No, non si parlerà di come curare il famoso personaggio di Molière, e neppure di un qualche pharmacos per ipocondriaci: affronteremo invece una facoltà dell’essere umano, l’immaginazione e come questa possa essere strumento per ridurre, alleviare o eliminare un disagio o una sofferenza.
Che cos’è l’immaginazione
Innanzitutto, cosa intendiamo per immaginazione? Fra le molteplici definizioni che sono state date adotteremo quella di Marjorie Taylor: “L’immaginazione è la capacità di trascendere mentalmente il tempo, il luogo e/o le circostanze per pensare a ciò che potrebbe essere stato, pianificare e anticipare il futuro, creare mondi immaginari e considerare alternative remote e/o vicine alle esperienze reali” (Taylor, 2013, pag. 791).
Secondo questa definizione quindi l’immaginazione è una particolare e parziale facoltà di quello che molti autori chiamano il pensiero produttivo; ma la caratteristica che può essere evidenziata dalla definizione della Taylor e che qui vorrei sottolineare è che l’immaginazione è un’attività del pensiero che produce scenari distanti o comunque diversi e separati dal qui e ora, dall’hic et nunc di ciò che esperisce chi immagina.
Dobbiamo poi considerare che, quando immaginiamo qualcosa che non abbiamo mai visto o sperimentato, il processo che mettiamo in atto è quello di partire da immagini già presenti nella nostra memoria (la nostra conoscenza esperienziale del mondo) e le rielaboriamo fino a creare nuove idee. In altre parole, consideriamo qualcosa di già visto/esperito e lo dotiamo di attributi inediti.
L’immaginazione è quindi una capacità o competenza dalle molte sfaccettature e presente in differenti stati di coscienza, con i suoi correlati neurali ancora, inutile dirlo, non del tutto studiati.
Quando immaginiamo? I tre stati di coscienza
Stato perfettamente cosciente
Ci può capitare di immaginare, quando ci è richiesto da altri o da noi stessi davanti a una particolare esperienza, di valutare determinati dati presenti considerando le varie ipotesi di evoluzioni future. In questi casi ci si focalizza sul compito (focus), la concentrazione è massima, così come la lucidità necessaria al compito (task). Potremmo quindi considerarla un’attività immaginativa determinata da un’attenzione sostenuta in risposta a uno stimolo. Si è quindi in una condizione di completa coscienza e vigilanza.
Stato di coscienza attenuata
A molti di noi sarà capitato di rimanere immersi nei pensieri, quasi assorti, mentre si sta studiando oppure lavorando. In quei momenti può accadere che la nostra mente “vaghi lontana” dalla contingenza della pagina appena letta o dal calcolo appena eseguito. Questo fenomeno è generalmente definito dagli studiosi mind wandering, generalmente tradotto con vagabondaggio mentale, definito come un pensiero spontaneo che sposta l’attenzione da un compito in corso al flusso mentale interiore (Smallwood, Schooler, 2015). Questi stessi autori riconoscono che tale flusso di pensieri occupa spesso una parte considerevole del tempo di veglia tra le persone ovunque impegnate in pensieri non correlati al qui e ora; e l’esplorazione del vagabondaggio mentale è oggetto di una vasta letteratura scientifica (Song and Wang 2012; Kane et al. 2007; Killingsworth and Gilbert, 2010)
Oltre il mind wandering alcuni studiosi considerano e distinguono altre attività di pensiero spontaneo durante lo stato di veglia a mano a mano che da questo si passi a uno stato di semi-coscienza e poi di incoscienza proprio dello stato di sonno che per brevità qui si trascurano.
Stato di incoscienza
Esiste poi l’attività immaginativa propria dei sogni, oggetto di numerosi studi fin dall’antichità e della quale si è parlato anche in un articolo precedentemente pubblicato su State of Mind (Mariano, 2021) e che quindi non verrà affrontato in questa sede. Mi limito solamente a segnalare che anche all’interno dell’attività onirica la letteratura scientifica ha operato varie differenziazioni di produzioni immaginative, valga per tutti il cosiddetto sogno lucido. Esso è uno stato peculiare di attività onirica che si verifica principalmente durante il sonno REM (Rapid Eye Movement) in cui gli individui sono consapevoli di stare sognando e possono persino parzialmente controllare il contenuto onirico, pur rimanendo addormentati (Baird et al., 2019) e riflettere su di esso. Per approfondire l’argomento si consiglia il lavoro di Mota-Rolim et al., 2021, oppure, per i correlati neuroanatomici/neurofunzionali, quello di Baird et al. 2018.
L’immaginazione sulla quale mi vorrei soffermare è quella del mind wandering, quella forse maggiormente studiata con strumenti di neuro-imaging fino ad oggi. Come si è detto, essa si verifica o è prodotta in uno stato di coscienza attenuata; su di essa si ha un minimo/nullo controllo, ma al tempo stesso viene ricordato agevolmente da chi la esperisce, può essere oggetto di riflessione e/o essere esplicitata ad altri.
Dove nasce il mind wandering?
I primi studi sul mind wandering risalgono agli anni ’70 del secolo scorso, brevi episodi di ”pensieri alla deriva” durante stati di veglia attenuata furono inavvertitamente scoperti da Foulkes e Scott (1973) durante sessioni di allenamento che avevano lo scopo di preparare i partecipanti di uno studio sperimentale a concentrarsi sui loro pensieri più recenti durante i risvegli del sonno. In uno studio di laboratorio i soggetti erano sdraiati in una stanza leggermente illuminata, con la loro veglia monitorata dalle registrazioni EEG ed EMG: il 24% dei pensieri campionati, riportati da 16 studentesse universitarie, furono descritti come visivi e drammatici e vissuti come sogni. In un successivo studio con 10 uomini e 10 donne, il cui compito era quello di segnalare i loro pensieri in 12 momenti casuali all’interno di sessioni di 45-60 minuti, Foulkes e Fleisher (1975) trovarono un 19% di episodi con esperienze assimilabili al sogno, un altro 20% di attività si potrebbe chiamare vagabondaggio mentale (dove il soggetto non controlla i suoi pensieri, ma è consapevole di essere nel laboratorio) e il restante 22% di produzione conteneva ciò che si potrebbe chiamare “perduto nel pensiero” (il soggetto può o meno riflettere sui suoi pensieri, ma non sa di essere in laboratorio) (Foulkes & Fleisher, 1975, p. 69 cit. in Domhoff & Fox 2015, pag. 345). Durante questi studi non sono stati registrati casi di sonno auto-descritto o oggettivo (Foulkes & Fleisher, 1975).
Il Default Mode Network (DMN)
L’evidenza del neuroimaging ha suggerito che il vagabondaggio mentale è associato all’attività della rete in modalità predefinita (Default Mode Network – DMN) (Addis et al. 2009; Andrews-Hanna et al., 2010; Christoff et al., 2009; Mason et al., 2007; Kucyi 2016). In particolare, Mason e colleghi hanno osservato che è il segnale dipendente dal livello di ossigeno nel sangue (BOLD) del DMN che può predire positivamente la frequenza dei sogni ad occhi aperti degli individui (Mason et al., 2007). Viceversa studi che utilizzano campioni di neuroimaging continuo hanno confermato che il DMN viene attivato durante il mind-wandering (Zhou & Lei 2018).
La scoperta del DMN è stata una conseguenza inaspettata degli studi di imaging cerebrale eseguiti da Raichle e collaboratori (2001) per la prima volta con la tomografia a emissione di positroni in cui vari compiti nuovi, che richiedono attenzione e non autoreferenziali, sono stati confrontati con un riposo tranquillo con gli occhi chiusi o con la semplice fissazione visiva (Raichle 2015).
Il DMN viene definito in letteratura una rete neurale estremamente ampia, formata da varie regioni cerebrali distinte tra loro, che sincronizzano la loro attività quando il soggetto si trova vigile, con gli occhi chiusi e non attivamente coinvolto in compiti specifici (Andrews-Hanna, et al. 2014; Fox et al. 2015).
Oltre che peculiare del mind wandering, va precisato che il DMN è risultato essere attivo anche in compiti on task, ossia in attività di pensiero concentrate su un determinato obiettivo (Sormaz et al 2018,); infatti tale rete è considerata anche la base neurologica del sé (Andrews-Hanna, 2012) ed è stata inoltre osservata essere correlata con le reti di attenzione frontoparietale e dorsale e la corteccia visiva nell’introspezione (Soto et al. 2018).
Come descrive Edward Pace-Schott: “la rete predefinita consiste in regioni che, in assenza di attenzione esterocettiva [orientata all’esterno ndr] o di uno sforzo mentale strettamente focalizzato, supportano le preoccupazioni autodirette, l’immersione nella propria vita interiore (ad esempio, il sogno ad occhi aperti) o immaginare la vita interiore degli altri (Teoria della mente)” (Pace-Schott 2013, p. 159).
Riflettendo sulle varie funzioni del DMN, Buckner e colleghi postulano che la loro caratteristica comune sia quella di “simulare una prospettiva alternativa al presente” (Buckner et al. 2008, pag. 23 cit. in Taylor, M. 2013).
Per comprendere i meccanismi e la fenomenologia del pensiero spontaneo sono stati effettuati numerosi studi sulla correlazione fra i sottosistemi del DMN e le funzioni/comportamenti cerebrali “on task”. Per brevità si omettono qui tali ricerche.
Regioni cerebrali coinvolte nel DMN
Vari studi di connettività funzionale e strutturale da oltre un decennio hanno aiutato a comprendere quali sono le aree corticali e sottocorticali coinvolte nel DMN (ad esempio, Buckner, 2012; Greicius et al.2003; Gusnard & Raichle, 2001; Raichle et al., 2001). Tale rete, o meglio, insieme di connessioni, schematicamente può essere distinto in due grandi sottosistemi (Andrews-Hanna et al. 2010), ognuno coinvolto in determinati processi e con le proprie aree di riferimento (Andrews-Hanna et al., 2014). Un sottosistema dorso-mediale, legato a processi di mentalizzazione e ragionamento sociale (composto dalla corteccia prefrontale dorso-mediale dmPFC, dalla corteccia laterale temporale LTC, e dalla giunzione temporo-parietale TPJ) e un sottosistema mediale-temporale, legato alla memoria episodica e al pensiero sul futuro (composto dalla corteccia prefrontale ventro-mediale vmPFC, dal lobo parietale posteriore inferiore pIPL, dalla corteccia retrospleniale Rsp, e dalla formazione ippocampale HF, Andrews-Hanna et al.); alcuni autori identificano anche un terzo sottosistema, quello della linea mediana, legato a processi autoreferenziali e autobiografici (composto dalla corteccia cingolata posteriore PCC, e dalla corteccia prefrontale mediale anteriore amPFC) (Cfr. Doucet et al., 2011; Fox et al., 2005; Sporns, 2011; Yeo et al., 2011).
In uno studio sul connettoma umano, è stato scoperto che ”(all’interno del cervello) per tutte le combinazioni di metodi, le aree della rete in modalità predefinita hanno mostrato il più alto accordo struttura-funzione.” (Horn A, et al. 2014, Abstract)
Nello specifico, seguendo un rigoroso criterio di studio, Domhoff and Fox (2015) hanno condotto una meta-analisi nella quale sono state individuate le 13 regioni più attive nel pensiero spontaneo, rispetto a varie condizioni di confronto orientate ai compiti con livelli più bassi di vagabondaggio mentale. Tra i risultati spiccano tutti i principali hub della rete predefinita: l’MPFC, il PCC, il lobo temporale mediale e il lobulo parietale inferiore bilaterale (Domhoff and Fox 2015). Altri dati meta-analitici includevano aree somatosensoriali secondarie, coerentemente con la letteratura psicologica sulla cognizione incarnata (Gibbs, 2006; Wilson, 2002). Inoltre, è stato osservato che un’area coinvolta nelle immagini visive, il giro linguale, è stata attivata anche durante il pensiero spontaneo di veglia. (Fox et al. 2015)
Il sogno lucido o mind wandering può essere classificato come pensiero non guidato, mentre allo stesso tempo dipende da vincoli deliberati. (….) Ed essere oggetto per il trattamento dei disturbi mentali legati ad alterazioni spontanee del pensiero, in particolare depressione e incubi. (Konjedi et al. 2021; qui gli autori usano i termini sogno lucido e mind wandering come sinonimi).
Cosa succede a livello neuronale durante l’immaginazione? Plasticità e neurogenesi
Dai numerosi studi sul network Mirroring, il sistema dei neuroni a specchio, è ormai considerazione consolidata in letteratura che a livello di corteccia premotoria non vi è distinzione tra azione e percezione della stessa azione che si sta osservando, poiché si attiva il medesimo neurone (Craighero et al. 1999; Craighero et al. 2002; Iacoboni et al. 2005) e relativamente al coinvolgimento delle rappresentazioni motorie sull’organizzazione spazio-temporale del movimento e nella pianificazione delle sequenze di azioni (Seegelke et al. 2015).
Tutto ciò ci permette di affermare:
- che la continua interazione tra sistemi sensoriali (quindi visivi, uditivi, etc.) e sistema motorio è una componente fondamentale del processo di conoscenza attiva del mondo (Craighero 2020);
- che le rappresentazioni sensomotorie, ossia l’azione osservata, più la conseguenza sensoriale dell’azione, sono alla base delle azioni finalizzate, cioè dell’intenzione (Craighero ibidem). [e del senso di autoefficacia, mi permetto di aggiungere].
[Tutto ciò è vero poiché] le rappresentazioni sensomotorie sono modificate in corteccia premotoria come scopo dell’azione e non come mero comando motorio all’effettore e sono indipendenti dall’agente (Craighero ibidem).
In altre parole, cercando di semplificare, possiamo dire che i network neuronali che si attivano nell’osservatore di una determinata azione sono sì i medesimi di chi quell’azione la compie, ma vengono attivati dall’intenzione di compiere quel movimento e non (soltanto o unicamente) per muovere la parte del corpo che effettua quella medesima azione.
Dalla numerosa letteratura sulla neurogenesi, risulta evidente come l’ambiente incida sull’epigenetica (Denoth-Lippuner et al. 2021; Pagani et al. 2019; Kandel 1998).
Ad esempio, cercando di sintetizzare, è noto che una situazione stressogena, considerata tale da un soggetto, attiva modificazioni successive sull’asse HPA, ipotalamo, ipofisi, surrene con effetti pleiotropici sul sistema immunitario (Cain et al. 2017; Qing et al. 2020) e sulla neurogenesi nel giro dentato dell’ippocampo (Surget et al. 2021), sicuramente nei roditori, ma tale fenomeno, sebbene non unanimemente condiviso, è in larga parte accettato anche per l’uomo (Gould and Gross, 2002).
È forse opportuno ricordare qui che nel modello murino la formazione di questi nuovi neuroni dei roditori adulti è stata associata a diverse funzioni dell’ippocampo: la flessibilità comportamentale, ossia l’adattamento comportamentale dell’animale in risposta a cambiamenti esterni o interni, e soprattutto la codifica di nuove esperienze e quindi la memoria e la dimenticanza di ciò che è stato precedentemente appreso. (McEwen 2001; Diekelmann & Born, 2010; Gais et al., 2007; Kreutzmann et al 2015; Lahl et al. 2008; O’Neil et al., 2015)
In particolare, sappiamo che lo stress è principalmente connaturato all’attribuzione di significato che un soggetto dà dell’agente stressogeno e alla valutazione delle risorse che il singolo ha a disposizione per fronteggiare una determinata situazione stressogena (Lazarus et al. 1984), quindi nell’attività di elaborazione cognitiva principalmente sono coinvolte la corteccia frontale e l’amigdala; strutture che mediano le percezioni provenienti dall’esterno e che vanno a stimolare l’ipotalamo, innescando l’attivazione dell’asse ipotalamo ipofisi surrene (HPA) che è di fatto responsabile del rilascio di glucocorticoidi, tra i quali il cortisolo, principale ormone mediatore dello stress. Il cortisolo a sua volta andrà ad innescare un meccanismo di feedback negativo sull’ipotalamo bloccando l’ulteriore secrezione di cortisolo, ma soprattutto andrà a stimolare un’altra area cerebrale: l’ippocampo. Struttura questa che, particolarmente ricca di recettori per i glucocorticoidi, per una funzionalità ottimale ha necessità di determinate concentrazioni di glucocorticoidi: se ce n’è un eccesso l’ippocampo riduce l’area di sensibilità attraverso ritrazioni o pruning di spine dendritiche (Saaltink et al. 2014). È noto infatti che in soggetti affetti da disturbo da stress post traumatico (PSTD) si osserva una riduzione di volume dell’ippocampo (Bonne et al. 2001; Bremner 2006; Jatzko et al. 2006; Logue et al. 2017).
Per quanto riguarda gli effetti dello stress sul sistema immunitario, anch’esso legato all’asse HPA, molto sinteticamente e schematizzando un processo molto complesso, possiamo dire che uno stress acuto causa un rilascio di citochine pro-infiammatorie in circolo (Salvador et al. 2021), anche se poi occorre ricordare che il cortisolo negli uomini, il corticosterone nei roditori, rilasciato dall’asse HPA, è un importante agente immunosoppressivo, quindi paradossalmente lo stesso sistema, cioè lo stress, permette il rilascio di agenti infiammatori e di agenti antinfiammatori immunosoppressivi (Gentile 2020). Inoltre è forse opportuno ricordare che citochine pro-infiammatorie quali interlochina 1 beta, interlochina 6 ed altre, sono state associate a vari domini comportamentali, ad esempio alla sickness behaviour e la depressione (Maes et al. 2012).
Sappiamo tutti, infine, che esperire in prima persona o semplicemente assistere ad esperienze traumatiche, può comportare tutta una serie di disturbi, sintomi e segni, sia che la persona accusi un vero e proprio PTSD, sia che abbia in sé sufficienti risorse per fronteggiare la situazione o l’evento stressante.
Studi scientifici relativamente recenti mettono in luce un altro aspetto del trauma: il trauma psicologico non soltanto può influenzare la biologia degli individui ma persino avere conseguenze biologiche e comportamentali sulla prole di individui che sono stati esposti al trauma; si è quindi dimostrata l’ereditarietà transgenerazionale dovuta all’esposizione a traumi (tra i molti Yehuda 2016; Perroud et al. 2014).
Molto sinteticamente, è stato dimostrato che gli effetti duraturi dell’esposizione al trauma possono essere trasmessi alla prole in modo transgenerazionale attraverso il meccanismo di ereditarietà epigenetica delle alterazioni della metilazione del DNA con la possibilità di modificare l’espressione dei geni e del metaboloma (Youssef et al. 2018). In altre parole, l’esposizione a un trauma può essere presente nell’organismo, come fosse un’impronta, anche in soggetti che non hanno vissuto (o assistito) all’esperienza traumatica ma sono soltanto discendenti diretti di chi quell’esperienza l’ha vissuta; tale “impronta” può quindi essere considerata il livello organico, più interno, profondo, e naturalmente sotto la soglia della consapevolezza, dell’esperienza traumatica.
Curare con l’immaginazione
Coloro che avranno avuto la costanza di leggere l’articolo sin qui, legittimamente si potranno chiedere: ma tutto questo in quale modo riguarda il curare o curarsi con l’immaginazione? Ebbene, non certamente “immaginando” di guarire! Sebbene l’effetto placebo in alcuni casi clinici possa rivestire un ruolo statisticamente significativo.
Ci sono, invece, numerosi orientamenti psicoterapici che usano, ognuno secondo un proprio metodo, tecniche immaginative.
L’esperienza immaginativa del pensiero spontaneo, come abbiamo visto, è un’esperienza reale che il soggetto vive, ossia sono reali le dimensioni affettive correlate ad essa; tale esperienza, opportunamente sollecitata e guidata dal terapeuta in un ambiente protetto, permette al paziente di esperire non soltanto emozioni, ma anche (eventuali) sentimenti di autoefficacia e di self determination, con anche le possibili modificazioni epigenetiche che l’ambiente, e quindi anche l’immaginazione, opera sulle nostre strutture cerebrali e che anche qui abbiamo visto.
In particolare, ad esempio, in un ambiente sicuro e tranquillo, qual è il setting psicoterapico, con luce attenuata, in condizione di rilassatezza e stato di coscienza attenuata, il paziente sdraiato su una chaise lounge e con gli occhi chiusi, quindi in una condizione analoga a quella della situazione sperimentale condotta da Raichle nel 2001 (Raichle, 2015), durante un’esperienza immaginativa vive e sperimenta molteplici processi sensoriali, emotivi, cognitivi e metacognitivi.
- Un duplice processo percettivo e immaginativo: come oggetto, in quanto riceve gli stimoli emozionali (ed eventualmente stressogeni) che l’esperienza immaginativa gli trasmette e suscita; come soggetto attivo, in quanto coautore (insieme agli strati più o meno profondi del suo inconscio) dell’esperienza immaginativa, ed essendo in grado anche di orientare e modificare l’esperienza stessa nel suo svolgersi.
- Una prima attività cognitiva necessaria per l’esplicitazione orale al terapeuta dell’esperienza immaginativa che sta vivendo nel momento stesso del suo esperirla, che viene rinforzata/modificata dall’attività di ascolto delle parole del suo stesso racconto (Passerini, De Palma 2016).
- Un’azione di metanalisi cognitiva durante e al termine dell’esperienza immaginativa quando, su sollecitazione del terapeuta, riflette sui momenti più emotivamente intensi dell’esperienza e sul suo stato d’animo al termine della stessa. (Toller, Passerini 2007).