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Nightcrawler, lo sciacallo (2014): quando la psicopatia diventa istituzione – Recensione

Il protagonista di The Nightcrawler segna il passaggio da un'immagine dello psicopatico come criminale, ad una integrata nel contesto sociale ipermoderno.

Di Guest

Pubblicato il 02 Dic. 2015

Alessandra Notaro

Nightcrawler, film scritto e diretto da Dan Gilroy con protagonista Jake Gillenhaal: nella trama l’umano diventa sempre più distante e la linea etica tra ciò che è lecito e ciò che non lo è si assottiglia sempre più fino ad essere invisibile.

Lou si guadagna da vivere rivendendo fili metallici rubati; Lou sopravvive per espedienti ma ha come obiettivo quello di trovare un vero lavoro. Nessuno assume ladri.

Una sera assiste ad un incidente ed è là che intuisce quale potrebbe essere il suo futuro vedendo una troupe televisiva accorsa per riprendere l’accaduto. Nemmeno in questo caso trova qualcuno che lo assuma, allora decide di procurarsi il materiale e dare inizio alla sua nuova attività. Luo vive di espedienti. E così in una escalation mediatica che lo porterà al successo, l’umano diventa sempre più distante e la linea etica tra ciò che è lecito e ciò che non lo è si assottiglia sempre più fino ad essere invisibile.

In un interpretazione magistrale Jake Gillenhal ci mostra un personaggio dagli occhi spalancati che fa uso di linguaggi e nozioni appresi da internet, e di un’espressività da manuale: maschere sociali pronte ad essere usate al momento giusto, le maschere da copione di uno sciacallo. Il bisogno di esercitare potere prevale su ogni altro obiettivo, e spesso questo si realizza tramite l’abuso. Questa è la caratteristica saliente di un’organizzazione psicopatica di personalità. Se gli oggetti esterni falliscono, l’unico oggetto su cui poter investire emotivamente è il Sé e il suo potere (McWilliams, 2012). “È letteralmente spudorato” scrive Nancy McWilliams a proposito della personalità psicopatica: l’ Altro per l’individuo antisociale si riduce alla sua utilità, a spettatore passivo del suo potere, l’ Altro serve a riconoscere il potere conquistato attraverso il controllo onnipotente. Lo psicopatico, spesso abusato nell’infanzia, desidera il riconoscimento sociale del suo potere: l’ essere per, ennesimo e drammatico espediente per sopravvivere.

Lou mostra attraverso una telecamera la violenza più terribile e agisce sugli spettatori una seconda violenza, complice l’emittente televisiva, che fa leva sull’attrazione-repulsione di una violenza esibita e messa in vetrina: perché se da un lato la violenza che spaventa entra nelle case degli spettatori e li coinvolge, d’ altra parte lo schermo televisivo fa da specchio riflesso verso la quale ri-proiettare nuovamente e spostare paure e angosce dello spettatore.

Unica presenza a fare da contraltare al protagonista e che sembra ergersi in difesa di un sentire emotivo che vede l’Altro fin quasi ad esserne travolti, è il suo assistente Rik. Non c’è spazio nel mondo organizzato e manipolato di Lou per i sentimenti, come dirà a Nina in un surreale appuntamento e corteggiamento; così, nemmeno Rik e ciò che egli rappresenta possono esistere. Louth, Williamson e coll. (1998) hanno osservato che gli psicopatici presentano anomalie nei circuti cerebrali deputati ai processi affettivi e linguistici, hanno ipotizzato quindi che gli individui estremamente antisociali non hanno appreso i sentimenti nello stesso modo in cui fa la maggior parte degli individui, cioè sulla base di relazioni: gli psicopatici acquisirebbero il linguaggio emotivo come una sorta di seconda lingua.

Il sofisticato fascino di Lou ben si addice ai personaggi descritti da Babiak e Hare, personaggi che si trovano ai livelli più alti delle aziende americane e chiamati dagli stessi autori ‘serpenti in giacca e cravatta’ (2007). Gli autori stimano che in nord America una persona su 100 è psicopatica. È proprio il mondo aziendale moderno, più flessibile, in cui rischi elevati possono portare a profitti altrettanto elevati, che attira una struttura di personalità psicopatica.

Il personaggio di Lou segna proprio il passaggio da una rappresentazione dello psicopatico come criminale, ad una pericolosamente integrata nel contesto sociale e lavorativo ipermoderno. La loro capacità di saper scegliere la maschera giusta al momento giusto come se fosse una seconda lingua permette loro di entrare in un’azienda come nastri nascenti se non addirittura come salvatori abusando della fiducia dei colleghi, manipolando i superiori. Nel momento stesso in cui un’ organizzazione viene così a configurarsi e premia una struttura di personalità psicopatica, la psicopatia stessa diviene istituzione. L’ abuso diviene istituzione.

Cantava Bersani:

Chiedi un autografo all’assassino
guarda il colpevole da vicino
e approfitta finché resta dov’é
toccagli la gamba fagli una domanda
cattiva, spietata
con il foro di entrata, senza visto di uscita

(Samuele Bersani, Cattiva)

L’abuso è nel non riconoscere l’Altro, la sua autonomia psichica. Non c’è spazio per la domanda dell’Altro perché inconciliabile con il desiderio di potere dello psicopatico che istituisce l’abuso. E proprio quando l’abuso diventa l’arma vincente per la scalata al successo allora, in quel momento, la psicopatia diventa istituzione.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Babiak, P. e Hare, R. D. (2007). Snake in suits: When psychopaths go to work. Harper: New York.
  • Louth, S. M., Williamson, S., Alpert, M., Pouget, E. R. e Hare, R. D. (1998). Acoustic distinctions in the speech of male psychopaths. Journal of Psycholinguistic Research, 27, pp. 375-384.
  • Mc Williams, N. (2012). La Diagnosi Psicoanalitica: Seconda edizione riveduta e ampliata. Casa Editrice Astrolabio- Ubaldini Editore: Roma.
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