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Decodifica semantica: lo sviluppo di un metodo non-invasivo per la ricostruzione del linguaggio

I ricercatori hanno sviluppato decodificatori semantici in grado di ricostruire molteplici stimoli linguistici percepiti o immaginati a partire dalle fMRI

Di Daniele Saccenti

Pubblicato il 15 Giu. 2023

È possibile registrare i pensieri dell’essere umano in maniera non-invasiva? La risposta a questa domanda è stata fornita da uno studio pubblicato su Nature Neuroscience da Tang et al. (2023) sulla decodifica semantica.

 

Introduzione

 Le componenti di un discorso possono essere decodificate grazie al ricorso a registrazioni intra-craniche in modo tale da ripristinare la comunicazione in persone che hanno perso l’abilità di parlare. Nonostante la loro efficacia, questi dispositivi vengono impiantati attraverso procedure neurochirurgiche invasive, il che le rende difficilmente sostenibili per la maggior parte degli utenti. Decodificatori linguistici che impiegano invece registrazioni non-invasive possono essere più tollerabili ed aver la possibilità di essere impiegati sia per fini riparativi che migliorativi. Tang et al. (2023) hanno sviluppato dei decodificatori semantici che si basano sulla registrazione dell’attività cerebrale tramite risonanza magnetica funzionale (fMRI). Questi strumenti sembrano performare molto bene in molteplici contesti sperimentali, tra cui la decodifica di discorsi passivamente ascoltati dai partecipanti o spontaneamente immaginati dagli stessi e la decodifica semantica durante compiti di natura non strettamente linguistica.

Lo sviluppo di un decodificatore semantico non-invasivo

In questo lavoro i ricercatori svilupparono dei decodificatori semantici in grado di ricostruire molteplici stimoli linguistici percepiti o immaginati (i.e. parole o frasi) a partire dalla registrazione dell’attività cerebrale eseguita tramite risonanza magnetica funzionale (functional Magnetic Resonance Imaging; fMRI), una neurotecnologia che rileva la risposta emodinamica correlata all’attività neuronale. Durante la fase di costruzione, i decodificatori sono stati testati su tre soggetti ai quali veniva registrata l’attivazione cerebrale durante l’ascolto di una serie di storie. I risultati mostravano che le sequenze di parole decodificate durante la sessione sperimentale riflettevano non solo il significato degli stimoli (es. delle storie), ma, alle volte, anche i periodi verbali esatti contenuti nei racconti. I ricercatori si chiesero se le parole decodificate nei soggetti catturassero il significato racchiuso nelle storie che quest’ultimi avevano ascoltato ricorrendo inoltre ad un semplice esperimento comportamentale. A uno dei partecipanti è stato fatto leggere il trascritto delle parole decodificate durante la sessione sperimentale di un altro soggetto e, successivamente, gli sono state poste 16 domande di comprensione del testo. Pur non avendo ascoltato in prima persona il racconto ed essendosi basato solamente sulle parole decodificate nel corso della sessione, il partecipante ripose correttamente a più della metà delle domande (i.e. a 9 su 16). Ciò dimostrava che l’informazione semantica racchiusa nelle storie (e nelle menti dei soggetti) poteva essere recuperata a partire dal segnale rilevato dall’fMRI.

Potenziali applicazioni del decodificatore semantico

Terminata la fase di sviluppo dello strumento, il passo successivo compiuto dai ricercatori è stato quello di mettere in luce la vasta gamma di potenziali applicazioni che il loro decodificatore linguistico poteva avere. La prima di esse consisteva nella decodifica dei discorsi spontaneamente immaginati dall’essere umano. Allo scopo di testare se il decodificatore semantico che avevano costruito fosse in grado di decodificare i discorsi immaginati dai soggetti in assenza di stimoli esterni, gli scienziati chiesero ai partecipanti di raccontare a se stessi una storia di 1 minuto mentre la loro attività cerebrale veniva registrata dall’fMRI. Al termine della registrazione, i partecipanti dovevano raccontare la medesima storia agli sperimentatori in modo da produrre un trascritto che fungesse da referenza. L’analisi dei dati raccolti evidenziò che l’impiego del decodificatore consentiva di recuperare in maniera accurata il significato dello stimolo immaginato (i.e. dei racconti inventati dai soggetti), ma che difficilmente esso decodificava le esatte parole o frasi riportate dai partecipanti in seguito alla registrazione. Ciò significava che la performance di decodifica dello strumento era lievemente peggiorata rispetto al compito descritto in apertura, ossia quello in cui i soggetti dovevano limitarsi ad ascoltare dei racconti che venivano loro proposti dagli sperimentatori. Tuttavia, questo risultato era concorde con l’evidenza che produzione e percezione del linguaggio fossero localizzate in porzioni cerebrali parzialmente comuni (Silbert et al., 2014).

Una seconda applicazione tentata dai ricercatori riguardava l’impiego del loro decodificatore semantico durante compiti di natura non strettamente linguistica. In questa fase, i soggetti vennero esposti alla visione di quattro cortometraggi privi di audio mentre la loro attività neurale veniva registrata dall’fMRI. Le analisi qualitative mostravano che le sequenze di parole decodificate a partire dall’attivazione cerebrale descrivevano accuratamente gli eventi raffigurati nei cortometraggi. Ciò suggeriva che un decodificatore sviluppato tramite compiti di percezione del linguaggio poteva essere in grado di costruire fedeli descrizioni linguistiche anche durante compiti sperimentali nei quali l’input uditivo era stato eliminato.

 Siccome è stato dimostrato che le rappresentazioni del linguaggio dipendono fortemente dall’attenzione (Kiremitçi et al., 2021), i ricercatori ipotizzarono infine che il loro decodificatore semantico avesse ricostruito solamente quelle frasi o parole alle quali i soggetti avevano prestato attenzione. Per testare quest’ipotesi, gli scienziati fecero ascoltare ai partecipanti una traccia audio in cui due storie diverse venivano narrate rispettivamente da un uomo e da una donna chiedendo loro di far attenzione solamente a una delle due voci. I risultati delle analisi sottolineavano che le parole decodificate dallo strumento erano più simili a quelle presenti nel racconto atteso rispetto a quello non-atteso. Ciò dimostrava che il decodificatore semantico ricostruiva selettivamente lo stimolo (i.e. la storia) al quale il soggetto aveva rivolto la propria attenzione. Questo risultato dimostrava inoltre che i partecipanti avevano un controllo attivo e cosciente sull’output prodotto dal decodificatore, es. che quest’ultimo poteva ricostruire solamente quei discorsi ai quali i soggetti porgevano attenzione.

Implicazioni per la neuroprivacy

Un’importante considerazione sul piano etico rispetto all’impiego della decodifica semantica riguarda la possibile violazione della privacy mentale (Rainey et al., 2020). Non è un caso che i ricercatori si siano domandati se il loro decodificatore potesse venire sviluppato senza la collaborazione attiva dei partecipanti. A tal proposito, essi svilupparono una serie di altri decodificatori semantici a partire dai dati raccolti in 7 soggetti che erano stati esposti all’ascolto di 5 ore di racconti narrativi. Dai risultati delle analisi, i ricercatori osservarono che i decodificatori sviluppati dall’incrocio dei dati raccolti in soggetti differenti performavano decisamente peggio rispetto a quelli sviluppati a partire dai dati del singolo partecipante. Ciò suggeriva che la collaborazione restava conditio sine qua non per lo sviluppo di un efficiente decodificatore semantico. Allo scopo di testare se una persona potesse sottrarsi consapevolmente alla decodifica eseguita da uno strumento che era stato precedentemente sviluppato con la sua collaborazione, gli scienziati chiesero ai partecipanti di completare tre compiti di natura cognitiva (es. contare fino a 7, nominare e immaginare degli animali, raccontare a sé stessi una storia) mentre ascoltavano degli estratti di narrazioni. Sia il secondo che il terzo riducevano sensibilmente la performance del decodificatore relativa all’ascolto passivo delle narrazioni. Dunque, i soggetti potevano consapevolmente resistere alla decodifica semantica.

In conclusione, gli strumenti di decodifica semantica rappresentano tecnologie utili per ripristinare la comunicazione in persone che hanno perso l’abilità di parlare, ma al contempo rischiano di compromettere la privacy mentale dell’individuo. Nonostante sia attualmente necessaria la collaborazione dei soggetti sia per la costruzione che per l’applicazione dei decodificatori, sviluppi futuri potrebbero consentire agli utenti di aggirare questi requisiti. Inoltre, anche se le frasi generate dal decodificatore risultano imprecise nei soggetti non collaboranti, esse potrebbero essere intenzionalmente mal interpretate per scopi malevoli.

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