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Freud aveva ragione? Le Neuroscienze alla ricerca dell’origine e significato del sogno

I contenuti dei sogni potrebbero rappresentare l'incorporazione dell'esperienza quotidiana, ma si tratta semplicemente del riflesso degli stimoli ricevuti?

Di Stefano Mariano

Pubblicato il 16 Giu. 2021

L’interpretazione dei sogni ha una storia millenaria, ce ne parla già Artemidoro di Daldi nel II secolo dopo Cristo come di una pratica antica di secoli (Prada, 2015).

 

Il padre della psicoanalisi però fu il primo, o comunque tra i primi, a considerare scientificamente il sogno come un’attività originale della nostra mente e non un’infusione divina, un messaggio di una qualche entità superiore.

Tutti noi, almeno una volta abbiamo sognato, o più correttamente: abbiamo ricordato il sogno che abbiamo fatto. È infatti ormai condiviso da tutta la comunità scientifica che mentre dormiamo, prevalentemente nelle fasi REM (Rapid Eyes Movement), il nostro cervello svolge, fra le varie attività, anche quella onirica. C’è da precisare che la frequenza del richiamo dei sogni, ossia del loro ricordo, diminuisce rapidamente a mano a mano che i risvegli sono ritardati oltre la fine di un periodo REM (Goodenough et al., 1965; Wolpert &  Trosman, 1958).

Abbiamo detto che il sogno avviene prevalentemente nelle fasi REM poiché risultati di laboratorio (ad esempio: Dement, 1990; Dement & Kleitman, 1957) dimostrano che l’80-90% dei soggetti risvegliati durante periodi REM di sonno ha riportato memorie di sogno. Tuttavia altri studi hanno trovato ricordi di sogno anche nelle prime tre fasi del processo del sonno, in fasi Non REM. Da ciò si può desumere che “il sogno si verifica quindi [anche] in assenza di REM” (Foulkes & Vogel, 1965 p. 239 cit. in Domhoff & Fox, 2015 p. 353). Vale la pena ricordare poi che è tuttora aperto il dibattito sulle eventuali differenze qualitative del sogno durante i periodi REM rispetto a quelli in periodi NonREM (Hobson, 2000).

Ma che cos’è un sogno?

Diciamo subito che non c’è consenso in letteratura sulla definizione di sogno. A volte il sognare è stato considerato un’attività mentale che produce, durante il sonno, pensieri o immagini isolate oppure esperienze più articolate, vere e proprie storie, che vengono richiamate al risveglio (Domhoff & Fox, 2015).

Foulkes (1985), definisce il sogno sempre un’attività mentale, specifica che è involontaria ma organizzata e che genera simulazioni credibili del mondo reale; mi permetto di dissentire soltanto sul termine “credibili” in quanto è esperienza di ciascuno di noi quanto i sogni a volte abbiano dei passaggi, delle situazioni, completamente avulse dalla logica formale (razionale) e anzi abbiano caratteristiche di “impossibilità” e illogicità. Infatti, a seconda dei criteri di punteggio utilizzati è stato stimato che tra il 32% (Schredl, 2010) e il 71% (Stenstrom, 2006) dei sogni abbia contenuti di illogicità. A questo proposito è forse utile ricordare che alcuni ricercatori adottano il parametro della “bizzarria” (situazioni fisicamente impossibili o socialmente improbabili, luoghi e personaggi fantasiosi, grandi discontinuità di tempo e/o spazio e così via) per distinguere il sogno da altre esperienze mentali esperite durante l’insorgenza del sonno o immediatamente prima del risveglio oppure attività quali il cosiddetto “vagabondaggio mentale” (mind wandering), argomento su cui si tornerà oltre nel testo e che sarà oggetto di un successivo articolo.

La definizione di Foulkes (1985) tuttavia ci conduce a un’ulteriore considerazione fatta da studi più recenti: le immagini mentali prodotte nel sogno possono essere considerate “simulazioni incarnate” (Domhoff & Fox, 2015), concetto che, anche questo, verrà ripreso più avanti.

Al di là delle molteplici definizioni che sono state date nel tempo all’esperienza onirica, Nir e Tonioni (2010) considerano i sogni “un interessante e unico esperimento in psicologia e neuroscienze, condotto ogni notte da qualsiasi persona che dorme” (Nir & Tonioni, 2010, p. 20).

Gli autori qui focalizzano l’attenzione sulla “capacità del cervello [loro si riferiscono espressamente a quello umano, ma chiunque conviva con un cane potrà probabilmente dissentire da tale limitazione di specie], scollegato dall’ambiente, di generare da solo un intero mondo di esperienze coscienti” (Nir & Tonioni, 2010, ibidem p. 20).

Per concludere questo necessariamente rapido excursus sulle varie definizioni di sogno occorre ricordare che esso è stato talvolta considerato un tipo di allucinazione, nell’accezione di percezione senza oggetto. In questo caso, osservano Domhoff & Fox. (2015), la definizione porta all’idea che il sogno sia una forma di psicosi, così come affermato dallo psichiatra J. Allan Hobson: “[sognare è] uno stato psicotico come abbiamo mai provato mentre siamo svegli” (2002, p. 99).

Allo stesso modo, i teorici freudiani Mark Solms e Oliver Turnbull (2002, p. 213) sostengono che “l’anatomia funzionale del sogno è quasi identica a quella della psicosi schizofrenica”, che è caratterizzata da frequenti attività allucinatorie.

Ma la posizione di questi ultimi due autori appare non condivisibile, se non in minima parte, soprattutto alla luce degli studi del neurologo Oliver Sacks (2013, pp. xiii, 26-27, 80, 209, 214), al quale si rimanda per una specifica trattazione, e che, in estrema sintesi, sottolinea come le allucinazioni di soggetti psichiatrici sono molto spesso udibili, con figure persecutorie che irrompono e bloccano i loro pensieri e frequentemente  impartiscono ordini; aspetti e caratteristiche ben diverse dalle simulazioni incarnate dell’esperienza onirica che include spesso personaggi coinvolti in attività e interazioni di vita ed esperienza quotidiana del soggetto che sta sognando.

Qual è il substrato e il correlato neurale del sogno?

Esiste una vasta ricerca scientifica che attraverso diverse strumentazioni quali protocolli elettroencefalografici (EEG) e polisonnografici (PSG), registrazioni video-PSG con risvegli provocati, neuroimaging funzionale, come la tomografia a emissione di positroni (PET), la risonanza magnetica funzionale (fMRI); la stimolazione magnetica transcranica, ha studiato le basi neurali del sogno, sia in soggetti sani (tra i molti: Takeuchi, et al., 2003; Esposito, et al., 2004; Chellappa, et al., 2011; De Gennaro, et al., 2011; Scarpelli, et al., 2017;  Zhang & Wamsley, 2019;  Siclari, et al., 2017) o campioni clinici (De Gennaro, et al.,  2016; D’Atri, et al.,  2019).

Nel complesso questi lavori, seppur con alcune differenze che in questa sede non possono essere affrontate, suggeriscono che prevalentemente ci sono due reti corticali impegnate nei processi onirici: un sistema posteriore e uno anteriore. Più in dettaglio, questi due sistemi riguardano: le aree parieto-occipitali (Siclari, et al., 2017), le aree temporo-parietali (Scarpelli, et al., 2017), la corteccia prefrontale ventromediale (mPFC), in particolare quella sinistra (Scarpelli, et al., 2017 ibidem), il lobo temporale mediale, la giunzione lobulare/temporo-parietale inferiore bilaterale, la corteccia cingolata posteriore (Domhoff & Fox, 2015) e anche la giunzione temporo-parietale (TPJ) (Scarpelli, et al., 2021). Quest’ultima struttura sappiamo essere responsabile delle immagini visive durante lo stato di veglia ma, come ha potuto verificare Solms (2000), una lesione bilaterale anteriore di questa provoca la cessazione del sogno, e la cosiddetta “anoneria” ossia l’incapacità di ricordare il sogno (Scarpelli, et al., 2021).

Altri studi hanno evidenziato che il processo onirico coinvolge anche una rete subcorticale: le strutture limbiche e paralimbiche, il talamo, il proencefalo basale e il tegmento pontino che sono significativamente attivati durante il sonno REM (Braun, et al., 1997; Maquet, et al., 1996; Nofzinger, et al., 1997).

Inoltre, come messo in luce dal lavoro Domhoff e Fox (2015), durante il sogno il nostro cervello attiva un insieme di strutture collegate che è sostanzialmente sovrapponibile con la rete neurale DMN (Default Mode Network) attiva durante il vagabondaggio mentale in stato di veglia (Fox,  2013,  pp. 6,  11-12).

Sogno come simulazione incarnata

L’ipotesi/definizione che le immagini mentali prodotte nel sogno possano essere considerate simulazioni incarnate, ossia incorporazioni di stimoli (vedremo più avanti se “soltanto” interni, “soltanto” esterni o di entrambe le modalità), è sostenuta da molteplici studi basati su prove sperimentali. Questi hanno rivelato che le aree cerebrali implicate nell’elaborazione visiva e sensorimotoria durante la veglia, vengono attivate anche quando, durante il sogno, si producono immagini o si vivono esperienze di movimento, in questo caso quindi in assenza di input percettivi esterni.

Inoltre, le immagini coinvolte nell’esperienza onirica sono soggettivamente sentite (vissute) dall’organismo nella sua interezza, e maggiormente dalle strutture neurali preposte, come esperienze concrete (ad esempio, Bergen, 2012, pp. 13-17; Gibbs, 2006, pp. 27 – 28; Niedenthal,  et al.,  2009).

A conferma della fondatezza di tale ipotesi Voss, Holzmann, Hobson et al. (2014) hanno indagato la possibilità di influire sui sogni attraverso stimoli esterni.

Incorporazione di stimoli esterni nel sogno

Una parte della ricerca psicologica sull’attività onirica si è rivolta all’incorporazione di stimoli esterni nel sogno non soltanto per verificare, come si è accennato, la fondatezza dell’ipotesi/definizione del sogno come “simulazioni incarnata” ma ha anche cercato conferme alla “Ipotesi di continuità”. Questa ipotesi, proposta da Bell & Hall (1971), suggerisce che le preoccupazioni e le convinzioni personali presenti durante la veglia si riverberino, abbiano la loro continuità, nel sonno e quindi anche nel sogno. Da allora sono state apportate diverse reinterpretazioni e modifiche alla teoria originale; tuttavia tale ipotesi è stata sostanzialmente confermata dal relativamente recente lavoro di Domhoff (2017).

Uno dei primi tentativi di influenzare il sogno con stimoli esterni prima del sonno è stato prodotto da Dement e Wolpert (1958). Gli autori hanno privato i soggetti di liquidi un giorno prima di dormire e hanno ottenuto 5 sogni REM su 15, con contenuti correlati alla sete. Successivamente Goodenough, et al. (1975) hanno utilizzato film stressanti durante un periodo pre-sonno, dimostrando che lo stimolo visivo può aumentare i sogni caratterizzati da un tono emotivo negativo.

In effetti, molti ricercatori hanno concluso che i sogni riflettono la vita da svegli e hanno affermato che i contenuti dei sogni potrebbero rappresentare l’incorporazione dell’esperienza quotidiana. E in quest’ottica verrebbero interessate, come realmente lo sono, anche le strutture limbiche, in particolare l’ippocampo, così come dimostrato da Moroni, et al. (2007).

Ma allora il sogno è semplicemente il riflesso degli stimoli ricevuti?

Non proprio, anzi, ma le cose sono un po’ più complesse.

Massimini, et al. (2005), hanno usato la stimolazione magnetica transcranica insieme all’elettroencefalografia ad alta densità per studiare come l’attivazione di un’area corticale (nell’esperimento l’area premotoria) viene trasmessa al resto del cervello. Durante la veglia una risposta iniziale (circa 15 millisecondi) nel sito di stimolazione è stata seguita da una sequenza di onde che si sono spostate verso aree corticali collegate, a diversi centimetri di distanza. Durante il sonno con movimenti oculari non rapidi, specificatamente in fase NREM3, la risposta iniziale ha avuto un’intensità maggiore ma si è rapidamente estinta e non si è propagata oltre il sito di stimolazione. Quindi Massimini, et al. (2005) hanno concluso che durante in sonno NREM3 le aree cerebrali sono funzionalmente disconnesse tra loro, diversamente da ciò che accade durante la veglia e, come vedremo, durante gli episodi di sogno.

Dal lavoro di Siclari, et al. (2017) sappiamo che possiamo sognare sia in NREM1 che NREM2, sia in periodi REM; ma l’aspetto rilevante che ha messo in luce il loro studio è che durante il sogno in N1 e N2 abbiamo una desincronizzazione dell’attività neuronale (rilevata dai tracciati elettroencefalografici) nelle regioni parietali/posteriori del cervello così come durante il sogno in periodo REM, mentre di regola, per le altre strutture neurali non c’è una tale corrispondenza. Questa analisi quantitativa è stata calcolata per mezzo dell’algoritmo che calcola la trasformata di Fourier veloce.

In sintesi, per chiarezza: durante il sonno NonREM l’attività registrata dall’elettroencefalogramma, per le varie componenti coinvolte nell’attività neuronale, è (prevalentemente) sincronizzata in tutte le strutture encefaliche, sebbene, come abbiamo visto grazie al lavoro di Massimini e colleghi (2005), tali strutture in fase NREM3 siano funzionalmente disconnesse; mentre durante il sonno REM è (prevalentemente) desincronizzata in tutte le strutture encefaliche, così come lo è durante lo stato di veglia. Lo studio di Siclari, et al. (2017) ha invece appurato che durante il sogno: in periodi NREM1 o NREM2 l’attività neuronale (rilevata dai tracciati elettroencefalografici) nelle regioni parietali/posteriori del cervello (corteccia perietale/posteriore visiva) è desincronizzata; in periodo REM l’attività neuronale (sempre rilevata dai tracciati elettroencefalografici) nelle regioni parietali/posteriori del cervello (corteccia perietale/posteriore visiva) è ugualmente desincronizzata, con una intensità maggiore di desincronizzazione rispetto a momenti nei quali non si sogna e ad altre regioni encefaliche (Siclari et al.,  2017).

Per tentare di semplificare in maniera opportuna per questa sede possiamo dire che un tracciato elettroencefalografico sincronizzato dei neuroni di una particolare struttura rappresenta l’equivalente neurofisiologico di un’attività semplice in quella stessa struttura; un tracciato elettroencefalografico desincronizzato dei neuroni di una particolare struttura rappresenta l’equivalente neurofisiologico di un’attività complessa in quella stessa struttura (Imeri & Mancia, 2006), “I risultati di questo esperimento ci riportano all’isomorfismo Mente-cervello, Psiche-struttura organica: “sogno” uguale desincronizzazione delle regioni cerebrali posteriori, “non sogno” uguale sincronizzazione delle regioni cerebrali posteriori” (cit. prof. Luca Imeri, Dip. Di Scienze della Salute – Università degli studi di Milano, lezione Neurofisiologia del sonno, del 21 marzo 2021).

Un’ulteriore e forse più chiara risposta alla nostra domanda ce la fornisce lo studio ormai storico di Hobson (1989).

Dove si originano i sogni

Hobson (1989) propose un’ipotesi/modello di attivazione del sogno in sonno REM, successivamente revisionato e dettagliato (Hobson et al., 2000), attraverso l’integrazione di dati neurofisiologici, neuropsicologici e di neuroimaging. Semplificando molto la trattazione e il complesso di interazioni fra le diverse strutture coinvolte, possiamo dire che per questi autori l’attivazione del sogno origina dai nuclei del Ponte, nel tronco encefalico, dove i neuroni che sono attorno al penduncolo cerebellare superiore proiettano (ossia trasmettono potenziali d’azione), a seconda dei tipo di stimoli (uditivi, olfattivi, sensomotori, etc), ai nuclei talamici intralaminari, ai gangli basali, ai nuclei talamici ventromediali e, per gli stimoli visivi, proiettano onde ponto-genico-occipitali (PGO) al corpo genicolato laterale (NGL) del talamo (struttura, l’NGL, che durante la veglia raccoglie l’informazione visiva direttamente dalla retina e le invia alla corteccia visiva primaria V1) e da qui alla corteccia parieto-occipitale, ossia le aree visive V3, V3a e V4 ma non V1, V5 o V6 (Solms, 1997). L’attenuazione dell’attività della corteccia visiva primaria è confermata anche da Braun et al., (1998). Possiamo quindi osservare che: a) gli imput alla corteccia visiva non provengono dalla retina, così come durante la veglia, e d’altronde sarebbe inutile, considerato che mentre si dorme si hanno le palpebre abbassate; b) le aree della corteccia visiva che vengono attivate sono quelle deputate all’elaborazione superiore (associative) delle immagini, aree di Brodmann 37 e 19 (Hobson et al., 2000).

Contemporaneamente all’attivazione di questa rete ascendente, prima gli studi di Braun et al. (1998) e poi quelli di Hobson, (2000), hanno trovato che durante il sonno REM sono inibite le afferenze sensoriali al livello del tronco encefalico.

Conclusioni

Tutti questi studi e altri che qui per brevità sono stati omessi, dimostrano l’assoluta specificità del sogno, un’attività organica che si origina da una ben definita struttura del cervello e coinvolge numerose sue aree per costruire una realtà personale costituita da contenuti, inconsci e/o variamente indotti (in questo caso successivamente rielaborati e filtrati attraverso la memoria di esperienze passate).

Il sogno è perciò, anche per l’indagine scientifica, una elaborazione personale, originale ed unica. Un elemento quindi, una produzione, del nostro essere nella sua interezza biopsicosociale, imprescidibile per conoscere e conoscersi. E come il sogno, medesimo valore e stessa attenzione merita anche il mind wandering, il “vagabondaggio mentale” o il sogno ad occhi aperti, in determinate e controllate situazioni. Ma di questo parleremo in un’altra occasione.

Naturalmente è d’obbligo ricordare che tutte le teorie/ipotesi/modelli fin qui riportati, si basano sull’osservazione e lo studio del cervello, un insieme di strutture connesse del nostro organismo, che Leonard E. White all’inizio di ogni sua lezione di Neuroanatomia alla Duke University definisce: “l’elemento più complesso che esista nell’universo conosciuto” e del quale, finora, conosciamo, secondo Helene Marie, una delle ricercatrici di punta dell’Ebri, l’European Brain Research Institute, forse soltanto il 20-25% (Marie, 2010) o ancor meno, intorno al 15%, secondo Aniello Iacomino, docente di Neuropsicologia all’università Guglielmo Marconi di Roma.

Tali teorie, inoltre, a differenti livelli, sono appunto teorie, e come tali, citando Popper (1963), attendono soltanto di essere confutate.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
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