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Cos’è la self-disclosure del terapeuta

La self-disclosure del terapeuta, normalizzando le esperienze del paziente e umanizzando il terapeuta, sembra aumentare l'efficacia del trattamento

Di Micol Agradi

Pubblicato il 29 Mag. 2023

Aggiornato il 01 Giu. 2023 11:41

Oltre il 90% degli psicoterapeuti fa uso delle self-disclosure in psicoterapia: il 40% di loro riferisce di rivelare dettagli relativi a stress personali e il 74% ritiene che farlo sia eticamente appropriato e clinicamente efficace, a meno di rare condizioni.

 

 La self-disclosure in psicoterapia è la rivelazione verbale intenzionale di ciò che il terapeuta sta pensando o sentendo nel presente o di ciò che egli ha personalmente vissuto nel passato (Knox e Hill, 2003). Anche se informazioni non verbali come il setting dello studio e l’atteggiamento comunicativo e corporeo del terapeuta sono parti di sé che vengono svelate, quando si parla di self-disclosure in psicoterapia si fa riferimento a due principali categorie:

  • Auto-rivelazioni immediate o in vivo, che rivelano qualcosa su come il terapeuta sta percependo il qui ed ora della situazione terapeutica (sentimenti o pensieri sul paziente o sulla relazione);
  • Auto-rivelazioni biografiche, che rivelano qualcosa sulla vita personale del terapeuta al di fuori della terapia (ricordi di infanzia, condizioni di salute, gusti, preferenze).

Il tema della self-disclosure del terapeuta è sempre stato controverso, specie in ambiente psicoanalitico: secondo Freud (1912), il terapeuta doveva essere uno “schermo opaco impenetrabile” capace di mantenere l’asimmetria epistemica tra sé e il paziente (Mitchell e Black, 1995). Le scuole psicodinamiche, invece, addolcirono questa posizione, ammettendo la soggettività e la storia personale del terapeuta come parte ineliminabile della terapia (Aron, 1996). Da sempre gli psicoterapeuti umanistico-rogersiani sostengono che la self-disclosure ha un grande potenziale terapeutico, garantendo un atteggiamento genuino e congruente da parte del professionista (Yalom, 2003). Anche nella terapia cognitivo-comportamentale le auto-rivelazioni del terapeuta sono preziose per facilitare interventi emotivamente intensi, come l’esposizione agli stimoli temuti (Goldfried, Burckell e Eubanks-Carter, 2003).

Fino a che punto spingersi? “Ci sono passato anche io, ma tanto tempo fa”

Studi empirici indicano che oltre il 90% degli psicoterapeuti fa uso delle self-disclosure in psicoterapia (Henretty e Levitt, 2010). Il 40% di loro riferisce di rivelare dettagli relativi a stress personali e il 74% ritiene che farlo sia eticamente appropriato e clinicamente efficace, a meno di rare condizioni (Borys e Pope, 1989).

In effetti, alcune ricerche sostengono che le rivelazioni del terapeuta che indicano somiglianza con i pazienti, normalizzando le esperienze di questi ultimi e umanizzando il terapeuta, aumentano l’efficacia del trattamento (Audet, 2011). Addirittura, alcuni studi ritengono che i terapeuti che hanno sperimentato personalmente problemi psicologici sarebbero qualificati in modo preferenziale per aiutare pazienti con problemi simili e, in questo senso, sono invitati a condividere la loro storia personale a fine terapeutico. Zerubavel e Wright (2012) hanno esplorato questa idea nel contesto dell’etichetta di “guaritore ferito”: presupponendo che i guaritori feriti differiscono dai professionisti compromessi (in quanto i loro problemi attualmente non ne impediscono l’efficacia terapeutica), i primi dovrebbero prendere in considerazione la divulgazione della propria storia di salute mentale per ispirare la guarigione del paziente e incoraggiarlo a condividere il proprio materiale difficile.

 In effetti, la domanda su cui si concentra l’attuale attenzione clinica non è tanto categoriale, chiedendosi se i terapeuti dovrebbero rivelare i propri problemi psicologici o meno; essa è più dimensionale e si interroga su fino a che punto i terapeuti dovrebbero spingersi nell’auto-rivelazione. Considerando che la presenza della self-disclosure del terapeuta è generalmente preferita alla sua assenza, lo studio di McCormic, Pomerantz, Ro e Segrist (2019) ha provato che solo un livello moderato di self-disclosure tende a produrre valutazioni più favorevoli da parte dei pazienti; diversamente, nessuna auto-rivelazione o livelli estremi o lievi di condivisione di sé finiscono per stimolare percezioni imprevedibili, positive o meno, da parte dei pazienti (Gelso e Palma, 2011).

Nel tentativo di delineare i criteri elettivi attraverso cui i terapeuti possano condividere parti di sé in una misura adeguata e utile all’efficacia terapeutica, Moody e colleghi (2021) hanno ipotizzato che la variabile temporale possa essere un ottimo parametro per calibrare se e quanto condividersi con il paziente. Di fatto, solo i terapeuti che avevano utilizzato self-disclosure su eventi passati (e non attuali) della propria storia personale avevano ottenuto maggiore apprezzamento da parte dei pazienti. In questo senso, l’idea che il terapeuta si riveli affidandosi più ad espressioni come “anche io, molto tempo fa”, piuttosto che a frasi come “anche io, di recente”, potrebbe avere un impatto più positivo sul paziente.

Alcune raccomandazioni utili per i professionisti

Alla luce di quanto considerato, Hill e colleghi (2018) hanno proposto alcuni consigli pratici utili ai professionisti per calibrare le self-disclosure in terapia:

  • Essere cauti, ponderati e strategici nel loro utilizzo, avendo in mente l’obiettivo per cui le si utilizza;
  • Valutare come il paziente potrebbe rispondere e se è probabile che l’auto-rivelazione lo aiuti;
  • Assicurarsi che la relazione terapeutica sia forte prima dell’intervento;
  • Divulgare materiale personale in modo sintetico, con pochi dettagli e relativamente a temi risolti;
  • Rendere l’auto-rivelazione rilevante per il materiale del paziente, riportando l’attenzione su di lui una volta concluso l’intervento;
  • Osservare la reazione del paziente e valutare di conseguenza l’efficacia della self-disclosure.
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