L’epoca della vulnerabilità: la psicologia ha veramente invaso le nostre vite?
In uno dei servizi psichiatrici in cui ho lavorato, diretto da un esponente di “Psichiatria Democratica”, esisteva un fortissimo pregiudizio nei confronti della psicoterapia: l’assunto epistemologico di fondo era una reificazione grossolana del pensiero marxista secondo il quale l’aspetto più importante del dispositivo di cura doveva essere il miglioramento delle condizioni socio-lavorative dei pazienti, tutto il resto si poteva tranquillamente lasciare sullo sfondo in quanto era irrilevante. Questa esperienza, che mi ha mostrato uno degli effetti di un certo modo integralista e ostile alla complessità di intendere l’antipsichiatria, che non ha nulla a che vedere con la profondità del pensiero di Basaglia ma piuttosto con alcuni dei suoi epigoni e che è stata stigmatizzata tra gli altri da Eugenio Borgna, mi è tornata in mente leggendo il libro di Gioele Cima: “L’epoca della vulnerabilità. Come la psicologia ha invaso le nostre vite” di Piano B editore.
Labilità emotiva e vulnerabilità nella “Società della prestazione”
In questo libro ho trovato alcune cose vere anche se non particolarmente originali, alcune cose eccessivamente semplificate, alcune non condivisibili e alcune palesemente infondate.
I tempi che stiamo vivendo sono caratterizzati da un’importante modifica del paradigma della struttura delle società occidentali: per dirla con Byung-Chul An siamo passati da una struttura sociale caratterizzata dalla centralità del conflitto come motore dei conflitti sociali alla “Società della prestazione”, nella quale si esalta una caricatura della libertà personale e dell’autorealizzazione reificata nella realizzazione economica. Come dice M. Benasayag, abbiamo smesso di esistere e lo abbiamo barattato col “funzionare”:
Tutte le strade delle utopie sono franate una dopo l’altra. Non solo le utopie sociali, ma anche quelle di un sapere scientifico completo, di una conoscenza assoluta. La nostra generazione rappresenta il fallimento… tale fallimento – la perdita di futuro – ha instaurato una sorta di immediatezza permanente che svuota il presente di ogni sostanzialità. […] viviamo in un presente defraudato in nome di un progetto che non è l’assetto di una struttura di promessa o di utopia, ma l’instaurazione di un mondo dal funzionamento senza intoppi. Dobbiamo funzionare. Ecco la perversione della civiltà attuale.
Se prendiamo per buona questa metafora, abbiamo una chiave di lettura convincente per la diffusione epidemica del lessico psico(pato)logico nel discorso comune: svuotata dal proprio orizzonte di senso – la relazione terapeutica – la pervasività dei concetti mutuati dalla psicologia ha lo scopo di reificare gli inceppi esistenziali nei termini di anomalie nel funzionamento.
L’insistenza sulla labilità emotiva e sulla vulnerabilità, pertanto, non è tanto funzionale al bisogno di controllo dell’organizzazione socio-economica capitalista, come teorizzato nel libro di Cima, quanto piuttosto una conseguenza dell’irriducibilità dell’angoscia esistenziale che fatica a incastrarsi o a essere assorbita nel modello dell’uomo-macchina prestazionale che questa società produce.
Tra l’altro, se fosse vero che l’organizzazione sociale alimenta una “deriva terapeutica” – concetto non nuovo e introdotto da Frank Furedi – autore incredibilmente citato solo marginalmente, nonostante una buona parte dei contenuti di questo libro sembrino ripresi quasi integralmente dal suo pensiero – noi avremmo moltissimi servizi di consulenza e di presa in carico psicoterapeutica, che invece sono drammaticamente sottodimensionati rispetto alla richiesta che aumenta sempre di più e coinvolge moltissimi individui fin dall’infanzia. Dire che la richiesta di terapia aumenta perché aumenta la diffusione del linguaggio terapeutico è un’inversione logica: la richiesta aumenta perché l’ottica prestazionale dell’uomo-macchina che deve funzionare bene si scontra con l’irriducibilità dell’esistenza a questa logica sin dalla più tenera età.
In questa diffusione impropria dei concetti psicologici nel discorso comune, molte responsabilità le hanno gli operatori nella relazione di aiuto, che spesso incedono nell’utilizzo di categorie diagnostiche e/o di comprensione psicopatologica non già all’interno di una relazione terapeutica, come dovrebbe essere, ma per leggere fenomeni sociali, culturali, quando non per fare diagnosi in pubblico sulla base di relati letti sulla stampa. Forse una qualche responsabilità ce l’hanno anche alcuni psicoanalisti che, lungi dal considerare la psicoanalisi principalmente una terapia, l’hanno intesa come una gigantesca lente per leggere il reale in tutte le sue manifestazioni, trasformandola in un movimento culturale che ha flirtato con varie discipline fino a diventare un paradigma interpretativo della società nelle sue varie articolazioni.
Quella proposta dall’autore pare la nota retorica antipsichiatrica adattata ai mutamenti della società contemporanea, una retorica che, tra l’altro, tradisce anche l’intento ideologico che le fa da sfondo: già i primi seguaci dell’antipsichiatria non avevano compreso, ad esempio, che i negazionismi della malattia psichiatrica alla Szasz erano funzionali al mantenimento dello status quo, se non al peggioramento delle condizioni di fette marginali della società.
Fuori fuoco pare anche la critica, di per sé condivisibile nei contenuti, al DSM 5: è vero che la pervasività della diagnosi e l’iperinflazione diagnostica fanno il gioco della diffusione endemica del linguaggio psico(pato)logico, ma questo accade perché anche la Task Force del DSM ha adottato in tempi non sospetti – e per questo le critiche di Frances, che ha curato il DSM IV, non sono convincenti – l’idea che la patologia sia associata al malfunzionamento sociale.
L’epoca della vulnerabilità e il capitolo sul trauma
Il capitolo sul trauma, efficace dal punto di vista retorico, dimentica che tutta la storia della psicoanalisi prima e della psicoterapia in senso lato è caratterizzata dalla contrapposizione tra la genesi esterna della sofferenza psichica e quella interna: lo stesso Freud cambiò idea su questo e nel corso dei decenni le due letture si sono avvicendate con alterne fortune. Oggi siamo al prevalere forte della genesi traumatica, al punto che alcuni autori leggono la psicopatologia come legata esclusivamente a screzi traumatici, probabilmente anche perché è più funzionale alla metafora del funzionamento: una macchina perfetta si rompe perché qualcosa di esterno ne impedisce il corretto funzionamento. In quest’ottica, non stupisce nemmeno la pervasività del concetto di dipendenza, ben oltre gli ambiti del suo impiego professionale: siamo sempre nell’ambito di qualcosa di esterno che altera l’equilibrio di una macchina altrimenti perfettamente funzionante.
La psicologia umanistico-esistenziale e la diffusione della ”cultura terapeutica”
Il capitolo con più criticità è quello in cui l’autore parla della psicologia umanistico – esistenziale, a suo dire il cavallo di troia principale per la diffusione della “cultura terapeutica”. C’è una sistematica alterazione e degenerazione dei concetti della psicologia esistenziale che spero sia dovuta alla scarsa conoscenza della stessa:
- Si fa confusione tra la fiducia nell’autoregolazione organismica – ossia nella capacità degli esseri umani di agire nel mondo in modo consapevole portando avanti i propri obiettivi – confondendola con un inno alla felicità individuale avulso dal contesto sociale, una visione solipsistica che non ha nulla a che vedere con quella della psicologia esistenziale.
- Si banalizza il concetto di angoscia che si vorrebbe originario di Freud e che invece trova in Kierkegaard un riferimento precedente e più pertinente per l’area umanistica.
- L’attenzione alla comunicazione non verbale viene tradotta dall’autore come “legittimità a pontificare su qualsiasi cosa accada durante la terapia”.
- L’affermazione secondo cui la realizzazione di sé consista nel convertire le ingiustizie sociali in colpe individuali è del tutto fantasiosa. Nella psicologia esistenziale si fa riferimento, piuttosto, alla capacità di sviluppare un adattamento all’ambiente che sia creativo, ossia a trovare un accomodamento tra le esigenze personali e quelle sociali che preveda proprio la capacità di agire eventualmente nell’ambiente per modificarlo.
- gli individui non sono responsabili del loro stare male, come si afferma nel libro, ma piuttosto in terapia riacquistano la loro responsabilità (la loro abilità a rispondere) rispetto alla loro vita.
- Per finire, non si può proprio dire che l’obiettivo della terapia umanistico – esistenziale sia creare persone dipendenti dai terapeuti, in quanto viene proprio esplicitato il contrario.
Per concludere, un libro che a mio parere rappresenta un’occasione mancata, in quanto individua alcune aree di criticità del presente dando a esse delle risposte non condivisibili e si presta a essere letto (come già è accaduto in alcune recensioni) come un testo che dà argomenti a chi stigmatizza sia la psichiatria come disciplina che le persone che a vario titolo lamentano una sofferenza psichica come affette da malattie immaginarie inventate dalla società.