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La specifica funzione del lettino: quando e perché utilizzarlo nel setting psicoanalitico 

L'uso del lettino in psicoanalisi può favorire le condizioni che agevolano l’instaurarsi di uno stato di rilassamento che facilita le libere associazioni

Di Marta Rebecca Farsi

Pubblicato il 06 Giu. 2023

Il terapeuta è un presenza capace di occupare una posizione defilata senza per questo apparire indifferente alle vicende che prendono gradatamente vita all’interno del setting, e ancor più specificamente nello spazio esistente tra il lettino del paziente e la poltrona.

 

 Lungi dal costituire un semplice elemento di arredo, il lettino si rivela un elemento caratterizzante del setting psicoanalitico, perché in grado di favorire il raggiungimento di molti degli obiettivi preposti dalla terapia. Primo tra tutti quello della libera associazione (Freud, 1895) che permette l’attivarsi di contenuti dell’Es rimossi, scissi o scotomizzati, attraverso uno stato di attenzione fluttuante – fatto di simboli e memorie somatiche – che tanto ricorda quello della dimensione onirica. E dunque del sogno.

Le funzioni specifiche del lettino in psicoanalisi

Freud (1899) ha evidenziato in numerose occasioni l’effetto rivelatore del sogno, inteso come dimensione onirica in grado di creare un accesso nel contenuto inconscio individuale e di favorirne la graduale emersione. Ma dato che il sogno è raggiungibile attraverso l’esperienza del sonno notturno, si rende necessario riprodurre, all’interno del setting, condizioni in grado di agevolare l’instaurarsi di uno stato di rilassamento simile – per funzioni ed effetti – a quello del sonno stesso.

Il lettino riesce in questo compito per una serie di motivazioni:

  • Prima di ogni altra cosa esso consente di sdraiarsi, e dunque di assumere quella condizione orizzontale necessaria all’addormentamento (Bollas, 1989). Chiudere gli occhi cercando di estraniarsi dall’ambiente circostante rende più facile indagare il proprio mondo interiore in una modalità inconsapevole e tuttavia volontaria, in grado di favorire l’emergere di pulsioni arcaiche provenienti dall’Es. Al contrario, la posizione verticale favorisce il mantenimento di stati di vigilanza collegati all’investimento egoico e dunque al principio secondario, e non consente l’allentamento dei meccanismi difensivi coscienti;
  • La posizione orizzontale consente l’instaurarsi di una rilassatezza che coinvolge gli apparati muscolo scheletrici e le funzioni motorie, costruendo un micro ambiente protetto e protettivo, nel quale il paziente può trovare rifugio. Il terapeuta non si trova di fronte a lui: è seduto alle sue spalle, in una poltrona che gli consente un ascolto attento ma non invasivo, presente e tuttavia discreto, grazie al quale la partecipazione empatica può alternarsi a stati di ritiro consapevole;
  • Non sentire proiettato su di Sé lo sguardo del terapeuta può agevolare il ritiro dagli investimenti egoici, laddove un’eccessiva vicinanza oculare potrebbe evocare vissuti transferali di controllo e rigidità, di per sé amplificatori del mantenimento del processo secondario. “L’occhio dell’analista che guarda può ripetere un’intromissione traumatica nella mente, invadendo un segreto spazio di intimità (Nicolò, 2021, p. 129). L’occhio vigilante del terapeuta può essere identificato, in un transfert di resistenza, con la figura persecutoria di un genitore intrusivo che non consente spazio al sé, invalidando la funzione retrospettiva. Sono i figli di quelle famiglie psichicamente indifferenziate -e per questo preclusive della creazione di un Sé autonomo- in cui lo spazio vitale viene messo continuamente in discussione da un altro persecutore e ipercritico. Pazienti resi oggetto di invasioni psicosomatiche da parte di genitori incistanti, interiorizzati come oggetti sabotanti e persecutori, possono sentirsi giudicati e allo stesso modo perseguitati dall’elemento visivo. In questo caso l’occhio non osserva per vedere, ma soltanto per invalidare, annichilire, cancellare il Sé. Lo sguardo diviene così un elemento persecutore che delimita e mortifica il Sé, causando l’attivazione di massivi meccanismi di difesa;
  • Lo stesso terapeuta potrebbe infine sentirsi a disagio di fronte allo sguardo diretto e focalizzato del paziente, e dunque sperimentare controtransfert ostativi e confondenti alla collaborazione interpretativa (Bollas, 1989).

Lo spazio tra il lettino e la poltrona: luogo di contenimento-supportivo….

Senza la posizione orizzontale non sarebbe possibile regredire a quegli stati preverbali e presimbolici che consentono l’accesso all’inconscio non rimosso in cui tutto è sensoriale, pre logico e per questo minacciosamente incontenibile. Ed è qui che entra in gioco il ruolo supportivo dell’analista il quale, dalla sua poltrona alle spalle del lettino, ricorda al paziente che qualcuno lo sta accompagnando in questo incerto viaggio a ritroso nel Sé, finalizzato a significare eventi non dotati di significato, ad integrare sintomi disfunzionali, a sciogliere legami libidici patologici, a risolvere conflitti inconsci mai rielaborati. Il tutto in una finalità direzionante e mai direttiva.

Come una madre ambiente, che non guida il bambino con intento anticipante e narcisistico, ma attende che sia lui stesso a palesarle bisogni e necessità, egli lo rafforza in quel cammino necessario alla scoperta del Sé autentico, consentendogli al contempo ad aver fiducia nell’altro (Winnicott, 1965).

Nell’approccio psicoanalitico il terapeuta è una voce, un elemento sensoriale che sostiene senza toccare, che guida senza dirigere. È un presenza capace di occupare una posizione defilata senza per questo apparire indifferente alle vicende che prendono gradatamente vita all’interno del setting, e ancor più specificamente nello spazio esistente tra il lettino del paziente e la poltrona, che ne costituisce una sottodimensione; quasi un “setting nel setting”, ad ulteriore protezione dei rispettivi spazi psichici e della neutralità dell’analista ( Freud, 1922).

Entrando ed uscendo da questo “bozzolo”, questo spazio fantasticato e tuttavia reale, il paziente comincia a familiarizzare con i confini del Sé, costruendoli laddove siano assenti o rafforzandone la struttura laddove, pur presenti, risultino eccessivamente fragili.

Egli è da solo, e tuttavia non lo è. La sua posizione orizzontale, in apparenza statica e immobile, disegna un vertiginoso viaggio interiore fatto di attese, conflitti, difese, associazioni che gli consentiranno di allontanarsi dal Sé solo allo scopo di farvi ritorno, rafforzato e arricchito dall’incontro con esperienze ri-significanti nella quale prende vita la capacità di stare da soli in presenza di un altro (Winnicott, 1958), intesa come la possibilità di mettersi in contatto con le parti più profonde del Sé senza temere di venirne fagocitati e distrutti.

Come una madre e un bambino che si trovano all’interno della stessa stanza e godono della reciproca presenza pur senza un contatto diretto, allo stesso modo tra il paziente e il terapeuta viene a crearsi un canale comunicativo silenzioso e tuttavia costante in cui entrambi sono consapevoli della presenza dell’altro, pur trovandosi in una solitudine che non è abbandonica né separativa, ma getta le basi di una stabile consapevolezza del Sé.

…e di poiesi trasformativa

Lo spazio consentito dalla presenza del lettino crea una specie di “zona franca” che unisce e divide i protagonisti del setting, garantendo il mantenimento dei rispettivi ruoli e consentendo al contempo la nascita di quella pulsione relazionale necessaria a ri-significare i contenuti asimbolici tratti dal serbatoio protomentale.

È proprio al fine al fine di non compromettere la solidità e l’autenticità della relazione terapeutica che nessuno dei due membri del setting potrà violare i confini di questo spazio, pur potendo attingere da esso l’intersoggettività “intuitiva”che caratterizza i primi rapporti diadici, e consente un adeguato sviluppo del Sé e una solida coesione dell’Io.

La sua presenza, neutrale e tuttavia partecipe alla relazione, contribuisce a delineare dei confini psichici laddove la regressione a vissuti arcaici potrebbe suscitare tentazioni fusionali in entrambi i membri del setting. Allo stesso modo esso contribuisce a bonificare stati transferali e controtransferali eventualmente sperimentati da paziente e terapeuta, rendendoli più accessibili e integrabili nel contenuto egoico.

Possiamo immaginarlo come una sorta di ventre psichico, un contenitore in grado di metabolizzare contenuti psichici selvaggi – i temibili elementi beta – riuscendo ad attivare una funzione trasformativa che evita lo straripamento pulsionale e favorisce il consolidarsi della funzione alfa. Ma anche come il luogo in cui prende vita quel terzo intrasoggettivo che Ogden (1997) definisce il risultato degli scambi di rêverie dell’analista e dell’analizzando, la cui compresenza, partecipe e collaborativa, dà luogo ad un pensiero fantasmatico che non appartiene né all’uno né all’altro in via esclusiva, perché nasce proprio dalla dualità continua e continuata della loro relazione. Del loro stare – consapevolmente e volontariamente- sul legame terapeutico, cercando di trarre dallo stesso motivazioni aumentative del Sé e del Sé con l’altro.

In quest’ottica, il processo analitico “implica la parziale consegna della propria individualità separata ad un terzo soggetto, che non è né l’analista né il paziente, bensì una terza soggettività generata inconsciamente dalla coppia analitica” (Ogden, 1997, p. 10). Nessuno dei due può considerare personali i contenuti dello terzo analitico soggettivo, perché si tratta di un’entità prettamente relazionale prodotta da una relazione. All’interno dello stesso l’evento diventa anzi relazione, soggettività, rapporto, riuscendo ad unire le personalità dei componenti del setting in una finalità reciprocante.

Quando NON è opportuno utilizzare il lettino

Si è detto dell’importanza del lettino in psicoanalisi, al fine di evocare nel paziente quegli stati arcaici che consentono una migliore e più autentica esplorazione del Sé, allentando i processo di difesa e le funzioni egoiche.

Ma non è sempre così.

Esistono alcuni pazienti nei quali la posizione orizzontale imposta dal lettino potrebbe comportare effetti addirittura opposti, provocando l’attivarsi di stati d’angoscia in grado di aggravare il vissuto difensivo e la chiusura relazionale.

 Il riferimento va a soggetti con alti livelli di paranoia o sospettosità, di diffidenza e ritiro relazionale, nei quali la necessità di delimitare il proprio spazio psichico rispetto a quello del terapeuta ricopre una funzione difensiva. Sdraiarsi li farebbe sentire terribilmente vulnerabili, così come non poter guardare negli occhi l’analista significherebbe perderlo di vista, e dunque trovarsi alla sua mercé. Questo potrebbe provocare un effetto contrastivo rispetto alla libera associazione perseguita, andando a rafforzare, anziché indebolire, l’utilizzo del processo secondario.

Al contrario, in pazienti con disturbi psicotici o con gravi vissuti abbandonici, lo sguardo potrebbe fungere da mezzo di contenimento, una sorta di holding materno che protegge dagli urti traumatici e tiene insieme i pezzi del Sé (Winnicott, 1965). Non essere guardati potrebbe destare in essi stati di angoscia, di lutto, di perdita irreparabile.

Lo sguardo contiene, abbraccia, tiene insieme in una fase della vita in cui l’approccio al Sé e alla realtà è meramente viscerale. Aggrappandosi allo sguardo il bambino percepisce un senso di contenimento e protezione. Si sente tenuto insieme contro pericolose angosce di frammentazione (Bick, 1967). Mentre guarda egli introietta l’oggetto buono che lo nutre e lo sostiene, mentre viene guardato sente di esistere con l’altro e per l’altro. Laddove uno sguardo assente servirebbe solo a rendere inconsistente la presenza della madre che abbraccia e nutre il Sé arcaico.

Esther Bick (1967) ha dimostrato il valore nutritivo dello sguardo nelle prime fasi della vita. Lo sguardo della madre, non meno del cibo, è in grado di fornire contenuti essenziali alla sopravvivenza fisica e psichica.

Ove sguarniti di questo supporto visivo i pazienti sperimenterebbero di nuovo quel senso di solitudine desertificante che hanno vissuto nell’infanzia, e che il setting riproporrebbe loro sottoforma di un vissuto transferale persecutorio. Al contrario, sostenuti da un contatto oculare empatico, essi riescono a maturare stati emotivi sintonizzanti e riflessivi, sapendo di essere tenuti insieme da un’enveloppe visiva – lo sguardo vis a vis col terapeuta – che, come l’abbraccio di una madre, li protegge. Li contiene. Non li fa sentire soli.

Dunque, lettino o non lettino?

Per rispondere a questa domanda è necessario affidarsi all’intuito relazionale dell’analista e alla sua capacità di comprendere le caratteristiche del setting specifico nel quale si trova ad operare. Dunque, prima di servirsi del lettino in psicoanalisi sarà sempre utile porre attenzione al tipo di disturbo che si sta trattando, e, nel rispetto della soggettività del paziente e dell’efficacia della terapia, valutare l’opportunità del suo utilizzo.

Si tratta di una conclusione ovvia. Fatte salve le singole metodologie e gli aspetti teorici, la psicoterapia è soprattutto una scienza vissuta sul campo, e per questo fondata sulle esigenze del paziente, il cui rispetto è a sua volta fondamentale per la costruzione di quell’alleanza necessaria al buon esito della terapia stessa.

Il rispetto dei canoni metodologici non può tradursi in un’applicazione standardizzata e inflessibile dei medesimi: è alla luce di ciò che il lettino, per quanto elemento caratterizzante del setting psicoanalitico, non ne costituisce elemento imprescindibile.

Il suo impiego deve essere preventivamente reso oggetto di discussione tra paziente e analista il quale, di fronte ad un eventuale rifiuto, potrà eventualmente cercare di ottenere chiarimenti sulle motivazioni che lo hanno provocato. In seguito a ciò sarà possibile optare per un’introduzione successiva del lettino o, al contrario, escluderlo del tutto.

Eventualità che accade più spesso di quanto si possa credere. Al di là delle credenze collettive oggi si fa un uso molto meno frequente del lettino in psicoanalisi, gli analisti preferiscono instaurare con il paziente un rapporto più diretto e interfacciato, in grado di fornire importanti informazioni sulle sue competenze comunicative non verbali e sulla sua capacità di gestirle.

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Bick, E. (1967), The experience of the skin in early object-relations, in Il modello Tavistock, Astrolabio, pp. 126-130, Roma;
  • Bollas, C. (1989) L’ombra dell’oggetto, tr.it. Raffaello Cortina, Milano;
  • Freud, S. ( 1920), Al di là del principio del piacere, Bollati Boringhieri, Torino, 1986;
  • Freud S. (1922), Due voci di enciclopedia: “Psicoanalisi”. 1. Psicoanalisi, Opere, vol. 9. Torino, Boringhieri, 1977;
  • Freud, S. ( 1895) Studi sull’isteria e altri scritti. Opere, vol. I, Bollati Boringhieri, Torino, 1977;
  • Freud, S. (1899) L’interpretazione dei sogni, Bollati Boringhieri, Torino, 2011;
  • Nicolò, A.M. (2021) Rotture evolutive. Psicoanalisi dei break down e delle soluzioni difensive, Raffaello Cortina, Milano;
  • Ogden T. (1997) Rêverie e interpretazione trad. it., Astrolabio, Roma, 1999
  • Winnicott, D. W., (1957) La capacità di essere solo. Tr. it. in: WINNICOTT, D. W.,(1965) Sviluppo affettivo e ambiente: studi sulla teoria dello sviluppo affettivo. A. Armando, Roma 1974.
  • Winnicott, D. W., (1945) Lo sviluppo emozionale primario. Tr. it. in: WINNICOTT, D. W., (1958) Dalla pediatria alla psicoanalisi, Firenze, Martinelli, 1975.
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