazione è anche possibile attivare la sintesi vocale dei testi inseriti o della propria voce.
LULA
Un altro software riabilitativo per lo sviluppo di abilità comunicative e linguistiche, rivolto a tutti i soggetti con deficit della comunicazione e problemi relazionali, nello specifico persone autistiche, è LULA. Questo software sfrutta la cosiddetta ‘modalità animata rallentata’ per presentare azioni ed emozioni in un modo maggiormente comprensibile per questo target.
Il progetto cerca di favorire soprattutto le abilità pragmatiche, che risultano dall’integrazione e dalla corretta contestualizzazione di informazioni verbali, non verbali e contestuali. In questo senso, le persone autistiche non sono in genere in grado di cogliere gli elementi socialmente rilevanti della comunicazione, ma si soffermano piuttosto su quelli irrilevanti.
Lula cerca di sviluppare queste abilità pragmatiche attraverso un approccio integrato che tenga conto, allo stesso tempo, degli stati mentali, della struttura dell’evento, della funzione dialogica e dell’empatia.
Per raggiungere questo obiettivo, Lula utilizza un linguaggio fumettistico che facilita la comprensione e attribuzione di emozioni e l’animazione come tecnica di rappresentazione delle situazioni sociali.
ALPACA
Alpaca (Alternative Literacy with PDA and Augmentative Communication for Autism) è invece un palmare multimediale per bambini autistici che, attraverso un software in grado di gestire immagini e suoni, coinvolge allo stesso tempo i sensi del tatto, della vista e dell’udito. Immagini e suoni sono personalizzabili in base alle esigenze dell’utente, con lo scopo di supportare maggiormente l’insorgere delle abilità linguistiche e comunicative.
IMMAGINARIO
Immaginario è un’applicazione pensata per gli adulti che interagiscono con persone con un disturbo dello spettro autistico. Il supporto alla comunicazione mira, in questo caso, a sostenere la comprensione attraverso l’uso di immagini.
I dispositivi mobili su cui questa applicazione può essere installata consentono di avere sempre con sé il materiale necessario per comunicare. Le immagini sono associate a concetti, a loro volta categorizzati in base a criteri semantici. Anche in questo caso, gli sviluppatori hanno puntato sulla possibilità di personalizzare le immagini, creando nuove carte, testi e registrazioni audio.
PROLOQUO2GO
Proloquo2Go è un’applicazione che sfrutta un vocabolario di simboli e icone che permette all’utente di costruire frasi che sono lette verbalmente dal tablet. Obiettivo di questa applicazione non è solo quello di supportare la comunicazione, ma anche di agevolare l’apprendimento di competenze sociali, abilità motorie, logopediche, etc.
Wing, L. (1988). The continuum of autistic characteristics. In E. Schopler & G. B. Mesibov (Eds.): Diagnosis and assessment in autism. New York: Plenum Press.
La relazione tra anomalie strutturali e funzionali in questi regioni cerebrali in pazienti depressi è tutt’altro che chiara. Tuttavia, entrambi i tipi di cambiamenti possono esservi alla base dei sintomi di questo disturbo.
Questa mancanza di comprensione ha indotto il dottor Bart de Kwaasteniet e colls. presso il Centro Medico Accademico di Amsterdam a utilizzare un approccio di neuroimaging multimodale per chiarire tale rapporto.
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I ricercatori, guidati dal professor Damiaan Denys, hanno reclutato 18 pazienti con disturbo depressivo maggiore e 24 individui sani. Tutti i partecipanti hanno subito molteplici scansioni di neuroimaging. Loro hanno focalizzato specificamente la connettività strutturale e funzionale tra il corteccia subgenuale cingolata anteriore (ACC) e il lobo temporale mediale, due regioni che sono collegate dal fasciculus uncinato. Queste regioni sono note per essere coinvolte nella regolazione delle emozioni e della memoria.
I ricercatori hanno spiegato che c’è una diminuita integrità strutturale del fasciculus uncinato che collega il lobo temporale mediale e il la corteccia subgenual ACC. Inoltre, hanno identificato un aumento del collegamento funzionale tra questi regioni in depressione rispetto ai controlli. È importante sottolineare che hanno identificato una correlazione inversa tra l’integrità del fasciculus uncinato e il collegamento funzionale tra l’ippocampo ACC e bilaterale subgenual nella depressione maggiore.
Questi risultati suggeriscono che i disturbi strutturali del fasciculus uncinato contribuiscono a un incremento delle interazioni funzionali tra i circuiti del cervello associati con i sintomi della depressione. Questo porta ad ipotizzare che le anomalie nella struttura del cervello portano a differenze nella connettività tra aree cerebrali nei disturbi depressivi.
Tuttavia, i ricercatori hanno anche ipotizzato che il contrario può essere vero. In altre parole, che l’aumento della connettività funzionale tra queste regioni del cervello porta a cambiamenti strutturali nelle fibre della sostanza bianca del cervello per mezzo di un aumento anomalo di trasduzione del segnale. Questa ipotesi è supportata da recenti studi che suggeriscono che nella schizofrenia l’iperattività del circuito può essere un fattore predittivo di una successiva atrofia corticale.
Questo interessante studio suggerisce che le anomalie nei collegamenti strutturali tra le regioni del cervello, in particolare della sostanza bianca, sono associati con attività anomala all’interno di un circuito cerebrale implicato nei sintomi della depressione. Questa osservazione solleva una questione importante: “quali sono le implicazioni del trattamento delle anomalie funzionali del circuito senza il riparo dei difetti strutturali?“.
E’ probabile che le anomalie strutturali contribuiscono al rischio per la ricaduta della depressione tra gli individui la cui attività del circuito cerebrale ha risposto ai farmaci antidepressivi.