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Quando la mente criminale “scrive” il processo penale. Psiche & Legge #1

Rubrica Psiche e Mente #1 La Mente Criminale: Cosa si intende per sanità mentale e cosa accade al criminale, se viene dichiarato non imputabile?

Di Selene Pascasi

Pubblicato il 12 Ott. 2012

Aggiornato il 05 Nov. 2012 16:54

PSICHE & LEGGE 

Quando la mente criminale “scrive” il processo penale. #1

Psiche e Legge: la nuova Rubrica di State of Mind a cura di Selene Pascasi, Avvocato e Giornalista Pubblicista

 

PSICHE & LEGGE   Quando la mente criminale “scrive” il processo penale. #1Cosa si intende per sanità mentale (sotto il profilo penale) e cosa accade al criminale, se viene dichiarato non imputabile? 

La definizione di sanità mentale – seppur prettamente inerente al contesto medico-scientifico – assume un’estrema rilevanza anche nel mondo del diritto, ed in particolar modo, all’interno del processo penale. L’articolo 85 del nostro codice, infatti, prevede che “nessuno può essere punito per un fatto preveduto dalla legge come reato, se, al momento in cui l’ha commesso, non era imputabile”, e che “è imputabile chi ha la capacità di intendere e di volere”.

È evidente, dunque, come l’accertamento della salute psichica del presunto criminale – indagato, imputato, e dunque sospettato di aver commesso un reato – sarà perno di un quadro processuale ove dovrà decidersi se questi (in caso di accertata responsabilità penale) possa esser destinatario della sanzione prevista dal sistema giuridico. Tale rilievo fa presagire, anche ai non “addetti ai lavori”, la netta distinzione tra capacità penale, responsabilità penale e imputabilità.

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Nello specifico, la prima va intesa come capacità di essere considerati soggetti di diritto penale (propria di ogni individuo, a prescindere da fattori legati a età, stato mentale o immunità); la seconda, invece, indica l’attribuibilità di un determinato reato al suo autore, il quale – si badi – ne sarà ritenuto responsabile solo ove si accerti che l’azione delittuosa sia frutto di una sua condotta dolosa o colposa (artt. 42 e 43 c.p.). Occorrerà, allora – al fine di ritenere il reo penalmente responsabile del fatto commesso – far luce sul cd. animus necandi, posseduto al momento dell’atto criminale. L’azione o l’omissione integrante il crimine, andrà, perciò, rapportata alla coscienza e volontà dell’autore, e dunque, al concreto dominio dell’atto.

In via esemplificativa, dovrà valutarsi se il reato compiuto sia stato mosso da reale volizione. Si inserisce, in tale opera di analisi, l’indagine sulla sussistenza della responsabilità penale del reo. E ci si chiederà: quale “tipo” di volizione lo ha animato? Ha voluto l’evento e dunque ne risponderà a titolo doloso, o non l’ha intenzionalmente provocato, ma poteva prevederlo ed evitarlo, e dunque ne risponderà a titolo colposo, per aver agito con imprudenza, imperizia o negligenza?

Offrendo un responso a tali quesiti, balza agli occhi la struttura dell’iter criminis che, come insegna la dottrina penalistica, si snoda in quattro fasi:

  • Ideazione del reato nella psiche del soggetto; la Preparazione: studio delle modalità di realizzazione e reperimento dei mezzi;
  • Risoluzione: concretizzazione, con atti esecutivi, dell’idea criminosa;
  • Perfezione: il reato si compie;
  • Consumazione: il crimine raggiunge la massima gravità.

È palese che, se il reato consegue ad un impulso ideativo, andrà vagliato lo stato psichico posseduto dal soggetto in quel preciso istante, così da comprendere se la scelta di commettere il delitto sia stata formulata dal reo nella piena sanità mentale, o in un momento di follia.

Solo nel primo caso, l’“indagine sulla mente criminale” lo definirà “imputabile” (dunque “capace alla pena”). Imputabilità fondata, secondo i primi studiosi del diritto, sul libero arbitrio (Scuola Classica, che riteneva la pena una sorta di “castigo” per il male consapevolmente arrecato) o sul principio di causalità (Scuola Positiva, i cui dettami ravvisavano nel delitto il “risultato” di fattori antropologici, fisici e sociali).

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Distante da ambo le tesi, è quella dell’odierno Codice che – a differenza del precedente testo Zanardelli, nel cui ambito la punibilità del reo coincideva con assenza di uno “stato di infermità di mente” tale “da toglierli la coscienza o la libertà dei propri atti” – abbraccia una più estesa definizione di imputabilità, intesa come capacità giuridica di soggiacere a pena e capacità sostanziale d’intendere e volere.

Ma quando la legge considera un uomo in grado di intendere e volere? La domanda trova agile risoluzione, ove si proceda a ritroso, soffermandosi sulle cause che escludono o diminuiscono l’imputabilità: minore età, infermità mentale, sordomutismo, ubriachezza, cronica intossicazione da alcool o stupefacenti. In questa sede, però, ci soffermeremo solo sull’infermità psichica. La definizione di malattia di mente – che Ippocrate motivava con squilibri fisici – oggi si desume dalla più generale nozione di “salute” fornita dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, che la disegna come “uno stato di completo benessere fisico, psichico e sociale, e non semplicemente assenza di malattia o infermità.

La descrizione dell’Uomo Sano, inerisce, dunque, ad uno status connotato da equilibrio dell’umore, integrità della sfera cognitiva e comportamentale, capacità di relazionarsi con l’esterno, esplicare le abilità cognitive ed emozionali, soddisfare le esigenze quotidiane, risolvere in maniera costruttiva eventuali conflitti interni. Così – se la patologia è alterazione della “norma” – l’attività diagnostica farà riferimento ai parametri di “normalità” inerenti la statistica, l’interazione fra la predisposizione allo sviluppo di un disturbo (diatesi) e un evento negativo o una particolare condizione ambientale/esistenziale che funga da agente scatenante (stress), o relativi alla presenza di patologie mentali, quali psicosi e nevrosi.

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È noto, poi, in sede valutativa, come il DSM IV (Diagnostic Statistic Manual) faccia riferimento a parametri descritti in cinque assi: Disturbi Clinici, Disturbi di Personalità e Ritardo Mentale, Condizioni Mediche Generali, Problemi Psicosociali e Ambientali, Valutazione Globale del Funzionamento. Senza pretesa di divulgare informazioni proprie della scienza medica – con cui il legale si rapporta quotidianamente nella predisposizione delle strategie processuali – si rilevi come i giudici si siano spesso divisi nel tratteggiare l’esatto ambito della malattia mentale, atta ad escludere o far scemare l’imputabilità. Del resto, Sigmund Freud insegnava che in ogni persona c’è un lato oscuro: ciascuno “ha istinti aggressivi e passioni primitive che lo portano allo stupro, all’incesto e all’omicidio e che sono tenute a freno in maniera imperfetta, dalle istituzioni sociali e dai sensi di colpa”. Non resterà, dunque, nel tracciare il profilo del non imputabile, che far tesoro degli insegnamenti mutuati dalla psichiatria forense. Se fino al XVII secolo, la medicina riteneva le patologie mentali delle possessioni diaboliche, fu solo nel Novecento che la psichiatria divenne scienza clinica, e la malattia mentale assunse un ruolo cardine in seno alla disciplina dell’imputabilità.

Si noti, inoltre, come la malattia mentale/infermità (termini adottati, rispettivamente, dalla psicopatologia forense e dal legislatore) vennero, nel tempo, prima collegate ad un modello nosografico (che ne ravvisò la sussistenza solo in costanza di catalogate patologie biologiche, del cervello o del sistema nervoso), e poi incardinate in letture psicologiche (con estensione dell’alveo a psicosi o nevrosi) o sociologiche (legate al contesto di vita del malato).

Tale evolversi della nozione scientifica di malattia mentale, improntò necessariamente le sentenze dei giudici in tema di imputabilità, che – sull’onda delle richiamate correnti – inizialmente riconobbero l’infermità mentale dell’indagato/imputato solo ove affetto da patologie riconosciute dalla cd. psichiatrica biologica, per poi valorizzare anche gli stati di indebolimento, eccitamento, depressione o inerzia dell’attività psichica (Cass. n. 8483/74), ed i disturbi della personalità, tanto gravi da incidere sulla capacità d’intendere e volere del reo (Cass., Sez. Un., n. 9163/05).

L’anomalia mentale, dunque, anche se transitoria, potrà valere a rendere l’individuo non assoggettabile a pena – o destinatario di pena ridotta – solo ove l’alterata coscienza si sia elevata a rango di “vizio di mente” totale (il reo, nel commettere il delitto, era incapace d’intendere e volere. Egli non è imputabile) o parziale (lo stato d’infermità era tale da scemare nettamente la capacità, senza escluderla. Egli è imputabile, ma ha diritto a minor pena). Un discorso a parte, infine, dovrà dedicarsi all’influenza degli “stati emotivi e passionali (che, ai sensi dell’art. 90 c.p., “non escludono, né diminuiscono l’imputabilità”), sui quali ci soffermeremo nella prossima rubrica, quando tratteremo anche del disturbo borderline, della gelosia patologica e dell’incidenza di tali stati sulla condanna penale.

 

 

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Selene Pascasi

Avvocato, Giornalista Pubblicista e Scrittrice

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