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Gli devo dire che è Asperger? (2014) di Tony Atwood e Carol Gray – Recensione

"Gli devo dire che è Asperger?" è un libro che esorta ad una comunicazione trasparente, leale e consapevole, tra genitori e figlio

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 02 Apr. 2024

“Gli devo dire che è Asperger?”

Tutti i genitori di un bambino con l’Asperger si saranno posti la domanda dilemmatica che dà titolo al testo. “Gli devo dire che è Asperger?”.

Rispondere non è semplice. In un mondo che ambisce alla perfezione e la pretende, scoprire di avere un disturbo del genere prospetta un presente difficile e un futuro in salita, soprattutto a causa delle limitazioni sociali dallo stesso comportate. 

Perché sono diverso dagli altri? Perché non funziono come tutti? Perché le cose che per i miei compagni sono facili, per me sono così difficili? Il bambino se lo chiede spesso e, per quanto percepisca il proprio svantaggio, non è in grado di spiegarselo: soprattutto quando, verso i 6-8 anni, la capacità autovalutativa si consolida, e il confronto sociale diventa una strategia valutativa indispensabile alla conoscenza del Sé; è in questo momento che la sindrome, prima compensata dalla protezione dell’ambiente familiare, inizia a far sentire il suo peso. 

Spaventati dalle sue domande, i “grandi” vorrebbero far finta di niente, accampando spiegazioni traballanti o negazioni difensive che, se non cancellano la sindrome, illudono perlomeno di poterci riuscire. 

Non è l’atteggiamento giusto.  Gli adulti devono resistere ad ogni tentazione denegante, evitando di trincerarsi in quei “rifugi della mente” ove la sindrome viene disconosciuta – mio figlio è uguale a tutti gli altri– o compensata tramite strategie narcisistiche di iperprotezione –i classici bozzoli isolanti– che, nel tentativo di proteggere il bambino dalla verità, ne impediscono l’adattamento e l’evoluzione. 

Se il bambino è in grado di fare la domanda, è pronto anche a sentire la risposta, tanto per citare un’iconica frase degli autori (p. 9). Il testo esorta ad una comunicazione trasparente, leale e consapevole, in cui il genitore è chiamato a rispettare i tempi e le risorse evolutive del figlio, al fine di non sottoporlo ad una rivelazione più dolorosa e incomprensibile del disturbo stesso. 

Cosa significa avere l’Asperger

Meglio nota come autismo ad alto funzionamento – dopo la nuova definizione proposta dal DSM 5 – la sindrome di Asperger è un disturbo che invalida soprattutto l’aspetto socio-comportamentale, rendendo più difficoltose la capacità di comunicazione verbale, la competenza pragmatica, la decodifica delle proprie e delle altrui emozioni, la flessibilità di pensiero, la lettura empatica

Nella prima parte gli autori ne offrono un’ampia descrizione clinica, con tanto di criteri nosografici per una corretta identificazione: il tutto senza scadere nell’etichettamento, “colpevole” di saturare l’identità del soggetto, sovrapponendola totalmente al disturbo. 

Dopo questa introduzione “in giacca e cravatta” prende il via una descrizione più informale, che mette in evidenza gli aspetti atipici peculiari della sindrome: i comportamenti goffi, l’inadeguatezza al contesto, il deficit di pensiero simbolico e astratto, gli interessi ristretti, il conversare monotono, sono tutti aspetti che contribuiscono a rendere l’Asperger un disturbo ad elevata compromissione sociale, con sostanziali ripercussioni nell’adattamento. 

Ma non è il caso di drammatizzare: dopo aver ribadito l’importanza di una diagnosi precoce utile a limitare gli svantaggi del disturbo, gli autori esortano a coltivare condotte di agency e resilienza in tutti i soggetti coinvolti.  

La presenza della sindrome non inficia la possibilità di affermarsi socialmente. Il testo lo ribadisce mettendo in evidenza, in una prospettiva qualificante, quei punti di forza spesso offuscati da un pensare collettivo distratto e stereotipato: ad esempio l’Asperger può possedere una sviluppata memoria visuo-spaziale, essere caparbio, onesto e impegnarsi seriamente in tutto ciò che fa. Può avere ottime doti matematiche, risultare spesso preciso e determinato, leale e solerte nello svolgimento dei propri doveri. In pratica, un affidabile compagno di studio e di lavoro. 

Il soggetto Asperger ha il diritto di accettarsi… Il testo aiuta ad evidenziare, in maniera onesta e realistica, gli aspetti positivi sui quali è necessario investire con intento auto confermante. “Il mio ritratto” (p. 73), storia sociale riportata nella parte finale, suggerisce l’impiego di strategie di autovalorizzazione, utili a familiarizzare con i propri talenti in una prospettiva di presentazione sociale. Io sono, Io sono capace di fare, io sono in grado di….l’Asperger deve imparare più spesso a dirlo, e soprattutto a pensarlo. 

…E di essere accettato. Prima di tutto dai pari.Perchè questo nuovo compagno di classe che usa dei paroloni e conosce così tanto sui dinosauri, non risponde mai quando lo saluto?” (p. 47). Di fronte a domande del genere- piuttosto prevedibili all’interno di una classe- l’utilizzo di strategie di negazione non apporta nessun contributo alla finalità di inclusione propugnata dal testo, e non agevola la comprensione da parte dei pari. È invece necessario sottoporre la classe ad una spiegazione psicoeducativa della sindrome, al fine di evitare dubbi e vuoti esplicativi che troppo spesso, a questa età, generano condotte di derisione e rifiuto.

Gli autori suggeriscono l’utilizzo del gioco, fiduciosi che l’energia positiva stimolata dal fattore ludico possa stornare eventuali tensioni e difficoltà, favorendo la conoscenza empatica, l’identificazione e il contatto emotivo. In particolare viene descritto il gioco dei cinque sensi, finalizzato ad evidenziare la valenza esplorativo-conoscitiva dei canali sensoriali e a potenziarne l’utilizzo nella relazione col Sé e con l’altro. Vista, udito, olfatto, tatto, gusto. Fino alla presentazione del fatidico sesto senso, descritta come la capacità intuitiva che consente di cogliere lo stato d’animo altrui, pur senza l’ausilio di spiegazioni esplicite. Proprio la dote che manca all’Asperger. Il gioco aiuta a scoprirne le motivazioni in una prospettiva empatica, educando alla collaborazione, all’identificazione, alla consapevolezza. Cosa prova il mio compagno? Perché si comporta così? Ed io come mi comporterei al suo posto? Imparare a mettersi nei panni di un altro è il primo passo per creare ambienti inclusivi e rispettosi delle individualità. 

…e se sono adulti? 

L’ultimo capitolo è una sorta di rete confidenziale scritta con il contributo dello Spazio Asperger ONLUS, e dedicata a tutti quegli adulti-più di 1200- costretti a fronteggiare  il peso clinico e sociale della sindrome. 

Non si tratta di un muro del pianto, ma soltanto di un’opportunità autonarrativa grazie alla quale gli adulti Asperger, meno disposti del bambino ad accettare un sostegno psicologico per la gestione del disturbo, possono esprimere il disagio in una prospettiva di condivisione. La vicinanza emotiva e la verbalizzazione del disagio potenziano anche in questo caso il pensiero positivo, appannaggio di resilienza e autoefficacia e utile ad inibire vissuti di impotenza reattiva. 

Nemmeno l’adulto deve nascondere il disturbo, e dopo averlo accettato come parte integrante del Sé, deve esortare gli altri al medesimo atteggiamento di accettazione non colpevolizzante. Da qui il suggerimento di indicare la sindrome nel proprio curriculum vitae, dandone una descrizione onesta e chiarificatrice. Chi sono, cosa so fare, quali sono state le mie esperienze, con e malgrado la sindrome. Tenendo a mente che se gli altri hanno il diritto di sapere, l’Asperger ha il diritto di dire.

Il “succo” del testo “Gli devo dire che è Asperger?”

Forse dovremmo prendere in considerazione il commento di un adulto con Asperger, che suggerisce come la Sindrome non sia altro che una differenza nell’evoluzione della specie umana e un contributo essenziale per il suo sviluppo (p. 45)

Per quanto impegnativo, il messaggio del testo di Atwood e Gray viene espresso con chiarezza e semplicità di linguaggio, in modo da risultare comprensibile anche ai non addetti ai lavori. Fare spazio alla trasparenza, all’autenticità- indispensabili nella clinica e ancor più nella vita!-  senza edulcorare né colpevolizzare nessun aspetto del disturbo, ma semplicemente cercando di limitarne la portata svantaggiante, aiutando chi ne è affetto ad investire sui punti di forza comunque esistenti. 

E’ necessario far accettare all’Asperger la propria neuroatipicità, esortandolo ad essere uguale a se stesso e non per forza uguale agli altri, in ottemperanza ad uno stereotipo conformista spesso più limitante della stessa sindrome. 

Alla società il compito di aiutarlo in questa impresa, favorendo, a partire dalla scuola, la costruzione di scenari sempre meno segreganti e perfezionisti, costruiti sulla base di giudizi polarizzanti che privilegiano gli estremi a scapito delle indispensabili vie di mezzo, e giudicano con stigma escludente tutto ciò che va in una direzione diversa rispetto a quella della maggioranza. 

L’inclusività aiuta ad assumere una prospettiva di ragionamento dimensionale più che categoriale, in grado di assottigliare il “confine” tra normalità e patologia, e di mostrare come gli opposti siano nati per integrarsi e non per darsi battaglia. 

Nella certezza che la diversità arricchisca, crei l’imprevisto, apra il pensiero al nuovo e al potenziale, ad essere in difetto è forse colui che non riesce ad accettare questa realtà, facendosi scudo all’ombra di una normalità dal contenuto in fondo intriso di relativismo. E oggi persino superato. 

Il mondo è dei molti e delle moltitudini. Il libro, con onestà e semplicità disarmanti, esorta a comprenderlo, affinché i confini non diventino barriere in grado di imprigionare le vite e il pensiero.  

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Atwood, T., Gray, C. (2014). Gli devo dire che è Asperger? Strategie per comunicare la diagnosi di Spettro Autistico alla persona, alla famiglia e alla scuola; Armando, Roma.
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