Comunicare con i messaggi vocali: limiti e risorse
Se vi chiedessimo di controllare sul vostro telefono l’App Whatsapp per vedere quanti messaggi vocali avete ricevuto oggi, rispondendo “almeno uno” rientrereste nel 30% delle persone che quotidianamente ascoltano voci o registrano pensieri da inviare a qualcuno (Ghaffary, 2023).
Rispetto ai messaggi scritti, chi li usa (e spesso ne abusa) sostiene che i vocali siano come il sale della comunicazione online, aggiungendo quel tocco emotivo che a volte manca nei testi. Li si usa spesso per esprimere meglio le proprie emozioni, ma anche per velocizzare il processo di comunicazione: molti preferiscono inviare un messaggio vocale piuttosto che scrivere un testo perché più rapido, richiede meno sforzo (anche se poi non permette di revisionare cosa si è detto prima di mandarlo). Forse, in un mondo che sembra sempre più incerto e isolato, ci si aggrappa a queste forme più intense di comunicazione per sentirsi più vicini: “quando le persone ascoltano qualcuno parlare invece di leggere quello che scrive, lo percepiscono come più autentico, ragionevole, emotivo” (Schroeder, 2017).
Dall’altro lato, però, spesso chi li riceve può sentirsi sopraffatto da una comunicazione unilaterale emotivamente più intensa di quella scritta; inoltre, a livello relazionale, inviare un vocale perché è più facile e non si ha tempo per scrivere può risultare estremamente invadente per chi lo riceve. Se tu non hai tempo per scrivere, perché io dovrei aver il tempo di ascoltare?
Croce e delizia delle nostre comunicazioni, i messaggi vocali sono infatti ormai diventati costume condiviso del nostro vivere sociale, intorno ai quali sta organizzandosi l’interesse della comunità scientifica, in particolare in ambito pedagogico e psicolinguistico. I messaggi vocali possono essere infatti realmente utili in certi casi, perché non tutte le lingue sono facili da scrivere; consentono così di restare in contatto con persone lontane con cui si può parlare più facilmente che comunicare per iscritto. Nel sondaggio riportato da Ghaffary (2023), su mille utenti, circa il 13% ha affermato di utilizzare la messaggistica vocale proprio per superare le barriere linguistiche. È stato dimostrato anche che questo tipo di messaggi può avere un impatto positivo sull’apprendimento delle abilità linguistiche in inglese (Aryanata et al., 2022). Sono stati rilevati contributi positivi nell’espressione orale, nella formazione scolastica, nella comunicazione tra insegnanti e studenti; però sono emersi anche problemi di connessione internet, ridotta partecipazione e difficoltà a valutare i compiti. Emery (2018) ha impiegato metodi di analisi conversazionale ed etnografici per realizzare una accurata classificazione dei messaggi vocali ed esplorare il loro potenziale in vista di future ricerche.
Background dell’indagine
Da sempre come gruppo di ricerca ci siamo interessati, fra le altre cose, di come le nuove tecnologie impattassero nell’attività clinica (Manfrida e Eisenberg 2007, Manfrida 2009, Manfrida e Albertini 2014, Manfrida Albertini e Eisenberg 2017, 2019, 2020).
Messaggi, mail, videochiamate, sono stati strumenti che hanno modificato il nostro setting, e come gruppo di ricerca ne abbiamo sempre sostenuto l’integrazione nella pratica clinica.
Come molti, abbiamo sperimentato che nella clinica psicoterapeutica sempre più pazienti stanno optando per inviare messaggi vocali ai loro terapeuti per comunicare in modo più espressivo. La giustificazione principale è risparmiare tempo e non dover digitare tutto il testo; ma sappiamo che i vocali sono pieni di frasi ripetute, divagazioni, esitazioni e commenti personali, tanto che a volte ci vuole più tempo per preparare un messaggio vocale che scrivere un testo. Inoltre nel nostro lavoro la privacy è una costante preoccupazione, e spesso i terapeuti rimandano l’ascolto di messaggi alla possibilità di farlo con l’uso di auricolari o in luoghi isolati.
Ma quindi perché la gente continua a usarli? Qual è il loro ruolo nella terapia? E come reagiscono i terapeuti di fronte a questa nuova modalità comunicativa?
Per rispondere a queste domande, abbiamo strutturato un’indagine chiedendo a vari terapeuti la loro opinione sull’uso dei messaggi vocali nella pratica clinica. Il lavoro è in fase di pubblicazione, ma presentiamo qui i primi risultati.
Risultati
All’indagine hanno risposto 233 colleghi, compilando un questionario semistrutturato da noi appositamente creato e diffuso attraverso contatti diretti, invii mail, social. Di questi l’87% sono donne. Sono nella quasi totalità (97%) psicologi, e oltre il 70% di loro ha una specializzazione in psicoterapia.
Più della metà del nostro campione (60%) ritiene di ricevere messaggi vocali spessissimo o spesso, e risponde in prevalenza (79,1%) con messaggi scritti, anche se il 12,4% ricorre anch’esso a vocali. Qualcuno telefona, pochi altri non rispondono affatto.
Riguardo alle funzioni dei messaggi vocali, il 38,2% dei partecipanti li vede come comunicazioni pratiche, come appuntamenti o conferme, mentre altri li considerano principalmente come sfogo emotivo. Alcuni li collegano alle terapie in corso, emergenze reali o al desiderio di un rapporto più stretto con il terapeuta.
Gli intervistati dichiarano una varietà di effetti quando ricevono un messaggio vocale, con un richiamo alla responsabilità di ascolto, ma anche con segni di insofferenza verso questo metodo comunicativo.
Quando abbiamo chiesto secondo gli intervistati se ci fosse una tipologia di personalità riferibile ai pazienti che utilizzano principalmente i messaggi vocali, solo il 50% del campione risponde, e solo due terzi di loro forniscono una risposta definita. Molti sono incerti sulla diagnosi, ma c’è un’associazione comune con i disturbi d’ansia, che spingono verso una relazione più diretta con il terapeuta tramite messaggi vocali.
Alcuni colleghi nelle loro risposte identificano i pazienti giovani come quelli maggiormente inclini all’utilizzo di messaggi vocali.
Nel definire regole sull’uso dei messaggi vocali all’inizio della terapia, solo il 17% dei terapeuti lo fa. La maggior parte di questi impone limiti sulle modalità di comunicazione (vocale, testuale, telefonica), mentre altri limitano la durata dei messaggi o considerano l’urgenza effettiva.
Sebbene non siano amati da chiunque, è innegabile che i messaggi vocali appartengono alle prassi relazionali comuni, ed è quindi necessario che ciascuno psicologo o psicoterapeuta conosca limiti e risorse di questo nuovo strumento per integrarlo nel setting, come già avvenuto con tutti gli altri strumenti di comunicazione. Già Sigmund Freud comunicava con i suoi pazienti attraverso messaggi scritti che inviava attraverso giovani garzoni disponibili a consegnarli attraverso la città di Vienna; come tutte le altre forme di strumenti di comunicazione, anche i vocali aiuteranno a “distinguere quanto vi sia di sacro e di profano nel nostro modo di operare” (Strumia, 2014).