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Studi Sperimentali: risposta di Lucio Sibilia a Giancarlo Dimaggio

Lucio Sibilia risponde a Giancarlo Dimaggio riguardo alla comparazione dell’efficacia di una terapia psicodinamica e una terapia cognitivo comportamentale.

Di Redazione

Pubblicato il 07 Nov. 2013

Aggiornato il 14 Nov. 2013 13:19

Con questo articolo Lucio Sibilia risponde a Giancarlo Dimaggio che aveva descritto un lavoro che paragonava l’efficacia di una terapia psicodinamica (PP, psychodinamic psychotherapy) e una terapia cognitivo comportamentale (CBT, cognitive behavioural therapy). 

 

LEGGI L’ARTICOLO DI GIANCARLO DIMAGGIO

Lucio Sibilia - foto
Prof. Lucio Sibilia

Studi che dimostrano l’efficacia della psicoterapia detta “psicodinamica” ne sono stati pubblicati ormai parecchi. Ma affinché si possa parlare di “scienza” in psicoterapia, molti pensano, e io concordo, che non basti la semplice dimostrazione di efficacia. È necessario anche mostrare che i presupposti hanno fondamenti empiricamente validati.

In altri termini, non basta che io ti dimostri di saper fare un buon caffè, ma se voglio parlare di una “scienza del caffè”, è necessario che ti dimostri di farlo seguendo dei principi fondati, mostrando che sono fondati.

In questo senso la CBT, nella misura in cui mantiene un saldo ancoraggio ai suoi principi fondanti, potrebbe ambire al riconoscimento di disciplina scientificamente fondata. Ovviamente, ciò non sottrae mai le sue procedure all’indagine e verifica sperimentale. Perciò, quando la verifica ci conferma un’efficacia della CBT, presente ma limitata, si possono subito porre alcune domande. Per esempio: sono stati applicati bene quei principi? Sono stati applicati correttamente?  Sui giusti bersagli? Con un’analisi cognitivo-comportamentale adeguata? Da terapeuti esperti, come ha appunto contestato Clark? Domande che non devono necessariamente mettere in dubbio i fondamenti, ma la correttezza della loro attuazione.

Passando alla PP, invece, c’è da chiedersi su quali principi si fondi. I suoi sostenitori affermano che sia ispirata alla psicoanalisi. Se così fosse, sarebbe molto problematico il suo status di disciplina scientificamente fondata. Invece, un’ispezione anche superficiale delle sue procedure ci mostra che la PP è tutt’altro dalla psicoanalisi. Come ho avuto modo di scrivere altrove, se partisse dalla psicoanalisi, si direbbe che abbia fatto un viaggio agli antipodi.

Le sue caratteristiche procedure, infatti, almeno come definite da Gabbard (2004), sono le seguenti:

• Focus sull’affettività e l’espressione dell’emozione (stimolare le risposte emotive è già presente in tipiche procedure di behavior therapy)
• Esplorazione dei tentativi di evitare aspetti dell’esperienza (impedire gli evitamenti, come nelle tipiche procedure di esposizione, o di blocco della risposta)
• Identificazione di schemi e temi ricorrenti (come nell’analisi cognitiva, alla Beck o alla Ellis, e così via)
• Discussione sulle esperienze passate (procedure di rielaborazione narrativa, ristrutturazione, e così via)
• Focus sulla relazione terapeutica (autoosservazione del comportamento relazionale)
• Esplorazione di desideri, sogni e fantasie (contenuti cognitivi, oggetto anch’essi di alcune procedure CBT)

Oppure le caratteristiche generali (non procedurali) della “psicoterapia psicodinamica breve” sono così descritte (Leichsenring, Rabung, Leibing, 2004):
time limited (di solito 16-30 sedute in un ventaglio da 7 a 40)
setting faccia a faccia

  • terapista relativamente attivo
  • sviluppo dell’alleanza terapeutica
  • sviluppo di un transfert positivo
  • focalizzazione su conflitti specifici o temi formulati precocemente in terapia
  • focalizzazione sul qui e ora
  • attenzione all’aderenza al focus
  • attenzione all’accordo su obiettivi realistici
  • attenzione alla relazione presente tra paziente e terapista, non necessariamente ricondotta al passato

Come si vede, non dovrebbe sorprendere affatto che anche la cosiddetta PP sia efficace. Infatti, essa contiene alcune procedure terapeutiche molto simili se non identiche a quelle della CBT, per quanto definite in maniera meno precisa. Eventuali altre componenti procedurali non riferibili all’area dell’apprendimento socio-cognitivo, se presenti nella PP, dovrebbero comunque dimostrarsi necessarie per il cambiamento, per essere prese in considerazione.

Trovo comunque che c’è un aspetto nella PP, il lavoro sul comportamento relazionale, che manca nella “terapia cognitiva”, almeno quella tradizionale alla Beck per intenderci, anche se non manca ovviamente in approcci di tipo più comportamentale. D’altra parte Beck aveva un approccio intrapsichico in sintonia con la sua formazione psicoanalitica. Forse questo aspetto potrebbe da solo spiegare la mancata differenza di efficacia: un possibile vantaggio della PP su di una psicoterapia soltanto “cognitiva”, per la presenza di una componente che vi manca, appunto il comportamento relazionale del paziente.

Confesso di essere un po’ stanco di leggere articoli sulla PP, come se questa fosse una versione attualizzata della psicoanalisi. Non lo è. Ma se non lo è, e aspira comunque ad uno status “scientifico”, i suoi sostenitori dovrebbero chiarire quali ne siano i fondamenti e perché sono validi. Che l’efficacia clinica fosse usata per dimostrare la validità dei principii usati accadeva sì negli anni ’50, ma allora si trattava di principii sperimentalmente stabiliti, non teorici!

In conclusione: ben vengano gli studi sperimentali, ma attenzione alle trappole che vi possono essere!

LEGGI ANCHE:

ARTICOLO DI GIANCARLO DIMAGGIO

PSICOTERAPIA COGNITIVO-COMPORTAMENTALE

PSICOANALISI E TERAPIE PSICODINAMICHE

 

BIBLIOGRAFIA:

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