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L’autorivelazione (self-disclosure) come strumento di lavoro del professionista sanitario

L’uso dell’autorivelazione come intervento clinico e terapeutico deve essere guidato, oltre che dalle indicazioni tecniche, dal sentire del professionista

Di Astrid Giordano

Pubblicato il 28 Lug. 2021

L’autorivelazione può essere uno strumento efficace nelle mani del sanitario per abbattere le difese dietro le quali spesso i pazienti si barricano nella convinzione che nessuno possa davvero comprendere il loro stato d’animo.

 

L’autorivelazione, più comunemente conosciuta come self-disclosure, è una tecnica attraverso la quale il medico o il professionista che opera nell’ambito delle professioni d’aiuto rivela, in modo cosciente e intenzionale, una propria esperienza personale al paziente.

Tale intervento, per essere efficace e utile, deve rispondere ad alcuni criteri:

  • l’esperienza che il sanitario propone deve essere simile o uguale (nei fatti e sul piano delle emozioni che evoca) a quella vissuta dal paziente, per dare vita ad una relazione autenticamente empatica;
  • l’autorivelazione può essere utilizzata esclusivamente in una fase in cui la relazione d’aiuto ha raggiunto un’intensità emozionale elevata e mai quindi all’inizio di un colloquio;
  • è importante che essa sia una scelta deliberata e consapevole del professionista (Ardis, Marcucci, 2013).

L’utilizzo dell’autorivelazione, come intervento clinico e terapeutico, deve essere guidato, – oltre che dalle indicazioni di carattere tecnico – dal “sentire” del professionista che diventa la bussola principale per muoversi in questa particolare dinamica. In questo mare di intrecci relazionali e comunicativi, risulta fondamentale la valutazione del bisogno del paziente che si ha difronte. È davvero un suo bisogno quello di creare quella profonda sintonizzazione emotiva con il clinico che consegue all’intervento dell’autorivelazione? Oppure, il bisogno di esprimere e condividere un’esperienza personale è piuttosto un bisogno del professionista?

Vediamo di seguito quali sono le condizioni in cui tale intervento può risultare più o meno valido ed efficace.

Autorivelazione: condizioni di rischio

Processi come quello dell’autorivelazione possono essere utilizzati in modo inconsapevole dal curante per rispondere al proprio bisogno di condivisione, di rassicurazione, o per rendere più facile e immediato l’accesso al mondo del paziente. Infatti, lo svelare elementi della propria storia personale, nella maggior parte dei casi, predispone immediatamente l’altro (il paziente nel caso specifico) al dialogo e all’apertura conducendolo in modo speculare allo svelamento di sé. In tali condizioni, è evidente che l’intervento dell’autorivelazione non risulta essere tanto un bisogno del paziente quanto piuttosto del professionista, che può così condividere un’esperienza dolorosa e “utilizzarla” come catalizzatore della relazione con l’individuo malato senza però valutare gli effetti e le conseguenze su quest’ultimo. Ad esempio, ci si deve chiedere se e quanto chi si ha difronte sia in grado di “reggere” la sofferenza trasmessa dal racconto che gli viene offerto oltre a quella personale che già sta sperimentando. In caso contrario, la rivelazione dell’esperienza del medico/sanitario risulterà un peso ulteriore ed eccessivo che renderà, all’opposto di quanto previsto, la relazione densa di significati spiacevoli per il paziente. Infine, è importante valutare se l’abbattimento dei confini personali, insito nell’intervento dell’autorivelazione, possa essere o meno utile all’individuo che stiamo trattando e non rischi piuttosto di togliere credibilità al professionista che si sarà reso così emotivamente vulnerabile. Come sappiamo, infatti, determinati tipi di pazienti, in base a precise caratteristiche di personalità, hanno bisogno – per potersi affidare a lui – di percepire il professionista come solido e forte in grado di accogliere e contenere le proprie angosce.

Condizioni favorevoli

Escluse condizioni come quelle appena descritte, l’autorivelazione può essere uno strumento efficace nelle mani del sanitario per abbattere le difese dietro le quali spesso i pazienti si barricano nella convinzione che nessuno possa davvero comprendere il loro stato d’animo. Il racconto, da parte del professionista, di un’esperienza simile o uguale a quella del paziente, fa sentire quest’ultimo sicuramente maggiormente compreso ma altresì gli consente di esprimere dubbi e paure nella convinzione che chi ascolta possa davvero offrirgli indicazioni e consigli utili alla sua situazione. In tal caso, l’autorivelazione può migliorare il rapporto terapeutico, consentendo un’esclusiva sintonizzazione emotiva, e favorire la compliance terapeutica. Come spesso si osserva nelle professioni d’aiuto, infatti, nelle situazioni in cui risulta difficile istaurare una relazione improntata sulla fiducia, il paziente mette in atto resistenze e comportamenti che vanno contro la buona riuscita dell’intervento (del medico, del fisioterapista o di qualunque altra figura in ambito sanitario). L’instaurarsi di una relazione positiva può aumentare l’aderenza ai trattamenti migliorando a sua volta la percezione che si ha delle cure ricevute. Alcuni pazienti, quindi, possono beneficiare di un intervento come l’autorivelazione poiché consente loro di percepire il sanitario come una figura più “umana” e quindi maggiormente in grado di aiutarlo.

Un’esperienza tratta da un caso di supervisione

Una fisioterapista di un Centro Clinico di Senologia, che nel rispetto della privacy chiameremo Rosa, partecipa ad un incontro di supervisione clinica portando come oggetto di discussione le sue difficoltà nella gestione del legame affettivo che lei stessa tende a creare con le pazienti affette da cancro al seno che afferiscono al suo ambulatorio. Rosa racconta di instaurare con le pazienti un particolare legame confidenziale che a suo parere le aiuta a fidarsi, facilita la presa in carico e migliora il loro stato emotivo nei confronti della malattia. In questa dinamica relazionale si inserisce la condivisione da parte di Rosa di una sua esperienza personale, ovvero una malattia simile vissuta dalla sorella, poi deceduta. Il racconto di questa esperienza, secondo Rosa, fa in modo che le pazienti si sentano comprese e abbassino le difese con ripercussioni positive sul percorso di riabilitazione. Tuttavia, il carico emotivo che la natura di questi rapporti implica è diventato insostenibile per Rosa soprattutto in questo momento di vita in cui allo stress del lavoro si sommano problemi di natura strettamente personale. Affrontiamo quindi insieme le possibili motivazioni che la spingono a ricercare attivamente questo tipo di dinamica, portando se stessa al limite delle energie psichiche e talvolta sottoponendosi a situazioni troppo pesanti (come, ad esempio, telefonate al di fuori dell’orario di lavoro o richieste che esulano dalle sue competenze professionali) pur di gratificare il bisogno delle pazienti. Ma qual è la funzione o, in altre parole, il “vantaggio secondario” di questo atteggiamento per Rosa? Quale bisogno viene davvero soddisfatto? Dai suoi racconti emergono vissuti di un lutto ancora difficile da risolvere, vissuti di impotenza, originariamente sperimentati nei confronti della sorella, che ora si riattivano e cercano una risoluzione nei suoi tentativi di “salvare” a tutti i costi le sue pazienti o quantomeno alleviare la loro sofferenza emotiva attraverso la condivisione dei suoi racconti. Rosa sente di “non aver fatto abbastanza” per la sorella e questo vissuto del passato, che ritorna nel qui e ora, la spinge alla ricerca inesorabile di una cura per la sua sofferenza. Parlare infatti, non è solo “dire” ma è anche “fare” poiché qualsiasi cosa venga “detta”, essa è sempre anche qualcosa che viene “fatta” a qualcuno (Ponsi, 1994). Nel suo curare l’altro Rosa cura sé stessa; ogni qualvolta rivive nel suo racconto la morte della sorella, percorre un piccolo passo nell’elaborazione di quel dolore inafferrabile. Allo stesso tempo, dunque, con la rivelazione di sé, cura e si lascia curare.

In seguito a quanto descritto nei primi paragrafi di questo articolo, viene spontaneo riflettere sulla reale utilità dell’intervento di Rosa. Probabilmente questa valutazione non è da farsi sul beneficio immediato che il paziente può trarre da una tale esperienza di condivisione ma, piuttosto, è necessario avviare una riflessione in termini simbolici per comprendere il significato che può assumere nel tempo e nello specifico contesto in cui si opera. Tuttavia, nonostante le implicazioni più o meno positive che conseguono ad un eccessivo coinvolgimento del professionista sanitario, siamo anche consapevoli che la sua soggettività entra in gioco inevitabilmente nella relazione con il paziente. In questo caso si tratta di una rivelazione di sé non intenzionale, e talvolta inconsapevole, che deve essere messa in conto come parte essenziale del processo terapeutico.

La self-disclosure nelle professioni psicologiche

Un discorso a parte è quello che riguarda le professioni di carattere psicologico come la psicoterapia o la psicoanalisi. In questo ambito il tema dell’autorivelazione si lega ai temi del transfert e controtransfert che occupano da sempre il dibattito tra i professionisti. Nel tempo il panorama su questi temi si è notevolmente esteso a partire dai principi di derivazione freudiana sulla neutralità del terapeuta, per includere una prospettiva intersoggettiva che ha preso sempre più in considerazione la sua soggettività. Già il tema del controtransfert aveva aperto la strada all’idea che la personalità del terapeuta fosse un elemento ineliminabile all’interno del setting terapeutico e che, talvolta, essa si esprimesse attraverso agiti inconsapevoli messi in atto in risposta al transfert del paziente (Tricoli, 2001). Si potrebbe dire che “in un’ottica relazionale è molto semplice sostenere che analista e paziente sono alla pari come soggetti che si incontrano nel rapporto analitico, ma non lo sono in relazione al ruolo che svolgono” (Tricoli, 2001, pg 6).

In ambito psicoanalitico la self-disclosure ha assunto nel tempo diversi significati indicando in linea generale una moltitudine di comportamenti auto-rivelatori dell’analista. Con l’avvento dell’approccio relazionale si è iniziato a distinguere la self-revelation (Levenson, 1996), ovvero l’inevitabile e non intenzionale svelamento del terapeuta attraverso i suoi comportamenti, il suo aspetto o l’aspetto dello studio, dalla self-disclosure che è invece la scelta consapevole di comunicare al paziente informazioni di natura personale. Tuttavia, nel processo psicoterapeutico, la self-disclosure riguarda l’esperienza interiore dell’analista (piuttosto che informazioni di carattere strettamente personale) suscitata dalle modalità relazionali messe in atto dal paziente affinché egli stesso raggiunga una maggiore consapevolezza.

 

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Astrid Giordano
Astrid Giordano

Psicologa Psicoterapeuta Psicodinamica

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Ardis, S., Marcucci, M. (2013). La comunicazione sanitario-paziente. Aonia Edizioni.
  • Levenson, E. (1996). Aspects of self-revelation and self-disclosure. Contemporary Psychoanal., vol. 32, n. 2, pp. 237-248.
  • Ponsi, M. (1997). Interaction and transference. International Journal of Psycho-Analysis, 78, 243-263.
  • Tricoli, M.L. (2001). Dal controtransfert alla self-disclosure: la scoperta della soggettività dell’analista. Ricerca Psicoanalitica, Anno XII, n. 3, pp. 229-245.
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