La diagnosi del disturbo antisociale di personalità
Secondo la definizione del DSM 5 (2013) il Disturbo Antisociale di Personalità è un pattern pervasivo di inosservanza e di violazione dei diritti degli altri, che inizia nell’infanzia o nella prima adolescenza e continua nell’età adulta. Per porre questa diagnosi, l’individuo deve avere almeno 18 anni (Criterio B) e avere in anamnesi alcuni sintomi del disturbo della condotta prima dell’età di 15 anni (Criterio C).
Gli individui con disturbo antisociale di personalità non riescono a conformarsi alle norme sociali per quanto riguarda il comportamento legale (Criterio A1), sono frequentemente disonesti e manipolativi per profitto o per piacere personale (per es., per ottenere denaro, sesso o potere) (Criterio A2) e possono prendere decisioni sotto l’impulso del momento, senza riflettere e senza considerare le conseguenze per sé e per gli altri. Tendono a essere irritabili e aggressivi (Criterio A4), mostrano una noncuranza sconsiderata della sicurezza propria o degli altri (Criterio A5), tendono anche a essere spesso estremamente irresponsabili (Criterio A6) e mostrano scarso rimorso per le conseguenze delle proprie azioni (Criterio A7).
Si evince che, per definizione, le persone che rispondono ai criteri del disturbo antisociale di personalità presentano scarso senso di colpa e a questa carenza è abitualmente ricondotta larga parte della fenomenologia del disturbo.
La colpa è un’emozione fortemente legata alla sfera dello scambio sociale e manifesta implicazioni morali, in quanto l’attenzione della persona si focalizza in modo specifico su un atto compiuto valutato come trasgressivo, su una valutazione delle ripercussioni che tale comportamento potrà avere sugli altri, sulle eventuali modalità con le quali riparare ai danni arrecati. In chiave evolutiva, la colpa è stata selezionata per mantenere l’ordine sociale e la coesione del gruppo: nella cultura dove siamo immersi ci sono coordinate sociali e morali per muoversi adeguatamente all’interno del gruppo sociale, il colpevole di aver trasgredito tali norme ne rischia l’esclusione.
Le caratteristiche del disturbo antisociale di personalità
Nel linguaggio comune il disturbo antisociale di personalità è noto con il termine sociopatia. Non è di fatto un termine usato dai professionisti della salute mentale ma maggiormente nell’ambito della psicologia naif.
Esiste in letteratura una vasta mole di studi che hanno individuato caratteristiche specifiche emotive, cognitive e comportamentali del Disturbo Antisociale di Personalità.
Diverse ricerche mostrano come pazienti con Disturbo Antisociale di Personalità mostrano difficoltà nel processare le informazioni emozionali e nel rispondere empaticamente agli altri (in Greco e Grattagliano, 2014).
I deficit nel processamento emozionale sono l’aspetto caratteristico degli antisociali individuato già da Cleckley (1941). L’Autore notò come questi pazienti fossero in grado di riprodurre una pantomima delle emozioni pur senza sperimentarle. Così utilizzò il concetto di emozione paradosso (ibidem) per esprimere la mancata associazione negli antisociali tra la componente cognitiva e quella soggettiva e fisiologica delle emozioni.
Altri studi si sono concentrati sulla produzione linguistica di parole emotivamente connotate, ad esempio Louth et all. (1998) hanno osservato che individui antisociali parlavano con un tono di voce più basso e monotono e davano meno enfasi prosodica alle parole emotive rispetto ai soggetti di controllo. Questa riduzione nell’espressione prosodica emozionale, è stata trovata anche in uno studio sulla comprensione linguistica di informazioni emozionali, che mostrava che gli antisociali erano meno abili dei soggetti di controllo nel percepire l’emozione di paura a partire da stimoli vocali (Blair et al. 2002).
Altri studi hanno evidenziato come gli antisociali, diversamente dai soggetti di controllo, rispondono alle parole emozionali con la stessa velocità e accuratezza delle parole neutre (Lorenz e Newman 2002; Mitchell et al. 2002). Alcuni autori hanno suggerito che il deficit nella risposta emozionale in questi pazienti sia selettivo (Newman et al. 1987). Per esempio, Patrick, Bradley e Lang, (1993) hanno osservato negli antisociali una ridotta differenziazione rispetto ai non antisociali, nella frequenza del battito cardiaco in risposta a frasi-stimolo neutre vs frasi-stimolo minacciose. Allo stesso modo, studi di psicofisiologia hanno evidenziato una ridotta risposta elettrotermica agli stimoli avversivi negli antisociali, come pur un ridotto potenziamento del riflesso di ammiccamento palpebrale (Kosson et al. 2002). Questo potrebbe suggerire che questi pazienti hanno una ridotta capacità di sperimentare paura quando esposti a situazioni minacciose (Herpetz et al. 2001).
A ulteriore conferma di questa selettività, diversi studi hanno evidenziato che gli antisociali non mostrano nessun deficit nel provare emozioni positive come il piacere o la felicità, anzi appaiono orientati alla ricompensa e tendono ad assumere rischi, entrambi fattori associati ai centri della ricompensa nel cervello (Newman et al. 1987). Coerentemente, gli antisociali evidenziano un’accresciuta emozionalità positiva (Izard et al. 1993). Questo deficit nell’esperienza emozionale potrebbe addirittura essere alla base del successo spesso ottenuto dagli antisociali nel manipolare e mentire agli altri (Greco e Grattagliano, 2014): è possibile che la mancanza o la riduzione dell’intensità con cui vengono sperimentate alcune o tutte le emozioni, comporti una riduzione dell’interferenza emozionale tra emozioni esibite e quelle soggettivamente esperite durante la simulazione di espressioni emozionali, e questo a causa della mancanza di una reale emozione (ibidem). Così l’emozione soggettivamente esperita dall’antisociale trapela meno dall’espressione simulata dell’emozione rispetto ad altri individui, e tutto questo potrebbe rendere questi individui più convincenti e persuasivi agli occhi degli altri (ibidem).
Rifacendoci alla Teoria della Mente che si riferisce all’abilità di rappresentare gli stati mentali degli altri, i loro pensieri, desideri, credenze, intenzioni e conoscenze (Frith, 1989), diversi studi hanno cercato di verificare i deterioramenti nella capacità di rappresentare gli stati mentali dell’altro, in individui con Disturbo Antisociale di Personalità (Richell et al. 2003; Widom 1978). Nello specifico, Blair e collaboratori (2004) hanno verificato l’abilità degli individui con antisocialità a svolgere Advanced Theory of Mind Test (Happé, 1994), un test che misura il grado di comprensione di una storia valutando la comprensione degli stati mentali. I risultati hanno mostrato che la performance degli individui con antisocialità al compito non era peggiore di quella di individui del gruppo di controllo, pur mostrando una ridotta responsività ai segnali di stress. Richell e collaboratori (2003) hanno esaminato l’abilità degli individui con antisocialità di svolgere il Reading the Mind in the Eyes’ Task (Baron-Cohen et al. 1997), un test in cui i partecipanti devono giudicare lo stato socio-emozionale mostrato da un individuo basandosi solo sulle informazioni provenienti dalla zona degli occhi. Ancora una volta gli individui con Disturbo Antisociale di Personalità non mostravano deficit in questo compito.
Ciò nonostante, numerosi studi hanno evidenziato che gli antisociali hanno problemi nell’identificare le espressioni emozionali negative degli altri, specialmente tristezza e paura (Blair et al. 2004; Hasting et al. 2008). Blair, Colledge, Murray e Mitchell (2001) hanno confrontato le abilità a identificare le espressioni facciali in bambini e adolescenti tra i 9 e i 17 anni distinti sulla base di elevate o basse tendenze antisociali. Anche in questo caso sono emerse delle difficoltà nei bambini con elevate tendenze antisociali a riconoscere le espressioni di paura e tristezza, rispetto a quelli con basse tendenze antisociali. Stevens, Charman e Blair (2001) hanno condotto uno studio simile per esaminare il riconoscimento di tristezza, paura, felicità e rabbia nelle espressioni facciali e vocali in bambini e adolescenti tra i 9 e i 15 anni. Gli autori (ibidem) hanno scoperto un deficit specifico nel riconoscimento di paura e tristezza sia nelle espressioni facciali che vocali in bambini con elevate tendenze antisociali. Tuttavia, è stato evidenziato che gli antisociali tendono ad affermare e simulare la sperimentazione di queste emozioni, senza esperirle soggettivamente: possono dire che sono dispiaciuti per le loro azioni o apparire empatici con la loro vittima, senza provare niente di tutto ciò.
Per questo Cleckley (1988) parla di maschera di sanità, perché le parole o le azioni degli antisociali non riflettono il loro mondo interno: pur non avendo problemi a capire quello che gli altri stanno sentendo, non reagiscono emozionalmente a queste esperienze.
Concludendo le evidenze empiriche hanno osservato delle consistenti differenze nei processi emozionali degli antisociali, tuttavia non è chiaro se queste differenze sono legate all’assenza di emozione, al fallimento di processare automaticamente l’emozione o alla ridotta intensità dell’esperienza emozionale (Greco e Grattagliano, 2014).
Per quanto riguarda le caratteristiche cognitive, sembrerebbe che gli schemi di base di sé, degli altri e del mondo dei pazienti con Disturbo Antisociale di Personalità siano piuttosto rigidi e inflessibili. L’antisociale vede se stesso come forte e autonomo da solo, mentre gli altri sono visti come sfruttatori e da sfruttare, deboli, vulnerabili e da predare (Greco e Grattagliano, 2014). Inoltre, è piuttosto caratteristico un bias cognitivo nel percepire intenti malevoli da parte degli altri (Blackburn e Lee-Evans 1985). Le credenze intermedie riguardano la necessità di fare attenzione a chiunque, evitare la vittimizzazione diventando aggressore o sfruttatore, e il percepito diritto o non curanza nel violare le regole sociali per raggiungere i propri obiettivi. Le strategie di compensazione tipiche sono l’attacco, il furto o varianti più subdole come la manipolazione e la frode.
Caratteristica del Disturbo Antisociale è la messa in atto di un comportamento immorale. La questione aperta è se sono in grado di distinguere ciò che è giusto da ciò che è sbagliato, quindi se possiedono la capacità di un normale giudizio morale. Nonostante l’interesse verso questa questione, i dati sperimentali circa l’abilità degli antisociali di formulare giudizi morali normali sono piuttosto limitati.
Tuttavia Mancini, Capo e Colle (2009) affermano che piuttosto che avere un deficit di empatia potrebbero avere scopi antisociali e quindi far uso dell’empatia per scopi immorali: lo scarso peso attribuito alla sofferenza degli altri, al pari dello scarso senso morale, sembra nascere dalla limitata importanza attribuita al rispetto degli scopi morali e al peso rilevante attribuito a scopi esplicitamente antisociali, come dominanza, vendetta, etc. (Lochman, Wayland, e White, 1993).
Prognosi e trattamento del disturbo antisociale di personalità
Dal punto di vista della prognosi e del trattamento, è stato osservato (Robbins, Tipp, Przybeck, 1991) che molte persone antisociali tendono a maturare nel corso degli anni, soprattutto al superamento dei quaranta-cinquanta anni di età (Black, 1999, p.89) e cessano di compiere azioni criminali o, almeno, crimini violenti. Le componenti comportamentali hanno di solito maggiori probabilità di trarre beneficio dal trattamento di quanto avvenga per i tratti di personalità (Dazzi e Madeddu, 2009). Tuttavia, tra questi ultimi, l’impulsività può più facilmente essere modulata rispetto ai tratti predatori o sadici (ibidem). La capacità di provare compassione può essere un elemento cruciale per una prognosi maggiormente favorevole (come anche il suo opposto, l’insensibilità) (Annette Streeck-Fisher (1998 a,b).
A rendere più complesso il trattamento c’è il ricorso a uso di sostanze: la relazione tra il disturbo antisociale di personalità e l’uso di sostanze rappresenta quella meglio documentata nella letteratura psicopatologica (Waldman, Slutske, 2000).
Disturbo Antisociale di Personalità
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