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Il Disturbo Ossessivo Compulsivo e le età della vita – SOPSI 2014 – Prof. G. Maina

SOPSI 2014

Report dalla Sessione Plenaria

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo e le età della vita

(G. Maina, Torino)

 

SOPSI 2014 - Plenaria MainaLa descrizione classica del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) fa riferimento ad un disturbo con esordio precoce, decorso cronico e suscettibile agli eventi di vita. Ma è veramente così o questi sono solo luoghi comuni?

Il Prof. G. Maina, in un intervento brillante ed interessante, discute ciascuno dei tre punti alla luce della letteratura scientifica più aggiornata.

 

 

 

1.    ESORDIO PRECOCE

Diverse ricerche scientifiche hanno evidenziato che la maggior parte delle persone con DOC esordisce entro i 25 aa.

SOPSI 2014 - Simposio sul Disturbo Ossessivo Compulsivo
Articolo consigliato: Report dal Simposio: La Complessità dell’inquadramento e del trattamento del DOC nelle età della vita

Un recente studio (Anholt et Al., 2014) condotto su 377 pazienti ha mostrato come l’età di onset per questo disturbo si distribuisca su una curva bimodale in cui nella maggior parte dei pazienti l’esordio avviene prima dei 20 anni (early onset); tali pazienti sono tra loro simili e rappresentano un gruppo compatto, che si differenzia dai pazienti Adult Onset (20-40aa).

Esiste poi una piccola percentuale di pazienti ad esordio tardivo (dopo i 40aa): sono donne con sintomi subclinici su cui impattano eventi di vita. Se si ha di fronte un esordio DOC tardivo che non presenta queste caratteristiche, è fortemente probabile che si tratti di altro oppure che si tratti di un nuovo episodio di un disturbo DOC che si era già mostrato in passato, ma poi si era risolto.

 

 

2.    DECORSO CRONICO

In letteratura è diffusa l’idea che il decorso del DOC sia cronico. Più gli studi sono datati, più il decorso del disturbo viene definito maggiormente cronico. Studi prospettici recenti, invece, illustrano risultati che indicano nella direzione opposta. Si osservano infatti:

  • Forme sporadiche di DOC (in cui si osserva guarigione e non ricorrenza) che interessano forme familiari e non, forme con tic e non, forme biologiche e non…
  • Forme che evolvono in altri disturbi (es. DOC che evolvono in disturbi bipolari in presenza di abuso di sostanze)
  • Quadri cronici, in cui si possono osservare modifiche quantitative (relative alla gravità dei sintomi), ma che spesso mantengono la loro dimensione sintomatologica
  • Forme biologiche, in cui il DOC è manifestazione di una malattia autoimmune.

 

 

3.    EVENTI DI VITA

Il DOC pare essere un disturbo suscettibile agli eventi di vita in categorie specifiche:

Nei bambini e negli adolescenti, per i quali, in presenza di un disturbo DOC, è necessario valutare la presenza di eventi di vita che siano stati percepiti come traumi gravi dal soggetto.

Nei Late Onset, dove un trauma grave o una gravidanza/post partum possono indurre lo sviluppo del disturbo.

 

 

In conclusione, il Disturbo Ossessivo Compulsivo è un disturbo prevalentemente ad esordio precoce, ma si possono presentare esordi in età adulta e persino tardiva. Il decorso non è sempre cronico, bensì composito e con varianti evolutive, forme sporadiche e forme biologiche. È un disturbo suscettibile ad eventi di vita, nello specifico eventi di vita gravi interessano l’esordio in bambini, adolescenti e donne over 40; in queste ultime un ulteriore fattore di rischio è rappresentato dalla gravidanza.

 

TUTTI I REPORTAGES DAL CONVEGNO SOPSI 2014

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BIBLIOGRAFIA:

  • Anholt GE. et Al. (2014) Age of onset in obsessive-compulsive disorder: admixture analysis with a large sample. Psychol Med. 2014 Jan;44(1):185-94.
  • Frydman et Al. (2014) Late-onset obsessive-compulsive disorder: risk factors and correlates. J Psychiatr Res. 2014 Feb;49:68-74
  • Skoog G. & Skoog I. (1999) A 40-year follow-up of patients with obsessive-compulsive disorder. Arch Gen Psychiatry. 1999 Feb;56(2):121-7.
  • Maina G. et Al. (1999). Obsessive-compulsive syndromes in older adolescents. Acta Psychiatr Scand. 1999 Dec;100(6):447-50.
  • Rosso G. et Al (2012) OCD during pregnancy and post partum. Riv Psichiatr. 2012 May-Jun;47(3):200-4. doi: 10.1708/1128.12441. 

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo al Congresso SOPSI 2014

SOPSI 2014

Report dal Simposio:

La Complessità dell’inquadramento e del trattamento del DOC nelle età della vita

 

 

SOPSI 2014 - Simposio sul Disturbo Ossessivo CompulsivoSimposio sul disturbo ossessivo compulsivo al diciottesimo Congresso della Società Italiana di Psicopatologia (SOPSI) 2014. Quattro relatori, tra cui uno psicoterapeuta cognitivo, Francesco Mancini, che dialoga con tre psichiatri d’impostazione farmacologica: Umberto Albert (Responsabile della Segreteria Scientifica del congresso), Donatella Marazziti e Antonio Tundo. Mentre aspetto che inizino le relazioni penso che sarà interessante vedere come interagiranno questi clinici di differente formazione.

Comincia Mancini, che espone il suo noto modello cognitivo dell’ossessività. L’esposizione è particolarmente sintetica e stringata e consente di avere una visione chiara. Mancini dapprima insiste sulle componenti intenzionali e cognitive del disturbo ovvero sulla possibilità che i sintomi ossessivi dipendano da pensieri espliciti, poi conferma che l’ossessività dipende da pensieri di colpa e disgusto e infine riflette sul rapporto tra questi due domini emotivi.

Il disgusto sembra giocare un ruolo prevalente sull’ossessivo schiavo del lavaggio, il cosiddetto washer. Tuttavia Mancini riesce a ricondurre anche quest’area sintomatologica alla colpa, riportando dati che correlano il senso di disgusto verso se stessi alla colpa morale.

Impressiona sapere da studi sperimentali come persone oppresse da un senso di colpa –anche non ossessivo- provino sollievo lavandosi le mani; una sorta di conferma delle basi cognitive dell’atto di Pilato.

SITCC 2012 – Disgusto e Colpa nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo. - Immagine: © olly - Fotolia.com
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Mancini prosegue distinguendo colpa altruistica (il timore di aver recato danno) e colpa deontologica (il timore di aver violato una norma morale) e connettendo l’ossessività e il disgusto soprattutto alla colpa deontologica. Infine conclude con i suoi noti studi sulle immagini cerebrali che dimostrano come la colpa deontologica, connessa al disgusto e all’ossessività, abbia una localizzazione neurologica diversa dalla colpa altruistica, essendo posizionata nell’insula e non nelle aree corticali; il che ne conferma la natura più arcaica in termini di evoluzione cerebrale.

Dopo Mancini tocca ad Albert, che espone interessanti dati sulla familiarità dell’ossessività. Insomma, i parenti di pazienti ossessivi sono a loro volta significativamente più ossessivi della popolazione generale. Se questo abbia base genetica o ambientale rimane senza risposta, se non il solito buon senso (sia pure scientificamente corroborato) che suddivide la responsabilità tra i due fattori. È un eterno dilemma e un eterno compromesso.

La relazione della Marazziti è dedicata al livello di consapevolezza di questi ossessivi. In che misura queste persone si rendono conto dell’irrazionalità dei loro timori? La risposta è difficile. Naturalmente i pazienti più gravi, quelli che sono in cura più per pressioni esterne che per convinzione interiore, mostrano un basso grado di consapevolezza. E probabilmente, dal suo punto di vista psichiatrico, la Marazziti ha a che fare soprattutto con questo tipo di pazienti.

Il quadro è più ambiguo per il paziente che ha consapevolmente scelto una psicoterapia, che inevitabilmente sarà più motivato e conscio della natura psicologica del suo problema. È però vero che questi pazienti anche quando hanno scelto autonomamente la psicoterapia mostrano una forte difficoltà a distaccarsi dai propri pensieri ossessivi, mostrando quindi di crederci molto, di prenderli per veri e buoni. Insomma, dice la Marazziti, si tratta di pazienti con scarsa consapevolezza.

Per ultimo Tundo espone i dati di uno studio, condotto insieme a Mancini, di efficacia della psicoterapia cognitiva su pazienti in comorbilità ossessiva e psicotica. Una popolazione apparentemente poco adatta alla psicoterapia, nonché particolarmente sofferente.

Ma i dati di Tundo sono positivi e incoraggianti e stimolano l’introduzione sempre più massici di trattamenti psicoterapeutici nella pratica psichiatrica.

Forse questa è la risposta alla mia domanda iniziale: come interagiscono psichiatri e psicoterapeuti cognitivi? Al loro meglio, unendo le loro forze.

 

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La Psicopatologia e le età della vita – Congresso SOPSI 2014

SOPSI 2014

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

SOPSI 2014 Torino - BANNER

Dopo 17 anni torna a Torino il Congresso SOPSI alla sua diciottesima edizione dal titolo la psicopatologia e le età della vita e presieduto dal Prof Filippo Bogetto, presidente della Società Italiana di Psicopatologia.

Alla giornata inaugurale erano presenti le autorità istituzionali e gli esponenti della ricerca, della clinica e dell’università torinesi nonché naturalmente illustri partecipanti, soci e non, provenienti da tutta Italia.

Alla presentazione del prof Bogetto ha fatto seguito l’apertura dei lavori con l’intervento del Dr Del Favero, direttore dell’azienda ospedaliera universitaria “ Citta della Salute e della Scienza” di Torino, struttura che riunisce tra gli altri i poli d’eccellenza delle Molinette, CTO, OIRM e Sant’Anna.

Proprio in relazione al tema di questo diciottesimo congresso il Dr Del Favero pone l’accento sulla complessità di una visione longitudinale della cura nelle età della vita dal periodo perinatale all’infanzia e fino alla senescenza.

A seguire è intervenuto, portando i saluti del Rettore dell’Università degli Studi di Torino, il Prof Federico Bussolino vice rettore con delega alla ricerca che ha sottolineato come negli ultimi anni i bandi di fondi destinati alla ricerca premino progetti imperniati sul benessere e sulla qualità di vita, ambito nel quale le neuroscienze ed in particolare la psichiatria sono fondamentali.

Il Prof Riccardo Rigardetto, direttore della Scuola di Medicina e Neuropsichiatra infantile ha ricordato il rapporto strettissimo e sempre più studiato tra la mente e il corpo che porta la psicologia e la psichiatria a integrarsi ed essere sempre più coinvolte nelle altre discipline mediche e di cura.

Chiude la carrellata dei saluti la Dr.ssa Giovanna Briccarello, direttrice generale dell’Asl TO1 che mette in evidenza il grande problema della carenza di risorse e dell’inquietudine esistenziale generate dall’attuale congiuntura economica che si ripercuote sulla qualità di vita dei cittadini generando malessere e a volte patologia psichiatrica.

In questo momento più che mai è importante che tutti i servizi possano trovare una modalità di lavoro integrata al fine di sfruttare al meglio le risorse disponibili e puntando ad una sempre maggiore collaborazione tra ospedali e territorio.

Il Presidente della SOPSI, Prof Bogetto, espone infine una disamina degli aspetti clinici e della psicopatologia in una prospettiva longitudinale nelle età della vita, appunto, partendo dalla constatazione che, essendosi la vita media europea allungata dai 72 anni del 1990 ai 76 del 2011, anche la vita in patologia è aumentata con situazioni di cronicità e di problematiche legate alla senescenza.

Pertanto anche in ambito di malattia e cura è auspicabile affiancare al qui ed ora anche una visione più completa che tenga conto dell’evoluzione degli aspetti patologici e psicopatologici e delle differenze di presentazione delle patologie nel corso della vita.

Il disturbo bipolare può presentare caratteristiche peculiari a seconda dell’età di esordio e questo dato va considerato attentamente e studiato al fine di evitare ritardi nella diagnosi che comprometterebbero la prognosi e la qualità della vita dei pazienti. Questo stesso discorso è valido per le principali psicopatologie come la schizofrenia, il disturbo ossessivo compulsivo, il disturbo borderline di personalità anche se purtroppo, almeno per quanto riguardala schizofrenia, per ora l’individuazione di aspetti premorbosi e poi prodromici comporta il peso di una diagnosi stigmatizzante e non pare aver dato risultati significativi in termini di riduzione della progressione a patologia conclamata.

E’ quindi sottolineato ampiamente in apertura del Congresso l’importanza di estendere lo studio, la comprensione e la cura della psicopatologia ad una visione più ampia e completa della persona sia nelle sue caratteristiche di individuo inserito in un contesto psicosociale sia di persona in evoluzione.

 

 

Università: l’abilitazione nazionale e il privilegio della cecità

Simone Natale Ph.D

 

 

Peer Review Process - Abilitazione Nazionale UniversitaLa pubblicazione dei giudizi pronunciati nelle procedure di abilitazione nazionale, che decide sulla possibilità di diventare professore associato ed ordinario nell’università italiane, ha suscitato molte critiche e proteste.

In molti casi, messi in luce dal ROARS così come da numerosi quotidiani, le decisioni delle commissioni giudicanti lasciano infatti molti dubbi.

Sebbene si tratti di 185 commissioni che lavoravano nei rispettivi settori disciplinari, dunque ogni commissione vada giudicata per il proprio specifico lavoro, l’intera procedura di abilitazione nazionale rischia di perdere di credibilità. E con essa, ne perde l’università italiana.

Questo episodio stimola a riflettere sul modello delle commissioni per le valutazioni del merito di individui o progetti di ricerca. Negli ultimi anni, il sistema universitario italiano e internazionale –a partire dalle riviste scientifiche, per passare recentemente anche alle decisioni di finanziamento di progetti di ricerca da parte del MIUR- è passato sempre di più al meccanismo di stampo anglosassone della valutazione “cieca”, o blind peer review.

La valutazione cieca (meglio se assegnata a studiosi internazionali) significa che il candidato non conosce l’identità di chi lo valuta.

Questo, naturalmente, non garantisce di per sé che l’esaminatore sia onesto e la valutazione giusta. Però ha un vantaggio fondamentale: priva gli esaminatori della responsabilità di rispondere ai valutati sulle proprie decisioni. Dà loro, insomma, tutti i mezzi per esercitare la propria indipendenza. Oltre ad assicurare una gestione più facile dei risultati.

È il privilegio della cecità, che piano piano stiamo imparando tutti ad apprezzare.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

L’importanza di ricostruire la propria storia: fattore di protezione nelle adozioni

Paola Fanti.

 

L'importanza di ricostruire la propria storia. - Immagine: © fotografiedk - Fotolia.comAdozioni: uno dei momenti nei quali tradizionalmente la persona adottata sente il bisogno di reperire informazioni sulla famiglia biologica è l’adolescenza , fase nella quale la costruzione della propria identità spinge i ragazzi a raccogliere i pezzi della loro storia (anche quelli perduti) per integrare le informazioni in un immagine di sé coerente.

Questo processo psicologico di base sino a poco tempo fa era ostacolato da un modello che considerava l’adozione una nuova nascita per il bambino, dove tutto il passato doveva essere negato e tenuto nascosto. Un punto di vista fondato sul segreto delle origini, sull’interruzione e sull’idea della famiglia adottiva come unica nella storia del bambino. Ciò che era accaduto prima dell’adozione non aveva peso anche quando quel prima era il luogo, ad esempio, di un trauma che non poteva essere ripreso, rielaborato, intergrato; d’altronde le informazioni era tenute nascoste, omesse agli stessi genitori adottivi e spesso ai servizi competenti.

Attualmente si assiste ad una trasformazione radicale, si sta passando ad un modello basato sul recupero del passato, sulla continuità , sulla triade genitori adottivi, bambini e genitori biologici. Questo implica l’importanza della narrazione, della raccolta di informazioni come punto di partenza affinchè la coppia adottiva possa accompagnare il bambino nella co/costruzione della propria identità.  La trasformazione ha implicato una modifica legislativa, infatti l’articolo 28 della legge 184/1983 sancisce l’obbligo per i genitori adottivi di informare il figlio adottato sulle proprie origini.

La possibilità di accedere in maniera trasparente alle informazioni inerenti il passato del bambino diventa fondamentale, non solo per la costruzione del sé, ma appare funzionale su altri piani: sapere aiuta il genitore adottivo ad attribuire significati ai comportamenti ed alle emozioni del bambino. 

Costruiamo le rappresentazione di noi, del mondo e degli altri attraverso le prime relazioni di attaccamento, attraverso di esse elaboriamo strategie per ottenere protezione; e così, ad esempio, un bambino che abbia vissuto con un genitore distanziate  imparerà, in caso di bisogno, a non chiedere aiuto, a comportarsi come se nulla fosse accaduto.

Se il genitore adottivo conosce la storia del proprio figlio, potrà comprendere e rispecchiarsi emotivamente nella sofferenza di quel comportamento; in caso contrario ed in assenza di una cornice si sentirà inutile e non voluto arrivando a disattivare le proprie cure.

La mentalizzazione è un fattore di protezione per lo sviluppo del bambino che può essere aiutato a rileggere la propria storia e a capire che la mamma non lo ha abbandonato perché lui era cattivo (egocentrismo)  ma perché era depressa (decentramento).  Mettere i genitori adottivi nella condizione di dare al proprio figlio una chiave di interpretazione della propria storia significa aiutarlo a  capire come mai alcuni adulti (tra cui i suoi genitori biologici) hanno fallito nell’assumere il proprio ruolo genitoriale (Vadilonga, 2011).

Collegare i propri comportamenti attuali ad esperienze reali è una condizione fondamentale per darsi delle spiegazioni e creare significati . Appare chiaro come la narrazione possa considerarsi un fattore protettivo del buon esito del percorso adottivo; proprio per questo non può essere lasciata alle sole forze dei genitori adottivi che devono essere aiutati e supportati anche passando attraverso la rilettura  delle proprie storie di attaccamento che influenzano il modo nel quale loro stessi si mettono in relazione, che orientano la capacità di sintonizzarsi sui bisogni emotivi dei propri figli anche quando questo implica ripercorrere il trauma di un abuso.

L’adozione è un processo complesso, l’attribuzione di significati non si ferma , deve essere sempre ricontrattata in linea con le tappe evolutive del minore e della famiglia e che pertanto dovrebbe essere accompagnata e sostenuta con continuità.

 

 

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BIBLIOGRAFIA:

Vadilonga F. (2011). Curare l’adozione, a cura di Raffaello Cortina Editore , (133-140)

Attili G., (2011).  Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente, Raffaello Cortina Editore (283-299)

Schofield G., Beek M., (2013). Adozione, Affido, Accoglienza, , Raffaello Cortina Editore (461-491)

 

 

Giocare ai videogiochi è davvero dannoso? Psicologia dei new media

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Giocare ai videogiochi, compresi quelli violenti, può incrementare le abilità sociali, la capacità di apprendimento e addirittura la salute in bambini e adolescenti.

È quanto emerge da una revisione globale della ricerca sulla violenza nei videogiochi e nei media interattivi condotta dall’APA, che pubblicherà le sue conclusioni entro la fine dell’anno. Lo studio nasce dalla discussione sugli effetti dei media violenti sui giovani: “per decenni si sono ottenuti dati di ricerca sugli effetti negativi del gioco: dipendenza , depressione e aggressività, e questo non deve essere ignorato “, dice Isabela Granic, PhD, della Radboud University Nijmegen in Olanda “tuttavia, per capire l’impatto dei videogiochi sui bambini e sullo sviluppo degli adolescenti, è necessaria una prospettiva più equilibrata.”

Se alcuni dati ricerca sostengono che giocare ai videogiochi renda intellettualmente pigri, secondo altri giocare può rafforzare una vasta gamma di abilità cognitive: come la navigazione spaziale, il ragionamento, la memoria e la percezione. E questo è particolarmente vero per i videogiochi in cui si spara, quindi spesso violenti.

Una meta- analisi del 2013 ha evidenziato che giocare a questo tipo di videogiochi ha migliorato la capacità del giocatore di pensare in tre dimensioni, così come se avesse frequentato corsi accademici volti a potenziare queste stesse competenze. Questo potenziamento delle abilità non è stato osservato in relazione ad altri tipi di videogiochi come i puzzles o i giochi di ruolo.

I videogiochi aiutano anche a sviluppare capacità di problem solving: secondo i risultati di uno studio a lungo termine pubblicato nel 2013, più un adolescente ha riferito di giocare a videogiochi strategici, come ad esempio i giochi di ruolo, più ha migliorato il problem solving e i voti di scuola l’anno successivo.

Anche la creatività dei bambini è arricchita con il gioco di qualsiasi tipo di video game, ma non quando per farlo utilizzano altre forme di tecnologia, come ad esempio il computer o il telefono cellulare.

Inoltre giochi semplici, di facile accesso e che possono essere riprodotti rapidamente, come “Angry Birds“, sono in grado di migliorare l’umore dei giocatori, favorire il rilassamento e scongiurare l’ansia

Gli autori hanno anche messo in evidenza la possibilità che i videogiochi siano strumenti efficaci per l’apprendimento di resilienza di fronte al fallimento: imparare a perdere quando si gioca aiuta a costruire la capacità di resilienza emotiva che può essere utile nella vita di tutti i giorni.

Un altro stereotipo che viene sfatato è quello del giocatore solitario:  più del 70 per cento dei giocatori infatti gioca con un amico, e milioni di persone in tutto il mondo partecipano a giochi virtuali collettivi come “Farmville” e “World of Warcraft“; questi giochi diventano comunità sociali virtuali, dove si impara a decidere rapidamente di chi ci si può fidare e di chi no e come prendere decisioni in gruppo.

A tal proposito uno studio del 2011 ha evidenziato che chi gioca ai videogiochi che incoraggiano la cooperazione, anche quelli violenti, ha più probabilità di essere utile agli altri durante il gioco di chi gioca a giochi competitivi.

 

 

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BIBLIOGRAFIA:

Felice per un giorno di Primo De Vecchis (2013)- Recensione

 

Felice per un giorno

di Primo De Vecchis (2013)

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Felice per un giorno - E-book (2013)

Oppresso da un vita colma di catene economiche e legali oltre che mentali, l’unica felicità possibile per il protagonista del romanzo può essere raggiunta quindi soltanto attraverso una rivoluzione totale, ma improvvisa e mal gestita, arrivando a connotarsi a tutti gli effetti come una vera e propria crisi psicotica

Alessandro, il protagonista del romanzo, condensa in una giornata di vagabondaggi e contemplazioni il picco di una presa di coscienza: è un uomo di mezza età, sulla quarantina, divorziato dalla moglie che lo tradiva con un dirigente di banca e con una figlia di dodici anni che vede solo ogni tanto.

Finora il suo lavoro burocratico e ripetitivo ha assorbito tutte le sue energie, ma all’improvviso questa struttura implode, e il grigio impiegato sembra voler consumare una guerra principalmente contro se stesso, contro la maschera sociale che ha indossato per desiderio di quieto vivere.

Tuttavia, tale improvviso desiderio di felicità, o meglio di libertà, non imbocca la strada dell’armonia, bensì del nichilismo e delle fantasie di violenza, come un improvviso esplodere di gioia di vivere.

Il romanzo di Primo De Vecchis rappresenta un’affascinante e accurata descrizione della vita interiore di un uomo da sempre prigioniero delle proprie ossessioni e dei propri schemi comportamentali orientati alla passività.

Ormai sfinito e depresso dalla prospettiva di una vita priva di stimoli autentici, Alessandro, protagonista del romanzo, decide da un giorno all’altro di riappropriarsi del tempo perduto, con un tentativo maldestro e esagerato di tornare a godere di ciò che ha attorno, senza più proiettarsi per abitudine né nel futuro né nel passato.

Ciò che conta per Alessandro è quindi ora soltanto il presente, un eterno presente raccontato con dovizia di particolari e illuminato da una nuova prospettiva, meravigliosa ma terrificante al tempo stesso. L’intera vicenda di Alessandro, si snoda così all’interno di una sola giornata: il giorno in cui decide di non presentarsi a lavoro, per la prima volta nella sua vita.

L’aspetto forse più interessante è che l’autore scandisce la vicenda di Alessandro dall’interno, nella forma di un memoriale scritto di getto in prima persona, ma con un contrappunto esterno di immagini, descrizioni e metafore, che si vanno disfacendo nell’arco della storia. Con dovizia di particolari, l’autore riesce a dipingere scenari che si costruiscono attorno al lettore, trasportandolo all’interno di un mondo nuovo e affascinante.

L’autore descrive bene la tendenza morbosa del protagonista a rimuginare sugli aspetti negativi e fallimentari del passato: un groviglio di pensieri connotati ormai dalla credenza delirante della loro ineluttabilità, come se fossero dettati da una sorta di destino al quale non si può sfuggire.

La nausea, l’angoscia di vivere, di «condurre un’esistenza da zombie, sempre immersi nelle medesime mansioni, con le stesse misere aspirazioni» si trasferisce anche all’universo intero, in una sorta di terrore cosmico.

Oppresso da un vita colma di catene economiche e legali oltre che mentali, l’unica felicità possibile per il protagonista del romanzo può essere raggiunta quindi soltanto attraverso una rivoluzione totale, ma improvvisa e mal gestita, arrivando a connotarsi a tutti gli effetti come una vera e propria crisi psicotica. 

Da leggere, sicuramente. Per terapeuti che vogliono entrare nella mente di un ossessivo per identificarsi con i meccanismi mentali del protagonista, per pazienti che vogliono comprendere l’importanza del godere pienamente della propria vita evitando di gestire la propria rivoluzione senza un aiuto esterno, e per semplici lettori che apprezzano la letteratura fatta bene, colma di citazioni, reti associative, paesaggi pittoreschi e rivelazioni mentali. 

LEGGI:

RECENSIONIOSSESSIONI PSICOSI LETTERATURA

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Primo De Vecchis, Felice per un giorno , 2013.

 

Psicopatologia oggi: la struttura del Sé nei Disturbi Alimentari

Sabba Orefice

 

 

Psicopatologia oggi- la struttura del Sé nei disturbi alimentari. -Immagine: © sophiegut - Fotolia.comLa distorsione dello stimolo della fame inizia a instaurarsi rapidamente. Le madri che riportano situazioni di maternità critica descrivono spesso, per esempio, che dopo un iniziale periodo di generica “passività”, è accaduto qualcosa alla neonata: quello che chiamiamo il disturbo subclinico può consistere in alcuni casi in una tendenza al ritiro momentaneo dal seno (o dal biberon!) o in un altrettanto momentaneo rifiuto di poppare, in alcuni casi alternato a un mangiare allarmato che può essere percepito come “avido”: “Succhiava come se fosse l’ultimo pasto”. 

Questo articolo si pone come una succinta, e necessariamente non esaustiva, esemplificazione di una proposta di riorganizzazione della psicopatologia, attualmente in elaborazione e recentemente in parte già illustrata, di cui è allo studio un’esposizione ben più ampia e compiuta.

Lo accenno qui perché con i colleghi di State of Mind e Studi Cognitivi è in avvio uno scambio di riflessioni sulla psicopatologia clinica, che riprende un filo lasciato sospeso dal convegno del 2000 su “Il futuro della psicoterapia”.

Lo farò utilizzando lo studio dei disturbi alimentari cui mi sono riferito nel precedente articolo “La maternità conflittuale” come un’occasione per accennare al modello psicopatologico cui faccio riferimento con i colleghi dell’A.R.P. Consapevole che questo “pretesto clinico” possa risultare un buon vettore per esemplificare alcuni concetti teorici e metodologici di quel modello, sono al contempo consapevole della mole di fattori ed elementi strutturali che dovrò inevitabilmente omettere o solo troppo brevemente accennare, in uno sforzo di sintesi che lascerà volutamente aperte molte tematiche.

Nel suddetto contributo su questa rivista illustravo come le testimonianze delle madri spesso forniscono elementi preziosi per la ricostruzione del sorgere e dell’instaurarsi dei DCA a partire dalle loro difficoltà affettive iniziali, con l’emergere di un sentimento di verità che permette e facilita l’individuazione degli sviluppi di quelle difficoltà nelle osservazioni cliniche delle pazienti.

Mi riservo in un prossimo intervento di descrivere come questo modello possa modificare l’approccio terapeutico ai DCA e le relative tecniche, ivi inclusa una differente teorizzazione dei fattori terapeutici, cui accennerò qui solo brevemente.

Rispetto ad altri modelli psicopatologici – tra cui quelli di orientamento fenomenologico, che hanno il pregio di descrivere molto accuratamente “disfunzioni” dell’apparato psichico come la disregolazione, i disturbi di mentalizzazione, i deficit metacognitivi o l’alessitimia – il metodo di lavoro clinico da me seguito insieme ai colleghi A.R.P. procede in una direzione opposta e per certi versi complementare.

Come ha acutamente affermato M. Lang, ci troviamo dinanzi a un fenomeno di “figura–sfondo”. Ci si può infatti porre il quesito opposto: come e da cosa è regolato il funzionamento, peraltro serrato e rigoroso, di queste pazienti, ivi comprese le profonde modificazioni della mentalizzazione riguardo al funzionamento del loro Sé? 

Ciò vale per tutta la metodologia psicopatologica attualmente in atto, che prevede lo studio accurato di come gli stati affettivi elementari del Sé strutturino e organizzino, in molti casi secondo modalità estremamente rigide, le diverse modalità patologiche – incluse quelle relazionali – descrivendole secondo il loro processo evolutivo: “dall’interno” e non “dall’esterno”.

Le interviste anamnestiche con le madri di pazienti con DCA – a cui ho accennato nel mio precedente contributo, di cui questo scritto rappresenta un seguito e una parentesi – descrivono quadri di “maternità conflittuale” molto diversi tra loro.

Esse contengono però alcuni elementi pressoché invarianti, che dominano la scena nei primi mesi di vita e, come vedremo, persisteranno negli anni coinvolgendo madre e figlia, e che sono comuni a situazioni cliniche anche molto diverse. Mi limiterò qui a una descrizione concisa di questi elementi, “narrata” e non sistematizzata, tralasciando necessariamente complessità e diversità dei quadri psicopatologici osservabili nella clinica. Lo scopo è fornire una traccia, mi auguro chiara e comprensibile, di quanto può accadere nello strutturarsi dei sentimenti del sistema del Sé (6) comunemente alla base di questa particolare psicopatologia.

Alcuni di questi elementi divengono veri e propri assi portanti, “strutture” forti che si inseriscono nella più ampia e sfaccettata organizzazione del Sé delle pazienti, come una sorta di cuneo affettivo stabile che ne determina il decorso evolutivo. Ed è su queste strutture che si è organizzato l’apparato sintomatologico, con il suo rituale, che qui denomineremo apparato secondario.

Le tecniche di derivazione cognitivo-comportamentale, le più utilizzate nel trattare l’apparato sintomatologico secondario e ritualistico dei DCA, sono a mio avviso quelle che più hanno presente, e in modo particolarmente attento, tale apparato. Ritengo che gli elementi psicopatologici di base possano contribuire a fornire a tali tecniche maggiore profondità, spessore ed efficacia. Una modifica delle tecniche sulla base delle informazioni derivanti dalla psicopatologia del Sé è attualmente allo studio presso il Servizio DCA dell’A.R.P.

Ricostruendo, attraverso le descrizioni dalle madri, le intense situazioni emotive venutesi a creare nei primi mesi di vita delle loro bambine, è innanzitutto possibile rilevarne la continuità e la persistenza nelle diverse fasi della coppia madre-figlia, a partire dal ripudio conflittuale brevemente descritto nel precedente articolo, fino al quadro sintomatologico che giunge all’osservazione clinica.

È necessario ricordare che, poiché il neonato è fortemente, direttamente e fisicamente influenzabile dalle emozioni e dai sentimenti che l’ambiente di accudimento trasmette, questi rapidamente contribuiscono a dar forma all’incipiente funzionamento emotivo del suo Sé – emergente prima, nucleare poi – che molto presto entra, quindi, a far parte della relazione disturbata.

Poco dopo le prime settimane di vita compare comunemente nel neonato una rudimentale attività previsionale. Nelle situazioni più tranquille, infatti, l’attesa del cibo diventa più quieta man mano che una primitiva sicurezza che il cibo arriverà riduce progressivamente l’effetto della fame, inizialmente percepita come uno stimolo esplosivo; il sopraggiungere della sazietà placa progressivamente l’allarme dei primi giorni, in cui il piccolo non poteva ancora contare sull’esperienza di soddisfazione puntuale e costante del suo bisogno.

Sono questi i segnali dell’instaurarsi di una progressiva fiducia di base o, potremmo dire meglio oggi, di un sentimento più fiducioso dei vari aspetti del Sé (1), e del Sé con il mondo. Questo sentimento si basa sulla “previsione” e sulla memoria fisica della continuità tra gli stati di fame e quelli di sazietà, nonché dei vari aspetti del contatto con il mondo esterno che hanno luogo tramite l’accudimento.

Nei casi di maternità conflittuale, invece, il momento del pasto diventa – nei racconti delle mamme – un momento carico di tensione, temuto e disturbante, per la madre e per la figlia. Situazioni simili possono verificarsi in molte situazioni neonatali che hanno poi una loro risoluzione naturale che ne modifica il decorso, lasciando solo tracce più lievi.

Nei casi che evolveranno in DCA, invece, l’allarme descritto riguardo alla nutrizione e all’accudimento diviene specifico e persistente. Questa tensione di solito si attenua dopo lo svezzamento e nei periodi successivi ma continua – spesso sottotraccia, come un semplice cruccio – fino alla recrudescenza adolescenziale, quando l’allarme per l’ora del pasto sarà un sentimento dominante nell’esistenza della giovane paziente.

Nei casi di DCA infatti, anche per la piccola oltre che per la madre, questo tormento è inevitabile, inesorabile come il continuo ritorno della fame. E se non si è instaurata un’aspettativa fiduciosa e calma, ma al contrario vi è la previsione di una situazione disturbata e disturbante e di un contatto carico di tensione con la madre, anche l’attesa del cibo diviene inquieta: accompagnata da risvegli bruschi, allarmati dall’oscura percezione che sta insorgendo nuovamente lo stimolo della fame. In queste situazioni sia la fame sia il contatto divengono un disturbo e con essi si costituisce il sentimento iniziale del proprio corpo e della propria mente sempre in allerta.

La distorsione dello stimolo della fame inizia a instaurarsi rapidamente. Le madri che riportano situazioni di maternità critica descrivono spesso, per esempio, che dopo un iniziale periodo di generica “passività”, è accaduto qualcosa alla neonata: quello che chiamiamo il disturbo subclinico può consistere in alcuni casi in una tendenza al ritiro momentaneo dal seno (o dal biberon!) o in un altrettanto momentaneo rifiuto di poppare, in alcuni casi alternato a un mangiare allarmato che può essere percepito come “avido”: “Succhiava come se fosse l’ultimo pasto”. 

Possiamo dire che “avido” corrisponde al fatto che sia la fame sia il contatto divengono un disturbo e una paura, da eliminare impazientemente, e che questo modo di sentire è comune a diverse “dipendenze”. Mangiare avidamente significa spesso, come succede anche in molti casi di disturbi alimentari differenti (2), che la fame va eliminata rapidamente, anziché essere una normale esperienza sensoriale, e ciò può valere per qualunque bisogno (3) e caratterizzare, anzi, un funzionamento più generale della mente riguardo ogni sua funzione. 

Si può invece osservare, in situazioni in cui il clima emotivo iniziale tra madre e figlia è di fondo più “depresso”, che si instauri per un certo periodo nella piccola una sorta di neghittosità, un ritiro dolente o un addormentamento dopo poche poppate. “Sentiva che non ce la facevo a nutrirla” è un frequente commento di madri che hanno attraversato un periodo post partum caratterizzato da una deflessione dell’umore, in cui il loro profondo scoraggiamento e il ritiro dal mondo, talora addirittura con la paura/sensazione di poter morire o che la piccola potesse a sua volta non farcela, hanno pervaso in qualche modo anche il contatto con la figlia.

La necessità di nutrire può indurre il tentativo di forzare la piccola a mangiare e ciò può sia aumentare il ritiro, sia indurre un rifiuto della situazione disturbata.

Queste emozioni sono da tener presenti, perché faranno parte del corredo di sentimenti connessi al cibo e al Sé nelle epoche successive dello sviluppo.

Preferisco usare il termine generico di “disturbo” perché esprime l’insieme di quello stato, ma i sentimenti saranno differenti se prevarrà il fastidio, il disgusto, l’impazienza. Saranno queste qualità a connotare l’intonazione generale dello sfondo emotivo di ogni specifico caso.

Dobbiamo tenere presente che, poiché la situazione è dominata dalla lotta interiore della madre con il suo ripudio conflittuale essa, già sofferente, si ritrova con una ulteriore difficoltà: il disturbo subclinico infatti la farà sentire ancor più alle prese con una bambina difficile che si ritira, rifiuta o mangia avidamente per poi esprimere un rifiuto spazientito, non solo per il cibo ma anche nel contatto. Ciò finisce inevitabilmente per accrescere la propria difficoltà e contrarietà come madre, facendo aumentare l’impazienza e dando vita al fenomeno del tragico equivoco che coinvolge ulteriormente il Sé della piccola e quello della madre.

Lo sforzo di essere una madre efficiente introduce nel contatto con la bambina e con la nutrizione l’iperattivazione (4) che già le è propria e che sarà sempre presente, caratterizzata dal dover rigidamente eliminare qualunque intoppo, sia pratico sia emotivo: come per esempio scacciare dalla mente, spesso rabbiosamente, sentimenti e pensieri disturbanti, un rito costante nella lotta al proprio “difetto”.

Grande peso, nel determinismo di tutte queste situazioni di crisi, ha il sistema familiare: la madre della madre, in primis, ma anche la suocera, l’atteggiamento del coniuge, l’ostilità o rivalità tra i figli. Ognuno di questi fattori ha una sua capacità di orientare, facilitare o disturbare, spesso attraverso sentenze come: “Non si può scegliere di non allattare al seno”, “Questa bambina è proprio incorreggibile, come la cugina” o “Te l’ho sempre detto che non avresti dovuto fare la madre”. La presenza di un marito anche solo silenziosamente critico o rassegnato all’irreparabilità della situazione, aggraverà notevolmente il clima. Il conflitto silenzioso all’interno della coppia potrà avere un particolare peso perché finirà per accentuare il conflitto madre-paziente, per esempio attraverso le future silenziose complicità tra padre e figlia.

Queste componenti emotive sono importantissime in quanto agiscono sempre nel mantenere un massiccio e pesante sentimento di immodificabilità della condizione di maternità difficile. Un altro elemento invariante nei DCA è infatti un più o meno profondo sentimento di ineluttabilità, in cui va inclusa l’affaccendata lotta perché tutto funzioni. Si riscontra spesso in questi quadri un pesante e misconosciuto fatalismo negativo, che rappresenta uno degli elementi costitutivi del convincimento di sottostare a un destino sovrastante (5), particolare che dominerà la scena familiare e il sistema del Sé della figlia.

La fase evolutiva della latenza è un periodo più oscuro, più nell’ombra dal punto di vista psicopatologico. È caratterizzato da vicende diverse, a seconda che vi siano fratelli e sorelle o che si creino situazioni di continuo confronto tra i membri della fratria o della famiglia allargata sulle varie qualità fisiche e psichiche.

La nostra bambina potrà essere lievemente, o decisamente, iperattiva e meticolosa, tenderà a sforzarsi di essere la più brava e diligente, ma al contempo potrà essere timida e silenziosamente in conflitto con la sorella, oltre che con la madre, riguardo al proprio Sé corporeo o alle prestazioni scolastiche.

Oppure, nel caso non infrequente in cui abbia indotto sin da neonata una più o meno evidente soggezione nella madre, tenderà a imporsi e a prevalere in modo incontrollato, pur attraversando comunque momenti di ritiro. Soffrirà anch’essa dei confronti con la sorella o con la madre, e svilupperà un contatto più polemico e un vissuto di costante “estraneità” e diversità, spesso cercando un rapporto particolare, esclusivo, con il padre. Il cibo sarà un problema presente ma attenuato, mentre l’aspetto corporeo rappresenterà sempre un cruccio, rinviato al futuro.

Il momento cruciale verrà con l’adolescenza emotiva, non necessariamente quella anagrafica, che avrà luogo quando la ragazza avvertirà una profonda trasformazione in sé. 

Gli esseri umani esperiscono in adolescenza un inevitabile senso di momentaneo smarrimento, una particolare inquietudine fatta di eccitazione e paura, emozioni psichiche e fisiche, non pensate ma vissute intensamente: “Cosa sto diventando, in cosa mi sto trasformando?”, mentre escono dal bozzolo e salgono sul palcoscenico della vita, il mondo circostante.

Si tratta di una nuova edizione, dal punto di vista emotivo, del Sé emergente, con cui ha in comune insicurezza, indefinitezza e paura dovute alla forte qualità di trasformazione della fase in atto, alle porte di un futuro ignoto e di una inesorabile discontinuità, di fronte alla quale non c’è rimedio né possibilità di rallentamento o freno.

Nella paura e nell’eccitazione della mutazione, il cambio di pelle può essere carico di orgogliose conquiste e paurose incognite, accompagnato dalla carica di inevitabile esibizione di sé e dai tentativi di farsi valere, innanzitutto nella compagine dei coetanei e dei compagni di scuola. 

L’inquietudine della nostra ragazzina sarà molto particolare. Mentre guarderà in avanti verso il palcoscenico come tutti gli adolescenti e tenderà dunque a cercare le vie di imporsi, definirsi, affermarsi, si farà vivo prepotente e con effetto inesorabilmente frenante una sorta di ingombrante cuneo nel Sé: quel complesso, organizzato e tormentoso modo di sentire e pensare che ha iniziato ad abbozzarsi nei primi mesi di vita e nella silente quiescenza della latenza, e che la fa ora percepire e muovere nel mondo come “diversa e con un differente destino”. Come tutti gli adolescenti “spierà” le proprie trasformazioni fisiche e il loro effetto sugli altri con un certo allarme.

Nel Sé emergente della neonata la sensazione sgradevole era diventata poi percezione sgradevole del corpo, e così accade ora. La percezione sgradevole diventa, attraverso l’attività immaginativa, anche rappresentazione, e la ragazzina può immaginarsi e vedersi orribile anche solo per un particolare “sbagliato” del proprio corpo, prevedendo lo sguardo sprezzante del mondo circostante.

La forte spinta della crescita e la sensazione della ineluttabile trasformazione in atto la porteranno a temere di essere oggetto di una orribile mutazione, comunque catastrofica e non voluta. Molto spesso comparirà il rimpianto malinconico (7) dell’epoca passata per sempre persa, a causa della trasformazione ineluttabile e per molti versi odiosa.

Il sentimento disturbato del cibo riappare, particolarmente intenso, amplificato dalle spinte della crescita e connesso alla paura dello sviluppo somatico. Quest’ultimo sarà immaginato anche in relazione alle figure di riferimento presenti in quel momento nella sua vita: la nonna, la compagna di banco, la vicina di casa obesa o al contrario una sorella magra e slanciata; l’inquietudine per la trasformazione in atto si manifesta con quella che la ragazzina definirà “paura di ingrassare”. Questa paura può essere connessa a esperienze come un leggero sovrappeso in fase preadolescenziale o alle prese in giro dei compagni di scuola, ma insorgerà anche in modo assolutamente indipendente, solo per il fatto che il corpo sta evolvendo per spinte proprie e incontrollabili nella sua trasformazione, anche se scatenata da qualche improvvido commento sul suo aspetto, a cui la ragazzina è ora attentissima.

Qui si inserisce una considerazione che i clinici non dovrebbero mai dimenticare: il timore della trasformazione si unisce a una percezione dello sviluppo del corpo dettati dalla paura, ma anche “ingenui”. Il corpo, un po’ estraneo, come è stato nei primi contatti con la madre, è percepito solo per il suo aspetto e non per le sue funzioni. Si tratta di un elemento importante, perché anche le teorie della ragazzina su come tentare di plasmarlo non terranno conto delle necessità dei suoi organi, cervello incluso. Proprio perché estraneo, il corpo diviene un’entità che sfugge al potere della mente, una delle attività del Sé a cui tutti i ragazzi si dedicano e si addestrano con particolare energia e dedizione, soprattutto nelle dispute familiari e con i coetanei, nel momento in cui il tentativo di superare la soggezione verso gli adulti farà loro agire prove di forza per cercare di fortificare il sentimento di padronanza di sé.

La nostra ragazzina, in questa condizione, guarda il proprio corpo infastidita e impaurita, vergognandosene, immaginando come dovrebbe essere ma soprattutto detestando come è e come può essere visto da un mondo esterno sempre critico e incontentabile. Così  farà per tutto quanto la riguarda, compresa la propria mente e le proprie difficoltà.

Nelle interviste alle adolescenti con DCA è possibile riscontrare, rispetto al corpo come temo stia diventando, un repertorio di immaginazioni alternative su come dovrebbe invece essere, dal più semplice “Vorrei essere una ballerina che vola sulle punte” a “Il mio ideale è essere senza forme come una pertica” o addirittura “Ambisco a essere un puro spirito, e infatti penso che sarei più bella da morta”. 

Non uso volutamente il termine “ideale di Sé” o “ideale dell’Io” perché questo modo di immaginare non è solo il frutto di “Vorrei essere come mia zia, alta e bella”, ma è strettamente connesso alla fobia del corpo che vedremo più avanti; la zia non è una pertica ma essere una pertica o un puro spirito, invece, può eliminare perfettamente e definitivamente tutti gli aspetti del corpo che possono evocare la fobia. Il cosiddetto ideale è prevalentemente l’espressione immaginativa di “Non dovrei avere questo corpo”, il che talvolta può coinvolgere l’identità di genere, quando nel ripudio è compreso il sentimento “non avresti dovuto essere femmina”.

La nostra ragazzina deciderà di stare attenta al cibo, magari di seguire una dieta, un ingenuo tentativo di fermare la pericolosa trasformazione in atto, di tenere a bada la paura e il profondo ma non riconosciuto disturbo del sentimento della fame: un obiettivo ben più ambizioso del semplice controllo del peso – e proprio da qui si instaurerà progressivamente un sistema organizzato.

L’ora del pasto diventerà presto il problema, l’incubo centrale della giornata, che occuperà con viva preoccupazione, e sin dal risveglio, la mente e la capacità di progettare, con la necessità di prevedere tutte le possibili implicazioni, compreso il tenere a bada l’impulso disturbato della fame. 

L’attività previsionale è infatti profondamente alterata dalla situazione di allarme.

Già solo questo sentimento di allarme per l’ora del pasto ha una capacità invasiva che ho tradotto come prima componente del “cuneo nel Sé”: mentre mi occupo della vita di tutti i giorni, dei miei progetti per il futuro, del compito in classe o del ragazzino che mi piace, gran parte della mia mente ha a che fare con questa preoccupazione costante di cosa farò alla fatidica ora. E di cosa farà e dirà e penserà la mamma in proposito. È proprio questo allarme che organizza la necessità del rituale: come affronterò il momento fatidico, dove tutto può accadere.

Ciò che i cognitivisti denominano “rimuginio” è in effetti in parte frutto della preoccupazione allarmata e continua per l’ineliminabile problema da affrontare tutti i giorni con la forza della mente: il Sé si mette al lavoro con tutti gli strumenti di cui dispone, rabbia compresa. L’iperattivazione che caratterizza queste pazienti è simile a quella delle madri, che devono continuamente combattere per scacciare i pensieri e i sentimenti che le fanno sentire mamme cattive o inefficienti. Questo rigido rituale auto-educativo si ripete per tutti gli aspetti del Sé, sia fisici sia mentali, da correggere continuamente tramite l’attività eliminatoria, tanto da organizzare sovente specifiche modalità caratteriali, simili a quelle efficientistiche della madre.

L’iperattivazione finisce quindi per caratterizzare tutte le attività principali del lavoro del Sé, che è incessante e diventa un continuo tormento nell’estenuante tentativo di far sparire l’intero problema della fame, purtroppo ineliminabile, il che certamente sostiene e rafforza l’attività continua del rimuginare. Si organizza un apparato che tenta di esorcizzare e padroneggiare le paure, ancor più che solamente controllare il peso.

È per questo che la vera definizione di questo lavorio quotidiano è quella di un “apparato rituale”: il rito di organizzare il momento del pasto come un’assunzione padroneggiata e orgogliosa del cibo, attraente e pericoloso. Talvolta, come accade di osservare, è come un sacerdotale esorcismo del demone della fame nel corpo maledetto, che è entrato a far parte del destino speciale. 

Altre volte il rito è invece, nelle pazienti più abbattute, un desolato tentativo mantenuto faticosamente in piedi con la forza della disperazione.

Si stabilizza quindi una paura generalizzata, connessa al timore della trasformazione, di vedersi mutare in “mostro”. Si creano due tipi di fobie: quella che comunemente chiamiamo dismorfofobia, per cui un singolo particolare o una parte del proprio aspetto suscita disgusto, fastidio o addirittura orrore e diventa indizio e prova di mostruosità. L’altra, misconosciuta, si struttura molto spesso come fobia del cibo. L’assunzione del cibo è di per sé pericolosa e l’atto incosciente di introdurlo in bocca può far diventare immediatamente una grande obesa deforme: tagliare un boccone in due parti è un rito per ridurre e padroneggiare il pericolo. Questa fobia è connessa appunto al sentimento di trasformazione: ogni volta che si manda giù un boccone si cede alla tentazione che esso impone, pericoloso e invasivo, e al rischio di divenire mostruosa che comporta il fatto di assumerlo.

Il mostruoso, nelle versioni più attenuate, può essere appunto l’esempio di una grande obesa o ciò che agli occhi della paziente appare tale: la nonna, la vicina di casa o la signora vista in televisione, ma può essere anche un’orribile visione, come per una giovane che si immaginava trasformata in un personaggio tipo “Elephant Man”.

La psicopatologia ci insegna, quindi, che ci faremmo fuorviare se accettassimo la versione proposta dalle pazienti sotto forma di “paura di ingrassare”: l’equivoco è tra ciò che intendiamo noi con questo termine e ciò che intendono loro. Solitamente è necessario tradurre la paura “di ingrassare” come paura di trasformazione mostruosa, per renderne davvero l’aspetto pauroso. A me accade di allargare le braccia in modo teatrale, a indicare che so bene che la paura di ingrassare sottende il terrore della trasformazione in un essere informe e mostruoso, come minimo appunto una grande obesa.

Il cibo, non ci si pensa mai abbastanza, può avere per gli esseri umani una vita propria, animistica, perché – da sempre grande tentazione – può esigere di essere mangiato se solo viene visto: è come una madre che si offre, che lo offre o che lo impone. È un sentimento molto diffuso, basta pensare ai gesti che si compiono per sottrarre alla propria vista un alimento che rappresenta una tentazione irresistibile.

Poiché l’ingestione del cibo è per noi umani ineliminabile, il rituale per queste ragazze (che, prese dalla loro iperstimolazione, aspirano a un funzionamento efficientemente disumano) può divenire – come frequentemente accade – il mettere in tavola una certa quantità di cibo e poi suddividerla in porzioni sempre più piccole per non diventare succubi della demoniaca tentazione e, con un sentimento di orgoglio crescente, esercitare con la forza della mente la capacità del proprio spirito, superiore alla materia, di reggere al supplizio quotidiano della fame.

Il rito, in questi quadri, è anche la messa in scena di sé e di quanto il momento del cibo sia, e sia sempre stato, drammatico.

La drammatizzazione può coinvolgere fortemente la vita familiare, per esempio con un frigorifero dedicato, un luogo apposito per i pasti, un orario diverso da quello degli altri membri della famiglia. La dimostrazione rituale ha spesso uno o più destinatari: la madre, innanzitutto, ma quasi sempre anche altri familiari. Il significato della dimostrazione si potrebbe tradurre in: “Condannata dal mio ineluttabile e speciale destino, dimostro a me stessa e agli altri di far di tutto per essere capace di padroneggiarlo, seguendo regole rigide e diverse da quelle che vorrebbe il sistema familiare, da cui mi sento incompresa e a cui non vado mai bene per come sono e per come mangio, da sempre”.

Inoltre il rituale, che può essere serratissimo e comprendere l’uso di lassativi e simili, rappresenta il lavoro continuo del Sé per liberarsi delle brutte sensazioni, purificarsi per scacciare il sentirsi fatta male, disgustosa e incapace di resistere  alla fame.

Verso la madre sta ancora a significare: “Guarda come sono brava nel respingere la corruzione che tu vorresti indurmi facendomi mangiare”.

Tutto ciò avviene, se non c’è stato un chiarimento decisivo con la mamma, come conseguenza del tragico equivoco: l’apparato rituale diventa la prosecuzione del fatto che la figlia si sente da sempre un disturbo, e le modalità di intervento della madre vengono percepite come una critica continua, non sul rito ma sul proprio Sé: “Sei sbagliata”, e così il comportamento alimentare “speciale” oggetto di preoccupazione e critiche finisce per divenire un contrattacco e una sfida alle obiezioni della madre e della famiglia. Le connotazioni di “superiorità” dipendono dalla riuscita nel rito: “Mal considerata da te, conquisto la capacità di fare a meno del tuo cibo e della tentazione, scegliendolo invece io, in modo speciale”.

L’altro interlocutore, al di sopra di tutti, è spesso proprio il Destino: “È penoso come vivo, ma ho la speranza che prima o poi qualcosa cambi repentinamente e che il grande sforzo che faccio venga premiato”. Per questo il rituale ha anche una qualità che ho definito “sacerdotale”, e in questi casi è necessario tenere conto che oltre al Sé ci può essere un sistema di credenze “sovrannaturali”.

Ogni volta che mi trovo a trattare questo tipo di casi non posso fare a meno di pensare che i disturbi alimentari, spesso descritti come disregolazioni o comportamenti disorganizzati e autodistruttivi siano curiosamente proprio l’opposto di quanto risultano visti “da fuori”. La “regolazione” del funzionamento del Sé presente in queste pazienti è al contrario rigorosissima, innanzitutto ad opera dei sentimenti che abbiamo descritto e in secondo luogo dall’apparato rituale secondario. Il concetto stesso di “autodistruttività” appare spesso incomprensibile per alcune pazienti: arrivare a lasciar morire il proprio corpo è infatti, paradossalmente, l’estremo e disperato tentativo di salvare il proprio Sé dal corpo pericoloso e disturbante a cui la creatura, che ambirebbe a essere un puro spirito, si sente condannata e vincolata. Ciò può avvenire accedendo al sentimento di rinuncia, al cibo e al mondo, già sperimentato nei primi mesi di vita come un ritiro dal mondo disturbato e disturbante in cui si è sentita, e continua a sentirsi, un disturbo per la madre sofferente.

Questa descrizione è in stretta connessione con l’apparato di sentimenti descritti dalle madri nei primi contatti con la figlia, ma non solo: esse raccontano spesso, apparentemente senza operare collegamenti, come “Il cibo sia da sempre un problema: mia figlia, se ci penso, è sempre stata un problema per me, è stato un problema nutrirla allora e osservare come si nutre ora”, ma anche “Mia figlia ha sempre capito che ero in difficoltà” oppure “Ha sempre saputo che ero in difficoltà e mi ha continuamente accusata di non essere capace di reagire”.

Il decorso dell’apparato secondario è particolare e si seleziona nel tempo, in base ai diversi fattori in gioco.

Sul versante “ritiro dal cibo” e quindi anoressico, il cuneo nel Sé si può organizzare in modo stabile, con un equilibrio ai limiti della sopravvivenza ma, come si usa dire, “cronicizzato”, il che comporta che anche tutto l’apparato rituale ha trovato una sua efficienza: si è un po’ impoverito nelle sue manifestazioni, divenendo più discreto e mantenendo una convivenza con il Sé in cui è incuneato e che pervade per gran parte della giornata. L’impoverimento fisico e psichico può indurre però la sensazione di soggiacere a un destino irrimediabile a cui non si ha più energia per reagire.

Sull’altro versante, bulimico, l’efficienza eliminatoria e spesso “aziendale” può selezionare e spingere verso un equilibrio tra un approccio al cibo vorace e un’organizzazione sufficientemente stabile con un ricorso al vomito che, come pratica di vita ordinaria anche se spesso clandestina, acquisisce le caratteristiche della normale riservatezza attribuite alle pratiche corporee.

La classificazione di D. Westen dei DCA è a mio avviso utile in quanto fa tener presente la “forza” delle pazienti e quindi anche l’opportunità o meno di azioni farmacologiche, assistenziali o sostitutive. È però importante, dal punto di vista psicopatologico, avere in mente che la questione della forza è connessa a quella, già citata, del decorso: oltre alle situazioni di scompenso, che vedremo, va considerato che, man mano che la fase “trasformativa” si riduce, la paziente tende in qualche modo lentamente a stabilizzarsi. Questo passaggio avviene spesso con una progressiva “cronicizzazione”, un impoverimento e indebolimento fisico e psichico che, al pari dell’amenorrea, corrispondono a una ulteriore riduzione del livello dello stato di coscienza, tutti fattori che ostacolano fortemente l’attività psicoterapeutica. Questo  dato, da sempre presente nella mente dei clinici come l’aggravamento da considerare sempre possibile, sembrerebbe essere confermato anche da recenti dati di neuroimaging.

Per quanto riguarda lo scompenso, vi sono alcune situazioni che richiedono molta attenzione. Una frequente causa di scompenso è la rottura del rapporto madre-figlia, spesso determinata dall’esasperazione della madre che, per motivi diversi (inclusi certi interventi terapeutici “emancipativi”!) esprime a suo modo l’esigenza di disfarsi della figlia, in quanto irrisolvibile ed esasperante disturbo. È una situazione molto critica, che va nella direzione contraria alla possibilità di sanare, quando possibile, il conflitto tra le due. La rottura, infatti, rischia di mantenere e decretare come definitivo il sentimento di incurabilità: “Per me non c’è niente da fare”.

L’altra causa di scompenso pone una questione non solo diagnostica sulle caratteristiche  del tipo di disturbo. Si tratta infatti di casi in cui si assiste a un “impazzimento del rituale”, certamente collegato all’influenza di elementi esterni, ma anche determinato da un particolare tipo di psicopatologia che va considerato e differenziato:

  • Nelle situazioni bulimiche il lavoro del Sé tenta di mettere in atto una condotta che viene comunemente definita restrittiva: il tentativo di reprimere l’impulso distorto della fame. Questo tentativo sfocia regolarmente in un’abbuffata, e la clinica dimostra che questo avviene perché la restrizione ripropone un fastidioso insieme di sentimenti di ripudio, castigo, deprivazione, miseria, paura e rabbia, non essendo invece accessibile a queste pazienti – come ho spiegato nel mio precedente contributo su questa rivista – il ritiro e la conseguente rinuncia. Tutto ciò è solo in parte simile a quanto accade ai cosiddetti binge eaters. Nelle pazienti bulimiche l’abbuffata è prevalentemente seguita dal vomito, per il già citato “disturbo della sazietà”, mentre ciò non accade nei casi di binge eating.
  • Nelle pazienti anoressiche, come ho già detto, la regolazione stabilizzata tra la rinuncia cronica al cibo (attraverso la possibilità di accedere allo stato di ritiro “ascetico” dalla fame e dal corpo sperimentata nelle prime settimane di vita) e la necessità di sopravvivenza può trovare un equilibrio cronicizzato, a livelli differenti di sofferenza somatica, che può mantenersi per molti anni.
  • Accanto ai casi che alternano fasi diverse, prevalentemente bulimiche o prevalentemente anoressiche, vi sono pazienti che possono, in determinate fasi della  propria esistenza, presentare un altro disturbo, che potremmo definire “misto”.  In questi quadri si susseguono invece in tempi brevissimi (addirittura più volte nel corso della stessa giornata) momenti anoressici e momenti bulimici: la paziente cerca di attingere al sentimento anoressico di rinuncia al cibo ma poi finisce per scivolare nello stato opposto dell’attacco di fame e del tentativo restrittivo, cioè di rifiuto attivo del cibo malgrado il senso di fame. Quest’ultimo genera inevitabilmente l’attivazione della paura “da ultimo pasto” e quindi spesso un ulteriore terribile attacco di fame, che fa sì che il rito venga concluso in modo liberatorio ribellandosi alla restrizione e mangiando spropositatamente, per poi avvilirsi profondamente di fronte al proprio drammatico fallimento. Quest’alternanza scomposta caratteristica dei quadri misti, che può generare un vero e proprio impazzimento del rituale, contraddistingue i casi con momenti di crisi più drammatici, e andrebbe tenuta ben presente. Il fallimento della strategia fisica e mentale tipica di questi casi fa esasperare e spaventare ulteriormente le pazienti, che entrano in uno stato disorientato e famelico, con improvvisi aumenti di peso e conseguente panico, o al contrario con dimagrimenti critici conseguenti all’esasperazione delle condotte eliminatorie, che possono determinare la necessità di ricovero in reparti specializzati.

 

È importante poi, sempre a proposito di decorso, tener presente un altro tipo di crisi, che rischia di essere un motivo di fallimento anche nei trattamenti più riusciti: il colpo di coda inaspettato.

Tale “agguato” psichico può sorprendere improvvisamente in qualunque momento ed è una modalità nota, che caratterizza molte delle interruzioni nei casi di pazienti pluritrattate. Mi riferisco però in questo caso a una situazione più imprevedibile. La paziente alimentare, da tempo uscita, spontaneamente o in seguito a un trattamento idoneo, dalla situazione serrata del disturbo alimentare e dal suo più intenso corredo sintomatologico, dinanzi a nuove tappe dell’esistenza può sentire nuovamente comparire, senza riconoscerlo, un sentimento di crollo ineluttabile: “Tanto per me, geneticamente alterata e condannata dal destino, non c’è niente da fare”: si possono riattivare sentimenti che sembravano superati, come l’incapacità di vivere o l’indegnità per il proprio danno ontologico.

È necessario saper riconoscere questa situazione, perché rappresenta il riemergere di quella parte del disturbo del sentimento di Sé che ricompare anche senza il corredo sintomatologico più corporeo. L’esperienza insegna che è importante per il clinico non solo riconoscerlo ma sapere che non andrebbe mai dimenticato, per non lasciar travolgere dalla crisi un momento evolutivo oppure, qualora avvenga durante una psicoterapia, perché un trattamento riuscito non si traduca in un fallimento catastrofico.

Insisto su questo punto perché riguarda il sentimento di fondo su cui tutto si muove, anche i trattamenti, e rappresenta un nodo centrale. La tendenza all’immodificabilità dei quadri clinici è infatti spesso la spia di una caratteristica di fondo, per certi versi “rassegnata”. Il Sé non è affatto in grado di riconoscere un “attaccamento invischiante”: sa solo che il sentimento di fastidio, di estraneità, di ripudio sono sensazioni reali, che prova da sempre, e proprio questa persistenza finisce per trasformarle rapidamente in percezione stabile e quindi in percezione di Sé, senza alcuna possibilità di collegarle al ricordo del sentimento di ripudio.

Semmai, nel tragico equivoco, si instaura una continua polemica con la madre riguardo alla sua incapacità di comprendere la difficoltà in cui la ragazza si trova e le complesse esigenze che ne derivano, così come la madre in difficoltà finisce per attivarsi ulteriormente, ma anche per scontrarsi con un continuo senso di fallimento e con l’esasperazione di non uscire dal suo tormento, provando sempre più insofferenza per la situazione e per la figlia. 

Ci vuole poco perché, con la memoria fisica del fastidio, il corpo estraneo e fastidioso venga non solo percepito ma anche pensato e rappresentato come un vero e proprio disturbo, con caratteristiche che possiamo definire “ontologiche”, o genetiche. Ci vuole poco perché il sentirsi diversa dalla compagna di banco o dalla sorella, unito alla relazione “particolare” con la madre, confermino il convincimento di essere inserita in un destino speciale, qualunque ne sia la qualità e la causa: per esempio essere una persona con particolari doti spirituali e ascetiche che aspira orgogliosamente a liberarsi delle miserie del corpo e del mondo circostante. Per inciso, è proprio questa ritualità orgogliosa e spesso un po’ diabolica che può creare il denominatore comune delle “sette di culto anoressico” che a più riprese si diffondono sul web.

Nell’organizzazione del modo di sentire di queste pazienti ciò che viene descritto come alessitimia – un deficit di mentalizzazione delle emozioni – oltre che, come spesso accade, essere connesso alla persistente traduzione somatica delle stesse, trova una ragion d’essere specifica: quell’emozione non è infatti riconoscibile come tale perché non è esperita come un sentimento ma come un dato di fatto.

Queste pazienti non sperimentano “mi sento un mostro” ma lo “sono”: non si tratta, nel loro vissuto, di un sentimento di ineluttabilità ma di una realtà ineluttabilmente immodificabile. Il sentimento del Sé che diventa percezione sta a significare che la memoria dell’emozione è divenuta reale e fisica. Questo aspetto rappresenta uno degli ostacoli più seri nel trattamento di questi quadri. Esso determina la perplessa sufficienza e la compiacenza benevola con cui le “spiegazioni” dei dottori vengono spesso accolte, che a sua volta inducono nel clinico la sensazione di una sorta di ideazione delirante.

Avere in mente questo livello di funzionamento ha evidentemente una notevole rilevanza per chi si accinge a curare una fanciulla con questi sentimenti e convincimenti di fondo, che divengono sempre più vere e proprie certezze in grado di tarpare sia le prospettive evolutive sia, conseguentemente, quelle terapeutiche.

Il sentimento di fondo relativo al Sé – “Sono fatta così” o “Questo è il mio destino” – si è nel corso del tempo rafforzato, con un conseguente profondo scoraggiamento, a seguito del fallimento dei tentativi spontanei di modificazione. Lo specchio continua a riflettere il mostro malgrado le diete e i rituali, tutto resta immutato, compresa la persistente conflittualità con la madre, latente o palese. L’incredulità rispetto alle proposte terapeutiche può quindi essere del tutto comprensibile.

Lo scacco degli interventi terapeutici può avvenire però anche per un’altra serie di motivi.

L’intervento del clinico viene spesso sentito come “Sei l’ennesimo che mi dice che non vado bene malgrado tutti gli sforzi che faccio”. La sensazione che il rituale del cibo venga toccato e l’attivarsi della sindrome delle mani nel piatto sono un tutt’uno: rappresenta una rievocazione dei tentativi maldestri, critici e disturbanti dei familiari ed è una delle più frequenti cause di rottura precoce, come ho già accennato, anche solo in fase di prenotazione telefonica.

Va inoltre a finire sul sentimento pervasivo: “Tanto per me non c’è niente da fare e io, che per un attimo mi sono illusa di farcela, posso solo ritirarmi e attaccare il telefono o interrompere la consultazione”.

Un’altra componente di questa sfiducia generale nei trattamenti e nella modificabilità della propria condizione è la magia dell’umore, del rito e del destino: nell’esperienza di molte di queste pazienti c’è una certa sotterranea propensione a sperare che in fondo tutto il tormento a cui si sottopongono con notevole tenacia avrà infine come premio un improvviso sollievo, che peraltro conoscono perché già sperimentato. Accade infatti a volte che, dopo un lungo periodo di accanita resistenza nel dividere le carote e mangiarne solo metà, qualcosa cambi improvvisamente nella loro esistenza. Ciò può apparentemente accadere per qualche fortuito evento esterno come la comparsa di un nuovo fidanzato o anche solo di un presunto pretendente. Il repentino e inaspettato cambio di umore viene interpretato come un esaurimento definitivo della sofferenza e della contrizione, con un viraggio per cui improvvisamente sparisce – del tutto momentaneamente, ma al momento la paziente non può saperlo – il sentimento di fastidio e di disturbo del corpo e del cibo, creando il sentimento di un nuovo, piacevole e felice equilibrio. Il segreto pensiero diventa allora che la vera cura sia perseguire questo cambiamento “magico” che è il prodotto della propria tenace via di cura tramite il rito, anziché le noiose sedute con i dottori da cui per giunta la paziente può sentirsi incompresa e a cui si deve dedicare come un compito in più tra i tanti che già pesano sulla sua esistenza.

È in quest’area che si inserisce la questione del trattamento farmacologico antidepressivo molto frequentato dai colleghi e dalle pazienti. A tal proposito mi sento di segnalare, sempre per proseguire nella disamina degli aspetti psicopatologici, un aspetto rischioso, caratteristico del trattamento farmacologico di varie condizioni adolescenziali: infatti la condotta eliminatoria può costituire la base di una “suicidarietà strutturale”, la tendenza a eliminare ogni parte di sé ritenuta estranea e indegna per salvare il sé incorrotto. Lo psicofarmacologo deve saper utilizzare una particolare accortezza affinché l’antidepressivo non dia energia proprio a questa componente, con l’effetto più volte descritto del paziente che si uccide perché sta meglio.

Tutto l’aspetto “rassegnato” di fondo può, quindi, avere un suo notevole peso nelle capacità evolutive, perché può corrispondere ad alcune precise alterazioni funzionali.

Mi riferisco, per esempio, a ciò che accade con alcune delle tecniche, comprese quelle cognitive che, correttamente, mirano all’esplorazione delle paure di queste pazienti: esplorare le paure significa indurre e aiutare la paziente ad utilizzare le sue capacità immaginative. Posso individuare tre difficoltà nell’utilizzo di questo importante approccio, potenzialmente fortemente modificatorio:

  • La prima, più generale, è che il sistema del Sé di queste pazienti è ingabbiato nel suo modo di sentire e ciò corrisponde a un massiccio slivellamento verso il basso dello stato generale di coscienza e comporta una ridotta capacità immaginativa proprio nel campo delle paure, oltre che rappresentare la causa del frequente impoverimento generale.
  • La seconda è che esse descrivono le paure con le parole che conoscono e che hanno il più delle volte un diverso significato, come ho accennato a proposito dell’ingrassare.
  • La terza è che l’iperattività e l’ipervigilanza, come sempre, comportano di fatto un notevole restringimento del campo di coscienza, che finisce per farle esprimere solo nel territorio della preoccupazione prevalente, di cui ripetono con un particolare accanimento le definizioni e i contenuti a cui l’allarme è destinato. L’accanimento è infatti espressione dell’uso della forza della mente e della rabbia contro il contenuto che non dovrebbe esserci, oggetto della fobia, e proprio questa intenzione eliminatoria mantiene la paziente ancorata al percetto disturbante, contribuendo al persistere del  rimuginio. Ciò può impedire di ampliare il suo campo cognitivo per esplorare punti di vista diversi o altri aspetti dello stesso problema, e finisce per determinare una rigidità di pensiero spesso molto tenace e strutturare una frequente caratterialità di difficile maneggiamento.

È evidente che lo “spessore” dell’intervento terapeutico può essere diverso avendo in mente l’apparato del Sé che si è costruito in quella determinata paziente, in quanto con le diverse tecniche si può lavorare e far lavorare la paziente in una direzione condivisa e più aderente al suo mondo.

Ma la conseguenza più immediata per il clinico è che riconoscere la struttura e la profondità del disturbo può permettere, mentre si esplora una paura, di non banalizzarla involontariamente, con il rischio che la paziente si senta incompresa. È invece di fondamentale importanza assicurarsi di riservare alle paure emerse e al rigido funzionamento rituale il giusto spazio e riconoscimento, al fine di riuscire ad aiutare queste pazienti a esplorare i loro timori e i sentimenti connessi.

L’altro rischio, più frequente, è che queste pazienti, diligenti, mostrino di aver capito e superato la difficoltà o la fobia, per poi ritrovarcisi da sole, finendo nel peggiore sconforto.

Nel trattare pazienti con DCA, inoltre, va sempre tenuto presente l’aspetto del sentimento di estraneità del corpo, che richiede grande attenzione e una cura specifica; se sottovalutato, rischia al contrario di evolvere in situazioni fisiche che andranno a rafforzare il senso di ineluttabilità descritto.

Ciò che ritengo importante, soprattutto, è che dovremmo saper sfruttare l’insegnamento che deriva dall’intervento più semplice e diretto: quello con le madri.

È proprio dalla comprensione degli elementi potenzialmente mutativi in ogni quadro sintomatologico che possiamo infatti trarre indicazioni preziose sulle linee fondamentali da seguire per orientare le tecniche di trattamento, anche nei casi in cui non sia stato possibile l’intervento congiunto.

Tornando allo scopo di questo articolo, ho scelto di utilizzare i DCA come una possibile occasione per illustrare un ripensamento sulla psicopatologia. Ritengo infatti che la psicopatologia possa oggi essere riconcettualizzata a partire dall’individuazione di riconoscibili organizzazioni affettive elementari alla base dei vari disturbi, a partire da quelle del Sé. Il sentimento di verità derivante dalle testimonianze delle madri permette in questo caso di uscire dalla macchinosità della psicopatologia teorica e scendere, molto più direttamente ed efficacemente, sul terreno delle emozioni e del loro effetto.

L’esperienza mostra che il pensiero clinico può divenire più utile per il paziente, e questa può essere la via dell’efficacia clinica, se gli permette di riappropriarsi di quanto gli accade davvero, e del lavoro del suo Sé. Rimanere, invece, ancorati alla rilevazione di un deficit, con pazienti come queste, non fa che aumentare il rischio di confermare la loro percezione di immodificabilità.

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Note:

(1) Come ho avuto modo di affermare nel Seminario Psicopatologia oggi del 16 novembre 2013, il costrutto “fiducia di base” può essere più efficacemente sostituito da quello unitario di “sentimento del Sé più o meno fiducioso”, anziché costituire un’entità a parte.

(2) Come i binge eaters

(3) Ha a che fare per esempio con la comorbilità con l’acquisto compulsivo, la cleptomania, la promiscuità.

(4) Si tratta di uno dei numerosi temi che meriterebbe una trattazione ben più ampia e approfondita. Caratteristica precocemente acquisita e in grado di organizzare massicciamente l’intero funzionamento del Sé, l’iperstimolazione rappresenta un concetto fondamentale all’interno del modello che mi sto limitando ad accennare in questa sede ed è del resto individuabile, in modo trasversale, in un ampio spettro di casistiche psicopatologiche.

(5) Al pari dell’iperstimolazione, anche il sentimento di dover ineluttabilmente sottostare a un Destino sovrastante rappresenta un elemento centrale del modello, rintracciabile in quadri sintomatologici anche molto diversi tra loro, e che per questo meriterebbe una trattazione a se stante.

(6) Nel modello di riorganizzazione della psicopatologia cui mi riferisco, il “sistema del Sé” indica il fatto che con molti pazienti può essere ingannevole pensare solo al Sé, omettendo come stanno nel mondo. Infatti in alcune persone può esservi un aspetto strutturale da considerare: il fatto di sentirsi governati dall’alto da entità come il Destino, il Fato, i pianeti, la Sfortuna, in modo non “collaterale” come nelle comuni superstizioni, ma come sentimento stabile e continuo. Una vera e propria struttura, in quanto sentimento/percezione/rappresentazione persistente, che il clinico deve necessariamente saper rilevare e tenere in giusta considerazione. Molti fenomeni psicopatologici possono risultare incomprensibili, incluse alcune gravi situazioni di sfiducia nei trattamenti psicoterapeutici, motivate dal convincimento e il conseguente sentimento che “Contro il mio destino nulla si può fare”.

(7) Le innumerevoli tonalità malinconiche rappresentano un altro grande capitolo del modello a cui mi riferisco, capaci di organizzare il funzionamento del Sé, e per questo meritorie di una trattazione ben più approfondita di quella presente.

 

 

BIBLIOGRAFIA:

L’importanza del tiramisù (o sulle relazioni ai tempi di facebook)

 

Riflessioni dalla lettura di

COSÌ È SE VI “APPARE”

facebook e i social network

di Cinzia Colantuoni e Sofia Stazzi

 

 

COSÌ È SE VI “APPARE”  facebook e i social network  di Cinzia Colantuoni e Sofia Stazzi. -immagine: locandina

Se pubblico la mia sofferenza per un lutto che ho subito, quanto pesano 10 commenti e 7 mi piace? E che fine fa la nostra emozione se nessuno la raccoglie? 

Patrizia si trovava qui – presso Virgin Active Palestra”. E adesso che lo sapete, scommetto che la vostra giornata ha subito una grande svolta. Se anche voi siete tra quelli che sentono il bisogno di documentare ogni attimo della propria vita su Facebook, postando aggiornamenti continui sui propri spostamenti, sui propri pasti, sulle proprie funzioni corporali, sui propri stati d’animo, provate a rispondere a questa domanda: perché?

I social network sono ormai una presenza costante e scontata nella nostra vita, ancor di più oggi grazie alla diffusione degli smartphone che ci permettono di essere collegati con gli altri e con il resto del mondo 24 ore su 24. Ne esistono innumerevoli, alcuni specifici per un dato pubblico: oltre a Facebook, Twitter, Google +, troviamo per esempio Anobii per gli amanti della lettura, Myspace per gli artisti, Linkedin per i professionisti…; ma tutti hanno lo stesso scopo: facilitare le relazioni sociali e la condivisione.

In “Così è se vi appare”, libretto simpaticamente illustrato da Recanatini, due psicoterapeute della Gestalt Psicosociale, Cinzia Colantuoni e Sofia Stazzi, sezionano il fenomeno social network, in particolare Facebook, analizzandone il funzionamento, fornendone le istruzioni per l’uso, riflettendo sui suoi pro e  contro.

Sebbene il libro sia stato pubblicato nel 2011 e quindi in alcune parti sia un po’ datato (a dimostrazione di come questi strumenti si modifichino mostruosamente in fretta), gli interrogativi che pone sono ancora attualissimi: in che modo è cambiato il nostro modo di relazionarci e di comunicare con gli altri?

Facebook è come un enorme Cafè: una volta all’interno ci si tiene aggiornati sulle ultime notizie (attraverso i post delle pagine che seguiamo) e le si commenta o condivide affinché anche altri possano venirne a conoscenza; ma si ha anche la possibilità di osservare le persone attraverso i loro profili, di ascoltare quello che hanno da dire attraverso i loro post e se vogliamo è possibile inserirsi nelle loro conversazioni, anche non in tempo reale, commentando o cliccando mi piace. Condivisione e relazione.

Ma qual è la natura delle relazioni che instauriamo? La parola d’ordine su Facebook sembra essere (o è?) VISIBILITÀ: tutti sanno tutto di tutti, tutti sanno quello che noi vogliamo che sappiano (che spesso è, appunto, tutto). Per esempio, anziché la chat privata molte volte si preferisce scrivere direttamente sulla bacheca degli amici o sulla propria taggando i contatti interessati, in modo che tutti, compresi i non coinvolti nel post, possano leggere quello che scriviamo. Vi siete mai chiesti perché?

E qual è la natura delle nostre condivisioni? Perché sentiamo il bisogno di aggiornare gli altri su quanto accade fuori e dentro di noi?

Oggettivamente, chemefregaame se ieri sera sei andato a cena e ti hanno portato un cazzo di tiramisù?” scrive un mio amico su Facebook. E a me che me ne frega che a te non te ne frega che ieri sera ho mangiato il tiramisù? potrebbe ribattere il diretto interessato!

Da dove nasce questa necessità di far sapere al mondo intero cosa facciamo e cosa pensiamo? È davvero solo una vetrina narcisistica, una gara a “verificare quanto siamo popolari ed interessanti agli occhi degli altri”? E cosa succede se scriviamo qualcosa e non otteniamo neanche un misero mi piace? Come ci sentiamo? Cosa significa per noi? Che fine fa il nostro pensiero se nessuno lo raccoglie? Arriviamo a cancellare il post?

Ha forse ragione chi commenta che “anche il tiramisù è comunque condivisione, seppur di infimo livello. Quando non si hanno idee degne di tal nome o fatti che meritano di esser raccontati, anche un tiramisù può venir bene allo scopo di far interessare qualche cristiano alle proprie “epiche” gesta per una manciata di secondi.” ?

Ma Facebook non raccoglie solo i nostri pensieri, è anche una finestra sulle nostre emozioni: “Fai sapere come ti senti”. Ed ecco che la bacheca si anima di emoticon che dovrebbero comunicare agli altri il nostro stato d’animo. Perché? Cosa ci spinge a pubblicare come ci sentiamo in un dato momento? Cosa ci aspettiamo dagli altri? Che fine ha fatto la dimensione privata di certe emozioni? Se pubblico la mia sofferenza per un lutto che ho subito, quanto pesano 10 commenti e 7 mi piace? E che fine fa la nostra emozione se nessuno la raccoglie? 

Tante domande a cui è impossibile dare un’unica risposta perché le ragioni che ci spingono a relazionarci in un certo modo e condividere determinati pensieri o emozioni non sono univoci, ma sarebbe interessante se per un attimo ci fermassimo a riflettere sul motivo per cui utilizziamo i  social network in un dato modo piuttosto che in un altro.

Poi, qualunque sia la ragione che vi spinge a farlo, l’importante è che clicchiate mi piace su questo articolo e lo condividiate.

 

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La bellezza delle cose fragili: Bellezza e fragilità dell’Attaccamento

Anna Angelillo.

La bellezza delle cose fragili

di Selasi Taiye. Enaudi (2013)

LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

La Bellezza delle cosa fragili. (2013). -Immagine: locandinaRimane così un mirabile romanzo sulla famiglia, sull’amore, sulla perdita e sulla bellezza. E anche sui legami di attaccamento, in tutte le sfumature concepibili, declinati mirabilmente da una penna profana. Delle pagine che meritano di essere tenute strette.

“La bellezza delle cose fragili” è il titolo del primo romanzo che Taiye Selasi intesse per il suo esordio da scrittrice. Nata a Londra da padre ghanese e madre nigeriana, e vissuta in Massachusetts, Taiye Selasi racconta la storia di una famiglia africana, partendo dal suo triste epilogo: Kweku Sai muore solo nel giardino della sua casa in Ghana.

Ad apprenderne la scomparsa, dall’altra parte del mondo, i suoi figli e la sua Fola. A riempire la distanza di “chilometri, oceani e fusi orari (e altri tipi di distanze più difficili da coprire, come il cuore spezzato, la rabbia, il dolore calcificato e domande che per troppo tempo nessuno ha fatto)” ci sono le pagine di questo romanzo, nelle quali, riga dopo riga, prende forma la bellezza di questa storia di costruzione e rottura di legami.

Da un punto di vista psicologico, il romanzo colpisce perché sembra, in alcuni tratti, una trattazione sul tema dell’attaccamento, dal suo sviluppo al suo epilogo. Ci sono pagine che ben descrivono i rapporti tra genitori e figli nel loro modellarsi, e che ben tracciano le strade che i protagonisti intraprendono poi nel corso degli eventi che muovono le loro vite.

Il romanzo è la storia, in primis, di una coppia, quella di Kweku e Fola, che scappa dal continente nero alla ricerca di libertà e rivincita. È la storia di un giovane amore, è la voglia di dimostrare che l’Africa non è solo povertà e miseria, ma riuscita e rivalsa. È la storia di un uomo, un marito, un padre. È la storia di una donna, di una moglie, di una madre.

È la storia di una divisione devastante, ma anche di un ricongiungimento commovente.

È la storia di quattro figli, di quattro diversi legami, di quattro differenti vissuti.

È la storia di un figlio maggiore, del ragazzo che segue le orme del padre, per ammirazione, ma anche (o forse soprattutto) per vivere la vita che il padre aveva cominciato, ma da cui poi si è allontanato; è la storia di un uomo che non sa dare un inizio, perché in esso è contenuta inevitabilmente una fine, che ha vissuto una volta e non vuole più.

È la storia di due gemelli, l’incarnazione della bellezza più pulita. È la storia di un legame profondo, un lui e una lei, che sono una cosa sola, che va oltre l’esser nati uniti. È la storia di due ferite che cercano sollievo l’uno nell’altro, nonostante si trovino ad allontanarsi.

È la storia dell’ultima piccola arrivata. È la storia di una vita salvata per un soffio. È la storia di una solitudine inquieta, perché troppo piccola per ricordare i fatti, e cresciuta per questo in una costante sensazione di inadeguatezza.

È la storia di una famiglia di cristallo: è bella, ma fragile (come le cose belle).

È la storia di una famiglia di cristallo che un giorno si rompe, e i cui sei pezzi che ne derivano vanno ognuno in una direzione differente: ciascuno dà agli eventi una propria lettura, attribuisce ad essi un proprio significato, l’unico possibile per ciascuno, alla luce del proprio sentire, delle proprie convinzioni, aspettative e bisogni.

Ciascuno sviluppa una modalità di funzionamento e si muove nel mondo in base ad essa, così da dare un senso alla propria storia e al proprio Sé. È possibile, infatti, seguire come in un gioco-labirinto, i percorsi di ognuno, e rimanere stupiti e commossi di come ognuno a suo modo (e a tratti anche in modalità opposte) ha costruito un senso di sé unico rispetto agli altri, pur nascendo dallo stesso legame (e dalla stessa frattura), di come pezzi dello stesso vaso di cristallo, che si è rotto nello stesso momento e a causa dello stesso evento, si dividano in pezzi unici, nessuno uguale ad un altro.

La bravura della scrittrice sta nel non dare per scontate le conseguenze di un evento, perché unica è la realtà di ciascuno nelle conseguenza che si vivono, nel dare il giusto spazio e il pieno valore a ciascuno degli epiloghi possibili, dando vita a differenti scenari, tutti plausibili e coerenti, dando a ciascuna vita lo spessore che merita.

Rimane così un mirabile romanzo sulla famiglia, sull’amore, sulla perdita e sulla bellezza. E anche sui legami di attaccamento, in tutte le sfumature concepibili, declinati mirabilmente da una penna profana. Delle pagine che meritano di essere tenute strette.

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AUTORE:

Anna Angelillo – Dottoressa in Psicologia – Master in Psicologia Forense – Attualmente Specializzanda presso Scuola di Formazione in Psicoterapia Cognitiva (Torino)

 

Gli effetti negativi della sculacciata sui bambini – Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La sculacciata è ancora usata in molte famiglie come forma di disciplina nell’educazione dei figli, ma decenni di studi di ricerca ci dicono che può portare a problemi comportamentali a breve e lungo termine nei bambini.

C’è un modo per far cambiare idea ai genitori e farli smettere di sculacciare i figli? Lo psicologo infantile George Holden ha cercato di rispondere a questa domanda e si è chiesto se i genitori a favore della sculacciata come metodo educativo potessero cambiare idea se informati in merito alle possibili conseguenze negative che questa può avere sui loro figli.

Il team di Holden della Southern Methodist University di Dallas ha usato un metodo semplice rapido ed economico, di breve esposizione a riassunti di ricerche che evidenziavano le conseguenze negative della sculacciata. I gruppi osservati erano due, uno di genitori e uno di non genitori e i risultati mostrano che questa breve esposizione ha significativamente modificato l’atteggiamento di entrambi i gruppi in merito alla funzione educativa della sculacciata.

I genitori che sculacciano i figli lo fanno con le migliori intenzioni, spiega Holden, con l’idea che promuoverà comportamenti positivi nei figli: è l’idea che sia un principio educativo efficace a spingerli a farlo e non la rabbia che provano in certi momenti; inoltre questo atteggiamento è sostenuto dalle opinioni positive delle persone di cui si fidano, medici, pediatri, insegnanti, educatori, leader religiosi, i loro stessi genitori; informarli delle conseguenze negative di questa pratica, sostenute da dati di ricerca, ha l’effetto di cambiare rapidamente e radicalmente i loro atteggiamenti in merito.

Lo studio è il primo del suo genere a evidenziare come una breve esposizione alla ricerca sulle sculacciate può alterare il punto di vista della gente.

Questo è un risultato importante se si pensa che studi precedenti si sono affidate a metodi ben più dispendiosi in termini di tempo e risorse economiche per raggiungere gli stessi risultati.

 

 

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I gruppi di auto/mutuo aiuto. Come le difficoltà  diventano risorsa – Edizioni Centro Studi Erickson – Formazione

 

La Redazione di State of Mind vi segnala questo evento

 


 

I gruppi di auto/mutuo aiuto. Come le difficoltà  diventano risorsa – Edizioni Centro Studi Erickson – FormazioneConsigliato dalla Redazione

Corso per conoscere i gruppi di auto/mutuo aiuto attraverso aspetti metodologici ed esperienze italiane significative – Edizioni Centro studi Erickson (…)

 

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Neuroscienze: il progetto Brain Computer Interface.

 

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NEUROSCIENZE: Un interessante progetto di interazione uomo-macchina sviluppato e realizzato dal Dipartimento di Scienze Neurologiche e Sensoriali dell’AOU di Siena.

 

“Sarà effettuata – spiega il professor Rossi – una dimostrazione pratica di una un’interfaccia digitale in grado di leggere l’attività elettrica della corteccia cerebrale e che, mediante il computer, è capace di guidare in modo efficace ausili e dispositivi robotici per aiutare i pazienti disabili”.

 

Neuroscienze: il BCI al seminario dell\’Aou – Siena, neuroscienze, brain computer interface, progetto, Dipartimento, Rossi, Aou – Il Cittadino OnlineConsigliato dalla Redazione

brain computer interface
SIENA. Sarà presentato al seminario “Brain – Computer Interface”, martedì (11 febbraio) nell’aula A del centro didattico, l’innovativo progetto nell’ambito… (…)

 

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Prigionieri dello Stress – I significati dell’ Ansia? – Psicologia

Prigionieri dello stress. - Immagini: © Jérôme Rommé - Fotolia.comIl New Yorker ha pubblicato un bellissimo articolo sul libro “My Age of Anxiety” di Scott Stossel, in cui Louis Menand s’interroga su quale sia il significato dell’ansia.

Immaginate che la vostra compagna di vita sia un’ansia feroce che non vi abbandona mai. Immaginate di vivere con la paura costante degli spazi chiusi, dei germi, di parlare in pubblico, di volare, di svenire…insomma, un inferno! Questa è la vita di Scott Stossel, giornalista americano che dopo averle provate tutte senza successo (dai farmaci allo yoga alla psicoterapia), su suggerimento del suo attuale terapeuta ha scritto la storia della sua ansia: “My Age of Anxiety” (2014).

Il New Yorker ha pubblicato un bellissimo articolo su questo libro in cui Louis Menand s’interroga su quale sia il significato dell’ansia. Una domanda solo all’apparenza banale.

Cos’è l’ansia? Tutti abbiamo provato almeno una volta nella vita questa emozione, ma ognuno di noi ne dà un’accezione differente: eccitazione, nervosismo, preoccupazione, panico, apprensione, tensione…diverse sfumature di uno stesso concetto.

E perché proviamo ansia? Anche in questo caso, dare una risposta univoca non è semplice: a seconda dell’approccio con cui si affronta il tema, l’ansia potrà essere definita, per esempio, come l’esito della tendenza umana a preoccuparsi per il futuro (prospettiva esistenzialista), la spia di un conflitto intrapsichico tra l’Io e desideri inconsci repressi (prospettiva psicoanalitica), una componente del riflesso di attacco-fuga che si attiva di fronte ad un pericolo (prospettiva evolutiva), o ancora la risposta all’incertezza e allo stress della vita moderna (prospettiva sociologica).

Tutte definizioni che sono tra loro incompatibili! “Il massimo che possiamo affermare – osserva Louis Demand – è che questo stato d’animo che quasi tutti sperimentiamo è rappresentato in maniera prominente in varie teorie che interessano l’esistenza umana e il mondo in cui viviamo”.

Particolarmente interessante è la “pazza storia” dello sviluppo del concetto di ansia dagli anni 40 ad oggi, partendo da Kierkegaard e la sua idea di ansia come coscienza della finitudine umana e della sua natura peccaminosa, passando da Freud e la sua teoria dell’ansia come sintomo di conflitti interiori e nevrosi, proseguendo con la visione dell’ansia come il prodotto di fattori ambientali esterni, fino ad arrivare ad una visione strettamente medica dell’ansia che ha decretato l’attuale dominio delle case farmaceutiche grazie alla vendita di psicofarmaci.

A questo punto appare doveroso sfatare il mito che l’ansia sia un’emozione negativa. Si prova ansia ogni qualvolta si percepisce una minaccia o un pericolo (alla propria sopravvivenza o al proprio ego, non fa differenza); questo ci permette di prepararci ad agire prontamente. L’ansia ha quindi una funzione protettiva e preventiva, ma diventa patologica nel momento in cui non si è capaci di gestirla (per esempio rimanendo in balia di un rimuginio catastrofico) e l’organismo permane in uno stato di iperattivazione prolungata, con il cervello letteralmente a bagno nel cortisolo, l’ormone dello stress.

Oggi, sposando un’ottica eziopatogenetica multifattoriale secondo cui le cause dei grandi disturbi mentali sono riconducibili ad un’interazione tra geni e ambiente, di fronte a casi resistenti ai trattamenti non si può trascurare l’influenza della componente genetica. Ciò significa che di fronte a questi casi non possiamo fare altro che rassegnarci? Assolutamente no. Come giustamente sottolinea Louis Menand, “Essere umani significa far fronte alla nostra biologia. La selezione naturale ci ha dotato di una mente, liberandoci dalla prigione del determinismo biologico. Possiamo sfruttare al meglio il nostro assetto genetico per raggiungere i nostri scopi se lo vogliamo; a volte dobbiamo provare a fare la stessa cosa anche con i nostri deficit genetici”.

Proprio come ha fatto Scott Stossels e tanti come lui che non hanno sconfitto l’ansia, ma hanno imparato a conviverci e a gestirla con successo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Leadership negli Sport di Squadra #16 – Il test sociometrico

 

 

Leadership negli Sport di Squadra #16:

Il test sociometrico

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

Leadership sport di squadra nr.16. - Immagine: © kabliczech - Fotolia.comUno strumento utilizzabile, in particolar modo, per analizzare la figura del leader intimo della squadra e la sua relazione con gli altri atleti è il test sociometrico.

Questa metodologia, ideata principalmente per l’analisi delle relazioni intragruppi da Moreno [1934] e applicata al mondo sportivo da Mazzali [1995], si basa sulla costruzione di un organigramma che rappresenti le relazioni positive e negative tra ciascun giocatore della squadra, sia a livello tecnico che socio-affettivo.

Esistono due diverse modalità di costruzione di questo organigramma: il test diretto e il test indiretto. Il primo si basa sulla compilazione di un questionario consegnato a ciascun giocatore dove si chiede di nominare un massimo di 3 compagni di squadra che vorrebbe avere al proprio fianco in momenti critici della partita (livello tecnico) o con cui vorrebbe trascorrere una serata in compagnia (livello socio-affettivo) e fino a 3 compagni con cui non vorrebbe trovarsi in identiche situazioni. Nel test indiretto si invita la persona a redigere la formazione ritenuta ideale. Si presuppone, in questo caso, che le simpatie e le antipatie più o meno conscie influenzino la costruzione di quest’ultima per ciascun atleta.

Con i dati del test, diretto o indiretto, effettuato si è in grado di costruire un sociogramma in cui vengono rappresentate graficamente le scelte positive e negative di ciascun giocatore. Attraverso l’analisi del sociogramma e tirando le somme del numero di scelte positive e negative di cui è stato oggetto ciascun giocatore si è facilmente in grado, per ciascuno dei due livelli, di individuare la presenza di un leader, e, allo stesso tempo, quella di un eventuale soggetto emarginato dal resto del gruppo. Questo rende ancor più evidente come sono le scelte degli atleti, a volte inconsce, ad attribuire al capitano il suo ruolo e ad investirlo della responsabilità di essere ritenuto un punto di riferimento, tecnico o socio-affettivo, da parte dei suoi compagni. 

L’interpretazione del sociogramma ci permette di comprendere la presenza e l’origine sociale di conflitti e condizioni disturbanti il clima e le prestazioni della squadra.

Nel caso, ad esempio della coesistenza di due diversi leader, saremmo in grado di comprendere quali sono i sottogruppi che alimentano questo conflitto e di agire in modo da rafforzare alcuni legami che appaiono deboli riportando equilibrio all’interno della rete di relazioni interpersonali.

 

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LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

La relazione di coppia nella transizione alla genitorialita’

Laura Marino

 

LA RELAZIONE DI COPPIA NELLA TRANSIZIONE ALLA GENITORIALITA’:

UNO STUDIO LONGITUDINALE

 

La relazione di coppia nella transizione alla genitorialità. -Immagine: © drubig-photo - Fotolia.com

I risultati ottenuti suggeriscono che diversi fattori (individuali, relazionali e contestuali) hanno costituito una rete protettiva per questi genitori, consentendo loro un passaggio non particolarmente critico dall’essere coppia al divenire famiglia.

ABSTRACT

Introduzione. Durante la transizione alla genitorialità ogni individuo si trova ad affrontare profondi cambiamenti e adattamenti, personali e di coppia, che avranno ripercussioni importanti sulla relazione coniugale, su quella genitore-figlio e sullo sviluppo dell’attaccamento del bambino (McHale, 2010; Velotti, Castellano, Zavattini; 2010).Obiettivo di questa ricerca è l’indagine dell’influenza che variabili individuali, relazionali e contestuali esercitano nella transizione.

Metodo. Il campione è costituito da 18 coppie in attesa del primo figlio (sposati o conviventi, età media 35 anni, livello d’istruzione medio-alto). La ricerca ha previsto due step: T1 (7° mese di gravidanza), in cui è stato somministrato: scheda socio-anagrafica, DAS (adattamento diadico), ECR-R (stile di attaccamento romantico), CPQ (modalità di  comunicazione e gestione del conflitto), MSPSS

(sostegno sociale percepito), SCL-90_R (presenza di disagio psichico), CES-D (livello di sintomatologia depressiva), AAI (modelli di attaccamento infantili); T2 (3° mese post-partum) in cui i partecipanti hanno compilato: tutte le misure del T1, tranne SCL-90_R e AAI, e in aggiunta PSI-SF (livello di stress genitoriale) e SVC 80 (percezione del comportamento del bambino).I dati sono stati analizzati mediante il programma statistico SPSS.

Risultati. Il campione si caratterizza per l’assenza di disagio psichico, alta percezione di sostegno sociale, prevalenza di attaccamento sicuro all’AAI (madri 77,8%; padri 72,2%), prevalenza di attaccamento romantico sicuro all’ECR-R (madri 72,2%; padri 72,2%). Il confronto tra le misure rilevate al T1 e quelle del T2 ha mostrato un complessivo buon adattamento dei neo genitori all’evento “nascita del figlio”.

Discussione. I risultati ottenuti suggeriscono che diversi fattori (individuali, relazionali e contestuali) hanno costituito una rete protettiva per questi genitori, consentendo loro un passaggio non particolarmente critico dall’essere coppia al divenire famiglia. Il prosieguo della ricerca consentirà di continuare a monitorare l’andamento delle variabili studiate e l’eventuale influenza che esse eserciteranno sullo sviluppo di un attaccamento sicuro nel bambino.

Parole chiave: gravidanza, transizione alla genitorialità, attaccamento, adattamento diadico, supporto sociale percepito.

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AUTORE:

Laura Marino. Dipartimento Psicologia Dinamica e Clinica, Sapienza, Università di Roma

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2013 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia.

Impulsività, Craving e Obesità – Psicologia dipendenze e alimentazione

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Obesità: secondo i Centers for Disease Control and Prevention più di un terzo degli adulti americani sono obesi e questo è un fattore di rischio per malattie cardiache, ictus, diabete di tipo 2 e alcuni tipi di cancro.

Il costo medico annuo per l’obesità nel 2008 è stato di 147.000 milioni di dollari; inoltre le persone obese pagano una media di 1,429 dollari in più di spese mediche rispetto a quelle di peso medio.

Secondo una nuova ricerca della University of Georgia, il comportamento impulsivo, che induce alcuni ad abusare di alcol e droghe, può avere un peso anche nello stabilire un rapporto malsano con il cibo.

I ricercatori hanno scoperto che chi ha una personalità impulsiva riferisce livelli più elevati di dipendenza da cibo – un mangiare compulsivo che è simile alla tossicodipendenza – e questo a sua volta è associato con l’obesità.

Lo studio ha utilizzato due diverse scale, la Yale Food Addiction Scale e l’UPPS-P Impulsive Behavior Scale, per determinare i livelli di dipendenza da cibo e impulsività dei 233 partecipanti. I ricercatori hanno poi confrontato questi risultati con l’indice di massa corporea di ciascun soggetto.

I risultati mostrano che il comportamento impulsivo non era necessariamente associato all’obesità, ma che i comportamenti impulsivi possono portare alla dipendenza da cibo e quindi all’aumento del BMI.

L’industria alimentare contemporanea ha creato una vasta gamma di cibi ricchi di grassi, sodio, zucchero e altri additivi che li rendono gustosi e che inducono un craving molto simile a quello prodotto dalle droghe illecite, dice MacKillop, ricercatore a capo dello studio; questi cibi hanno un effetto sui circuiti dopaminergici di ricompensa simile a quello prodotto dalle droghe e questo getta le basi per comportamenti alimentari compulsivi, simili a quelli della dipendenza da droghe.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Catwoman – CIM Nr.02 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #02

Catwoman

 

– Leggi l’introduzione –

CIM. Catwoman n.2. - Immagine: ©-alexokokok-Fotolia.comLa follia è democratica e colpisce indistintamente tutte le classi sociali. Per arrivare al Cim, però, preferisce farsi accompagnare dalla povertà.

Biagioli “si era fatto persuaso” che i fantasmi che abitano l’animo umano e, soprattutto, quelli relegati nei più profondi scantinati, fossero resi irrequieti dal mutare delle stagioni e che, in certi periodi dell’anno, la gestione dei pazienti e degli operatori si complicasse non poco.

Ciò poteva spiegarsi biologicamente con il mutare delle ore di luce, sociologicamente con la maggiore pesantezza della solitudine e della povertà in periodi come il Natale o le vacanze estive oppure, secondo Gilda, con il gioco dei mutevoli allineamenti  dei pianeti nei segni zodiacali.

Naturalmente, i periodi di maggiore crisi corrispondevano anche alle ferie degli operatori che, forse, erano esse stesse un motivo delle riacutizzazioni.

In quell’autunno del 1999, col cielo indeciso sempre  sul punto di cacciare con la pioggia un’estate che tutti aveva affannato e non si decideva a finire, un ulteriore motivo tormentava nottetempo le menti: il cambio di millennio riaccendeva fantasie apocalittiche o attese di cambiamenti radicali.

Comunque tutto sarebbe stato diverso ed il nuovo, si sa, che sia brutto o bello, un pochino spaventa.

Con il principiare dell’avvento lo scorrere intenso dell’attività del CIM, che vedeva impegnati gli operatori in genere a coppie o in piccole squadre di tre ad attuare i progetti terapeutici messi a punto nelle periodiche riunioni generali ancora tanto simili alle assemblee del ’68 per democraticità e anche confusione inconcludente, si increspava in onde o creava vortici per l’intensificarsi di emergenze accomunate dall’imperativo di far presto, perché la follia e le sue tracce fossero nascoste sotto il tappeto per non turbare il clima natalizio. Poteva essere l’ultimo Natale, forse il prossimo celebrato insieme a tutti nella comunione dei santi nella valle di Giosafatte.

La follia è democratica e colpisce indistintamente tutte le classi sociali. Per arrivare al Cim, però, preferisce farsi accompagnare dalla povertà. Se è da sola non si fida e sceglie gli studi  privati con la musica in sala d’attesa, meglio quelli di Vontano o di Roma che garantiscono maggiore riservatezza, anche se gli operatori sono gli stessi.

Lo studio privato del Dr. Irati  aveva appuntamenti a due mesi, mentre al CIM, lo stesso medico non aveva alcuna lista d’attesa.

Era dunque inaspettato che il sindaco stesso chiedesse un intervento per la signora Cristina Forni, settantaduenne, benestante grazie alla ricca reversibilità del marito, prestigioso medico condotto di Monticelli scomparso da tre anni ed ancora nella memoria riconoscente di tutti. Aveva reagito positivamente alla morte del marito, per quanto si possa dopo la perdita del compagno di quarant’anni di vita.

Biagioli le aveva portato allora le condoglianze di tutto il CIM, che aveva avuto nel dr. Forni un sensibile collaboratore e le aveva sconsigliato di restare da sola nella grande villa alla periferia sud del paese.

Ma il figlio maggiore, sposato, non aveva spazio nella piccola casa di Roma e il più piccolo era partito per l’Andalusia dopo tre mesi della morte del padre, dove si diceva cercasse fortuna come ristoratore.

Cristina era rimasta con i suoi sei gatti cui dedicava la vita. Per accudirli rinunciava a recarsi a Roma dal figlio anche dopo la nascita del nipotino, attirandosi le critiche del vicinato e della nuora. Di affidare i gatti a qualcun altro non se ne parlava proprio, così come di accettare un aiuto per la gestione domestica. Per tirchieria, orgoglio ed un senso esasperato della privacy non voleva che nessuno entrasse in casa. Le stesse amiche avvertivano di non essere gradite e diradarono le visite.

Una coltre pesante di decadenza, degrado e morte scese progressivamente sulla villa Forni e su Cristina. Il giardino, assediato da erbacce e rovi, ospitava randagi di ogni genere, con una predominante colonia di pantegane che mettevano in fuga i gatti di Cristina sempre più smagriti  per l’assenza dell’attività culinaria molto abbondante, al contrario, quando era in vita il dottore.

Le grondaie intasate facevano scolare l’acqua sulle pareti interne della casa ed una grande macchia di umido, con il tanfo di muffa, si espandeva sui soffitti.

Cristina provava tristezza a cucinare solo per sé, il più delle volte non lo faceva e suppliva con un pezzo di pizza.

Non erano i soldi a mancarle ma la voglia di vivere. L’abbigliamento, un tempo curato ed elegante, mostrava una trascuratezza generale che non risparmiava il corpo dimagrito e dall’igiene approssimativa. Cristina, una delle donne più in vista del paese, stava trasformandosi in una barbona.

Biagioli, sempre in nome del rapporto che lo legava al marito, le aveva prescritto degli antidepressivi. Aveva attivato Silvia, l’assistente sociale, per coinvolgerla  in un corso di pittura per i ragazzi del centro diurno in cui lei avrebbe fatto l’insegnante, avendo un passato di professoressa al liceo artistico.

Sembrava importante darle un ruolo di accudimento e cura in considerazione che era ciò che l’aveva mossa tutta la vita,  dedita ai figli, agli allievi ed ai suoi gatti. Per alcuni mesi la faccenda funzionò e Cristina si riprese anche fisicamente perché mangiava con gli altri al centro diurno, incartando per i suoi mici gli abbondanti resti. Quando mostrava qualche tentennamento e si dichiarava stanca la andava a prendere l’infermiera Luisa con la macchina di servizio.

Il dodici settembre fu proprio Luisa, appena tornata da un servizio esterno con Biagioli non esattamente professionale, sebbene giudicato da entrambi urgente,  a ricevere la telefonata del figlio di Roma: il consolato italiano di Siviglia lo aveva chiamato per comunicargli la morte del fratello in un incidente sul lavoro e voleva fosse il CIM a dare la notizia alla madre.

Non esistono parole adatte per queste notizie. Per togliersi dal cuore il peso di questo compito furono quasi precipitosi e già nell’ingresso della gelida casa avevano comunicato, come un telegramma, la fine a 23 anni della vita di Alberto per mano di un camionista ubriaco. Avevano portato con loro la borsa del pronto soccorso immaginando tempeste emotive e  scompensi cardiologici, erano pronti a tutto ma non a ciò che davvero accadde.

Cristina, come non avesse udito, li invitò ad accomodarsi in salone, chiese a Biagioli se volesse essere così gentile da accendere il caminetto ironizzando sulla sua capacità di farlo, poi si  dileguò in cucina a preparare il caffè e Luisa la sentì borbottare tra sé su come comunicare la notizia al marito. Tornata, ebbe a lamentarsi per la nuova gestione del forno del paese e delle ciambelline alle nocciole, non paragonabili a quelle di un tempo. Almeno il marito, che tanto le apprezzava, non avrebbe dovuto sperimentare questa delusione. Parlò diffusamente del figlio romano e delle preoccupazioni di un genitore quando i figli sono fuori di casa tra i pericoli del mondo.

Biagioli, sconcertato, disse a Cristina che la notizia l’avevano avuta da Marco che era stato avvertito a sua volta dal consolato di Siviglia. Cristina divenne sbrigativa, raccogliendo le tazze del caffè ed il piatto con i dolcetti e li congedò lamentando la trascuratezza dei figli verso i genitori se non hanno nulla da chiedere.

In macchina aumentarono il riscaldamento, per togliersi di dosso il gelo di quell’incontro appunto agghiacciante più di qualsiasi scena di disperazione. Sembrava loro di aver sentito distintamente il rumore di qualcosa che si spezzava per sempre dentro Cristina. Da quel giorno non venne più al centro diurno nonostante Luisa suonasse nei giorni stabiliti al citofono della villa. Nessuno in paese la vedeva più dalla fine di settembre, solo i gatti randagi avevano accesso alla villa.

A fine novembre fu il sindaco Pedrazzoli a chiedere l’intervento del CIM per la preoccupazione dei vicini. Convocata con una lettera in ambulatorio non si presentò e si decise per un trattamento sanitario obbligatorio. Cristina non apriva al citofono del grande cancello e fu forzata la porticina sul retro che dava direttamente su strada.

Appena varcata la soglia Biagioli e Luisa furono investiti da un disgustoso odore dolciastro che chiudeva la gola.

Silvia Ciari, l’assistente sociale che li aveva accompagnati, pensò al peggio e vomitò in un angolo.

Alle loro chiamate una voce lontana rispose. Entrati in camera da letto viderò ciò che non avrebbero più dimenticato: al centro del letto stava Cristina vestita con l’abito della festa, un tailleur grigio fumo e, tutto intorno sul letto, per terra, sul comò, sulle sedie e nell’armadio aperto, scatole di scarpe. Su ogni scatola un nome e il disegno di una croce.

Complessivamente erano 77 i gatti morti che circondavano Cristina, in diverso stato di putrefazione.

La donna, tiratasi su, spiegò che quei piccoli indifesi correvano troppi pericoli nel mondo là fuori e che lei li aveva attirati con prelibatezze nel giardino perchè restassero per sempre al sicuro con lei.

I suoi sei gatti originari erano sul letto e ormai rinsecchiti, gli altri via via più distanti e freschi.

Il medico legale dell’ospedale, non celando il malcontento per il compito che gli veniva chiesto ed inveendo contro la sanità mentale degli operatori del CIM, sostenne che erano stati strangolati con un foulard di seta.

Cristina non voleva lasciare i suoi piccoli e fu necessario un TSO con l’intervento della polizia municipale, anch’essa maledicente il CIM.

Persino i vicini di casa mostrarono ostilità per gli operatori che trascinavano sull’ambulanza una minuta vecchietta che non dava fastidio a nessuno. In sua difesa alcuni ricordarono come girava sempre con le tasche piene di caramelle per i ragazzini.

A Biagioli venne in mente che forse, nonostante l’apparenza, erano arrivati in tempo.

Mentre l’ambulanza si dirigeva verso l’SPDC di Vontano, Biagioli convocò una riunione generale per la mattina successiva. Silvia Ciari, l’assistente sociale avrebbe, attraverso il sindaco, organizzato la totale ripulitura e disinfezione della casa durante il periodo di ricovero, con gli operai comunali o una apposita ditta per riparare tutto il degrado che la villa aveva avuto anche prima di diventare una necropoli felina.

La dottoressa Daniela Ficca avrebbe iniziato dei colloqui già durante il ricovero e poi mantenuto un rapporto psicoterapico dopo la dimissione che, secondo gli accordi, sarebbe durato circa un mese.

Le infermiere l’avrebbero subito ricoinvolta nel corso d’arte al centro diurno.

A Giovanni spettava il compito di contattare il figlio Marco per  organizzare una sua maggiore presenza nella vicenda della madre, ora che era rimasto figlio unico.

Il caso di Cristina, ricordata come la serial killer felina, sarebbe stato seguito da Daniela Ficca, Silvia Ciari, Luisa, Gilda, Giovanni e lo stesso Biagioli. Si sarebbero incontrati ogni 15 giorni per fare il punto della situazione e aggiustare il tiro. Avevano però fatto i conti senza l’oste.

Cristina raggiunse gatti e marito alla fine del terzo giorno di ricovero passando per la finestra della sala visite dell’SPDC. Se non fossero intervenuti forse sarebbe ancora viva? Le avevano fatto una violenza indicibile come sostenevano i vicini? A che punto della storia si sarebbe dovuto intervenire perchè questa prendesse un altro corso? Cosa era successo in quei tre giorni di ospedale?

Sensi di colpa e accuse montano sempre intorno agli eventi luttuosi ma straripano nei casi di suicidio. Cosa si poteva fare e non era stato fatto, cosa era stato fatto che era meglio non fare?

L’idea, suggerita dal figlio, che avesse smesso di soffrire era di ben poca consolazione, loro erano pagati per trovare altri modi di smettere di soffrire e non c’erano riusciti.

Tutti insieme andarono al funerale, non previsto dal bel progetto terapeutico.

 

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