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Economia dell’informazione, economia dell’attenzione, economia esperienziale: un filo rosso

Oggi l’esperienza di acquisto assomiglia a una sorta di customer journey; un market search in versione moderna, cioè secondo una prospettiva IA.

Di Mariateresa Fiocca

Pubblicato il 27 Gen. 2020

L’Intelligenza Artificiale (IA) aiuta a condividere le informazioni circa la qualità e le caratteristiche di un bene e/o di quella esperienza, cosicché il consumatore può permettersi di valutare, con qualche certezza in più, anche ex ante le sue scelte di acquisto.

 

Nel presente contributo ipotizziamo che Economia dell’informazione, Economia dell’attenzione, Economia esperienziale siano attraversate da un fil rouge, che è quello dell’intelligenza artificiale (IA). Si tratta di branche diverse dell’economia, che corrono lungo binari diversi. Eppure ci sono degli “scambi” che congiungono tali binari: la IA. Gli utenti e gli stessi data scientist non conoscono fino in fondo le macchine dell’IA (Economia dell’informazione). Troppe informazioni fornite dal digitale e dai big data distolgono l’attenzione, poiché la nostra razionalità limitata non può che ritenere una parte di tale stock di dati e informazioni (Economia dell’attenzione). In qualche senso, l’Economia esperienziale abbraccia entrambe: sia informazioni asimmetriche sia l’enorme mole di dati fra cui muoversi per gestire processi decisionali e scelte. Alcuni beni (c.d. esperienziali nella terminologia economica) o un’esperienza – identificata non nel bene in sé, ma in tutto ciò che lo circonda (emozioni, evocazioni, e così via) – possono essere valutati dal consumatore solo dopo aver verificato a posteriori le caratteristiche intrinseche di quel bene o di quella esperienza. Ma l’IA aiuta a condividere le informazioni circa la qualità e le caratteristiche di quel bene e/o di quella esperienza, cosicché il consumatore può permettersi di valutare con qualche certezza in più anche ex ante le sue scelte di acquisto.

Andiamo al primo punto, quello relativo all’Economia dell’informazione.

Quando chiedete qualcosa a un motore di ricerca, è grazie al machine learning che il motore decide quali risultati (e anche quali annunci pubblicitari) mostrarvi. […] Volete comprare un libro su Amazon, o guardare un film su Netflix? Un sistema di machine learning si prodigherà a consigliarvi quelli che potrebbero piacervi. […] I learner, come sono chiamati gli algoritmi del machine learning […] capiscono dai dati (molti dei quali noi stessi li forniamo (n.d.r.)) ciò che devono fare. E più abbondanti sono i dati, migliori saranno le loro performance. Oggi i computer non hanno bisogno di essere programmati: lo fanno da soli. […] a ogni ora del giorno, dal momento in cui aprite gli occhi a quando andate a dormire, il machine learning è con voi. (Domingos, 2016, p. 11)

Come cambiano i compagni di vita!

Per citarne uno, il learner Nearest Neighbor ha trovato un gran numero di applicazioni, dal riconoscimento della scrittura al controllo dei bracci robotici, passando per i suggerimenti di film, video, musica, libri (Domingos, 2016).

Gli esempi e le argomentazioni tratti da Domingos ci conducono implicitamente a un concetto mainstream dell’Economia dell’informazione: quello dell’informazione asimmetrica, circostanza che si verifica in un rapporto bilaterale (nel nostro caso, tra noi e la macchina), quando un soggetto (la macchina) possiede maggiori informazioni (c.d. informazioni private) della controparte. Davanti a quest’ultima scende un velo di opacità riguardo a caratteristiche, funzionamento, comportamenti, qualità decisionali e predittive della macchina. Secondo la terminologia economica, la qualità del bene “non è osservabile”.

È fondamentale aprire questa scatola nera e scandagliarne attentamente i contenuti, poiché l’IA e le sue tecnologie vengono sfruttate per effettuare scelte, inferenze e previsioni anche in comparti molto sensibili, quali la sicurezza, la giustizia, il mercato del lavoro, la sanità. Le ricadute derivanti da architetture opache e, quindi, non del tutto sotto controllo nella loro gestione e funzionamento sono potenzialmente dirompenti nelle nostre società. Quale esempio per tutti, basti pensare agli strumenti per il riconoscimento facciale.

È preoccupante, in particolare, l’utilizzo della IA per leggere le emozioni. Si tratta di algoritmi che, ad esempio, aiutano nei colloqui di lavoro e a capire se un soggetto indiziato stia mentendo.

Insomma, inquietanti macchine della verità in versione IA. E sappiamo quanto gli algoritmi possano essere biased e portare, di conseguenza, a decisioni del tutto inique.

E allora, in tale contesto di informazione asimmetrica, perché dovremmo fidarci della nuova tecnologia di cui sappiamo ancora troppo poco? E di cui a volte persino i propri sviluppatori non capiscono i risultati?

L’informazione asimmetrica è un classico fallimento di mercato e tipicamente, soprattutto in settore tanto delicato come l’IA, deve intervenire il legislatore per regolamentare. Per regolare l’uso pervasivo della IA è quindi necessario che i governi intervengano attraverso la regolazione. E’ questo il messaggio forte contenuto nel Rapporto 2019 dell’AI Now Institute di New York, un istituto di ricerca interdisciplinare che analizza le implicazioni sociali dell’intelligenza artificiale.

Tutte le nostre attività ci sottopongono alla tagliola degli elevati costi transazionali legati alla ricerca, selezione, elaborazione di dati e informazioni e al fact-checking. Quanto più è alta la marea dei big data, tanto più alta è l’attenzione richiestaci, tanto più elevati sono tali costi. Un modo per eluderli o, quantomeno, abbassarli è delegare all’IA il nostro processo decisionale, le nostre scelte e, di conseguenza, persino la nostra necessità/volontà di sapere e sfidarci nel tentare di sgrovigliarsi nella complessità del mondo esterno per deliberare. Molte nostre risorse possono essere di conseguenza distratte altrove, ma non necessariamente allocate meglio.

È una delega importante quella che le conferiamo, in quanto depaupera parte delle nostre capacità cognitive, deliberative e persino indebolisce la nostra autodeterminazione e autonomia individuale secondo una sorta di moral hazard. Insomma, l’IA può cambiare la nostra struttura degli incentivi. Perdiamo anche in creatività a beneficio dell’omologazione e della moda statistica. Ma l’IA merita tutto questo potere che le riconosciamo? La risposta dovrebbe essere negativa almeno per tre ordini di motivi, alcuni dei quali già menzionati: in primo luogo, la macchina non è del tutto conosciuta e quindi non è del tutto sotto controllo; in secondo luogo, compie numerosi errori. Come esiste l’errore umano, così esiste l’errore artificiale. Inoltre, alcuni problemi comunque permangono: la necessità del fact-checking e del debunking. Per di più, non dimentichiamo che gli stessi algoritmi possono essere deep-faker. Quindi dovrebbe essere ridotto al minimo questo trade-off nella scelta tra le nostre capacità e quelle della macchina. È ottimismo indebito conferirle una delega ampia soprattutto quando ci muoviamo in campi molto delicati e personali. Ricorre di nuovo la domanda: perché riconoscerle tanta fiducia? In terzo luogo, la qualità dell’algoritmo è funzione anche della qualità dei dati.

Qualità e quantità dei dati conducono all’altra branca dell’economia sopra citata, quella dell’attenzione, che origina dall’impianto teorico del premio Nobel, Herbert Simon, che già nel 1971 scriveva come l’informazione consumi attenzione. Quindi l’abbondanza di informazione genera una povertà di attenzione e induce il bisogno di allocare quell’attenzione efficientemente tra le molte fonti di informazione che la possono consumare.

Nel campo dell’esperienza, l’IA può essere ancillare al “passa parola”, velocizzandolo se non viralizzandolo. In economia si definisce “bene esperienziale” quello le cui qualità possono essere valutate solo dopo aver consumato il bene stesso, cioè solo dopo avere acquisito l’esperienza del suo utilizzo. Si tratta quindi di una particolare categoria di beni/servizi di mercato, la cui qualità è nota solo a posteriori. Gli esempi sono tantissimi: da una vacanza a un libro.

Tuttavia, grazie all’IA, per valutare un bene esperienziale non è necessaria ex post una esperienza diretta, ma diventa rilevante anche quella trasmessa da altri. In qualche misura, è possibile anticipare la valutazione del prodotto prima ancora di consumarlo. Vale a dire, l’IA permette di scegliere anche in presenza di informazione imperfetta.

Certo, un grave limite nel mutuare dall’esperienza altrui è il sistema delle preferenze che connota ciascuno e che può depistare in tale esercizio. Ma in community virtuali che si formano sulla base di preferenze simili, i social costituiscono un buon succedaneo dell’esperienza personale nel valutare una scelta. Naturalmente, anche in questo campo le fake sono in agguato.

Pertanto, oggi l’esperienza di acquisto si avvia tramite uno scambio via social; si evolve con la ricerca di informazioni, recensioni, valutazioni e racconti delle esperienze altrui; si prolunga con la visita in uno store fisico; continua con il racconto della propria esperienza, condividendo. Una sorta di customer journey; un market search in versione moderna, cioè secondo una prospettiva IA.

Il bene/servizio acquistato, qualora non soddisfi le aspettative del consumatore – benché esso possa avere un elevato valore economico e qualitativo – si traduce in una esperienza negativa.

Tuttavia, oggi il bene esperienziale si è evoluto in altre direzioni e in altre accezioni rispetto alla nozione classica appena ricordata. Non è il bene – o il paniere di beni – in sé ciò che per il consumatore conta e che intende acquistare, bensì il ricordo, l’emozione, il momento, l’atmosfera. Il bene fisico si trasforma in sensazione, cioè in qualcosa di meno palpabile della fisicità del bene. Anche in tale circostanza i social aiutano a canalizzare tali esigenze tramite la condivisione.

Queste riflessioni conducono a pensare all’economia esperienziale anche in un’altra accezione. Tali dinamiche mutano non solo la domanda e l’offerta di mercato, ma anche un’innovazione del processo produttivo e del prodotto

L’attività produttiva non si limita a fornire nuovi prodotti/servizi, ma – ovviamente – anche quelli tradizionali che vengono però progressivamente “esperienzializzati”. Il nucleo dell’acquisto non è tanto il possesso di un bene, quanto il suo utilizzo per vivere una specifica esperienza.

Anche in tale accezione, un ruolo da protagonista viene assolto dalle info-tecnologie. L’economia dell’esperienza sarà una determinante importante della domanda delle tecnologie digitali centrate sulla fruizione.

Ma anche nelle narrazioni di esperienze tramite social sono in agguato dei pericoli. In particolare, è stato osservato (Calzolari, 2019 ) che la montagna e chi la frequenta sono molto presenti soprattutto su Facebook e Instagram. Il racconto spesso decade nella mera autorappresentazione e nel marketing di se stessi. L’ambiente diventa nuda scenografia e si va a caccia di “like”. In questo caso, i social perdono la valenza di esportazione di una esperienza per diventare solo decadimento di quest’ultima.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Calzolari, L. (2019). Raccontarsi al tempo dei social, Montagne360, settembre 2019. Available HERE
  • Domingos, P. (2016). L’algoritmo definitivo, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Fiocca, M. (2019). La (scarsa) comprensibilità dell’intelligenza artificiale, State of Mind. Il giornale delle scienze psicologiche (in corso di pubblicazione).
  • Simon H.A. (1971). Designing organizations for an information rich world, Computers, communications, and the public interest, a cura di Greenberger M., Baltimore MD, The Johns Hopkins University Press.
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