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Relazione Terapeutica

Uno degli aspetti che può favorire il cambiamento in psicoterapia è la relazione terapeutica tra paziente e terapeuta, caratterizzata da fiducia e empatia

Aggiornato il 24 ago. 2023

Definizione di alleanza terapeutica

Cosa si intende per relazione terapeutica? E per alleanza terapeutica? Solitamente, sono termini usati in maniera interscambiabile, ma, in realtà, i due termini sottendono significati gerarchicamente diversi.

La relazione terapeutica è un concetto sovraordinato, composto da diverse parti tra cui l’alleanza terapeutica. Quest’ultima rappresenta solo una delle variabili che possono portare alla costruzione della relazione terapeutica, malgrado potrebbe essere considerata la più importante da identificare per valutare l’efficacia della psicoterapia. Il concetto di alleanza terapeutica, dunque, nasce in ambito psicoanalitico e riguarda la creazione della relazione terapeutica nel qui ed ora.

Secondo Bordin (1979) l’alleanza terapeutica è costituita da tre componenti:
(1) l’esplicita condivisione di obiettivi da parte di paziente e terapeuta;
(2) la chiara definizione di compiti reciproci all’inizio del trattamento;
(3) il tipo di legame affettivo che si costituisce fra i due, caratterizzato da fiducia e rispetto.

Da tale definizione è possibile evincere che l’alleanza e, conseguentemente, la psicoterapia in senso lato, si delineano come un lavoro collaborativo tra due soggetti interagenti ed entrambi attivi, ciascuno nel proprio ruolo. In particolare, il legame affettivo tra paziente e terapeuta, terzo elemento costitutivo dell’alleanza nonché fattore aspecifico di grande efficacia clinica, emerge dall’interazione tra due variabili principali: da una parte i comportamenti, le emozioni e i pensieri del terapeuta, dall’altra le proiezioni transferali che nascono dalle esperienze passate del paziente. Ecco che dunque entrambi gli elementi della diade clinica, paziente e terapeuta, ciascuno dotato di una propria storia evolutiva e di un proprio mondo interno, divengono di estrema importanza nella costruzione dell’alleanza e nella conduzione di una terapia avente buon esito.

I dati di ricerca hanno ripetutamente dimostrato come l’alleanza terapeutica sia un potente fattore predittivo dell’esito del trattamento psicoterapeutico (per una recente meta-analisi, si veda Horvath, Del Re, Flückiger et al., 2011).
Essa rappresenta infatti il fattore terapeutico aspecifico con maggiore capacità di predire il buon esito del trattamento, configurandosi così come un nucleo concettuale e clinico di estrema rilevanza.

Le caratteristiche del terapeuta nella costruzione dell’alleanza terapeutica

Le caratteristiche personali e le capacità individuali del terapeuta che favoriscono l’alleanza o che, al contrario, ne rendono più probabile la compromissione, sono state oggetto di numerose indagini. Un’ampia rassegna (Ackerman, Hilsenroth, 2001, 2003) ha evidenziato numerosi attributi favorenti l’alleanza, tra i quali: capacità di esplorare temi interpersonali, elevato livello di metacognizione, tendenza a favorire l’espressione di emozioni in un’atmosfera di sostegno e attivo incoraggiamento, la capacità di assumere un ruolo collaborativo nel dialogo col paziente, la genuinità dell’interesse per l’esperienza del paziente, l’ accuratezza e la parsimonia nelle interpretazioni.

Sull’altro versante, sono stati individuati anche i fattori ostacolanti l’alleanza, tra cui ad esempio l’ autoreferenzialità del terapeuta, la tendenza a distrarsi quando il paziente parla, lo scarso coinvolgimento emotivo nello scambio, la sfiducia nelle proprie capacità di aiutare il paziente, la tendenza a criticarlo e a colpevolizzarlo, l’ uso inappropriato dell’autosvelamento e del silenzio. Inoltre, i risultati di una prolungata ricerca curata da Norcross (2011) hanno messo in luce, quale “fattore di efficacia terapeutica promettente ma ancora non sufficientemente supportato da dati di ricerca”, proprio lo stile di attaccamento del terapeuta, capace di influenzare alleanza terapeutica e outcome.

Nonostante questo campo sia stato per ora solo parzialmente esplorato, è possibile individuare, tra le altre, alcune prospettive cliniche che hanno cercato di approfondire le correlazioni tra lo stile di attaccamento del terapeuta e alcuni aspetti della relazione terapeutica, quali la costruzione dell’alleanza, il suo mantenimento nel corso della terapia e i possibili esiti dell’intervento.

Alleanza terapeutica, attaccamento e sistemi motivazionali: la prospettiva cognitivo-evoluzionista

Secondo la prospettiva cognitivo evoluzionista, l’alleanza terapeutica raggiunge qualità ottimali quando entrambi i membri della diade terapeutica sono cooperativi nel perseguire gli obiettivi condivisi, i compiti reciproci nella cornice del trattamento e il legame affettivo costituito da fiducia e rispetto. In questo caso, il sistema motivazionale che si attiva è quello cooperativo che manterrebbe salda l’alleanza terapeutica.

Tuttavia la relazione tra psicoterapeuta e paziente si presenta frequentemente come un vero e proprio legame di attaccamento, e in esso si possono rintracciare alcune delle caratteristiche specifiche di tale relazione, quali la ricerca di vicinanza, la protesta nei confronti della separazione e la ricerca di una base sicura (Weiss, 1982). Il paziente tenderà quindi ad applicare alla relazione con il terapeuta le memorie, le aspettative e i significati costruiti nella relazione con i genitori (Modelli Operativi Interni degli attaccamenti precoci) e gli stati mentali relativi all’attaccamento adulto.

Da un lato ciò comporta una minaccia all’alleanza terapeutica, perché sposta la relazione dal sistema cooperativo (il migliore per il mantenimento di buoni livelli di alleanza, in cui paziente e terapeuta lavorano insieme sullo stesso piano per il conseguimento di obiettivi condivisi) a un altro sistema, per di più gravato da Modelli operativi interni insicuri o disorganizzati. Dall’altro, proprio la comparsa di strutture e dinamiche mentali relative all’attaccamento nel dialogo clinico, è condizione che potenzialmente permette esperienze relazionali correttive nel paziente, di regola accompagnate dallo sviluppo delle capacità metacognitive (Liotti e Monticelli, 2014). Lo stesso Bowlby (1988) ha sottolineato che la relazione psicoterapeutica può costituire un importante fattore di cambiamento dello stile di attaccamento, consentendo al paziente di passare da uno stile insicuro a uno stile sicuro. In questo processo, il ruolo del terapeuta è anche quello di agire come una figura di attaccamento, creando una base sicura che consenta al paziente di procedere nell’esplorazione delle proprie esperienze e dei propri vissuti di attaccamento, favorendo esperienze emozionali correttive capaci di disconfermare i Modelli operativi interni insicuri: i vissuti di attaccamento del clinico andranno quindi ad agire specularmente già in questa fase.

Specularmente, come sottolinea Baldoni (2008), la relazione terapeutica può configurarsi come una potenziale condizione di minaccia anche per il clinico, esposto a possibili frustrazioni narcisistiche, incapacità o difficoltà diagnostica, eventuali fallimenti terapeutici o anche a disorientamento e sofferenza emotiva conseguenti all’entrare in contatto con gli stati mentali del paziente. Anche nel terapeuta possono così attivarsi comportamenti di attaccamento e Modelli operativi interni specifici, correlati alle esperienze passate e capaci di influire in modo significativo all’interno della relazione clinica e nella costruzione/ mantenimento/ riparazione dell’alleanza.

Come si colloca la relazione terapeutica nella terapia cognitiva?

Sul tema della relazione terapeutica Aaron Beck fin dai suoi primi libri sottolineava che:

le qualità ottimali che il terapeuta deve possedere comprendono calore umano, empatia e schiettezza

queste caratteristiche modulano la collaborazione terapeutica in modo da favorire l’applicazione e quindi l’efficacia del trattamento.

L’empatia intesa come capacità del terapeuta di entrare nel mondo del paziente, cercando di provare le medesime sensazioni e sentimenti provati dal paziente, e la condivisione di questa esperienza, aumenteranno nel paziente la percezione di essere capito e faciliteranno la nascita di una fiducia nel rapporto terapeutico. Ancora più chiaramente viene sottolineata l’importanza di una “intesa cioè di un accordo armonioso” tra i due.

In quelle pagine si trovano già gli elementi principali di ciò che poi Bordin (1979) sistematizzerà in un modo che diventerà paradigmatico nella successiva riflessione sulla relazione terapeutica in maniera trasversale al di là del modello teorico: alleanza tra paziente e terapeuta significa obiettivi condivisi, compiti reciproci durante il trattamento e un legame affettivo caratterizzato da fiducia e rispetto.

Tuttavia, nei contributi empirico-scientifici e teorici della terapia cognitivo-comportamentale standard fu talmente grande la forza e la rilevanza dei primi due fattori – e cioè gli obiettivi e i compiti reciproci- da oscurare e quasi trascurare , almeno in letteratura, il terzo fattore enucleato da Bordin, e cioè il legame affettivo.

Questa affermazione si ridimensiona alla luce del contributo di Safran e Segal (1990). Per Safran e Segal di centrale importanza sono i cicli cognitivi interpersonali. Il ciclo cognitivo interpersonale può essere definito secondo questo processo: i processi di costruzione dell’individuo portano a tipici comportamenti che elicitano nell’altro risposte prevedibili; il soggetto ha delle aspettative sull’andamento del rapporto e tali previsioni lo muoveranno a certi comportamenti automatici o coscienti congrui con le proprie aspettative. In altre parole possono essere intesi come

il modo in cui la relazione con l’altro attiva circuiti che rinforzano la patologia a causa dei segnali- in prevalenza non verbali, automatici ed emozionali- che i pazienti scambiano con i loro partner in interazione (Safran e Segal; 1990).

Di fatto sono strategie che il soggetto mette in atto per evitare di vivere stati per lui estremamente dolorosi ma che hanno il solo risultato di attivare nell’altro proprio i comportamenti temuti, che quindi confermeranno le credenze centrali. Questo vale per ogni relazione significativa e quindi assume particolare importanza in quella terapeutica dove il paziente altro non farà che costruire la relazione in base alle uniche modalità che conosce.

Altro concetto fondamentale è quello di rottura dell’alleanza. Le rotture dell’alleanza terapeutica sono state definite come

momenti di tensione o breakdown nell’alleanza tra il terapeuta e il paziente, che generano emozioni intense negative (Safran & Muran, 2000).

Secondo gli autori vi sarebbero dei marker relazionali che possono essere ricondotti a due categorie principali, quella del ritiro, in cui il paziente si “allontana” dal terapeuta (spesso tramite risposte corte e minime oppure spostando il focus della risposta verso un tema diverso da quello della domanda) e quella della confrontation, in cui il paziente “attacca” il terapeuta, esprimendo rabbia o insoddisfazione nei suoi confronti

Nell’ambito della psicoterapia cognitiva di matrice italiana, oltre ai contributi già sopraesposti della prospettiva cognitivo-evoluzionista, la relazione terapeutica viene messa al centro dai contributi di Antonio Semerari (conosciuto anche come “modello del terzo centro”) e dal più recente modello della terapia metacognitiva interpersonale (TMI).

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (ovvero la TMI) condivide con Semerari l’attenzione per i cicli interpersonali, ma insiste di più sugli interventi di tipo espressivo e metacognitivo. Per Dimaggio e i suoi collaboratori il paziente con disturbo di personalità (che è il paziente bersaglio della TMI) ha un difetto di riflessione e di contatto con i propri stati mentali. Egli compensa questa carenza usando un linguaggio intellettualistico e sostanzialmente evitante. A questa carenza gli autori della TMI (Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore, 2013) suppliscono incoraggiando continuamente il paziente a portare esempi concreti di questo malessere generale, e a descrivere episodi di vita vissuta in cui iniziare a ricollegarsi con ciò che si è davvero sentito in quel momento, sia nel campo interiore metacognitivo che in quello relazionale e interpersonale.

Qual è la differenza tra gli autori della TMI e il modello di Semerari e collaboratori del Terzo Centro? Il modello del Terzo Centro condivide poco questo lavoro esplicito sugli stati mentali e invece teorizza che il processo terapeutico avvenga completamente attraverso il canale non verbale-relazionale. Per Semerari e i suoi collaboratori, la fuoriuscita dai cicli patologici avviene esclusivamente attraverso il diverso modello relazionale che avviene in seduta, attraverso le operazioni di disciplina interiore. Riferendosi a Safran e Segal, per Semerari:

un ciclo interpersonale è un processo relazionale in cui i due partecipanti sono spinti ad agire in modo da rinforzare la patologia di uno dei due. In quanto processo relazionale, quindi, cessa quando uno dei due non ha più questa tendenza d’azione. Il terapeuta esce dal ciclo con operazioni di disciplina interiore e passa da una posizione relazionale problematica ad una empatica.

E questo è riconosciuto anche dagli autori della terapia metacognitiva interpersonale.

La relazione terapeutica nella Schema Therapy di Jeffrey Young

Secondo la Schema Therapy, il compito del terapeuta è arrivare a modificare gli Schemi Maladattivi Precoci, attraverso tecniche cognitive, comportamentali ed emotive/esperienziali, ma soprattutto attraverso la relazione terapeutica, che diventa uno strumento indispensabile per modificare l’esperienza emotiva del paziente e ristrutturare le modalità con cui egli valuta sé, gli altri e il mondo.

La qualità emotiva della relazione terapeutica contribuisce a creare nella terapia una zona sicura e condivisa, in cui i bisogni emotivi della persona che soffre vengono riconosciuti, validati e soddisfatti, proprio quando emerge la parte più vulnerabile e sofferente. La relazione terapeutica è orientata quindi al soddisfacimento di quei bisogni primari insoddisfatti, ovviamente nei chiari limiti del setting terapeutico: una relazione di accudimento in cui il terapeuta, come adulto funzionale, si prende cura dei bisogni del bambino, validando e dando valore alle sue emozioni, ai suoi pensieri, per costruire con lui nuovi schemi con cui leggere la realtà. Il nome con cui si definisce nel quadro della Schema Therapy questo tipo di rapporto terapeutico è “Limited Reparentig”. L’immaginazione viene usata come mezzo per accedere alle situazioni dolorose dell’infanzia del paziente, il paziente ritorna bambino e rivive le esperienze che hanno determinato la formazione dei suoi Schemi Maladattivi, questa volta, però, in un contesto buono, sicuro, in cui le emozioni del bambino vengono finalmente riconosciute e validate e i bisogni soddisfatti. Nella relazione terapeutica, il terapeuta funziona da modello di adulto sano, si prende cura in modo amorevole del bambino del paziente, poi, pian piano nel corso della terapia l’adulto del paziente imparerà ad affiancare e poi a sostituire il terapeuta nell’importante compito di prendersi cura di sé.

La relazione terapeutica nella Transfer focused therapy di Otto Kernberg

Addentrandoci nel mondo psicodinamico, per la Transfer Focused Therapy sono centrali nella terapia proprio gli aspetti transferali e controtransferali che a volte vengono difensivamente sottovalutati o trascurati dal terapeuta e che rischiano invece poi di controllare l’andamento della seduta, soprattutto se connotati da aggressività.

Questo riflette la grande attenzione dell’approccio TFP per il qui ed ora: non voli pindarici di stampo analitico classico sulle esperienze infantili con genitori incompetenti, bensì osservazione e interpretazione sistematica di quello che accade in seduta tra terapeuta e paziente, e che di per sé riattiva la rappresentazione interna delle relazioni passate e il modo in cui queste si replicano nelle relazioni attuali.

Inoltre il terapeuta dovrà monitorare il fatto che non sempre vengono proiettati i vissuti negativi, con conseguente aggressività e svalutazione da parte del paziente; può anche succedere il contrario, ossia che il paziente proietti sul terapeuta il polo più positivo e idealizzato delle proprie relazioni oggettuali interne, con conseguente idealizzazione irrealistica del terapeuta e delle terapia, il che è altrettanto pericoloso, perché indebolisce la relazione terapeutica tanto quanto gli acting aggressivi.

Così come è fondamentale monitorare le componenti aggressive e le idealizzazioni che possono connotare il tranfert e il controtranfert, altrettanto importante è tenere in considerazione le componenti sessuali, spesso costituite da fantasie a sfondo erotico che il paziente può fare sul terapeuta, ma anche viceversa.

Durante il processo di assessment e trattamento, il terapeuta non deve trascurare di chiedersi quale sia il funzionamento sessuale del paziente, quanto tolleri l’intimità, come potrebbe funzionare se non fosse irretito da certe inibizioni e distorsioni caratteriali che interferiscono con la sfera intima e sessuale. Tutto questo partendo dal presupposto che siamo tutti esseri erotici, e quindi l’erotismo pervade inevitabilmente tutte le nostre relazioni, siano esse professionali, famigliari, affettive, sociali.

Partendo da questo presupposto, la disposizione erotica del paziente può fornire al clinico molte informazioni: nella sessualità normale affettività ed erotismo sono ben integrati e riflettono una rappresentazione positiva delle relazioni oggettuali. Al contrario relazioni oggettuali distorte possono portare a manifestazioni psicopatologiche di diverso grado: un esempio è dato dai pazienti sadomasochistici i quali, guidati da relazioni oggettuali caotiche, si ingaggiano in rapporti con partner umilianti e maltrattanti, spesso sfidando provocatoriamente anche il terapeuta in modo tale da portarlo a trattarli allo stesso modo.

Generalmente la strategia più utile è quella di potersi ricondurre sistematicamente ad un contratto ben definito e concordato che permette di fugare false convinzioni e aspettative magiche, ma soprattutto permette di pretendere un vero coinvolgimento del paziente nel lavoro terapeutico. In questo modo il contratto fornisce a paziente e terapeuta una comprensione comune del problema, definisce le reciproche responsabilità, permette al terapeuta di ragionare lucidamente e di interpretare eventuali deviazioni del paziente dagli accordi. Spesso infatti il contratto viene “testato” dai pazienti, sia nel tentativo di controllare il terapeuta sia allo scopo di valutare quanto e se il terapeuta “ci tiene davvero” al rispetto delle regole.
Le tecniche utilizzate sono l’utilizzo della consapevolezza del tranfert, un continuo processo interpretativo (chiarificazione, confrontazione, interpretazione, aumento della mentalizzazione) e l’analisi delle distorsioni relazionali.

In particolare la confrontazione consiste nel chiedere chiarimenti al paziente in merito ad eventuali contraddizioni tra la comunicazione verbale e quella non verbale; l’interpretazione ha invece come scopo quello di integrare aspetti dissociati dell’esperienza, sostituire le difese primitive, risolvere la diffusione dell’identità, promuovere la capacità di autoriflessione.

Bibliografia

  • Liotti G., & Monticelli F. (2014). Teoria e clinica dell’Alleanza Terapeutica. Una prospettiva cognitivo-evoluzionista, Cortina Editore, Milano
  • Safran, J.D, Segal, Z.V.(1990), Il processo interpersonale nella terapia cognitiva, trad.it. Feltrinelli, Milano, 1993
  • Bordin, E. S. (1979). The generalizability of the psychoanalytic concept of the working alliance. Psychotherapy: Theory, Research & Practice, 16(3), 252-260.
  • Dimaggio, G., Montano, A., Popolo, R., Salvatore, G. (2013). Terapia metacognitiva interpersonale. Raffello Cortina, Milano.
  • Dimaggio, G., Semerari, A. (2007). I disturbi di Personalità. Modelli e trattamento. Stati mentali, metarappresentazione, cicli interpersonali. Laterza, Bari.

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