Paola Alessandra Consoli
“Ogniqualvolta due persone si incontrano ci sono in realtà sei persone presenti.
Per ogni uomo ce n’è uno per come egli stesso si crede,
uno per come lo vede l’altro ed uno infine per come egli è realmente»
(William James, The Principles of Psychology, 1890)
Psicologia e neuropsicologia hanno tentato di spiegare le possibili correlazioni fra la percezione reale del corpo e l’immagine mentale che abbiamo di esso.
Quando parliamo di rappresentazione del corpo, ci riferiamo a due costrutti: l’immagine corporea, argomento di discussione psicologica e lo schema corporeo, che interessa maggiormente la neuropsicologia.
Fino a pochi anni fa, esisteva un’enorme confusione concettuale fra questi due costrutti. Uno stesso autore poteva parlare di rappresentazione corporea utilizzando termini intercambiabili. L’Autore a cui mi riferisco è Schilder, la cui opera “Immagine di sé e schema corporeo” (1935) è la prima e più completa opera in merito a questo argomento. Schilder ha avviato questo dibattito, ha chiarito qualche interrogativo, ma, al tempo steso, ha aperto una ricerca decennale, non ancora del tutto soddisfatta, in merito alla rappresentazione corporea.
Come si è giunti al concetto di “schema corporeo”? Perché il termine “immagine corporea” si riferisce alla sola patologia psichica o psichiatrica? Quali sono i punti di sovrapposizione?
Il concetto di schema corporeo nasce agli inizi del XX secolo, ma una primissima elaborazione teorica sulla rappresentazione mentale del nostro corpo si può far risalire alla seconda metà del XIX secolo nella ricerca fisiologica e neurologica dell’epoca.
Il primo ad utilizzare il termine “schema corporeo” fu Bonnier, nel 1905, distinguendo il senso dello spazio e l’orientamento soggettivo rispetto al mondo esterno. Il criterio topologico di Bonnier ci consente di occupare un luogo nello spazio (solo nostro), all’interno del quale sappiamo orientarci e localizziamo le diverse parti del corpo. Egli definisce “aschematia” l’alterazione di tale rappresentazione topografica e spaziale e individua nell’attività vestibolare il contributo principale ad essa.
Schilder, nella sua opera più famosa, definisce l’immagine del corpo umano come “il quadro mentale che ci facciamo del nostro corpo, vale a dire il modo in cui il corpo appare a noi stessi” oppure “lo schema corporeo è l’immagine tridimensionale che ciascuno ha di se stesso: possiamo anche definirlo immagine corporea”.
Schilder è uno psicologo, si occupa poco della localizzazione dello schema corporeo, anzi accetta le ipotesi dei suoi predecessori, quali Pick o Anton e Babinski e per questo viene attaccato dalla neuropsicologia, seppure preso molto in considerazione per le sue teorie “ponte” fra la psicologia tradizionale e la moderna neuropsicologia. Nello stesso Autore convivono tre pensieri: quello dello sviluppo libidico, da cui dipenderebbe uno schema corporeo che si struttura e destruttura all’infinito, quello sociologico, secondo cui la rappresentazione corporea non è altro che la somma delle immagini corporee della comunità, da cui dipenderebbe il nostro modo di rapportarci con il nostro corpo e con gli altri e quello neuropsicologico, un maldestro ma interessante tentativo di spiegare i disturbi dello schema corporeo, che interessano soprattutto il lato sinistro del corpo, per una dominanza o preferenza del lato destro che, essendo più forte, sarebbe meno esposto a questi disturbi.
Schilder fu un autore molto apprezzato, ma l’errore che il mondo scientifico non gli ha perdonato è quello di aver utilizzato i termini “schema corporeo e immagine corporea” come se si trattasse dello stesso costrutto, mentre oggi sappiamo che lo schema corporeo è inconsapevole, mentre l’immagine corporea è presente alla coscienza.
Merleau-Ponty (1945), invece, oppone un “corpo-oggetto” ad un “corpo-me” assimilato al pensiero cosciente: conosciamo il nostro corpo attraverso le rappresentazioni mentali che ci facciamo di esso. Il soggetto è fatto di corpo e lo schema corporeo è un modo di esprimere che “il mio corpo è al mondo”, che funziona nel mondo come il cuore nell’organismo, e l’uomo è coscientemente in possesso dei suoi organi di cui conosce ogni posizione e orientamento. Lo stare al mondo ha una dimensione temporale: il presente è ciò che il soggetto vede (e vive) nel momento attuale, il passato è ciò che torna per confrontarsi con il presente e il futuro è la percezione di ciò che sarà.
Per questo motivo, la spiegazione dell’Autore riguardo l’arto fantasma sarebbe quella di “un vecchio presente che non si decide a diventare passato” una definizione interessante per chi desiderava una spiegazione esclusivamente psicoanalitica ai disturbi della rappresentazione corporea, ma che certamente non poteva soddisfare i neuropsicologi.
La svolta in campo neuropsicologico si ha con Critchley (1953) e la sua opera The Parietal Lobes, la prima descrizione dettagliata dei disturbi dello schema corporeo quali l’anosognosia, la negligenza spaziale unilaterale, il terzo arto fantasma.
La ricerca moderna nasce solo nel secondo dopoguerra, grazie all’utilizzo dei metodi di indagine anatomofunzionale. Le ricerche localizzarono lo schema corporeo nel lobo parietale destro e attribuirono a questa localizzazione la maggior parte dei disturbi della rappresentazione corporea.
La differenza consiste nel verificarsi, nelle lesioni emisferiche destre, di disturbi sensitivo-sensoriali e visuo-spaziali che producono una difettosa integrazione dei distretti corporei e degli stimoli provenienti dall’emisoma sinistro; invece, nelle lesioni emisferiche sinistre, i disturbi dell’orientamento corporeo sono aggravati spesso da sindromi agnosiche, per l’interessamento lesionale dei centri del linguaggio.
Lo schema corporeo può essere localizzato nella corteccia parietale destra, che comprende le aree 5, 7, 39 e 40 di Broadman. Le circonvoluzioni pre e postrolandica sono caratterizzate da somatotopia, cioè a definite zone del corpo corrispondono aree specifiche della corteccia cerebrale, così come rappresentato nell’Homunculus di Penfield.
I concetti di schema corporeo e di immagine corporea condividono la possibilità di rappresentare la totalità e la complessità del corpo umano. Mentre il primo è un articolato schema percettivo legato al processo di localizzazione spaziale compiuto dal sistema nervoso, la seconda include le componenti soggettivo-cognitivo-affettive delle rappresentazioni corporee. Essendo oggettivo il primo e soggettivo il secondo costrutto, divennero, rispettivamente, interesse della neuropsicologia e della psicologia.
L’immagine corporea riguarda la situazione emotiva, i ricordi, le motivazioni e i propositi d’azione dell’individuo; non è statica, ma si modifica continuamente per merito delle esperienze personali. Approfondire questo concetto richiederebbe di abbandonare lo studio della struttura cerebrale dedicata allo schema corporeo e analizzare l’energia libidica, la relazione oggettuale madre-bambino o gli eventi emozionali che tanta importanza assumono nell’esistenza di un individuo.
Sebbene la rappresentazione del corpo sia di interesse psicologico quanto neuropsicologico, non si potranno mai discriminare i disturbi che colpiscono esclusivamente l’immagine corporea, da quelli che colpiscono lo schema corporeo. Possiamo ipotizzare un continuum dove collocare, ai due estremi, diagnosi solo psicologiche o solo neuropsicologiche e immaginare, lungo di esso, diversi casi intermedi.
Un disturbo che si colloca in posizione centrale tra quelli specifici dello schema corporeo e quelli dell’immagine corporea è il “disturbo da dismorfismo corporeo” (BDD), caratterizzato dalla preoccupazione per un difetto del proprio aspetto corporeo, della forma o di alcune caratteristiche. Pur essendo considerato un disturbo psicopatologico, perché condivide la sua neurochimica con il disturbo ossessivo-compulsivo e l’ansia sociale, ha notevoli correlazioni con i disturbi dello schema corporeo: i circuiti neuronali coinvolti con il BDD sono la corteccia occipito-temporale (per l’immagine generale del corpo) e le regioni fronto-striatale e temporale-parietale per i giudizi sulla forma e bellezza del viso.
Un altro esempio, descritto da Oliverio Ferraris (2011) tratta il caso di un bambino di 3 anni, non mancino, che improvvisamente manifesta una difficoltà nel movimento del braccio destro, che gli impedisce l’uso corretto delle posate e degli oggetti di uso comune e la produzione di un disegno disordinato e spezzettato. La remissione spontanea del disturbo avviene durante una vacanza lontano da casa, all’età di 14 anni e fa ipotizzare ai medici che lo hanno in cura che il disturbo dello schema corporeo, resistente a qualsiasi trattamento, compreso quello dello psicomotricista, si sia risolto perché il ragazzo, durante la pubertà ha chiarito i suoi contrasti inconsci con quel braccio “nemico” che da bambino aveva usato per picchiare la sorella e che la lontananza dalla famiglia l’abbia, in qualche modo, guarito e reso più indipendente dalla sua immagine corporea infantile per fargli assumere quella di un giovane proiettato nel futuro e capace di “perdonare” il suo corpo. Questo è un esempio evidente di come schema e immagine corporea siano, sebbene distinti, anche molto continui.
Possiamo adesso chiederci se la rappresentazione corporea sia innata o acquisita. Alcuni autori ipotizzavano un percorso dettato dal patrimonio genetico, secondo cui le tappe dell’acquisizione della rappresentazione corporea sono predeterminate alla nascita e lo schema corporeo è il risultato dell’interazione della genetica con l’ambiente e l’oggetto, mentre altri autori invece ipotizzavano un esclusivo intervento dell’ambiente. Al primo gruppo appartiene Piaget (1928) con le ben note fasi dello sviluppo infantile, che egli adattò per spiegare la rappresentazione corporea. Al secondo gruppo, appartengono gli psicoanalitici classici, a partire da Freud (1922), che sostiene che l’Io deriva da sensazioni corporee e il rapporto dell’individuo con il proprio corpo, che si realizza tenacemente in ogni momento, riassume in sé la propria storia, riattiva angosce e conflitti del passato che si materializzano in contesti nuovi. Winnicott (1970) con i termini holding e handling materna affermò l’importanza relazionale madre-bambino nella costruzione della membrana-frontiera che separa l’Io dal non-Io. Secondo Winnicott l’assenza o la perdita di questa membrana provocherebbe l’abolizione delle frontiere del corpo e la frantumazione dell’Io, quindi della rappresentazione corporea.
Infine Le Boulch (1975) descrisse 4 fasi di sviluppo dello schema corporeo: corpo subito, corpo vissuto, corpo percepito, corpo rappresentato.
Una minuziosa comprensione della rappresentazione del nostro corpo non è del tutto raggiunta, ma vi è ancora un lungo tratto da percorrere. Per lungo tempo, la confusione terminologica tra schema corporeo e immagine corporea non ha aiutato gli specialisti in materia di anosognosia per l’emiplegia, arto fantasma, disturbi dell’alimentazione o altre sindromi che colpiscono l’integrità della rappresentazione del corpo.
Non possiamo escludere che vi siano aree del cervello non ancora del tutto esplorate che promettono nuove e più ricche potenzialità e solo quando conosceremo il contributo di ogni più piccola area cerebrale potremo dire di possedere una completa consapevolezza corporea.
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BIBLIOGRAFIA:
- Bonnier, P. (1905). L’aschematie. Revue Neurologique, n.12.
- Critchley, M. (1953). The Parietal Lobes. London, Edward Arnold LDT.
- Freud, S. (1922). Das Ich und Es. Fischer Taschenbuch Verlag. Trad. It. (1976). L’Io e l’Es. Torino, Boringhieri.
- Le Boulch, J. (1975). Verso una scienza del movimento umano. Roma, Armando Editore.
- Merleau-Ponty, M. (1945). Phénoménologie de la perception. Paris, Librairie Gallimard. Trad. It. (1965). Fenomenologia della percezione. Milano, Il Saggiatore.
- Oliverio Ferraris, A. (2011). Storia di una remissione spontanea. Psicologia contemporanea, n.228.
- Piaget, J. (1928). Judgment and Reasoning in the Child. London, Kegan.
- Schilder, P. (1935). The image and appearance of the human body. London, Kegan, Trench, Trubner and Co. Trad. it. (1973). Immagine di sé e schema corporeo. Milano, Franco Angeli.
- Winnicott, W.D. (1970). Sviluppo affettivo e ambiente. Roma, Armando Editore.