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Perché cercare informazioni online sul nostro terapeuta? E se fosse lui a cercare noi? – Psicologia digitale

Cosa succede quando i pazienti cercano informazioni online di carattere personale sul proprio terapeuta? E quando è il terapeuta a farlo?

Di Chiara Cilardo

Pubblicato il 21 Giu. 2024

Paziente e terapeuta fuori dalla stanza di terapia

PSICOLOGIA DIGITALE – (Nr. 55) Perché cercare informazioni online sul nostro terapeuta? E se fosse lui a cercare noi?

Può capitare ovunque, in qualsiasi momento: siamo a fare la spesa, a cena con amici, a un appuntamento e succede. Succede che incrociamo per caso il nostro terapeuta. All’improvviso, ci rendiamo conto che è una persona proprio come noi, con una sua vita cui noi, evidentemente, non abbiamo né accesso né, in fondo, abbiamo mai pensato davvero. Non è solo un professionista che ci supporta, ma anche qualcuno con amici, partner, hobby, interessi. Dall’altra parte è più che plausibile che anche il terapeuta, vedendoci al di fuori del contesto della seduta, provi imbarazzo e un senso di straniamento. Noi potremmo sentirci vulnerabili, magari perché siamo in compagnia di persone che non sanno e che non vogliamo sappiano che siamo in terapia; il terapeuta potrebbe sentirsi a disagio perché a sua volta si sente esposto: è appunto una persona che vive la sua vita personale. E privata. Come potrebbe essere incontrarsi al di fuori delle sedute, in un altro contesto? E se quel contesto fosse digitale? Abbiamo tutti una presenza online sia professionale che privata. Siamo su LinkedIn in una certa veste, su Facebook, Instagram o su qualsiasi altro social in altre; potremmo avere un blog, tenere un podcast, un canale YouTube. Cosa accade se questi mondi si incrociano? Se vediamo i profili online, anche personali, del nostro terapeuta? E se avviene il contrario, se è il terapeuta a cercarci online? Oltre all’imbarazzo o al disagio, potrebbe influire sul rapporto terapeutico?

Il therapist-targeted googling (TTG): quando il paziente cerca informazioni online sul terapeuta

Nel therapist-targeted googling (TTG) sono i pazienti a cercare informazioni online sul loro terapeuta. Secondo un sondaggio condotto da Eichenberg e Sawyer (2016) viene fatto da oltre l’80% dei pazienti (e all’insaputa del professionista) allo scopo di capire se è quello giusto per loro, per pura curiosità e per conoscere meglio il terapeuta e sentirlo più vicino a loro.

Le informazioni disponibili online possono essere controllate solo in parte: contenuti pubblicati da amici, familiari, colleghi, personali o professionali, sono praticamente fuori dal nostro controllo. Quindi è davvero difficile avere una visione chiara e puntuale su ciò che online si trova su di noi. Il therapist-targeted googling ci dice qualcosa però anche sulla self disclosure, un argomento ampiamente dibattuto. Rivelare informazioni di sé ai pazienti può essere un atto intenzionale o casuale, implicito o meno. Per esempio, tenere in studio delle foto personali significa esporre volontariamente una parte di sé; diventa inevitabile, invece, in altre circostanze specifiche come in gravidanza, se si hanno tatuaggi, ecc. E online invece? Anche nel mondo digitale la self disclosure può avvenire in diversi modi come sito web, motori di ricerca, social network e, di nuovo, è solo parzialmente in controllo: sappiamo cosa pubblichiamo noi, quali impostazioni di condivisione e privacy utilizziamo, ma non sappiamo sempre e del tutto cosa gli altri pubblicheranno di noi (Cox et al., 2021). 

Il patient-targeted googling (PTG): quando lo psicologo cerca informazioni online sul paziente

Il patient-targeted googling (PTG) si riferisce alla pratica inversa: in questo caso è il terapeuta a cercare informazioni online sui propri pazienti per comprendere meglio il loro contesto di vita e le relazioni significative, per ragioni di sicurezza o anche semplice curiosità. Eichenberg e il suo team, tra i primi a indagare il fenomeno (2016), riportano in un sondaggio del 2016 che non è poi così diffuso: solo il 40% dei partecipanti ha dichiarato di aver cercato informazioni online sui pazienti e di averlo fatto solo per motivazioni inerenti la terapia. Emergono due questioni di particolare rilevanza: è etico cercare online informazioni sui propri pazienti? Se e come farlo incide sulla relazione terapeutica?

Consenso informato, coinvolgimento nelle decisioni terapeutiche e creazione di un ambiente sicuro sono tra i principi fondamentali della pratica clinica: ottenere informazioni per vie traverse e non consensuali non rispetta privacy e autodeterminazione dei pazienti (Cox et al., 2023). Oltre alla questione etica, va anche compreso se e come le informazioni ottenute possono essere integrate nel processo terapeutico e in che modo. Che fare se, per esempio, si viene a conoscenza di informazioni che un paziente non aveva intenzione di condividere? Quello di cui si viene a conoscenza va gestito in modo che sia a beneficio del paziente e della terapia, come sottolineato dall’APA (2016).

Come comportarsi se un paziente ci cerca e ci contatta online?

La relazione terapeutica è per definizione una relazione asimmetrica: solo il paziente condivide le proprie esperienze, mentre il terapeuta guida il processo; è proprio nella natura asimmetrica di questo tipo di rapporto che sta la sua funzione di contesto emotivo e relazionale in cui avviene il cambiamento. La gestione di questi confini spetta al professionista che, sulla base della propria esperienza, gestisce eventuali richieste di contatti extrasedute compresi quelli che possono avvenire sui canali digitali.
Tendenzialmente, sono gli approcci psicodinamici a essere più rigorosi nell’evitare self disclosure e contatti al di fuori delle sedute, mentre per altri orientamenti, se dosata adeguatamente, può rafforzare la relazione terapeutica (Cox et al., 2021). Sicuramente formazione e supervisione sono fondamentali per supportare i terapeuti nella gestione delle informazioni raccolte online in modo etico e rispettoso. All’inizio del rapporto terapeutico può essere utile definire insieme al paziente se, come e su quali canali poter entrare in comunicazione, valutando, per esempio, come gestire le richieste di contatto sui social. È importante far capire al paziente che è comprensibile essere curiosi e voler conoscere meglio il terapeuta e che questo può essere oggetto di confronto in seduta; anzi, può essere un elemento utile per esplorare insieme motivazioni, significati e aspettative.
Che un paziente possa cercarci online o che noi possiamo fare lo stesso è un’eventualità più che concreta, considerando quanto tempo passiamo online; riconoscere che può accadere e trovare il modo migliore di gestirlo può solo rafforzare la relazione e migliorarci come professionisti.

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