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Il giudizio morale: una Questione di Stomaco.

Due ricerche esplorano il meccanismo di funzionamento del giudizio morale, spostando l'attenzione dal razionale all'irrazionale e dalla corteccia prefrontale all'amigdala. La moralità e l’etica sono tematiche sempre state appannaggio della filosofia e delle scienze cosiddette “speculative”, che cioè teorizzano funzionamenti e situazioni, senza la velleità di trovarvi spiegazioni o proporre modalità di funzionamento specifiche.

Di Chiara Manfredi

Pubblicato il 06 Dic. 2011

Aggiornato il 11 Apr. 2012 10:05

Due ricerche esplorano il meccanismo di funzionamento del giudizio morale, spostando l’attenzione dal razionale all’irrazionale e dalla corteccia prefrontale all’amigdala.

Giudizio morale: una questione di stomaco. Immagine: © Andy Dean - Fotolia.com - La moralità e l’etica sono tematiche sempre state appannaggio della filosofia e delle scienze cosiddette “speculative”, che cioè teorizzano funzionamenti e situazioni, senza la velleità di trovarvi spiegazioni o proporre modalità di funzionamento specifiche.  Da qualche anno, però, il ragionamento morale è sfuggito a questa oligarchia e ha iniziato a essere maggiormente osservato sotto la lente della psicologia, che ha cercato di capire meglio quale potesse essere il funzionamento alla base delle scelte fatte dalle persone quando sono poste di fronte a un “dilemma morale”.

Quindi, non smentendo mai la paternità cartesiana, le indagini sono iniziate con la classica contrapposizione tra “razionalità” e “emozione/biologia”, intesi come parte “intelligente” e “animalesca, arcaica” dell’essere umano. A un primo sguardo, non vi sarebbero dubbi: un “giudizio” morale, lo dice la parola stessa, implica per forza un’azione volontaria e razionale della persona, una procedura per così dire “pensata”. Del resto, lo si può osservare rispetto qualunque fatto di cronaca: in un qualsiasi posto di ritrovo, a partire dai bar, quante persone stanno a teorizzare a lungo sulle notizie del TG, apportando argomentazioni a favore di una e dell’altra parte, per poi giungere alla sentenza finale?

E invece si è dimostrato non essere proprio così: in contrapposizione a questa visione del giudizio morale “razionale” si è schierato il modello intuizionista, secondo cui il giudizio morale sarebbe risultato non di un processi di ragionamento e riflessione, bensì di valutazioni automatiche e veloci. Uno dei maggiori supporter di questo secondo modello è Haidt, che in una famosa ricerca (Haidt 2001) ha deciso di tirare davvero la corda, della serie “se giudizio morale deve essere, che lo sia fino in fondo”. Ha immaginato scenari piuttosto forti, che toccassero le corde della morale occidentale trasmessa nei secoli, che però non ammettessero razionalizzazioni complesse e sofisticate.

Scenario e Giudizio Morale:

Uno di questi scenari si  presentava così: durante una vacanza in Francia, una sorella e un fratello decidono di avere un rapporto sessuale. Specificando, si scopre che questo rapporto è stato consenziente, protetto al limite dell’ossessività e apprezzato da entrambi alla luce della maggiore intimità che ha permesso di raggiungere. Tuttavia, i ragazzi hanno deciso che questo rimarrà un loro segreto e che questa esperienza non si ripeterà più.

Una volta posti di fronte a questa breve scenetta e interrogati sul proprio giudizio di “giusto” o “sbagliato”, i partecipanti alla ricerca si sono schierati prepotentemente nella seconda fazione. E fin qui niente di stupefacente, certo. Ma davanti alla fatale domanda di Haidt che suonava come “ok, ma perché secondo lei questo comportamento è sbagliato?”, i partecipanti si sono limitati a addurre motivazioni pretestuose e vaghe, una volta escluse le motivazioni di origine “medica” (il rapporto era protetto) e relative alla libertà di scelta (il rapporto era stato consenziente da parte di entrambi). Penso che chiunque di noi possa sentire un urto allo stomaco, indicativo della “non correttezza” di questo atto, ma penso anche che, se volessimo essere davvero sinceri con noi stessi, tutt’ora faremmo fatica a formulare motivazioni che non suonassero come delle scuse. È come il bambino che giustifica la spinta data al compagno con la dinamica temporale secondo cui “ha iniziato prima lui”, pur sapendo che questo non diminuisce la scorrettezza della propria azione. Dicevamo di questi tentativi fallimentari di giustificare la scorrettezza del rapporto sessuale tra i due fratelli portato come esempio da Haidt.

E perché allora, una volta smontate pezzo per pezzo tutte le motivazioni apportate attraverso l’analisi più attenta dei dati di realtà, non limitarsi a correggere il proprio giudizio e a dire “ok, allora forse in fin dei conti non è stata una cosa così sbagliata”? Sicuramente in parte per una necessità di coerenza dei propri giudizi, per cui se una cosa mi ha stretto così tanto lo stomaco non sarò molto disposto ad accettarla come corretta dieci minuti dopo.

Corteccia prefrontale o Amigdala?

Sembra quindi che la parte del corpo deputata al giudizio, per noi, non sia il cervello, ma lo stomaco. O meglio, non sia la corteccia prefrontale (area deputata alla decisione, alla pianificazione e all’adattamento), ma siano aree dell’amigdala (una delle parti del nostro cervello più antiche dal punto di vista evolutivo). Questo almeno hanno scoperto i neurologi del Karolinska Institute di Stoccolma, che hanno proposto a una serie di volontari di cimentarsi in giochi di ruolo e, contemporaneamente, sottoporsi a una risonanza magnetica funzionale. Hanno osservato appunto come il cervello, di fronte a una situazione ingiusta, reagisca attivando aree dell’amigdala arcaica e non, come si pensava, la corteccia prefrontale, evolutivamente molto più recente.

Disgust-© snaptitude - Fotolia.com
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A conferma del dato, si è verificato che, nel momento in cui l’attività dell’amigdala viene inficiata dalla somministrazione di benzodiazepine, le reazioni di fronte a una situazioni ingiusta sono meno nette, e cresce nei soggetti sperimentali la disponibilità ad accettare evidenti ingiustizie.

Questo sembra essere il meccanismo di funzionamento del giudizio morale: una valutazione bottom-up, guidata dalle sensazioni “a pelle” e giustificata post-hoc con motivazioni razionalizzate e riportate a profusione, nel tentativo spasmodico di poter assecondare e avvalorare la tesi promossa dalla nostra amigdala. A quanto pare la parte emotiva, arcaica, ancestrale del nostro cervello, che tanto tendiamo a snobbare, ha capito da subito l’importanza di rispettare alcune regole morali di base che permettano davvero alla specie di non estinguersi.

Ad esempio la “lotta mortale” tra conspecifici è un’attitudine squisitamente umana, presente solo nelle creature che hanno sviluppato questa sorta di cervello “intelligente”, che nel mondo animale lascia il posto a un combattimento ritualizzato, che difficilmente si conclude con la morte di uno dei partecipanti, quando intrapreso tra esemplari della stessa specie. Ancora una volta l’istinto è più conservativo della ragione, più tutelante nei confronti di noi stessi, almeno quando si parla di questioni “pesanti”, questioni che implicano scelte importanti per la sopravvivenza della specie.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

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Chiara Manfredi
Chiara Manfredi

Teaching Instructor presso Sigmund Freud University Milano, Ricercatrice per Studi Cognitivi.

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