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La fantasia “al servizio” della realtà: il romanzo familiare dei nevrotici

Il romanzo familiare è il frutto della fantasia del bambino che gli consente di dar vita ad un scenario in cui crea avvincenti trame narrative

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 05 Set. 2023

Il pensiero infantile

Una delle principali caratteristiche del pensiero infantile è la tendenza ad immaginare. Costruire realtà fascinose e saturanti in grado di contaminare, talvolta persino di sostituire, quelle oggettive.

Stabilire un confine tra realtà e fantasia non costituisce certo una preoccupazione infantile, almeno fino ai due anni di età, quando una maggiore consapevolezza oggettuale e del Sé definisce questa differenza in maniera più decisa, per quanto non definitiva.

Fino all’età scolare la tendenza a confondere realtà e fantasia si mostra una costante nel pensiero del bambino, che utilizza l’immaginazione per una serie di importanti funzioni: esplorare ciò che ancora non conosce; trovare un rifugio salvifico contro le paure del quotidiano; liquidare l’angoscia; potenziare la conoscenza e la relazione; non da ultimo, compensare i limiti di una realtà frustrante.

La fantasia, in età infantile, rappresenta un fondamentale strumento consolatore.

Melanie Klein (1932; 1952) ne sottolinea il  potere trasformativo, grazie al quale è possibile modificare contesti traumatici, stornare vissuti di disagio, neutralizzare stati emotivi persecutori. Il tutto senza interrompere l’attività cosciente.

Questo flusso immaginativo, simile ad un sogno ad occhi aperti, consente la costruzione di una “realtà non reale”, reversibile e mai definitiva, in cui le pulsioni dell’Es, anche quelle più arcaiche, riescono a trovare attuazione: qualsiasi sia la circostanza che si va fantasticando, foss’anche qualcosa di moralmente inaccettabile, non è necessario censurarne la presenza con reazioni egoiche difensive. Perché dalla fantasia, esattamente come dal gioco, si può sempre tornare indietro: l’errore non è irreparabile, così come non esistono condizioni irreversibili. Questo la rende uno strumento adattivo di inestimabile valore, soprattutto in una fase evolutiva nella quale i meccanismi di regolazione emotiva e la capacità di simbolizzazione sono ancora acerbi.

Il perché del romanzo familiare

Nella dimensione infantile la fantasia rappresenta la via di fuga da una realtà frustrante. Quasi una crepa salvifica, praticata nell’involucro incapsulante costituito dai divieti e dalle imposizioni dei genitori, il cui ruolo affettivo si coniuga inevitabilmente con uno educativo. Ed è proprio per sfuggire al dolore provocato da questi contenimenti pulsionali che il bambino si rifugia nella fantasia, prendendo possesso di una dimensione sottratta allo strapotere degli adulti, della quale può disporre senza intromissioni.

Uno degli esiti di questa attività immaginativa viene definito da Freud (1908) “romanzo familiare”, ad indicazione di un processo nevrotico che consente di dar vita ad un inconscio rinnegamento delle origini, creando avvincenti trame narrative delle quali il bambino decide intrecci e direzioni. Esattamente come farebbe uno scrittore. Grazie a queste storie romanzate, spesso mirabolanti e inverosimili, il bambino riesce ad allontanarsi dalla famiglia, dando vita a contesti surreali in cui i genitori vengono soppiantati da figure ben più potenti, gratificanti e soprattutto disposte ad esaudire tutti i suoi desideri. Genitori creati dai contenuti dell’Es e posti al servizio dei medesimi (Freud, 1908).

Ma non si tratta di un mero esercizio di immaginazione. Il fine difensivo di questo strumento psichico consente di compensare una frustrazione che obbliga da una parte ad una inibizione pulsionale- impedendo un desiderio o deludendo un’aspettativa  e dall’altra spinge alla rivalutazione dell’iperinvestimento affettivo nei confronti dei genitori. In esso convergono angosce e conflitti rimossi che, data la scarsa presenza di risorse mentalizzanti e simbolizzanti, non possono essere verbalizzati, ma soltanto evacuati a mezzo dello strumento immaginativo.

Naturalmente il pensiero infantile non raggiunge simili livelli di consapevolezza: ciò che il bambino si limita a provare è un profondo senso di vuoto e delusione verso quegli adulti dai quali si sentiva protetto e che inaspettatamente lo hanno tradito.

Un genitore che lo sgrida o gli impedisce di uscire, una madre che si nega alle sue attenzioni o gli rifiuta le premure, magari preferendogli il fratellino minore o il padre, è in grado di provocare in lui la dolorosa delusione di cui stiamo parlando. La stessa che rende necessaria l’attivazione di un pensiero in grado di compensare la frustrazione, ma soprattutto di liquidare un’aggressività che, non potendo essere agita, viene abreagita attraverso la scarica immaginativa. Da qui il romanzo familiare anche come possibile apertura al processo di simbolizzazione e di astrazione mentale.

La delusione come ferita narcisistica

Di fronte alla delusione, l’idealizzazione genitoriale subisce un doloroso contraccolpo, dando luogo ad una squalifica che non depaupera soltanto il sovrainvestimento affettivo, ma si trova a limitare l’onnipotenza che da quella dei genitori prende vita (Isaacs, 1955).

Il bambino non vuole rassegnarsi a maturare una visione più realistica degli oggetti genitoriali perché questo lo costringerebbe a porre un limite alla sua stessa pulsione megalomanica, svuotandola di contenuti vitali. Dunque ridimensionare loro significherebbe limitare anche il proprio narcisismo, e le risorse egoiche di cui dispone sono ancora troppo scarse per consentirgli l’accettazione di un simile compromesso evolutivo. Il contatto con la realtà, per quanto necessario, non può essere accelerato. Il bambino ha bisogno dei suoi tempi.

Da questo punto di vista il romanzo familiare consente un equilibrio tra la necessità di idealizzare i genitori e il bisogno di discostarsi da loro, precorrendo una parziale autonomia che non comporti al contempo squalifiche distruttive.

Grazie alla fantasia del romanzo l’idealizzazione non viene cancellata, ma semplicemente spostata su altre figure genitoriali, create sul presupposto delle necessità pulsionali e per questo perfettamente aderenti al Sé narcisistico. Dunque non c’è bisogno di nessuna rivalutazione affettiva. Il bambino non è costretto ad una de-idealizzazione cui non è ancora pronto, semplicemente perché quei genitori che lo hanno deluso non sono i suoi veri genitori: sono soltanto figure sostitutive di quelle reali, i cui connotati magnificenti sono ben più in linea con le aspettative di grandezza tipiche di questa fase della vita.

I processi idealizzanti: quale funzione

In età infantile i processi di idealizzazione non servono soltanto a proteggere i rapporti oggettuali, minacciati da un desiderio sessuale tipicamente ambivalente, ma contribuiscono anche alla delimitazione delle ferite narcisistiche. Così, mentre una parte dell’Io rimane ancorata alla realtà, un’altra si lascia coinvolgere in un viaggio immaginativo dove, grazie al potere sconfinato della fantasia, la pulsione regredisce all’Es e lo stesso concetto di confine viene dissolto  (Jacobsen,  1964).

In preda al dominio dell’egocentrismo, il bambino espelle dalla sua realtà tutto ciò che gli provoca dolore, semplicemente non riconoscendolo. L’unico modo per difendersi da una pressione psichica non comunicabile è pertanto la creazione di un contesto compensativo in cui, esattamente come avviene nello spazio narrativo, la componente realistica soggiace alla volontà pulsionale, assecondandone pulsioni ed esigenze (Isaacs, 1961).

La fantasia si mostra un imprescindibile alleato in questa operazione difensiva: è infatti grazie all’immaginazione se gli è possibile superare le delusioni inflitte dai genitori, salvaguardando al contempo l’onnipotenza del Sé e una rappresentazione idealizzata dei medesimi.

Così diventa gratificante immaginarsi il figlio segreto di re o regine, un trovatello sottratto ad una nobile famiglia, o il figlio di personaggi soprannaturali, eroi e fate spesso attinti dal mondo della fiabe, per il bambino così familiare e affascinante da spingerlo a sognare di farne parte. E proprio questo vagheggiare fantasticato disegna i confini di una reverie che lo mette a contatto con i suoi contenuti pulsionali più arcaici, e per questo rivelatori del Sé più autentico.

Le storie neutralizzano il dolore, o semplicemente lo attenuano, proprio perché sono in grado di sottrarre le pulsioni al limite dell’attività egoica (Freud, 1908). Ed è questo il fine precipuo del romanzo familiare: permettere la trasformazione creativa di una delusione. Il cambiamento di uno stato di frustrazione in un’onnipotenza collusiva che allontana la realtà non tanto per disconoscerla definitivamente, ma soltanto per renderla più accettabile. Meno dolorosa e deludente, semplicemente immaginandola diversa da come è.

Il romanzo familiare tra trauma e delusione

Le delusioni sono l’elemento imprescindibile per l’attuazione del romanzo familiare. Non se ne può omettere l’esistenza, se si vuole che il bambino ambisca a natali più appaganti, fin quasi rinnegando quelli conosciuti; ma deve pur sempre trattarsi di delusioni non destrutturanti, la cui presenza non metta in pericolo la funzionalità egoica o limiti il contatto con la realtà. Rimproveri, proibizioni, conflitti, vissuti di gelosia verso i fratelli, contrasti educativi, conflitti relazionali, sono tutti validi esempi di quella frustrazione deludente nei quali l’infante è costretto a soccombere ad una volontà superiore, riconoscendo un limite alla propria onnipotenza.

Ma il dolore deve essere gestibile dall’Io, e per questo non deve risultare l’esito di un evento che distruggerebbe la stessa funzionalità dell’Io, impendendone la preservazione. Ad esempio un accadimento traumatico, la cui presenza richiederebbe difese ben più drastiche della rimozione al fine di allontanare una realtà paralizzante in cui lo stesso concetto di fantasia viene neutralizzato.

In presenza del trauma la difesa egoica viene delegata al pericoloso strumento dissociativo; la capacità di fantasticare viene privata di quell’espediente creativo grazie al quale è possibile modificare un contesto penoso in un vissuto di resilienza; la stessa immaginazione si trasforma in un pensiero immutabile, fatta di ricordi parcellizzati, condotte stereotipate, emozioni congelate, impossibili da integrare nel Sé. La compresenza tra trauma ed esercizio della fantasia è pertanto impossibile, e questo contribuisce a ribadire la natura prettamente nevrotica del romanzo familiare, secondo l’ipotesi originaria di Freud (1905; 1908).

La funzione evolutiva e i possibili rischi del romanzo familiare

Il romanzo familiare consente di prendere le distanze da una realtà limitativa del Sé in tutti quei momenti della vita in cui la ricerca del Sé diventa l’esigenza principale. Ad esempio l’età edipica, la fase adolescenziale o preadolescenziale, ove il distacco psicologico dai genitori è funzionale al raggiungimento di un’identità emancipata dal dominio di oggetti onnipotenti che alimentano il narcisismo e rendono più difficoltoso l’incontro con la realtà.

Esso rappresenta il sostegno ad una de-idealizzazione percorribile attraverso il graduale inserimento in uno spazio intermedio tra realtà e fantasia, in cui i genitori salvifici non scompaiono del tutto, ma vengono semplicemente collocati al di fuori dei confini familiari (Winnicott, 1971; Abram, 1996). A testimonianza di una pressione evolutiva già presente, per quanto acerba.

Ma non c’è niente di definitivo, in questo rifiuto meramente vagheggiato. Solo una pausa difensiva, necessaria fino a che il bambino – o il ragazzo- non sarà in grado di gestire più adattivamente la propria megalomania, attenuando il bisogno di protezione e con esso la necessità di contare su genitori onnipotenti. Allora non ci sarà più bisogno dell’idealizzazione: il genitore verrà valutato alla luce di connotazioni più realistiche ed obiettive, a testimonianza dell’accettazione di una non onnipotenza che potrà essere applicata allo stesso Sé senza distruggerlo (Niccolò, 2021).

Per questo il romanzo familiare favorisce la neutralizzazione della megalomania infantile, e attutisce l’impatto inevitabilmente deludente con la realtà. Ma non si tratta di una pulsione alienante finalizzata ad evitare o a soppiantare l’esperienza con il prodotto di un pensiero patologico; sarebbe dunque inesatto qualificarlo come un delirio psicotico o una patologia dissociativa.

Esso costituisce piuttosto un prezioso esercizio evolutivo, necessario alla costruzione identitaria e al rafforzamento della funzione egoica: il rischio patologico, pur ipotizzabile, si verificherebbe solo se questo fantasticare temporaneo assumesse i connotati di una fissazione ruminante, in cui la necessità di dar vita a realtà appaganti, per quanto inverosimili, sostituisce il riconoscimento della verità storica.

Rischiosi anche i casi in cui l’elemento di estraneità alla famiglia, anziché risultare inventato, corrisponde ad una verità comprovata: ad esempio il contesto adottivo, caratterizzato dalla consapevolezza della non appartenenza al nucleo familiare.

È in questo senso che l’adozione pone fine alla fantasia, saturando lo spazio immaginativo con contenuti non più trasformabili. La fantasia non può trovare attuazione se limitata da contenuto ostativi e troppo realistici- come quello dell’adozione (Niccolò, 2022). Inoltre il bambino adottato non può proteggersi dalle delusioni genitoriali vagheggiando una estraneità alla famiglia, perché è proprio da quest’ultimo fattore che deve difendersi. È quella che la realtà che vorrebbe cambiare. Magari immaginandosi il figlio di quei genitori cui sa di non appartenere negando la realtà stessa dell’adozione, o idealizzando i genitori biologici a scapito di quelli adottivi.

Dunque la situazione si capovolge totalmente: ciò che nel romanzo familiare costituisce un rimedio alla delusione- l’appartenenza ad una famiglia diversa da quella vissuta- nel contesto adottivo ne diviene la causa. E oltretutto non è di una delusione che stiamo parlando, ma di un evento potenzialmente traumatico, la cui gestione richiede una competenza egoica ben più impegnativa e bisognosa di supporto.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Abram, J. (1996), Il linguaggio di Winnicott: dizionario dei termini e dei concetti winnicottiani,  Franco Angeli, 2002;
  • Baumgartner, E. (2010) Il gioco dei bambini, Carocci, Bologna;
  • Freud,  S. (1908), Il romanzo familiare dei nevrotici , OSF, VOL. 5, Bollati Boringhieri, 1972, pp. 471-474, Torino
  • Freud, S. (1905) Il motto di spirito e altri scritti 1905-1908, Opere di S. Freud, Vol. 5, Torino, Bollati Boringhieri, 2001.
  • Klein, M. (1932), La psicoanalisi dei bambini, Giunti, Firenze;
  • Klein, M. (1952) Il nostro mondo adulto e altri saggi, Martinelli, Firenze, 1972;
  • Isaacs, S. (1955), La psicologia del bambino dalla nascita ai sei anni, Fabbri, Milano, 1987;
  • Jacobson, E. (1964) Il sé e il mondo oggettuale, Giunti, Firenze, 1998;
  • Niccolò, A.M. (2021), Rotture evolutive: psicoanalisi dei breakdown e delle soluzioni difensive, Raffaello Cortina, Milano;
  • Niccolò, A,M. (2022) Quale psicoanalisi per la famiglia, Franco Angeli, Milano;
  • Winnicott, D.W. (1971), Gioco e realtà, Armando, Roma, 2002.
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