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L’umorismo è una cosa seria. Intervista a Luca Nicoli, sull’uso dell’umorismo e del gioco nella pratica psicoanalitica

Intervista al Dott. Luca Nicoli sull’utilizzo dell’umorismo e del gioco con i pazienti nella pratica psicoanalitica

Di Roberta Cimaglia, Lara Scali, Giuseppe Tropeano

Pubblicato il 23 Ott. 2023

Nella produzione letteraria di Luca Nicoli, cominciata nel 2008, dal 2017 al 2022 si assiste a un’incursione irrefrenabile nel territorio dell’ironia, da sempre parte del discorso psicoanalitico, seppur sottovalutata come una commedia nominata all’Oscar per il miglior film.

“Pensieri di uno psicoanalista irriverente. Guida per analisti e pazienti curiosi” (Ferro A, Nicoli L, Raffaello Cortina, 2017), “Dottore ho una Tulip nella testa” (Nicoli L, Ferrari E. Youcanprint, 2021), “Freud e il mondo che cambia. Psicoanalisi del presente e dei suoi guai” (Bolognini S, Nicoli L, Enrico Damiani Editore, 2022), “Un passo oltre. Idee per una psicoanalisi inclusiva” (Nicoli L, Mimesis, 2023).

La scelta bizzarra dei titoli, l’imprevedibilità degli accostamenti, ci fanno fantasticare sul terapeuta che si presenta con tale umorismo e ci dicono chi sia Luca Nicoli, senza dirci chi sia Luca Nicoli.

D’altronde, anche Milan Kundera, in un’intervista di Philip Roth del 1980, disse: “Riconosco una persona dal suo modo di sorridere. Il senso dell’umorismo è, per me, un affidabile segno di riconoscimento. Sono altresì terrorizzato da un mondo che sta perdendo il suo senso dell’umorismo.

Giuseppe Tropeano: Nel titolo “Dottore, ho una Tulip nella testa”, mi ha colpito la parola “Tulip”. Ci ho messo venti minuti a capire che si trattava della sedia di Eero Saarinen con le sue instabilità. Sedia che, essendo girevole, non guarda mai dalla stessa parte e si rischia di ritrovarsi ribaltati. Che significato ha, nel tuo viaggio, aver scritto questo libro di narrativa?

Luca Nicoli: Scrivere è un po’ giocare. Il romanzo “Dottore, ho una Tulip nella testa” è un libro di narrativa con tanti contenuti psicoanalitici, scritto insieme a un’amica, che mi ha proposto una sfida. Io da solo, non mi sarei mai cimentato. È stato un modo per parlare di certi temi complessi in modo diretto e divertente, o commovente. Ad esempio: che cosa pensa uno psicoanalista contemporaneo dell’omogenitorialità, della malattia somatica, dell’adozione?

Uno può proporre una lunga sequenza di riflessioni psicoanalitiche, teoriche e cliniche, oppure può mettere uno psicoanalista alle prese con questa faccenda, in diretta. Come è considerato uno psicoanalista omosessuale all’interno di una associazione scientifica come la Società Psicoanalitica Italiana? Fino a quindici anni fa non erano mai stati accettati al training allievi omosessuali. E allora, caro il mio protagonista Giulio Lamandini, tu sei un analista di Bologna, gay e lo nascondi ai tuoi colleghi, in un certo senso, segui quella massima di Groucho Marx che recita “non entrerei mai in un club che accettasse come socio uno come me”.

Roberta Cimaglia: Se la protagonista di questo libro, Adelaide, fosse una tua paziente, azzarderesti dell’umorismo nel vostro setting analitico?

Nicoli: Una cosa che mi dispiace molto è quando le persone si sentono messe da parte, quando… c’è una festa, e ti tocca stare in un angolo. Per cui, prima di risponderti, vorrei parlare di questo personaggio, perché altrimenti metto nell’angolo tutte le persone che non hanno letto il libro.

Questa donna, quasi trentenne, “si tiene” e fa tutto da sé, controlla i 38 minuti necessari ad avere un rapporto sessuale, dopo il quale “non è più sesso, ma diventa possesso”. (…) Adelaide indossa tacchi alti, tailleur e sorriso d’ordinanza. È una milanese che lavora nel campo della virtual imaging, quindi nella pubblicità: si è strutturata in una finzione, con quello che potremmo definire un importante falso Sé difensivo.

Secondo me il sorriso all’interno di una struttura di falso Sé, è un sorriso intellettuale, quindi rischia di non essere vero, ma solo di maniera. Invece il sorriso autentico può nascere nel momento in cui si raggiunge il vero Sé, cioè quando Adelaide è in grado di smettere di controllare sé stessa e il suo mondo e cominciare a lasciarsi andare. Il mio primo supervisore parlava del lettino come il luogo dove si può pensare con i piedi per aria. Quello diventa un sorriso bello, condiviso, che non è il sorriso di facciata, ma diventa quello della bimba che si ritrova a fare una capriola con il papà e la mamma.

Mi viene in mente una paziente con cui abbiamo lavorato a lungo sulla figura della “piccola fiammiferaia”. Lei era molto in difficoltà: le mancava sua madre, che non era mai stata la mamma amorevole che lei avrebbe voluto. Ne abbiamo parlato per anni. A volte le sedute diventavano uno strazio, erano pervase dalla noia, da un senso di aridità e di disperazione. Dopo tanti anni, probabilmente perché la seduta era alle sette di sera e io ero stanco, cominciai a rispondere alle sue sollecitazioni meno da genitore accudente e più da compagno di chiacchiere e di  giochi. Arrivammo a “sbottonarci” e a sperimentare quello che la paziente pensava non si potesse dire, in analisi. Venne fuori che il padre della signora, morto prematuramente, era un gran burlone, pieno di inventiva. Allora la paziente smise, a poco a poco, di commiserarsi, e osò guardarsi intorno: intraprese un corso di teatro sperimentale, cominciò a uscire con nuove amiche, meno altolocate ma più divertenti. Mi disse: “Dottore, è che io ho sempre confuso la profondità con la pesantezza”.

L’anno scorso mi ha proposto di festeggiare il suo compleanno mangiando insieme un paio di pasticcini. Prima non l’avrebbe mai fatto.

Ora, rispetto a questa richiesta, potrei raccontarvi quante altre volte (direi il 99%, se non il 100), ho detto: “Grazie, li accetto” per poi metterli sul mobile accanto alla poltrona, senza mangiarli in quel momento (noi analisti siamo molto severi sul “fare” le cose in seduta, preferiamo interpretarne i possibili significati relazionali e inconsci). In quell’occasione, invece, ho pensato che dopo sette o otto anni di un’analisi con una persona che doveva essere “rianimata”, l’idea di un piccolo picnic non era male. Tanto per intenderci, per anni la paziente si era incuriosita dei miei libri, ma non si era mai azzardata a chiedermi di potersi alzare a guardarli da vicino. L’offerta “osé” dei pasticcini mi sembrava una ventata di aria fresca.

Questo non è sempre possibile. Per esempio, con Adelaide, anche se ha dei tratti molto autoironici, non credo si possa scherzare più del dovuto, perché lei su una Tulip poco salda e affidabile non ci vuole stare. Io credo molto nel rispettare quelle che vengono chiamate le difese del paziente. Possiamo considerarle come l’unica possibilità che una persona ha trovato per stare al mondo, a modo suo. È come nella celebre illusione ottica del vaso di Rubin: c’è l’immagine del vaso che rappresenta le difese, ma se uno vede anche le due facce, allora intuisce che quel modo è la possibilità di quella persona di incontrare il mondo.

Scali: Continuando sulla tematica delle difese, nel 2015 andai a un incontro con GIPI e Zerocalcare. Proprio in quel periodo storico si verificò l’attentato a Charlie Hebdo, dove dei vignettisti satirici furono oggetto di un atto terroristico. Zerocalcare disse: “La satira è una difesa del debole contro il forte” e non specificò, in quel contesto, se quelli di Charlie Hebdo fossero i deboli o i forti. Per cui io mi chiedo, partendo da questo spunto esterno: nel momento in cui uno psicoanalista usa la satira o l’umorismo, in che modo può tenere presente la tensione tra debole e forte, vittima/persecutore? Tu hai in mente questa tensione, questo dualismo dei ruoli?

Nicoli: Ti ringrazio per la domanda, che tocca in me corde profonde. Intanto, per inciso, credo che Zerocalcare a volte saprebbe fare lo psicoanalista meglio di me. Trovo irresistibile la sua maestria nell’offrire rappresentazioni visive dei suoi stati emotivi. L’Armadillo, il Polpo alla gola, e poi l’uso del Maestro Yoda e degli altri personaggi della nostra infanzia come interlocutori interni è geniale.

Tornando a noi, il rapporto tra vittima e abusante è alla base del mio modo di intendere la società e la psicoanalisi. Ogni volta che un mio paziente, o anche un amico, mi confida di una violazione del proprio spazio o del proprio corpo, cui spesso è seguita un’intimazione al silenzio, io denuncio questo fatto ad alta voce: “Questo è un abuso!”“Questa è un’umiliazione!”

Consentire a chiunque di poter sentire come legittime le proprie ferite, la confusione, le offese profonde, o più spesso la somma di questi sentimenti, significa aiutarlo a non percepirsi come solo e sbagliato, colmo di imbarazzo e di vergogna.

Credo che la vergogna sia il sentimento più micidiale che possa esistere: bisogna stare molto attenti a non far vergognare le persone, quando si scherza. Quella che buca il senso del pudore non è più ironia, ma è lo sbeffeggio, la risata che umilia e deride.

Credo che l’analista possa scherzare più facilmente quando si vive come “piccoletto”, e debba fare più attenzione quando si vive come grande, perché c’è sempre il rischio di apparire come persone che sminuiscono, con la loro risata.

Se io in quel momento mi percepisco come un genitore o un maestro, cerco di avere una voce pacata e molto tenera, tutt’altro che di scherno. Io amo la tenerezza perché noi tutti, in certi momenti, ne abbiamo bisogno. Ecco, io credo che, quando siamo percepiti in posizione superiore, dobbiamo essere teneri per poter ridere in modo bonario; dobbiamo trovarci alla stessa altezza dell’altro. Qui trova posto il sorriso dell’analista.
Ricordo alcune circostanze nelle quali con mia figlia, che è ancora piccoletta, io sorridevo per delle sue uscite buffe e lei si arrabbiava. “Papà, non ridere”. Allora mi sono reso conto che il mio sorriso per una “cosetta” rappresentava per lei una derisione, perché il suo problema per lei era grande, una cosa seria. E allora quello significa che in quel giorno ho esaurito la mia capacità empatica, e bisogna stare attenti.

Scali: Quindi, secondo te, l’umorismo è superpartes o partigiano?

Nicoli: La prima risposta che mi viene da darti è che l’umorismo non può essere che partigiano, perché “prende parte”, e mi piace molto quando prende la parte del debole, quando prende la parte di colui che viene ignorato, di quello che viene “nascosto”. L’umorismo con la sua carica aggressiva ma gioiosa, ha la possibilità di andare laddove certi modi di dire, o di porsi, non possono arrivare.

Non a caso, l’umorismo è il primo fenomeno che viene represso nei regimi totalitari.  Viene cancellato nelle gravi depressioni, nelle personalità paranoiche, come anche la capacità di ridere di sé; rimane soltanto la risata aggressiva, spietata, un riso di denti.

Ecco, io credo che se il sorriso è un modo clandestino di raggiungere e sovvertire dal basso le dittature psichiche, pubbliche, personali e gruppali, allora svolge un buon servizio.

Scali: Fino ad ora hai nominato il riso finto del dittatore, lo sghignazzo del perverso e il sorriso del debole e del piccolo. Sorridendo, troviamo nel suo libro-intervista “Freud e il mondo che cambia” la parola “Interpretoni”, che indica un eccesso di interpretazione di taluni psicoterapeuti, magari di vecchia scuola.

Fai un gioco di parole perdonato, appunto, dall’elemento umoristico. In un certo senso, attraverso l’umorismo si può uccidere il padre, con un omicidio edipicamente legale, intendo?

Nicoli: quando parlo di interpretoni mi riferisco a personaggi grotteschi, che credo abitino più le barzellette che gli studi reali. L’interpretazione analitica, che dà senso dove prima c’era solo il peso del sintomo, dell’angoscia o dell’inibizione, è uno strumento di liberazione. Ho avuto maestri che nella loro prassi interpretavano con una raffinatezza encomiabile, facendo venire alla luce i fantasmi invisibili della mente.

Oggi come oggi, mi sentirei di dare dell’interpretone a quegli analisti da barzelletta, per fortuna più mitici che reali, che domandavano centonovanta mila lire per una seduta, e quando il paziente porgeva loro un paio di banconote da centomila lire chiedendo il resto, interpretavano il gesto come un attacco invidioso. Un’interpretazione di questo tipo, o altre meno ridicole ma ahimè più reali, sembrano avere l’obiettivo di mantenere l’autorità, quando si ha paura che vacilli.

Non so se esistano ancora dei veri e propri interpretoni, o se siano mai esistiti. Più che di persone, credo si tratti di una modalità di essere analisti, che varia durante gli anni, e anche durante la giornata. Anche io, alle volte, sono Interpretone, anche se adesso un pochettino meno. A me è capitato, soprattutto da più giovane, di dare qualche interpretazione-frustata, quando mi sentivo in difficoltà. Come i domatori con le belve.

Agli inizi della mia carriera, una volta interpretai il sogno di un paziente, un po’ troppo irriverente per il me di allora, mostrandogli che si trattava di una violenza sessuale. Mi accorsi subito dopo (ci si accorge sempre subito dopo…) che l’interpretazione stessa del sogno era un mio gesto violento verso il malcapitato paziente, per rimetterlo al suo posto. Avevo avuto paura delle belve.

Cimaglia: Parli di vecchi analisti, e tutti noi pensiamo a Freud. Si passerà dal padre della psicoanalisi al nonno della psicoanalisi?

Nicoli: Io sono grato a Freud. Certo, è un padre che ha centoquarant’anni! È ben in salute, mi auguro che si ricordi di prendere le pillole per la pressione, ma deve accettare di diventare nonno, così noi possiamo permetterci di diventare adulti. Altrimenti il rischio è quello che la nostra generazione rimanga quella dei “giovani” della psicoanalisi, ben oltre i cinquant’anni. Si rischia di delegittimare la nostra possibilità di presentare pensieri autonomi e legittimi, pur portando istanze, esigenze, teorie e usi diversi da quelli dei nostri maestri.

Cimaglia: Luca, in chiusura ti volevo chiedere se puoi anticipare qualcosa rispetto al tuo prossimo libro “Un passo oltre. Idee per una psicoanalisi inclusiva” (Mimesis/ Frontiere della psiche, 2023). Mi ha fatto sorridere il commento di Sergey Knyazev, il curatore dell’edizione russa, che è uscita prima che in Italia: “Fai come Boris Pasternak, ma al contrario! Il suo Dottor Zivago è uscito in Italia per Feltrinelli nel 1957, in anteprima mondiale, e solo più tardi in Russia. Tu percorri la strada al contrario!”.

Nicoli: Questo libro è una raccolta di scritti degli ultimi anni, che hanno il filo conduttore dell’incontrare il paziente là dove si trova, per cercare di aiutarlo a costruire un‘intimità analitica. Include un articolo che parla dell’usare il pongo con i preadolescenti, un altro che parla dell’uso del gioco e dell’umorismo con i pazienti adulti. Poi c’è Mariano, che a un certo punto smette di parlare e comincia a scrivere. Va avanti così, mutacico, per diverso tempo, e allora, per incontrarlo lì dov’è, mi metto a scrivere anch’io. Scriviamo in due, su un quadernino, come i ragazzini a scuola, fino a quando lui non ritrova la parola.

Poi c’è un contributo di Glen O. Gabbard, cui sono molto grato, che affronta i temi dell’online, della privacy su internet. Io gli faccio da contrappunto trattando il tema della seduzione della magia digitale, e poi della dimensione dell’online, un nuovo mondo che abbiamo appena cominciato a esplorare.

Voglio ricordare il breve ma intenso dialogo con Antonino Ferro, dove parliamo delle origini del modello di campo bioniano e del suo futuro. Affrontiamo anche il destino della professione dell’analista, i rischi dell’ortodossia e della paura del nuovo. È un discorso agrodolce su dove stiamo andando. Mi auguro che sia verso un futuro di responsabile libertà.

“Ridere è una cosa seria” scrisse molti anni fa Gregory Bateson nel suo libro “L’umorismo nella comunicazione umana” (Raffaello Cortina 2005). Questa affermazione trova una base di verità, essendo l’umorismo tra i meccanismi di difesa più evoluti all’interno di un apparato psichico maturo.

Nell’affrontare la tematica dell’umorismo in psicoterapia, abbiamo cercato di renderlo materia viva con il nostro dialogo. Come un terapeuta non può prescrivere la risata a un suo paziente, così anche noi non abbiamo preteso di ingabbiare l’umorismo per i nostri lettori. In diverse fasi del nostro dialogo con il Dott. Nicoli ci siamo chiesti fino a che punto potessimo ridere nella e della nostra professione.

Tuttavia, nessuno ha mai imposto limiti all’umorismo se non il racconto che Sabina Spirlein fa di Jung: “… non c’è cosa al mondo sulla quale egli non sappia ironizzare, all’infuori dell’eternità e dell’infinito”.

 

Luca Nicoli: biografia

Luca Nicoli, Psicologo e Psicoterapeuta, è Psicoanalista ordinario della Società Psicoanalitica Italiana e full member della International Psychoanalytical Association.

È Professore a contratto presso l’Università di Parma.

È stato docente presso la Scuola di specializzazione in psicoterapia Bianchini – De Risio di Chieti, e ha svolto docenze in corsi universitari, master, enti di formazione pubblici e privati.

È stato redattore della Rivista di Psicoanalisi, è tuttora un Reviewer dell’International Journal of Psychoanalysis.

È autore di oltre venti articoli su riviste scientifiche nazionali e internazionali.

Ha pubblicato: Storie di guerra e d’osteria (2008) presso Il Fiorino, Amare senza perdersi (2009), L’arte di arrabbiarsi (2011), Il sogno, quel film notturno che parla di noi (2014) presso Foschi, Pensieri di uno psicoanalista irriverente (con A. Ferro, 2017) presso Raffaello Cortina, Dottore, ho una Tulip nella testa (con E. Ferrari, 2022) presso Youcanprint, Freud e il mondo che cambia (con S. Bolognini, 2022) presso Enrico Damiani.

È responsabile della rassegna divulgativa Freud e il mondo che cambia, premiata nel 2021 all’IPA in the Community Award.

Lavora come psicoanalista e supervisore a Modena.

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