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Chi muore Rockstar è caro agli Dei?

Il mestiere di rockstar: alcune ricerche hanno provato che sia un lavoro con una mortalità superiore alla popolazione normale.

Di Gaspare Palmieri, Sara Bocchicchio, Elena Del Rio, Vania Galletti, Giorgia Righi

Pubblicato il 31 Mag. 2013

Aggiornato il 05 Lug. 2019 12:53

di Gaspare Palmieri, Sara Bocchicchio, Elena del Rio, Vania Galletti, Giorgia Righi

 

“La miglior mossa di marketing per una rockstar? Morire giovani!”

Chuck Klosterman

 

Chi Muore Rockstar è Caro agli Dei?. - Immagine: ©-Andrei-Tsalko-Fotolia.comIl mestiere di rockstar è notoriamente gravoso: lunghi periodi lontano da casa in alberghi a cinque stelle, snervanti interviste per le riviste patinate, crampi alle mani a forza di firmare autografi, fughe dalle groupies (o dai groupies, vedi Madonna o Lady-Gaga). Ma che alcune ricerche statistiche abbiano provato che sia addirittura un lavoro con una mortalità superiore alla popolazione normale, per intenderci come fare il soldato o il pilota collaudatore di aerei, sorprende non poco.

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Procediamo per ordine. Prima di tutto è stato finalmente sfatato, con un rigoroso studio retrospettivo, il mito del Club dei 27, che ha ospitato personaggi come Janis Joplin, Jimi Hendrix, Curt Kobain e per ultima Amy Winehouse, in base al quale ci sarebbe un picco di mortalità tra i musicisti popolari a quell’età (Wolkewitz et al., 2011). Secondo lo studio in realtà i ventisette anni non rappresentano un particolare momento di rischio, ma è stato individuato un range di maggiore vulnerabilità in generale tra i venti e i quarant’anni.

Un gruppo di ricercatori di Liverpool ha poi prodotto una serie di interessanti indagini sulla mortalità delle star del rock (Bellis et al. 2007; 2012). Il più recente analizza retrospettivamente le biografie dei 1489 rockers americani e europei, che hanno venduto il maggior numero di dischi tra il 1956 e il 2006 e che hanno mantenuto il successo per almeno cinque anni.

La mortalità delle star è risultata aumentare, rispetto a quella della popolazione normale, a partire dall’inizio della fama.

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Nello specifico i musicisti famosi americani hanno mostrato una mortalità più alta rispetto ai colleghi europei, probabilmente a causa di una maggior esposizione ai fattori di rischio (es. droghe), di una maggiore durata della carriera artistica (anche per via delle storiche reunion) e un più difficile accesso al sistema sanitario.

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Nel vecchio continente il tasso di mortalità torna ai livelli della popolazione normale dopo venticinque anni di fama, mentre i colleghi oltreoceano devono aspettare quindici anni in più. Dallo studio emerge inoltre come i musicisti solisti siano più vulnerabili rispetto a chi fa parte di una band, che potrebbe dunque rappresentare un fattore protettivo e di supporto per gli stress della vita da rockstar.

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L’aspetto più interessante e innovativo di queste indagini riguarda la ricerca, nella storia di vita dei rockers, di eventi infantili traumatici (Adverse Childhood Experiences-ACE) e di una loro possibile correlazione con una più alta mortalità. Gli ACE, già identificati come fattori di rischio per svariate patologie psichiatriche e mediche, includono abusi fisici, sessuali e verbali durante l’infanzia o la presenza di un membro della famiglia affetto da grave disturbo psichico, da una malattia cronica o da abuso di alcol o droghe.

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E’ stato provato che gli adulti che abbiano sperimentato quattro o più ACE, hanno un rischio sette volte maggiore di sviluppare una dipendenza da alcol e dodici volte maggiore di tentare il suicidio rispetto alla popolazione normale (Felitti et al., 1998). Gli ACE sembrano inoltre fattori di rischio per lo sviluppo di disturbi di personalità nella prima età adulta, in particolare del cluster B (narcisistico, istrionico, borderline, antisociale), che sono stati identificati in misura maggiore nelle persone che cercano la fama.

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Lo studio inglese mostra tra le rockstar una correlazione tra presenza di ACE e mortalità prematura. Circa la metà dei musicisti deceduti a causa di abuso di sostanze o comportamenti a rischio aveva infatti vissuto almeno un evento traumatico infantile. Si potrebbe dunque ipotizzare che inseguire la via del successo nella musica sia una rischiosa ed allo stesso tempo attraente strategia di coping per fuggire ad un difficile passato di abusi, deprivazioni e maltrattamenti.

Chiaramente questi dati spaventano genitori ed educatori in quanto le star del rock e del pop, la cui notorietà può raggiungere dimensioni planetarie (Lady Gaga ha venti milioni di followers su Twitter), rappresentano modelli di riferimento per i giovani, con rischio di imitazione.

Per tranquillizzarsi un po’, può essere consigliabile leggere un recente studio di un ricercatore finlandese, che ha analizzato trentuno autobiografie di rockstar edite a partire dagli anni 90’ (Oksanen, 2012). L’analisi delle narrative ha mostrato come nei libri venga dedicato molto spazio al processo di guarigione dalle dipendenze da alcol e sostanze (la cosiddetta rehab). Come a dire che di questi tempi, a differenza del passato, sia più di moda raccontare i propri percorsi di risalita dagli inferi, piuttosto che fare l’apologia di comportamenti insalubri. Sex, rehab and rock and roll?

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