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Il pensiero mafioso

Il mafioso prova un forte senso di appartenenza ad un gruppo ampio, coeso, con una forte identità sociale e si identifica con i suoi simboli, metodi e riti.

Di Paolo Soraci

Pubblicato il 06 Mar. 2020

Psicologia, psichiatria e pensiero mafioso hanno avuto, fino ai primi anni ’90, pochi punti di contatto. Solo recentemente si è indagato sulle peculiarità del pensiero criminale organizzato e su tutto quello che circonda questo mondo.

 

La cultura mafiosa ha sempre avuto la capacità di nascondersi, mimetizzarsi all’interno delle realtà civili ed istituzionali nelle quali si è trovata ad operare, determinando una cortina di silenzio ufficiale che la rendesse invisibile. Una prima precisazione: nei nostri studi parliamo di cultura mafiosa o pensiero mafioso come una modalità distorta di vivere la propria identità ed i rapporti con il sociale tipici dell’organizzazione criminale mafiosa. (Lo Coco, Lo Verso, 2012)

Il pensiero principale, che distingue i membri di un’associazione criminale organizzata, come la Mafia, e i criminali comuni, è sicuramente il senso di appartenenza all’associazione stessa, connesso ad un forte senso di essere un “Uomo D’onore”. Come specifica il Prof. Lo Verso:

Abbiamo sostenuto che Cosa Nostra non è soltanto un’organizzazione criminale, nel senso che la sua caratteristica più specifica è il tipo d’identità del soggetto mafioso: nessun mafioso si definirà mai come un criminale, ma sempre come uomo d’onore.

Possiamo quindi capire, in una prima analisi, che il senso di appartenenza ad un gruppo ampio, coeso, con una forte identità sociale, spinge i membri ad identificarsi fortemente con il gruppo stesso, con la sua simbologia, con i suoi metodi e con i suoi riti.

Questo non ci deve sorprendere in quanto gli studi e le pubblicazioni di molti psicologici sociali hanno esaminato ed interpretato le funzionalità e le disfunzionalità dei gruppi, come il conformismo normativo, l’identificazione dei ruoli, etc.

Attraverso quale percorso si diventa uomo d’onore? In molte ricerche abbiamo notato come questi soggetti provengono, nella stragrande maggioranza dei casi, da famiglie in cui i valori tipici del pensiero mafioso sono presenti e proposti come matrice unica di significazione degli eventi. Un mondo anatropo-psichico in cui vengono esaltati i valori maschili della forza, del coraggio, dell’onore, della virilità, della freddezza, di contro al mondo degli “sbirri”, dei poliziotti, dei giudici, delle forze dell’ordine in generale. Questa rappresentazione interna di un mondo buono formato da uomini “rispettabili” ed uno esterno malvagio è caratteristica fondante del pensiero mafioso. (Lo Coco, Lo Verso, 2012)

Naturalmente questo si va a sommare ad una cultura che si tramanda di padre in figlio, nonché dall’influenza sociale oltre che informativa, nonché forti strumenti di persuasione sia dei pari, sia della famiglia, sia appunto della società stessa. Va sottolineata quindi anche una forma di conformismo e di obbedienza alle figure autoritarie di riferimento, in cui

l’Io individuale è pienamente coincidente con il Noi sovra-personale e trans-personale. Il soggetto non può essere diverso, altro, dal mondo che lo ha concepito psichicamente,

Già in questa definizione abbiamo presente l’orizzonte culturale, antropologico e psichico tipico di questa realtà, che la caratterizza come una modalità di pensiero specifica. Il nostro modello teorico, quello della gruppo-analisi soggettuale italiana (Lo Verso G. , 1994), ci ha in questo permesso di indagare questa realtà a partire dall’attenzione al legame che esiste tra mondo psichico (cosciente ed inconscio) del soggetto, famiglia antropologica e dimensione sociale.

Per l’identità mafiosa l’alternativa è tra l’angoscia di essere nessuno ed un’esaltazione onnipotente del proprio Sé data dall’appartenenza alla famiglia mafiosa. (Lo Coco, Lo Verso, 2012)

Diversi studi, soprattutto del Prof. Lo Verso e colleghi, hanno delineato che, DSM alla mano, il disturbo che più si avvicina al comportamento mafioso è quello antisociale di personalità (APA, DSM IV, 1996).

In questo caso abbiamo a che fare con persone ad alti livelli di funzionamento, con un’integrazione dell’identità, esame di realtà e utilizzo di difese mature, che giustificano una diagnosi di psicopatia ad alto livello. (Lo Verso, Lo Coco, 2012)

Come sottolinea Bursten (1973), la personalità tipica del mafioso è organizzata in modo tale da avere a tutti i costi potere su le altre persone o comunque un alto grado di manipolazione. Si aggiunge a questo, una mancanza di riconoscimento della persona altrui, considerata il più delle volte di “basso valore”, alla stregua di strumenti da poter utilizzare quando si necessita di loro. Inoltre, si evince dagli studi che il senso di colpa o di coscienza morale è pressoché nullo, in quanto il bisogno di ridurre la propria dissonanza cognitiva è ampiamente giustificata da forti motivazioni interne ed esterne, nonché da un distorto senso di cosa è “giusto” o “sbagliato” in una comunità civile che abbraccia valori pressoché sani, ma al contrario si basa su influenze normative cariche di elementi disfunzionali, rispetto alla gente comune ed al senso civico (Lo Verso, Lo Coco, 2012).

L’uomo d’onore si rappresenta come un essere speciale, addirittura a volte come Dio stesso, perché lui può esercitare il potere di vita o di morte sulle persone normali. Niente è più temibile del non essere considerato, dell’essere “nuddo ammiscato cu’ nente” (nessuno mischiato con niente).

Possiamo quindi ben capire che il pensiero Mafioso, ma più generalmente di coloro appartenenti a gruppi “fondamentalisti”, viaggi su binari ben definiti e certamente disfunzionali. Difatti, facendo riferimento agli studi di Lo Verso e Lo Coco e colleghi:

Nelle nostre ricerche molto lavoro è stato fatto proprio per riconoscere una specificità “etnica” a questo tipo di personalità, a partire da alcuni dati antropologici presenti nelle culture mediterranee (Fiore, 1997; Lo Verso, 1998; Lo Coco, Lo Verso, 1998). L’elemento che forse è più difficile da inglobare nelle nostre classificazioni psicologiche e psichiatriche è quello legato al fondamentalismo del pensiero: di fronte ad una psicopatologia ufficiale della personalità centrata sul deficit (di strutture, di relazioni, di apprendimenti), la personalità dell’uomo d’onore si mostra come una patologia, da una rigidità di strutture (di pensiero, di affetti) e da un’intensità tale da divenire disturbante. Come in tutte le culture fondamentaliste, nella mafia non c’è possibilità di pensiero dell’Altro, la propria identità è strutturata su un modello relazionale che non può essere messo in discussione, pena la morte simbolica e psichica (forse anche fisica). Questo peso intenzionate e mortifero della famiglia (Pontalti, 2000) di appartenenza rimanda ovviamente ad una concezione della psicopatologia a vertice dinamico e relazionale, che grazie all’analisi delle vicissitudini, consce ed inconsce, della costruzione del Sé individuale all’interno di una rigida matrice familiare ci permette di comprendere la specificità delle problematiche legate al mondo mafioso. (Lo Coco, Lo Verso, 2012)

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • American Psychiatric Assiciation (1996), Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbi Mentali (DSM IV), Masson, Milano.
  • Bursten B. (1973), The manipulator. A psychoanalytic view, Yale University Press, New Haven.
  • Fiore I. (1997), Le radici inconsce dello psichismo mafioso, Franco Angeli, Milano.
  • Lo Coco G. (1998), Famiglia e crisi del pensiero familiare nello psichismo mafioso, Terapia Familiare, n.56.
  • Lo Coco G., Lo Verso G. (1998), La mafia dentro: questioni psicopatologiche, Psichiatria e Psicoterapia Analitica, vol.17,n. 4.
  • Lo Verso G. (1998) (a cura di), La mafia dentro. Psicologia e psicopatologia di un fondamentalismo, Franco Angeli, Milano.
  • Lo Verso G. (1994), Le relazioni soggettuali, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Lo Verso, Lo Coco, Mistretta, Zizzo (1999), Come cambia la mafia. Esperienze giudiziarie e psicoterapeutiche, Franco Angeli, Milano.
  • Napolitani D. (1987), Individualità e gruppalità, Bollati Boringhieri, Torino.
  • Pontalti C. (2000), Campo familiare-campo gruppale: dalla psicopatologia all’etica dell’incontro, Gruppi nella clinica, nelle istituzioni, nella società, n.2.
  • Lo Coco, Lo Verso (2012). Psichiatria e pensiero mafioso. Spunti di riflessione legati ad un percorso di ricerca. Psychiatry online Italia.
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