Criminologia: definizione
La criminologia è la disciplina che studia la criminalità e la devianza, gli autori e le vittime dei reati e di atti criminali, nonché la reazione a questi fenomeni. La criminologia si caratterizza per lo studio del reo e del reato secondo un approccio interdisciplinare e include la psciologia, il diritto, la psichiatria, la sociologia e le neuroscienze. Ciascuna di tali discipline studia – adottando il proprio punto di vista – la criminalità e la devianza. La criminologia costituisce un approccio interdisciplinare tra le diverse discipline scientifiche e umanistiche rispetto al reo in quanto persona e alla criminalità come fenomeno sociale; si focalizza inoltre sulle strategie di prevenzione, trattamento e controllo della criminalità.
La criminologia è sorta in contesto italiano nel diciannovesimo secolo nell’ambito della scuola positiva di diritto penale in seguito agli studi di Cesare Lombroso e del magistrato Raffaele Garofalo.
Raffaele Garofalo fu uno dei fondatori della scuola positiva di diritto penale; il penalista sistematizzò le sue teorie in una nuova disciplina da lui definita criminologia. La scuola positiva si articola in due direzioni: da una parte lo studio sociologico delle condizioni che favoriscono la commissione di reati in funzione del ceto sociale di appartenenza; dall’altra, in seguito, con il moltiplicarsi delle ricerche psicologiche, la scuola positiva assume un indirizzo psicopatologico e psichiatrico.
Dal punto di vista psicologico-antropologico, il pioniere dello studio dell’uomo che delinque secondo l’approccio medico-biologico dell’antropologia criminale è appunto Cesare Lombroso (1835-1909). Lo psichiatra e antropologo è conosciuto per essere il padre fondatore dell’ antropologia criminale. Partendo da una concezione materialista dell’uomo, cercò di spiegare con anomalie fisiche, i cosiddetti caratteri degenerativi lombrosiani, gli atteggiamenti e i comportamenti del delinquente.
E’ importante sottolineare che il termine criminologia dovrebbe essere usato per designare il corpo di conoscenze scientifiche disponibili sul crimine, laddove si intenda il crimine sia come un fenomeno sociale che come un tipo di comportamento umano, sia come una “violazione o infrazione della legge” che come un atteggiamento morale mirato al male.
La fisiognomica e lo studio dei volti criminali
Alla fine del diciottesimo secolo Lavater scrisse il Trattato di Fisiognomica opera attraverso la quale cercava di scoprire come le caratteristiche del volto di un individuo potessero rivelarne il carattere. Nello stesso periodo Josef Gall mette a punto un approccio teorico che chiamerà Frenologia, secondo cui si la morfologia del cranio sarebbe in correlazione con aspetti personologici della persona. Sia la Fisiognomica che la Frenologia si occuparono dello studio di caratteristiche fisiche e somatiche dei criminali allo scopo di spiegare le tendenze criminali.
Nell’ambito della fisiognomica uno dei principali esponenti è Lombroso che ne L’Uomo Delinquente identifica diverse tipologie di criminali.
Per prima cosa, Lombroso ipotizza che vi sia il “delinquente nato”, per il quale la criminalità è associata a caratteristiche innate genetiche, da considerarsi soggetto non recuperabile. La teoria lombrosiana prevede che una certa percentuale di criminali, dal 35 al 40% fossero nati con disposizioni criminali; la fisiognomica entra in gioco nel momento in cui tali disposizioni criminali innate sarebbero anche correlate e identificabili attraverso caratteristiche anatomiche e fisiologiche particolari. Tra altre tipologie di criminali Lombroso identifica il delinquente per impeto passionale, il criminale epilettico, il delinquente pazzo, i delinquenti di mentalità limitata. Infine il delinquente occasionale è portato al crimine da fattori causali diversi da quelli del delinquente nato. La categoria dei delinquenti occasionali è suddivisa a sua volta in tre gruppi: gli pseudo-criminali, cioè individui che sono imputabili di un reato commesso senza intenzione o sotto la pressione di fattori situazionali extraordinari; i criminaloidi, cioè delinquenti con caratteristiche genetiche più miti rispetto al delinquente nato; e infine i delinquenti abituali di tipo non anormale, ad esempio i criminali che appartengono alle bande criminali. Secondo la teoria lombrosiana sui delinquenti occasionali è possibile svolgere un intervento di riabilitazione e di reintegrazione sociale.
Il metodo fotografico – fisiognomico di Cesare Lombroso si fonda sull’assunto tale per cui vi è un’associazione diretta tra “screzio fisico – screzio morale” ed era finalizzato a mettere a punto i proptotipi dei ritratti fisiognomici dei tipi criminali.
La teoria di Lombroso è sicuramente datata e presenta numerosi limiti e criticità, tra cui per esempio l’intenzione di voler reclamare il primato dell’antropologia criminale sul diritto penale e la non adeguata dimostrazione scientifica delle sue ipotesti. Inoltre, da alcuni studiosi dell’antropologia criminale viene sostenuto che la teoria dell’uomo delinquente fu formulata anche a scopo ideologico e di controllo sociale riguardo la questione meridionale e del brigantaggio nella neonata Italia unita. Ancora altri intellettuali la ritengono parzialmente influente nella formulazione di teorie razziste nazifasciste, appunto supportando l’assunto che che la caratteristiche morfologiche fisiche fossero indizi esterni delle condizioni mentali e personologiche.
La scuola di criminologia che si sviluppò dalla teoria lombrososiana è la Scuola Positiva che sottolineò l’importanza dei metodi sperimentale ed induttivo rispetto al ragionamento giuridico e deduttivo.
I criminali seriali, psicopatia e antisocialità
Ad oggi uno degli ambiti applicativi della criminologia – accanto a interventi relativi a fenomeni di violenza, stalking, e molti altri crimini – è la partecipazione all’attività investigativa di fronte a criminali omicidari seriali. Secondo la definizione ufficiale fornita dall’FBI nel Crime Classification Manual si definisce Serial Killer colui che uccide tre o più vittime, in luoghi diversi e con un periodo di intervallo emotivo tra un omicidio e l’altro, coinvolgendo, in ciascun evento delittuoso, più di una vittima
(Douglas & coll. 1997).
In realtà Autori come De Luca (2001) hanno proposto una definizione più ampia ed esaustiva, intendendo l’assassino seriale come un soggetto che mette in atto personalmente due o più azioni omicidiarie separate tra loro, mostrando una chiara volontà di uccidere, anche se poi gli omicidi non si compiono effettivamente (citato in L’altro diritto, 2016).
I due elementi centrali in tale prospettiva sono la “ripetitività dell’azione omicidiaria”, che stabilisce un circuito ripetitivo patologico, e l’importanza dell’intenzione, a prescindere dalla reale commissione del delitto. La ripetitività dei delitti sottende una logica interna, una componente psicologica interna al soggetto che lo spinge alla reiterazione del comportamento omicidiario: ciò implica che l’azione omicida avviene sotto la spinta di schemi che l’assassino si costruisce nella sua mente, derivanti da esperienze traumatiche infantili. Si tratta di azioni eseguite secondo criteri costanti che riguardano aspetti quali la modalità di esecuzione del delitto e le caratteristiche della vittima, secondo un rituale ossessivo che concorre a delineare la “firma” di quel serial killer.
In termini eziologici, diverse evidenze in letteratura sottolineano il ruolo delle esperienze traumatiche nello sviluppo di “carriere” criminali con particolare attenzione alla psicopatia. In particolare, diversi studi confermano l’ipotesi secondo cui l’esposizione precoce a traumi familiari o di comunità sono correlati positivamente con un maggiore rischio di comportamenti criminali. Il secondo dato importante è che gli autori di reato hanno più elevati livelli di Disturbo da Stress Post-Traumatico (PTSD) e che il comportamento criminale è correlato con la gravità del PTSD (nelle popolazioni forensi la percentuale di PTSD è molto maggiore rispetto alla popolazione generale). Tuttavia i meccanismi specifici sono poco esplorati in letteratura.
La psicopatia è un disturbo deviante dello sviluppo. Se lo sviluppo è un processo dinamico, frutto di traiettorie diverse, complessità di incontri tra fattori di rischio e fattori di protezione, la psicopatia è un processo verso la perdita definitiva del sentimento umano, del sentimento di essere nel mondo degli umani.
Le persone che commettono atti antisociali non sono necessariamente psicopatiche, così come è sbagliata l’idea che tutti gli psicopatici siano dei folli assassini. Certamente gli psicopatici hanno gravi impulsi antisociali ai quali danno corso non curandosi delle conseguenze delle loro azioni e molti dei serial killer possono a pieno titolo essere annoverati in questa categoria. La maggior parte degli psicopatici, tuttavia, appare al mondo come un modello di normalità: sono molto abili a mascherare il loro mondo interiore e a costruirsi una vita all’apparenza felice e bene adattata. Non è detto che queste persone commettano delitti o reati efferati: la maggior parte di loro conduce un’esistenza al di fuori dei circuiti penali, ma riuscendo a stabilire solo rapporti di sfruttamento e manipolazione, mancando completamente di principi morali.
Sono predatori intraspecie, sfruttano chi li circonda, approfittando dei punti deboli delle persone per manipolarle a proprio vantaggio. Le altre persone sono viste come oggetti. Sono incapaci di mettersi nei panni degli altri, così come un serpente è incapace di immedesimarsi nelle proprie prede. A differenza del disturbo antisociale di personalità, ciò che caratterizza la psicopatia è la presenza di freddezza emotiva, un vero e proprio deficit affettivo ed interpersonale, insieme a comportamenti manipolatori, predatori, malvagi e violenti. Anche gli antisociali sono manipolativi, tuttavia sono impulsivi in maniera evidente, con frequenti acting out e aggressività manifesta.
Gli psicopatici trattengono gli impulsi, li congelano e li mettono in atto al momento opportuno. Hanno una forte propensione alla noia e bisogno di stimoli sempre più forti, elemento che può diventare una forte motivazione a commettere delitti. Alcuni studi di neuroimaging, riportati da Vincenzo Caretti, rilevano in questi soggetti un deficit nel cervello “morale”: insensibilità di fronte al dolore altrui, ridotta attivazione del sistema limbico, dell’amigdala, e della corteccia orbitale (coinvolta nel ragionamento etico). Cleckley (1941) descrive gli psicopatici come persone incapaci di provare senso di colpa, egocentriche, con un estremo senso della propria importanza, incapaci di autentico affetto, in cui è assente il rimorso, che mancano di introspezione psicologica e incapaci di apprendere dall’esperienza. Dotati di fascino superficiale e bravi parlatori, utilizzano questa loro capacità per manipolare l’interlocutore, sfruttando per questo scopo la loro capacità di leggere perfettamente gli stati mentali altrui. Manca loro, invece, la capacità di mentalizzare i propri stati emotivi e non presentano segni di sofferenza psichica: nel racconto di violenze subite, spesso presenti nelle loro storie di vita, c’è una totale assenza di emozioni. Proprio per questa ragione, a differenza di persone con disturbo antisociale di personalità, sono insensibili alle punizioni e di questo è necessario tenere conto negli eventuali programmi di trattamento e riabilitazione.
Tuttavia sono estremamente vulnerabili all’umiliazione, tanto che i picchi di violenza, utilizzata come estrema strategia di gestione, si registrano proprio nei momenti in cui questi soggetti sperimentano maggiormente tale emozione.
Intervento criminologico e il fenomeno delle sette
Attualmente un altro fenomeno allarmante che necessita di interventi di tipo psicoterapeutico e criminologico è quello delle sette. Resterà nella memoria collettiva il caso del reverendo Jim Jones, predicatore statunitense, che ordinò (e ottenne) il suicidio di massa di 909 membri della sua congregazione nello stato della Guayana, inclusi bambini per mano degli stessi padri. Cosa può aver spinto a tale decisione collettiva definitiva, quali i poteri carismatici di influenzamento e le finalità da attribuire al leader Jones e quali i meccanismi di controllo delle menti degli adepti?
In criminologia, in termini generali, finalità primaria del leader è l’indottrinamento dei suoi membri al fine di accentrare il poter su di sé, sfoderando uno spiccato narcisismo, e portando a un controllo totale dell’adepto, a vari livelli, compreso quello economico, con la frequente espoliazione dell’intero patrimonio dell’adepto o l’appropriazione dei proventi della sua attività professionale. Un indottrinamento lento, quello delle sette, costante, inesorabile che si fonda sulle capacità seduttive del leader e sul sapiente utilizzo di tecniche di indebolimento della volontà, e che sfrutta personalità vulnerabili, malleabili, soddisfando bisogni di dipendenza affettiva.
Il leader di una setta ha precise caratteristiche che lo rendono seduttivo, in grado di vendere un prodotto che non c’è, alla ricerca di un solo vantaggio personale: si autodefinisce maestro, veggente, dedica molto tempo alla cura della sua immagine, inventando spesso anche storie false su di sé, come il possesso di lauree inesistenti, utilizzando uno stile linguistico ampolloso. Riguardo all’indottrinamento vengono utilizzati metodi scientifici per aggirare le difese psichiche, come la deprivazione del sonno, i digiuni, in grado di alterare lo stato di coscienza e facilitare l’indebolimento della volontà, oltre alle regole su chi abusare sessualmente.
Ciò induce confusione mentale nei confronti di adepti di per sé vulnerabili, in particolari momenti di fragilità, che, in qualche modo, a fronte di una forza vacillante, sulla base di una scelta emotiva, sono spinti ad attribuire forza, verità, misticismo al guru, accettando fideisticamente tutto, compreso l’isolamento totale dalla famiglia e dagli amici, verso cui vinee indotta aggressività. Ben si comprendono i danni psicologici, che persistono anche dopo l’abbandono della setta: del 25%, infatti, è la percentuale di ex seguaci che soffrono di danni psicologici irreversibili, senza contare i danneggiamenti fisici che possono condurre alla morte.
Nelle sette troviamo metodi comportamentali di influenzamento e convincimento a cui si affiancano tecniche psicologiche ben note nel campo della psicologia sociale, finalizzate alla persuasione e all’indebolimento delle capacità decisionali e di critica.
Bibliografia
- Douglas, J., Burgess, A.W., Burgess, A.G., & Ressler, R.K. (1997). Crime Classification Manual. New York City: John Wiley & Sons
- Hare, R.D. La psicopatia. Valutazione diagnostica e ricerca empirica. Astrolabio, Roma, 2009
- Lombroso, C. (1876). L’uomo delinquente, Milano, Hoepli.
- L’altro diritto. Capitolo 1. Fenomenologia del serial killer e dell’omicidio seriale. Ricavato il 7 Settembre 2016 da http://www.altrodiritto.unifi.it/ricerche/devianza/massaro/cap1.htm