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La precarieta’: una Nuova Nevrosi?

Crisi e precarieta' …Vocaboli che incutono angoscia, spengono sorrisi, speranze e che troppo spesso paralizzano, demotivano.

Di Roberta De Martino

Pubblicato il 07 Nov. 2012

Aggiornato il 18 Mar. 2013 17:04

 

La precarietà- nuova nevrosi?. - Immagine: © Antonio Gravante - Fotolia.com Crisi e precarieta’ … sono queste le parole più usate e, verrebbe da dire, abusate in questi ultimi tempi. Vocaboli che incutono angoscia, spengono sorrisi, speranze e che troppo spesso paralizzano, demotivano.

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Come bene evidenziato da Michael Benasayang e Gèrard Schmit nel testo “L’epoca delle passioni tristi”, sembra che in questi anni si sia passati da un “futuro-promessa” a un “futuro-minaccia”, eppure “le diverse istituzioni deputate a educare, a trasmettere e a curare ciò che va male agiscono come se non ci fosse nessuna crisi, come se ci fossero solo delle difficoltà da superare, con l’aiuto della tecnica e un po’ di buona volontà”. Ed è proprio questa “disattenzione istituzionale” che, a mio avviso, rende il precario ancora più vittima della sua precarieta’.

La crisi economica in cui versa il nostro Paese, per quanto terribile ciò possa apparirci, non passerà rapidamente e molto probabilmente trasformerà del tutto il nostro tessuto sociale. E allora che fare? Utile forse sarebbe uscire dal circolo vizioso della sterile lamentela, in cui facile è cadere soprattutto per le giovani generazioni, per cercare di intravedere nella precarieta’ delle possibilità.

Precario il Lavoro, Stabile l'Ansia - Il Ritratto Psicologico di una Generazione. - Immagine: © nuvolanevicata - Fotolia.com
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Non è questo un invito a un ottimismo insensato e sconclusionato, ma è un appello alla riflessione.

Quando penso all’etichetta di “precario”, penso alle etichette con cui sovente i pazienti si rivolgono a noi psicologi: “depresso”, “ansioso”, “anoressico”, “bulimico” ecc. Questi alcuni degli epiteti con cui i pazienti si presentano al clinico, nella speranza che quell’esemplificativa classificazione funga da viatico per una rapida “guarigione”.  Che significa essere un “depresso”? Che significa essere “ansioso”?  Non è senz’altro un’etichetta che ci aiuta a comprendere la storia di un individuo, a cogliere la sua unicità, la sua complessità, piuttosto, il suo utilizzo può essere alquanto invalidante perché rischia di appiattire il nostro sguardo non facendoci afferrare, con curiosità, la singolarità di quella persona. 

E con l’etichetta di “precario” come siamo messi? Non è che anche l’utilizzo di quest’ultima rischia di portarci verso punti ciechi che non ci fanno intravedere possibili sviluppi? 

In molti sono ad esempio i giovani che oggi, di fronte alla disastrosa condizione economica in cui versiamo, gettano la spugna. “E’ in crescita un fenomeno allarmante: nel 2009, segnala l’Istat, poco più di due milioni di giovani, ossia il 21,2 per cento degli under 29, risulta fuori dal circuito formazione-lavoro: in pratica non studia e non lavora. È il fenomeno chiamato ‘Neet’, ossia ‘Not in education, employment or training’, che si arricchisce di anno in anno con la progressiva uscita dei giovani dal mercato del lavoro. Tra il 2008 e il 2009 i giovani tra i 20 e i 24 anni classificabili come ‘Neet’ sono aumentati del 13 per cento, e nel sud sono il 30,3%.” I “neet” sono dunque giovani che sembrano slacciarsi da un sogno, da un’aspirazione, dall’idea del domani.

Diversa nella forma ma non nella sostanza è poi la situazione di quei giovani “iperspecializzati” che, impegnati in una formazione perenne, svolgono lavori sottopagati e gratuiti. Costoro, sconfortati e avviliti, rischiano di dimenticare chi sono, il percorso formativo e professionale che hanno intrapreso e da quale storia provengono, proprio come succede al paziente che si definisce “depresso” nello studio del clinico.

Altro aspetto della faccenda è poi quel “voglio tornare come prima”, espressione con cui spesso il paziente condisce i colloqui psicologici e che mi sembra caratterizzi, purtroppo, anche lo sguardo con cui il precario guarda il suo presente, nel costante desiderio di rivivere un passato che non c’è più. Insomma il precario rischia, proprio come farebbe un paziente nevrotico, di andarsene in giro con la sua bella etichetta, lamentandosi del suo sintomo con la sterile speranza che alla fine le cose tornino “come prima”. 

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Perché invece non utilizzare anche in questo caso la crisi come un’occasione di cambiamento, di rinnovamento, di crescita? Il precario, proprio come il paziente designato, fa il sintomo e si fa portavoce di un malessere che ha origini ben più allargate, ben più lontane, in sistemi di convivenza che sono probabilmente falliti. Come suggerisce Franco Del Moro nel testo “Riposare nel cuore della tempesta” “Non possiamo capire le ragioni del disagio che è in noi se nel contempo non ci occupiamo anche del disagio che è intorno a noi e lontano da noi … le soluzioni, siano esse corali o individuali, agiscono in un punto preciso dello spazio, ma la loro eco arriva a tutti i livelli”.

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche
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E’ certo, però, che i sistemi di convivenza sono senz’altro co-costruiti: ognuno ha la propria responsabilità in questa disfatta. Ho, però, l’impressione che il precario, come farebbe un qualsiasi nevrotico, sta cercando di far fronte alla sua problematicità proprio come l’ubriaco protagonista della famosa storiella narrata da Watzlawick: “Sotto un lampione c’è un ubriaco che sta cercando qualcosa. Si avvicina un poliziotto e gli chiede che cosa ha perduto. “La mia chiave”, risponde l’uomo, e si mettono a cercare tutti e due. Dopo aver guardato a lungo, il poliziotto gli chiede se è proprio sicuro di averla persa lì. L’altro risponde: “No, non qui, là dietro; solo che là è troppo buio”.

Temo, dunque, che il precario, come il nevrotico, afflitto dal suo problema, stia cercando di raggiungere una soluzione là dove è sicuro di non trovarla e che stia effettuando le sue ricerche sempre nello stesso modo.

E se invece conducessimo il precario, ubriaco della sua problematicità, a sperimentare metodi alternativi ed efficaci di ricerca, non facendogli dimenticare quante risorse ha a disposizione per fronteggiare la sua situazione? 

Tempo fa, intervistata dalla giornalista Rai Isabella Mezza, mi trovai a definire il precario come un funambolo che, costretto a camminare su un filo nel vuoto, in continua tensione e alla ricerca sempre di nuovi equilibri, allena muscoli che non tutti sanno utilizzare. Il precario, come il funambolo, è nel vuoto ma non vi casca perché sa camminare su un filo e (cavolo!) questo non è da tutti!

 Iniziare a fare luce proprio su risorse e possibilità potrebbe indurre il precario a circoscrivere la sua insicurezza e a cercare nuovi percorsi da intraprendere ed è questa, a mio avviso, anche una responsabilità sociale dello psicologo.

Come ? Attraverso l’attivazione di spazi condivisi di riflessione su tale controversa questione che, se ignorata e trattata solo per gli evidenti e scontati aspetti di negatività, rischia davvero di diventare (se già ciò non è accaduto) una nuova grave forma di disagio psicologico e sociale.

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BIBLIOGRAFIA:

 

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Roberta De Martino
Roberta De Martino

Psicologa - Spec. in Psicoterapia Sistemico-Relazionale

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