expand_lessAPRI WIDGET

Dialectical Behavioral therapy (DBT): Skills Training – Report

 

DIALECTICAL BEHAVIORAL THERAPY (DBT)

Reportage del primo training intensivo sulla DBT

Vicenza – 17, 18, 19 gennaio 2014

 

Dialectical Behavioral therapy: Skills Training - LocandinaUna parte sostanziale del training è stata dedicata all’approfondimento del significato ed applicazione con il paziente delle tre strategie “core” della DBT, tra cui la Validazione.

Validazione come capacità di restituire al paziente la sua storia di vita di costante invalidazione emotiva come contenitore entro cui la sua sofferenza acquisisce un senso.

Si è concluso il primo dei tre Training intensivo sulla Dialectical Behavioral Terapy (DBT) che ha avuto luogo a Vicenza dal 17 al 19 Gennaio 2014. Per chi ha avuto modo di partecipare è stata una esperienza intensa, faticosa ma allo stesso tempo arricchente e stimolante dal punto di vista professionale, che ha fornito molteplici spunti di riflessione e competenze pratiche di immediato ed efficace utilizzo nell’ambito del lavoro clinico con i nostri pazienti.

La DBT è una terapia evidence-based originariamente pensata e concettualizzata negli anni ‘70 da Marsha Linehan, a partire dal Modello Cognitivo-Comportamentale Classico, per il trattamento dei pazienti gravemente suicidari e affetti da Disturbo Borderline di personalità.

Dalla sua applicazione originaria grazie anche al contributo di altri autori e della stessa fondatrice, il modello è stato implementato, ed è attualmente applicato nel trattamento di una varietà di popolazioni cliniche, tra cui pazienti affetti da abuso/dipendenza da sostanze, Disturbi Alimentari, PTSD, Disturbi Dissociativi e Disturbo Antisociale.

Inoltre sono stati sviluppati protocolli specifici per adolescenti, adulti, famiglie e anziani. Nonostante le diverse applicazioni del modello esso mantiene il suo “core” di intervento, ovvero il trattamento della disregolazione emotiva e del discontrollo degli impulsi.

Questo training intensivo sulla DBT, suddiviso in tre moduli ed organizzato dalla PDFRI (Personality Disorders – Formazione e Ricerca Italiana) in collaborazione con la Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva, vede la sua forza nel suo conduttore, il Professor Charles R. Swenson, uno dei massimi esperti di DBT a livello internazionale.

Psichiatra e Professore Associato presso la Facoltà di Medicina dell’Università del Massachusetts, il Professor Swenson ha diretto il programma di ospedalizzazione a lungo termine per pazienti con Disturbo Borderline di Personalità del Prof. Otto Kernberg a New York, e successivamente si è formato con Marsha Linehan sulla DBT ed ha sviluppato un adattamento ospedaliero della stessa, dirigendo il primo programma DBT al di fuori della clinica della sua fondatrice.

In seguito ha sviluppato un programma DBT ambulatoriale, per poi dedicare la sua attività di formatore e consulente all’implementazione del modello DBT in diversi setting clinici. Psicoanalista di nascita e terapeuta DBT di adozione, oggi Swenson è uno dei più esperti clinici, trainer e formatori DBT, uno dei fondatori della Società Internazionale per il miglioramento e Insegnamento della DBT (ISITDBT), vincitore del premio per l’insegnamento della tecnica e ricercatore esperto nell’ambito del Disturbo Borderline di Personalità e dell’applicazione della DBT.

Questo il suo curriculum, ma di persona il Professor Swenson è molto di più. Uomo di ampia cultura, clinico attento e dalle brillanti intuizioni ma anche esperto e competente nel lavoro con i pazienti, è stato capace, grazie ad un’ottima oratoria, di coinvolgere il pubblico, di insegnare le skills DBT con precisione ma allo stesso tempo trasmettendo la sua passione per la clinica, la sua professionalità ed attenzione per il paziente e il suo entusiasmo per un modello di cui la ricerca scientifica sta dimostrando con sempre più forza l’efficacia.

Grazie all’uso di esperienze di vita personali, racconti di momenti significativi del trattamento con i suoi pazienti, casi clinici, simulate e materiale video Swenson ha dedicato questi primi tre giorni intensivi a fornire una dettagliata panoramica della DBT, includendo storia ed evoluzione del modello, sua applicazione e dati di efficacia. Sono stati quindi presentati e discussi i principi generali del modello e la struttura del trattamento, con particolare attenzione sia alla sua declinazione all’interno dei gruppi (come da modello originario) sia fornendo indicazioni e suggerimenti utili all’interno di un setting di terapia individuale.

I partecipanti hanno potuto così acquisire una buona conoscenza della Teoria Bio-Sociale che, nel modello DBT, spiega lo sviluppo del Disturbo Borderline di personalità, ed hanno potuto apprendere le tecniche di utilizzo in seduta dell’ Analisi della Catena Comportamentale, lo strumento di assessment principale in DBT, efficace nell’individuazione dei pattern comportamentali problematici, dei loro antecedenti in termini di fattori di vulnerabilità e conseguenze.

Esercitazioni pratiche e simulate hanno inoltre permesso di declinare nella pratica la teoria e di riflettere sulle problematiche e sulle strategie di gestione delle stesse che possono incorrere nell’applicazione della tecnica durante il colloquio.

Una parte sostanziale del training è stata dedicata all’approfondimento del significato ed applicazione con il paziente delle tre strategie “core” della DBT, ovvero la Validazione, che si rifà e attinge dal repertorio della Mindfulness, il Problem-solving, eredità del modello Cognitivo-Comportamentale classico e la Dialettica, introdotta originariamente da Marsha Linehan come specifica modalità di dialogo tra paziente e terapeuta utile al fine di gestire il conflitto e superare i momenti di impasse.

Validazione non solo come empatia, ma come la capacità del terapeuta di riconoscere e prendere atto di come le reazioni emotive, cognitive e comportamentali del paziente abbiano un significato comprensibile se contestualizzate all’interno (e sulla base) del contesto, degli antecedenti, della storia del paziente.

Validazione come capacità di restituire al paziente la sua storia di vita di costante invalidazione emotiva come contenitore entro cui la sua sofferenza acquisisce un senso.

Validazione come autenticazione dell’altro, vicinanza emotiva, comprensione e possibilità per il paziente di sentirsi compreso, accolto, validato all’interno della relazione terapeutica.

Quindi Problem-solving, così caro a noi cognitivisti, il nostro “cavallo di battaglia”, lo strumento di cambiamento, il “pushing della terapia”.  Ciò che nel modello  DBT sarebbe inefficace, una “pillola amara” da digerire per i pazienti se non fosse preceduto dalla validazione, che riprendendo le parole di Swenson “è ciò che ci consente di andare all’Inferno con i nostri pazienti per poi tornare indietro e lavorare insieme con la CBT”.

Questa quindi la grande ricchezza e difficoltà della DBT, che è come una danza tra due persone, dove si alternano in maniera armonica validazione, pushing e confronto dialettico.

Infine ampio spazio è stato dedicato all’insegnamento delle skills della DBT, gli “strumenti del mestiere” che il terapeuta ha a disposizione per lavorare con il paziente sulle quattro aree della consapevolezza, della gestione dell’impulsività, della regolazione emotiva e dell’efficacia interpersonale.

I partecipanti hanno quindi avuto modo di apprendere le diverse tecniche a partire dalla comprensione del loro razionale, delle modalità con cui esse devono essere insegnate ai nostri pazienti, dei criteri attraverso cui il clinico valuta quale sia il momento più adeguato per il loro utilizzo e delle modalità di valutazione dell’efficacia della tecnica.  Questo lavoro ha permesso di addentrarsi nel mondo della Mindfulness, non solo presentata da Swenson come insieme di skills utili ai pazienti per recuperare contatto con i loro affetti, pensieri e sensazioni, ma prima ancora vera e propria forma mentis del terapeuta DBT, modo di essere in costante contatto con la propria “mente saggia”. Mindfulness non solo raccontata ma anche sperimentata attraverso esercizi guidati nel corso dei tre giorni di training.

Dopo tre giorni intensi e stimolanti l’appuntamento è ora per la seconda tappa di questo percorso nel mondo DBT, che avrà luogo dal 16 al 18 Maggio 2014 e nel corso del quale il Prof. Swenson approfondirà le tecniche e modalità di applicazione della DBT nel setting di terapia individuale e formerà i partecipanti sul tema della conduzione dei gruppi di formazione delle competenze.

Appuntamento quindi a Maggio per una nuova avventura nel mondo della DBT!

SULLO STESSO EVENTO, LEGGI ANCHE IL REPORTAGE:

Terapia dialettico comportamentale (DBT): Incontro di formazione – Report

ARGOMENTI CONSIGLIATI:

DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’ – DIALECTICAL BEHAVIOUR THERAPY – DBT

 

GALLERY:

Psicoterapia Cognitiva – Intervista a Gianni Liotti

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Gianni Liotti

Psichiatra e Psicoterapeuta. Socio Fondatore della SITCC
Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva

 

State of Mind intervista Gianni Liotti, Psichiatra e Psicoterapeuta. Socio Fondatore della SITCC, Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

I GRANDI CLINICI ITALIANI

TUTTE LE INTERVISTE DI STATE OF MIND

TUTTI GLI ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA COGNITIVA – VEDI IL PROFILO DI GIANNI LIOTTI

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Intervista a John Bowlby. Londra 1990 (A cura del Prof Leonardo Tondo)

L’età dei genitori influenzerebbe lo sviluppo del nascituro

Viviana Spandri

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I risultati di questo studio osservazionale hanno mostrato che il rischio globale di sviluppare disturbi mentali era aumentato tra i nati da genitori con un età superiore a 29 anni o giovanissimi, rispetto invece a genitori con un’età compresa tra 25 e 29 anni.

Tutti sanno che l’età della donna al momento concepimento può influenzare la salute mentale del nascituro, tanto che, nella pratica clinica quotidiana, le donne in gravidanza con un’età superiore ai 40 anni sono invitate a sottoporsi gratuitamente ad esami di screening volti ad attestare l’andamento normale dello sviluppo fetale. La maggior parte di noi non sa però che anche l’uomo subisce delle mutazioni genetiche con l’invecchiamento che possono influenzare il normale sviluppo psico-motorio del figlio.

Per questo motivo John McGrath, a capo di un gruppo di ricerca del Queensland Grain Institute’s (QBI), ha analizzato il Danish Psychiatric Central Research Register a partire dal 1 Gennaio 1995 e fino al 31 Dicembre 2011 per analizzare l’età materna e paterna di 2894699 bambini alla nascita, e ha trovato che i bambini che hanno padri di età più avanzata sono più suscettibili a disturbi mentali.

Nello specifico, in questo studio, è stata studiata un’ampia popolazione (nati dal 1 Gennaio 1955 al 31 Dicembre 2006) affetta da svariati disturbi mentali, classificati secondo il manuale ICD (International Classification of Diseases) tra cui schizofrenia, disturbi dell’umore, nevroticismo, disturbi stress-correlati, disturbi dell’alimentazione, disturbi di personalità, disturbi da abuso di sostanze, disturbi somatoformi e un ampio range di disturbi neuropsichiatrici dello sviluppo e dell’infanzia.

I risultati di questo studio osservazionale hanno mostrato che il rischio globale di sviluppare disturbi mentali era aumentato tra i nati da genitori con un età superiore a 29 anni o giovanissimi, rispetto invece a genitori con un’età compresa tra 25 e 29 anni. Analizzando invece la correlazione tra età dei genitori e rischio di sviluppare alcuni disturbi mentali tra cui schizofrenia, ritardo mentale e disturbi dello spettro autistico, è stato osservato che il rischio aumentava per i nati con padri di età superiore ai 29 anni.

Le mutazioni de novo, che si verificano negli spermatozoi durante lo sviluppo cellulare, possono contribuire un aumentato rischio di sviluppare tutte queste patologie dell’area della salute mentale nel nacituro (tra cui appunto schizofrenia, autismo e ritardo mentale). Studi genetici recenti hanno osservato che queste mutazioni de novo sono più frequenti nei neonati con padri più avanti con l’età. E quindi, in linea con quanto osservato dai ricercatori dell’università di Queensland, le mutazioni genetiche età-correlate del padre avrebbero poi un impatto sulla salute mentale nel nascituro.

Le analisi di questi dati hanno riscontrato inoltre che esiste una correlazione tra l’essere nati da madri più giovani e lo sviluppo successivo di un disturbo da abuso di sostanze, disturbi ipercinetici e ritardo mentale. In aggiunta, l’essere nati da madri adolescenti, predisporrebbe ad un aumentato rischio di sviluppare disturbi mentali appartenenti all’area del nevroticismo e dei disturbi stress-correlati.  

In sintesi questo studio osservazionale, avendo considerato un’ampia popolazione, ha permesso di osservare che la correlazione tra età biologica del padre e della madre e rischio che il figlio sviluppi un disturbo mentale, non è così lineare, ma al contrario appare complessa e influenzata da svariate variabili che influenzano lo sviluppo del bambino.

LEGGI:

GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ – BAMBINI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Stop & go. Una vittoria sportiva ma non troppo. (2013)

 

Stop & go.

Una vittoria sportiva ma non troppo

di Margherita Sassi (2013)

 

Un millepiedi viveva sereno e tranquillo. Finché un giorno un rospo non disse per scherzo: “In che ordine metti i piedi l’uno dietro l’altro?”. Il millepiedi incominciò a lambiccarsi il cervello e a fare innumerevoli prove. Il risultato fu che da quel momento non riuscì più a muoversi …

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Stop & Go. Una vittoria sportiva ma non troppo - Immagine: © STOP&GOStop & go. Una vittoria sportiva ma non troppo. E’ un divertente libro scritto da Margherita Sassi ed illustrato da Chiara Colagrande, una piacevole scoperta attraverso la quale è possibile rivivere pezzi di se stessi trovando e anelando la voglia di ripartire. E allora: GO! …Vittoria!

Ed ecco a voi la storia di Vittoria, una diciassettenne come tante, che ad un certo punto della sua vita si trova ad affrontare una serie di difficoltà fino al punto di dire: STOP. Si tratta di uno STOP emotivo dovuto ad una serie di avversità incontrate nella vita quotidiana e nella adorata pratica sportiva, Vittoria è anche una pallavolista.

Da quel momento in poi la giovane Vittoria si vede coinvolta in un turbinio di pensieri e processi emotivi dai quali fatica ad uscirne illesa, inteso in termini di costi psicologici. E’ una talentuosa sportiva che ad un tratto perde il controllo su se stessa e sulle situazioni, così le certezze cedono il posto alle paure che diventano sempre più galoppanti e incombenti, al punto da determinare uno STOP emotivo, esistenziale.

L’ansia di sbagliare, di non farcela, di deludere le aspettative altrui, la rabbia dettata dall’indifferenza sono tutti scogli difficili da superare che le impediscono di godere a pieno delle sue capacità e dell’entusiasmo che anima la sua giornata. Il rimuginio ricorsivo e ripetitivo dettato dalle sue paure e dal non sentirsi riconosciuta le tarpano le ali, e lì scatta l’insight, comincia a vedere una luce in fondo al tunnel: individuare un proprio spazio, definire il proprio lebensraum, guardando oltre le paure, cercando una alternativa di vita partendo dalle piccole cose e tralasciando le zavorre. Vittoria vorrebbe raggiungere la sua vittoria!

Così inizia un divertente e avvincente scambio epistolare con la sua ex professoressa di educazione fisica, individuata come persona in grado di darle una mano perché in passato da lei si era sentita riconosciuta ad apprezzata.

Il libro si struttura in uno scambio di mail avvincenti e rilassanti. Infatti, la giovane Vittoria riesce a rigenerarsi attraverso questa corrispondenza, poiché funge da regolatore emotivo e comportamentale. Uno scambio continuo e regolare che strategicamente tiene a bada il tumulto di emozioni e la disfunzionalità dei pensieri ricorsivi che sembrano sempre più incombenti.
Vittoria pian piano cambia e matura, acquistando consapevolezza e coraggio, e la stampella, prof di educazione fisica, diviene una guida interiorizzata che le permette di credere in sé e di decidere per se stessa, trascurando il resto.

Nel libro lo STOP costituisce la partenza per determinare e raggiungere il traguardo della vita di Vittoria e con vittoria.

Questo particolare e divertente libro è scritto da Margherita Sassi ed illustrato da Chiara Colagrande, è una piacevole scoperta attraverso la quale è possibile rivivere pezzi di se stessi trovando e anelando la voglia di ripartire. E allora: GO! …Vittoria!

Più tardi si vedono le cose in modo più pratico, pienamente conforme con il resto della società, ma l’adolescenza è solo il tempo in cui si sia imparato qualcosa (Proust, 1986).

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

LEGGI ANCHE:

ADOLESCENTIPSICOLOGIA DELLO SPORT – ANSIARIMUGINIO

ARTICOLO CONSIGLIATO: ADOLESCENZA: L’ETA’ DEGLI ELEFANTI IN EQUILIBRIO SU UN FILO

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Città specchio. Soggettività e spazio urbano in Palazzeschi, Govoni e Boine

 

Città specchio.

Soggettività e spazio urbano in Palazzeschi, Govoni e Boine

di Francesco Capello

 

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Città specchio. Soggettività e spazio urbano in Palazzeschi, Govoni e BoineFrancesco Capello, che insegna letteratura italiana all’Università del Kent nel Regno Unito, tenta di dare un ritratto psicologico di tre letterati italiani, Aldo Palazzeschi, Corrado Govoni e Giovanni Boine e di come essi vivevano e descrivevano lo spazio e l’atmosfera della città moderna.

È un piacere poter recensire un libro che oscilla tra psicologia e letteratura italiana, e una letteratura oggi poco frequentata come quella dell’avanguardia dell’inizio novecento tra futurismo, crepuscolarismo e l’ambiente de ‘La Voce’, la rivista diretta da Papini e Prezzolini.

Francesco Capello, che insegna letteratura italiana all’Università del Kent nel Regno Unito, tenta di dare un ritratto psicologico di tre letterati italiani, Aldo Palazzeschi, Corrado Govoni e Giovanni Boine e di come essi vivevano e descrivevano lo spazio e l’atmosfera della città moderna. Nell’Italia dell’inizio novecento comparivano i primi esempi di paesaggio urbano moderno.

Non era certo il paesaggio tentacolare e disumano delle sterminate metropoli di oggi. E non era nemmeno il labirinto proletario e malfamato della Londra di Dickens. Però, nella Roma di D’Annunzio il paesaggio delle rovine si mescolava con una misura di modernità disumana che era già metropolitana. L’Italia agricola che durava dai tempi di Virgilio ed era arrivata fino a Verga si espandeva, e lo stesso Verga aveva pubblicato una raccolta di novelle milanesi intitolata ‘Per le vie’, in cui aveva tentato di descrivere non solo la campagna siciliana ma anche la realtà urbana.

Con Palazzeschi, Govoni e Boine siamo in un’atmosfera e un’epoca ancora più moderne. Capello utilizza la teoria psicoanalitica kleiniana per analizzare i testi dei tre autori. Una teoria particolarmente adatta a scandagliare le atmosfere cupe e irreali della città moderna. L’alienazione, il distacco emotivo, il senso di pericolo, di estraneità e di fredda aggressività legate all’esperienza urbana sono anche il colore emotivo della psicologia di Melanie Klein.

I sentimenti descritti dalla Klein per descrivere la vita mentale del bambino, sentimenti di avidità per le gratificazioni affettive e nutritive che il bambino si aspetta dalla madre, e poi di invidia e irrimediabile insoddisfazione per un nutrimento giudicato sempre insufficiente, sono utilizzati da Capello per descrivere gli stati emotivi dell’abitante della città moderna negli scritti di Palazzeschi, Govoni e Boine.

Colui che abita nella città moderna diventa un bambino kleiniano, un bambino incupito dal desiderio insoddisfatto e dal rancore verso questa madre cattiva che è la metropoli urbana fredda e inaccessibile, priva dell’umanità e del calore delle civiltà pre-moderne. Non basta. La città italiana offre una doppia alienazione, un doppio ripudio. Nella città italiana non solo la modernità pragmatica e utilitaristica maltrattano l’uomo, ma anche il peso del passato e della tradizione.

Gli italiani di Palazzeschi, Govoni e Boine non solo sono ”condannati all’esilio dalla civiltà dell’Utile, ma anche quella (di volta in volta) della Tradizione, del passato, della totalità, del Sublime, del divino” (Capello, 2013, p. 14).

Capello riesce a usare questi occhiali klieniani anche per descrivere le differenze tra i tre autori. La maschera ridente di Palazzeschi, il suo gusto per l’esperimento verbale sono un tentativo di esorcizzare la mostruosità tirannica della città, luogo terreno incapace di riconoscere l’umanità nella sua leggerezza infantile.

A lei il mio ultimo pensiero, a lei che neppure capì quello che io ero solamente: leggero leggero leggero leggero” scrive Palazzeschi nel romanzo ‘Il Codice di Perelà’ (Palazzeschi, 1911). E commenta Capello: “La città viene quindi accusata di non essere stata in grado di riconoscere Perelà per ciò che era, accogliendo senza distorcerla la sua diversa specificità” (Capello, 2013, p. 43). Così come nella ‘Passeggiata’ -la poesia più celebre di Palazzeschi-il brulicare degli stimoli della città (gli incontri, le insegne, i richiami pubblicitari, le voci) sortiscono “ un effetto claustrofobico di oppressione” (Capello, 2013, p.45). Questa oppressione, però, per Capello –da buon kleiniano- deve essere riconosciuta come interiore per essere elaborata. E questo accade nelle ultime poesie di Palazzeschi: ‘L’Ospite’, ‘I Fiori’ e ‘Una Casina di Cristallo (Congedo)’.

Insomma “L’odio, in altre parole, non deve più necessariamente essere scisso e vomitato sull’altro ma è ospite regolare dell’Io al pari dell’amore” (Capello, 2013, p. 48).

In Corrado Govoni la città è profanazione, profanazione della città antica in cui natura e cultura si avvinghiavano a vicenda come edera e muro. Le bonifiche delle paludi che allagavano la Roma papale promosse dai governi dell’Italia unita appaiono a Govoni delle profanazioni di uno spazio sacro, e gli creano un senso di vuoto che è al centro della sua poesia, “un’assenza primordiale che viene a fasi alterne e disperatamente negata e brandita” (Capello, 2013, p. 56) e che non è mai davvero risolta: “Una configurazione che, a differenza di quella palazzeschiana, non dischiude in nessuna sua fase un orizzonte autenticamente liberatorio” (Capello, 2013, p. 56).

In Govoni l’identificazione tra città profanata dalla modernità e la donna perduta è esplicita e continua, e questa identificazione conferma l’utilità dell’interpretazione kleiniana. Così come kleiniana è l’interpretazione che Capello dà di uno dei tratti stilistici più tipici della poesia di Govoni, il passaggio improvviso da toni crepuscolari, grigi e silenziosi, a esplosioni di modernità futuristica. Si tratta di una vera e propria scissione tra senso di vuoto ed “eccitazione compensativa in cui prevale nettamente lo scatto iperattivo/aggressivo (Capello, 2013, p. 87). Simili rappresentazioni scisse userà Govoni anche per poetare su Milano, Ferrara e Venezia.

L’ultimo ritratto psicologico e letterario è quello di Giovanni Boine. Probabilmente è l’autore meno noto ai lettori contemporanei. Ma è anche l’autore a cui Capello dedica più pagine e più sforzi. Giovanni Boine morì in giovane età, a soli 30 anni nel 1917 e fu autore assiduo della rivista ‘La Voce’. In Boine Capello vede una particolare complessità, una mistura d’irrazionalismo e senso di disfacimento unite a un’aspirazione spirituale e religiosa non sempre frequente nella sensibilità italiana.

Queste tensioni irrisolte sono un banchetto per Capello, che può sfogare su questa figura complessa la passione kleiniana per la scissione e la lacerazione.

Cito direttamente il libro che sto recensendo: “In prima battuta l’inesausta sete, che rinvia alla costante percezione di una carenza al proprio interno; poi la presenza altrettanto continua di un oggetto onnipotente idealizzato ma implicitamente anche persecutorio (il Dio che potrebbe placare ogni sete e che tuttavia non si fa trovare); l’impulso a fondersi o perdersi in questo oggetto (la sete di Dio è infatti anche «desiderio di mondi senza fine in cui gettarsi e vagare»); la conseguente sovrapposizione e/o reversibilità tra soggetto e oggetto (nella «complessità simultanea», per la quale «non v’è cosa a cui lo spirito mio non possa aderire», Giuditta equivale a Oloferne); la percezione di una frammentazione interna («non come organizzata persona, ma […] come rotta, commossa materia») vissuta in forma di conflitto e contraddittorietà («contraddittoria materia»); il rapporto diretto che lega la ricerca del contatto assoluto con Dio (o un «essenziale» idealizzato) alla fuga da quello con gli uomini; la concomitante svalutazione della realtà fisica e sociale, presentata come «resto» che «non […] interessa» o come «trama di carne», frustrante impedimento spoglio di senso e ridotto al grado zero della pura esistenza organica” (Capello, 2013, p. 119).

Insomma, per Capello Boine è uno scrittore difficile che vive la modernità in termini più complessi rispetto agli altri due autori. Forse è la sua tensione spirituale che gli permette accenti differenti rispetto ad altri letterati italiani che, di fronte all’alienazione moderna, rispondono con un attaccamento laico alla realtà naturale che però ha i suoi limiti, soprattutto psicologici, rischiando di ridursi a una sensualità superficiale quando non si possegga la maestria di un D’Annunzio, signore del verso italiano.

Boine, invece, riesce a visitare regioni più imprevedibili che vanno oltre la rappresentazione meramente sensuale di un passato perduto e sono prossime alla complessità del simbolismo e dello scavo interiore, o almeno a percepirle e additarle. Non si limita a un contrasto tra città e mondo pre-moderno, ma intravede una Gerusalemme Celeste dove Vita e Fede si combinano.

Certo, tutto questo resta un’aspirazione irrisolta, anche sul piano della qualità letteraria, che non raggiunge il picco dell’eccellenza assoluta.

Capello ci accompagna nella riscoperta di questo scrittore non grande, ma che possedeva in sé un’ipotesi di grandezza abbattuta dalla morte precoce.

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

ARGOMENTI CORRELATI:

LETTERATURAPSICOANALISI E TERAPIE PSICODINAMICHESOCIETA’& ANTROPOLOGIA – ARTE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Relazioni cooperative? Ecco gli ingredienti: cibo & ossitocina!

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

E’ molto potente per la creazione e il mantenimento dei legami sociali – almeno nella comunità dei primati non umani- donare e ricevere nutrimento e cibo, e il tutto viene biologicamente sancito dai maggiori livelli di ossitocina.

La capacità di formare relazioni cooperative a lungo termine è una delle premesse fondamentali per l’evoluzione dell’uomo in cui è in gioco l’ormone dell’ossitocina.

Alcuni ricercatori del Max Planck Institute for Evolutionary Anthropology di Leipzig in Germania hanno studiato questa capacità nei primati non umani (scimpanzè).

I protagonisti dello studio circa 26 scimpanzè della Budongo Forest in Uganda.

In particolare è stato misurato il livello di ossitocina nell’urina degli scimpanzè a seguito di comportamenti di condivisione del cibo.

I risultati evidenziano elevati livelli di ossitocina negli individui alle prese con la condivisione di cibo rispetto a scimpanzè coinvolti in altre attività sociali. Per esempio, si è riscontrato un livello maggiore di ossitocina durante l’attività della condivisione di cibo rispetto a comportamenti di grooming, l’attività di reciproco spulciamento tra consimili.

In altre partole è come se donare e ricevere cibo fosse evolutivamente più saliente rispetto al grooming; basti pensare anche alle evidenze dei meccanismi neurobiologici per cui l’ossitocina regola la relazione umana madre – neonato durante l’allattamento.

In altre parole è molto più potente per la creazione e il mantenimento dei legami sociali – almeno nella comunità dei primati non umani- donare e ricevere nutrimento e cibo, e il tutto viene biologicamente sancito dai maggiori livelli di ossitocina.

D’altro canto l’etimologia latina della parola compagno non lascia dubbi: “com” – “panis”; chissà se lo stesso accade nelle nostre più che umane occasioni conviviali.

LEGGI:

RAPPORTI INTERPERSONALI ALIMENTAZIONE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Perché riteniamo che sia OK rubare e imbrogliare (qualche volta)

 

 

Dan Ariely, Professore di psicologia ed economia comportamentale, illustra alcuni esperimenti divertenti che mostrano i fattori che spingono o trattengono le persone dal truffare gli altri. Scopriamo così che in molte occasioni non si tratta di poche persone che rubano molto, ma di molte persone che rubano poco. Ecco il perché:

 

VIDEO E TESTI RIPRODOTTI SU LICENZA CREATIVE COMMONS 3.0 – TED.COM – AUTORE: DAN ARIELY

ARGOMENTI CORRELATI

PSICOECONOMIAFINANZA COMPORTAMENTALE

 

TRASCRIZIONE DEL TESTO 

Traduzione di Paolo Giusti – Revisione di Giacomo Boschi

Oggi vi voglio parlare un po’ di irrazionalità prevedibile. Il mio interesse nel comportamento irrazionale cominciò diversi anni fa in ospedale. Ero gravemente ustionato. Se passate molto tempo in ospedale, potrete accorgervi di molti tipi di irrazionalità. Ma quello che maggiormente mi irritava al centro ustionati era il metodo col quale le infermiere mi toglievano i bendaggi. Sicuramente vi sarà capitato di dovervi togliere un cerotto, e vi sarete chiesti quale potrebbe essere il metodo migliore. Lo strappate di scatto, breve durata ma alta intensità, o lo togliete lentamente, vi prendete più tempo, ma ogni secondo è un poco meno doloroso, quale è il metodo giusto?

Le infermiere nel mio reparto pensavano che il metodo giusto fosse quello veloce, afferrandolo stretto e strappandolo via, prenderlo stretto e tirando con forza. Dato che ero ustionato al 70%, anche così ci voleva quasi un ora. Come potete immaginare, odiavo con incredibile intensità il momento dello strappo. Provai a ragionare con loro, dicendo: “Perché non proviamo un metodo diverso? Perché non ce la prendiamo con più calma, magari ci prendiamo un paio d’ ore invece di una sola, e non soffro con questa intensità?” Le infermiere mi dissero due cose. Mi dissero di avere l’approccio corretto al paziente, che sapevano quale era il modo migliore per minimizzare il dolore. Mi dissero anche che la parola ‘paziente’ non significa dare suggerimenti od interferire o … E per inciso questo non solo in Ebraico. È presente in ogni lingua che conosco.

E così, sapete, non c’è molto, non c’era molto che potessi fare, e continuarono a fare come sempre avevano fatto. Circa tre anni dopo, quando mi dimisero, cominciai a studiare all’università. Una delle lezioni più interessanti che ho imparato è che esiste un metodo sperimentale che permette, dato un quesito, di replicarlo in una forma astratta, così che si può provare ad esaminarlo, e magari imparare qualcosa.

Ed è ciò che feci. Ero ancora interessato al metodo di come togliere i bendaggi ai pazienti ustionati. Così, all’inizio non avevo molti soldi, andai in una ferramenta e comprai una morsa. Portavo la gente al laboratorio, gli mettevo un dito nella morsa, e glielo stringevo un po’.

(Risate)

Lo stringevo per molto tempo e per poco tempo, col dolore che saliva e scendeva, con pause e senza pause, tutti i tipi di dolore. Una volta finito di fare male ai soggetti, gli chiedevo: “Allora, come è stato doloroso? Quanto ti ha fatto male?” Oppure: “potendo scegliere fra gli ultimi due, quale avresti scelto?”

(Risate)

Continuai a farlo per un po’.

(Risate)

Dopodiché, come ogni buon progetto accademico, ricevetti più fondi. Cominciai coi suoni, con l’elettroshock. Avevo addirittura una tuta che poteva causare molto più dolore alle persone.

Alla fine del processo, ho imparato che le infermiere si sbagliavano. Ecco che splendide persone con ottime intenzioni con tanta esperienza, nonostante tutto commettono errori prevedibili tutte le volte. Ho scoperto che siccome non codifichiamo la durata allo stesso modo in cui codifichiamo l’ intensità, avrei patito meno dolore se fosse durato più a lungoma con una intensità minore. Ho scoperto che sarebbe stato meglio cominciare dal viso,che era il più doloroso, per poi scendere alle gambe, dandomi la sensazione di migliorare col tempo sarebbe stato meno doloroso. Ho anche scoperto che sarebbe stato megliolasciarmi qualche pausa a metà per recuperare in qualche modo dal dolore. Tutte queste sarebbero state ottime cose da fare, ma le infermiere non ne avevano idea.

Da allora ho cominciato a pensare: “e se non fossero solo le infermiere a fare le cose malein una particolare decisione, e se fosse un caso più generale?” Ho scoperto che è un caso più generale. Ci sono un sacco di errori che facciamo. Vi farò un esempio di una di queste irrazionalità, vi parlerò dell’imbrogliare. Il motivo per cui ho scelto l’imbroglio è perché è interessante, ma ci racconta anche qualcosa, credo, riguardo alla situazione finanziaria attuale. Allora, il mio interesse per la truffa cominciò quando all’improvviso scoppiò il caso Enron. Cominciai a pensare a quello che stava succedendo. Poteva essere il caso nel quale c’erano alcune mele marce capaci di fare queste cose, o stiamo parlando di una situazione più endemica, nella quale molta gente è effettivamente capace di comportarsi in questo modo?

Così, come al solito, ho deciso di fare un semplice esperimento. Ecco come andò. Se foste stati nell’esperimento, vi avrei dato un foglio di carta con 20 semplici problemi matematici che chiunque sarebbe in grado di risolvere, ma non vi avrei dato abbastanza tempo. Passati 5 minuti, avrei detto: “Ridatemi i fogli, vi pagherò un dollaro per problema.”Ed è quel che fecero. Avrei pagato 4 dollari per il lavoro, mediamente si potevano risolvere 4 problemi. Altre persone le avrei indotte ad imbrogliare. Avrei dato il foglio. Passati i 5 minuti, avrei detto: “Per favore, strappate il foglio. Mettetevi i pezzi in tasca o nello zaino, e ditemi quanti problemi avete risolto.” Adesso la media dei problemi risolti era 7. Ora, non è che c’erano poche mele marce, una minoranza che ha imbrogliato molto. Invece ci siamo accorti che molte persone hanno imbrogliato giusto un pochino.

Nella teoria economica, imbrogliare è semplicemente una facile analisi costo-beneficio. Vi chiedete: “qual è la probabilità di essere scoperto? Quanto posso aspettarmi di guadagnare imbrogliando? E quale sarebbe la pena se venissi scoperto?” Soppesate questi parametri,fate una semplice analisi dei costi e dei benefici, e decidete se vale la pena commettere il crimine o no. Così lo abbiamo testato. Per alcune persone abbiamo cambiato il valore che avrebbero guadagnato, quanti soldi avrebbero potuto rubare. Li abbiamo pagati 10 cents ogni risposta esatta, 50 cents, un dollaro, 5 dollari, 10 dollari per risposta esatta.

Ci si potrebbe aspettare che man mano che il valore aumenta, aumentino anche gli imbrogli, ma in effetti non è così. Abbiamo avuto molti imbroglioni che hanno rubato solo un poco. E riguardo alla possibilità di essere scoperto? Alcune persone hanno strappato il foglio a metà, in questo modo qualche prova rimaneva. Altri hanno strappato completamente il foglio. Altri ancora dopo aver strappato tutto sono usciti e si sono presi da soli i soldi dalla cassa dove c’ erano più di 100 dollari. Vi potreste aspettare che al calare della possibilità di essere presi, i soggetti avrebbero imbrogliato di più, ma non è così.Ancora, la maggior parte ha truffato solo di poco, rimanendo insensibili agli incentivi economici.

Così ci siamo chiesti: “Se le persone non sono sensibili alle spiegazioni della teoria economica razionale, a queste forze, cosa sta succedendo?” Abbiamo pensato che forse quel che succede è che ci sono due forze. Da una parte, tutti noi vogliamo guardarci allo specchio e sentirci bene con noi stessi, quindi non vogliamo barare. D’altro canto, possiamo imbrogliare giusto un po’, e continuare a sentirci bene con noi stessi. Quindi, quello che succede forse è che esiste un livello che non possiamo oltrepassare, ma possiamo ancora approfittare truffando ad un livello basso, fino a che questo non modifica l’ impressione che abbiamo di noi stessi. Lo chiamiamo fattore di truffa individuale.

Bene, come si può testare il livello di truffa individuale? All’inizio ci siamo chiesti: “come possiamo ridurlo?” Abbiamo raccolto i soggetti al laboratorio e abbiamo detto: “Ci sono due compiti per voi oggi.” Primo, alla metà delle persone abbiamo chiesto di ricordare o 10 libri letti alle superiori, o di ricordare i 10 Comandamenti, e li abbiamo invogliati ad imbrogliare. Il risultato è che chi ha cercato di ricordare i 10 Comandamenti, e nel nostro campione nessuno è riuscito a ricordare tutti i 10 Comandamenti, ma costoro che hanno provato a ricordare i 10 Comandamenti, avendo la possibilità di barare, non hanno imbrogliato affatto.Non era che le persone più religiose, coloro che ricordavano meglio i 10 Comandamenti,abbiano imbrogliato meno, e i meno religiosi, quelli che quasi non ne ricordavano neanche uno, abbiano invece truffato di più. Nel momento in cui le persone cercavano di ricordare i 10 Comandamenti, hanno smesso di barare. Infatti, anche quando abbiamo dato ad atei dichiarati il compito di giurare sulla Bibbia e dandogli la possibilità di barare, non hanno imbrogliato per niente. Ora, i 10 Comandamenti è qualcosa che è difficile da integrare nel sistema educativo, così ci siamo detti: “Perché non li facciamo giurare sul codice d’onore?”Abbiamo fatto firmare: “Comprendo che questa indagine ricade all’interno del codice d’onore del MIT.” Poi lo hanno strappato. Ancora nessun imbroglio. Questo è particolarmente interessante, dato che il MIT non ha un codice d’onore. (Risate)

Quindi, tutto questo riguardava il diminuire il fattore di truffa. E per aumentarlo? Il primo esperimento. Sono andato in giro per il MIT distribuendo pacchi da 6 lattine di Coca nei frigo, ci sono frigoriferi comuni per gli studenti. Poi sono tornato per misurare quello che tecnicamente chiamo l’aspettativa di vita della Coca-Cola: per quanto dura nei frigo? Come potete immaginare non è durata a lungo. Se le sono prese tutte. Al contrario, ho preso un piatto con sei pezzi da un dollaro, e l’ho lasciato negli stessi frigo. Nessuna banconota è mai scomparsa.

Ok, non è un esperimento sociologico fatto bene, e per farlo meglio ho fatto lo stesso esperimento che vi ho descritto prima. Ad un terzo delle persone abbiamo dato il foglio, e ce l’hanno restituito. Ad un terzo lo abbiamo dato, l’hanno stracciato, sono venuti da noi dicendo: “Sig. Sperimentatore, ho risolto x problemi. Dammi x dollari.” Ad un terzo, finito di stracciare il foglio, sono venuti da noi dicendo: “Sig. Sperimentatore, ho risolto x problemi. Dammi x gettoni.” Non li abbiamo pagati in dollari. Gli abbiamo dato qualcos’altro Hanno preso questo qualcos’altro, si sono allontanati di qualche metro, e l’hanno scambiato con dollari veri.

Pensate alla seguente intuizione. Quanto vi sentireste male a prendere una penna dal lavoro per portarla a casa in confronto a quanto vi sentireste male prendendo 10 cents da una piccola cassa? Sono cose che si sentono molto diverse. Allontanare di un passo il denaro vero per pochi secondi ed essere pagati in gettoni potrebbe fare la differenza? I nostri soggetti hanno duplicato le truffe. Vi dirò quello che penso di questo e della situazione borsistica fra un attimo. Ma tutto ciò non risolveva ancora il grosso problema che avevo con la Enron perché nel caso Enron c’è anche un elemento sociale. Le persone vedono il comportamento altrui. In effetti, tutti i giorni leggendo il giornale vediamo esempi di truffatori. E questo cosa ci causa?

Così abbiamo fatto un altro esperimento. Abbiamo messo nell’esperimento un grosso gruppo di studenti e li abbiamo pagati in anticipo. Allora, tutti avevano la loro busta con tutto il denaro e gli abbiamo detto che alla fine ci avrebbero dovuto restituire il denaro non guadagnato. OK? È successa la stessa cosa. Quando diamo alle persone la possibilità di imbrogliare lo fanno. Giusto un poco, ma lo fanno. Ma in questo test abbiamo anche messo un nostro complice. Lo studente attore dopo 30 secondi si è alzato ed ha detto: “Ho finito, risolto tutto. Che faccio ora?” Lo sperimentatore ha detto: “Se hai finito tutto, vai a casa.” Il compito è finito. Allora, avevamo uno studente, un attore che era parte del gruppo.Nessuno sapeva che era nostro complice. Ed ha chiaramente imbrogliato in un modo molto, ma molto grave. Cosa avrebbero fatto gli altri? Avrebbero barato di più o di meno?

Ecco quel che successe. Quel che succede è che dipende dalla maglietta indossata. Ecco come. Il test l’abbiamo fatto al Carnegie Mellon e a Pittsburgh. A Pittsburgh ci sono due grosse università, Carnegie Mellon e l’Università di Pittsburgh. Tutti i soggetti dell’esperimento erano studenti del Carnegie Mellon. Quando il nostro complice era anche lui uno studente del Carnegie Mellon, effettivamente era uno studente del Carnegie Mellon,era parte del loro gruppo, le truffe salivano. Ma quando indossava la maglietta dell’Università di Pittsburgh, le truffe scendevano.

(Risate)

Ora, questo è importante perché ricordate che nel momento in cui l’attore si alzava rendeva chiaro a tutti che chiunque avrebbe potuto barare, dato che lo sperimentatore aveva detto:”Hai finito tutto. Vai a casa.” E se ne andava coi soldi. Quindi ancora, non è tanto la possibilità di essere preso. Riguarda le regole del barare. Se qualcuno del nostro gruppo imbroglia e lo vediamo sentiamo che è più fattibile, come gruppo, e ci comportiamo di conseguenza. Ma se è qualcuno di un altro gruppo, queste persone orribili, cioè non orribili in questo, ma qualcuno col quale non vogliamo avere a che fare, di un’altra università, di un altro gruppo, improvvisamente la consapevolezza dell’onestà della gente cresce. Un po’ come nell’esperimento dei 10 Comandamenti. E le persone barano addirittura meno.

Allora, cosa ci insegna tutto questo a proposito dell’imbrogliare? Abbiamo imparato che molte persone truffano. Solo un po’, un pochino. Quando gli ricordiamo la moralità, truffano meno. Quando distanziamo la truffa dall’oggetto del denaro, ad esempio, barano di più. E se vediamo imbrogliare intorno a noi, soprattutto se a farlo è uno del nostro gruppo, le truffe salgono. Ora, se pensiamo a tutto ciò riflesso sul mercato, pensate a cosa succede.Pensate a cosa succede in una situazione in cui create qualcosa dove pagate alla gente un sacco di soldi, per vedere la realtà in una forma leggermente distorta? Non potrebbero vederla in questo modo? Certo che lo farebbero. Che succede quando si fanno altre cose,tipo allontanare le cose dal denaro? Le chiamiamo riserve, o azioni, o derivati titoli garantiti da ipoteca. Potrebbe essere che con queste cose ancora più distanti, che non è un gettone per un secondo, è qualcosa che è molto lontano dal denaro, per un periodo di tempo molto più lungo, non potrebbe essere che la gente truffa ancora di più? E che succede con l’ambiente sociale quando le persone vedono come si comporta il prossimo? Credo che tutte queste forze lavorino in un modo molto negativo nella borsa.

Più in generale, vi voglio dire una cosa a proposito di economia comportamentale. Abbiamo molte convinzioni durante la nostra vita ed il punto è che molte di queste sono sbagliate. La domanda è: “vogliamo testare queste convinzioni?” Possiamo pensare a come testarlenella nostra vita privata, nel nostro lavoro e soprattutto in politica, quando pensiamo a cose tipo No Child Left Behind, quando creiamo nuovi mercati azionari, quando creiamo nuove politiche, tasse, assistenza sanitaria eccetera. La difficoltà di testare le nostre convinzioniè stata la grande lezione che ho imparato quando sono tornato a parlare con le infermiere.

Sono ritornato a parlare con loro raccontandogli delle mie scoperte riguardo al togliere le bende. Ed ho imparato due cose interessanti. Una è che la mia infermiera preferita, Ettie,mi ha detto che non avevo preso in considerazione il suo dolore. Ha detto: “Naturale, sai com’è, era molto doloroso per te. Ma pensa a me come infermiera, dover togliere le bende a qualcuno che mi piaceva, e doverlo fare ripetutamente per molto tempo. Causare tanto dolore non era bello neanche per me.” E disse che forse è parte del motivo per cui era difficile per lei. Ma in effetti era anche più interessante perché disse: “Non credevo che la tua convinzione fosse giusta. Credevo che fosse corretta la mia.” Quindi, se pensate a tutte le vostre convinzioni, è molto difficile pensare che siano errate. Lei ha detto: “dato che pensavo che la mia convinzione fosse corretta…” lei pensava lo fosse, era molto dura accettare di fare un esperimento difficile, cioè provare, testare se per caso non fosse sbagliata.

Ma in effetti, siamo in questa situazione continuamente. Abbiamo forti convinzioni riguardo ad un sacco di cose, le nostre proprie capacità, come lavora l’economia, come dovremmo pagare gli insegnanti. Ma fintanto che non cominceremo a testare queste convinzioni, non miglioreremo mai. Pensate solo quanto sarebbe stata migliore la mia vita se le infermiere avessero voluto testare le loro convinzioni, e come tutto potrebbe essere migliore se solo cominciassimo sistematicamente a sperimentare le nostre convinzioni.

Molte grazie.

Il pensiero desiderante come predittore del gioco d’azzardo patologico – Gambling

 

 

Il problema non sono i desideri. Il problema è come reagiamo mentalmente quando i desideri balzano alla nostra coscienza. Alcuni discriminano rapidamente i desideri su cui vogliono soffermarsi da quelli che in realtà non vogliono perseguire. Altri si soffermano a elaborare mentalmente questi desideri, il ché significa:

(1) immaginare le sensazioni che si provano ad esaudirli, (2) pianificare mentalmente (come fosse un film) le azioni da compiere per raggiungerli, (3) identificare le ragioni valide che ci possono “concedere” o “permettere” di sceglierli.

Questo processo di pensiero talvolta è tanto automatico che le persone non si rendono conto di esservi immerse. Sono fuse dentro questo canale di elaborazione. Questo processo cognitivo ha un impatto forte sulla sensazione di desiderio o di ‘fame’ per un oggetto o per un’attività. Molti studi recenti del gruppo di ricerca di Studi Cognitivi (es. Caselli & Spada, 2011), hanno evidenziato il ruolo di questo processo nel sostenere il desiderio di tornare a bere in pazienti con problemi da uso di alcool.

Ora un recente studio mostra che questo impatto si estende anche oltre le sostanze psicoattive verso attività come il gioco d’azzardo che possono generare una dipendenza di rilievo clinico. Questo primo passo lascia presagire che la dipendenza dai propri desideri non dipende esclusivamente dall’effetto fisiologico di sostanze psicoattive, ma soprattutto che potrebbe nascondere lo stesso meccanismo, alla base del pensiero desiderante, indipendentemente dall’oggetto del desiderio.


Desire Thinking as a Predictor of Gambling

Bruce A. Fernieab, Gabriele Casellic, Lucia Giustinad, Gilda Donatoc, Antonella Marcotriggianic, Marcantonio M. Spadae,

a King’s College London, Institute of Psychiatry, Department of Psychology, London, UK
b CASCAID, South London & Maudsley NHS Foundation Trust, UK
c Studi Cognitivi, Italy
d Servizio Tossicodipendendenze, AUSL, Parma, Italy
e London South Bank University, UK

Abstract

Desire thinking is a voluntary cognitive process involving verbal and imaginal elaboration of a desired target. A desired target can relate to an object, an internal state or an activity, such as gambling. This study investigated the role of desire thinking in gambling in a cohort of participants recruited from community and clinical settings. Ninety five individuals completed a battery of self-report measures consisting of the Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS), the Gambling Craving Scale (GCS), the Desire Thinking Questionnaire (DTQ) and the South Oaks Gambling Screen (SOGS). Correlation analyses revealed that gender, educational level, recruitment source, anxiety and depression, craving and desire thinking were correlated with gambling. A hierarchical multiple regression analysis revealed that both recruitment source and desire thinking were the only independent predictors of gambling when controlling for all other study variables, including craving. These findings are discussed in the light of Metacognitive Therapy (MCT).

 

Desire Thinking as a Predictor of GamblingConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Desire thinking is a voluntary cognitive process involving verbal and imaginal elaboration of a desired target. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Articoli di State of Mind sul Pensiero Desiderante
Food craving e isolamento: una torta al cioccolato per gestire la solitudine
Una nuova ricerca ha permesso di rilevare un’associazione interessante tra solitudine e food craving, il cui significato letterale è “voglia di cibo"
Craving, pensiero desiderante ed uso problematico della pornografia online
Il ruolo del pensiero desiderante e del craving nell’uso problematico della pornografia su Internet
In che modo pensiero desiderante e craving si associano a un uso eccessivo e patologico del cyberporn? Esistono differenze di genere in tale associazione?
Food craving: differenze culturali nel forte desiderio verso il cibo
Cos’è il craving nella sfera alimentare?
Il fatto che in molte lingue non esista un termine che traduca la parola “craving” porta a interrogarsi sulle influenze culturali nel food craving
Pensiero desiderante durante l'isolamento: quando diventa disfunzionale
Il pensiero desiderante durante l’isolamento
Attraverso il pensiero desiderante ogni favola si realizza, ma che succede se costruiamo nella nostra mente un cambiamento che è operativamente impossibile?
tDCS le potenzialita nel trattamento dei disturbi da uso di sostanze
L’utilizzo della Stimolazione Transcranica a Correnti Dirette (tDCS) nei disturbi da uso di sostanze
La Stimolazione Transcranica a Correnti Dirette (tDCS) è una tecnica ricca di potenziale, soprattutto nel campo dei disturbi da uso di sostanze e addiction.
Dipendenza affettiva e pensiero desiderante implicazioni psicologiche
Dipendenza affettiva e pensiero desiderante: quando l’amore diventa una droga e il pensiero desiderante aumenta una narrazione a senso unico
Dipendenza affettiva, quando l’amore impregna il quotidiano, esacerba comportamenti non controllati, fino a divenire un vero e proprio disagio psicologico
Dipendenza affettiva e pensiero desiderante quale relazione - Psicologia
Dipendenza affettiva e pensiero desiderante – Riccione, 2019
Dipendenza affettiva e pensiero desiderante: quale relazione? La risposta in uno studio presentato al Forum di Ricerca in Psicoterapia di Riccione
Terapia metacognitiva per il Disturbo da Uso di Alcool: una serie di casi – Lectio Magistralis del Dott. Gabriele Caselli
La seconda giornata del Forum di Riccione ha inizio con la Lectio Magistralis di Gabriele Caselli: Terapia metacognitiva per il Disturbo da Uso di Alcool
Alcol: l'abuso di bevande alcoliche potrebbe modificare il nostro DNA
Alcool: potrebbe modificare il nostro DNA
Una ricerca avrebbe individuato come cambia il DNA di chi fa un uso smodato di alcol. Esisterebbero quindi dei predittori genetici dell'alcolismo
Craving: come influisce sull'abuso di alcol e quali tipologie esistono
Tre tipologie di craving per la comprensione del problem drinking
Studi scientifici hanno evidenziato la natura eterogenea del craving descrivendo tre tipologie, distinte sulla base di differenti disregolazioni dei sistemi neurotrasmettitoriali e considerando inoltre come discriminanti le componenti psicologiche e la familiarità per l'abuso di alcol.
Dipendenza da sostanze: le terapie basate sull'apprendimento per estinzione
L’eliminazione delle memorie per contrastare la dipendenza da cocaina
Se la dipendenza da sostanze si innesca per condizionamento, è possibile interromperla con terapie basate sull'apprendimento per estinzione.
L'era del cyber: gli effetti della tecnologia nella società attuale
L’era del cyber: le relazioni ai giorni nostri
La diffusione della tecnologia ha generato numerosi cambiamenti: da un lato sono aumentate le opportunità, dall'altra si sono modificate le relazioni.
Dipendenza da serie TV: una delle dipendenze del terzo millennio
Terzo millennio: l’era delle dipendenze (per esempio dai TV Series)
Nella dipendenza da serie TV alla base vi sarebbe il pensiero desiderante che ci fa desiderare oggetti non raggiungibili.
L'effetto del pensiero desiderante sul craving e sull' intenzione al bere- Riccione 2017
L’ effetto del pensiero desiderante sul craving e sull’intenzione al bere – Riccione, 2017
La ricerca, esposta al Forum di Riccione, indaga il ruolo del Pensiero Desiderante nel mantenere soggetti con Disturbo da Uso di Alcol in stato di craving
Modello Metacognitivo per l'uso problematico di alcol - Report dal Seminario
“E pensare che c’era il pensiero” – Report del seminario sul Modello Metacognitivo per l’uso problematico di alcol
Nel seminario G. Caselli e M. Spada hanno esposto i principi cardine del modello metacognitivo e i suoi effetti sul modo di pensare e agire verso l’ alcol
La Ricaduta nell’ alcolismo fattori predisponenti, craving e modelli di prevenzione
La Ricaduta nell’ alcolismo: fattori predisponenti, craving e modelli di prevenzione
La ricaduta in chi soffre di alcolismo sembra avere una sua storia, dei correlati psicologici, biologici e non si tratta quasi mai un evento puntiforme
Craving e sostanza cos'è il craving e i possibili approcci terapeutici
Craving e sostanza: cos’è il craving e i possibili approcci terapeutici
Il craving è il desiderio impulsivo di una sostanza e può essere stimolato da eventi trigger con cui si è stabilito un meccanismo di condizionamento.
Cocaina: il contributo della neurobiologia per spiegare la dipendenza -2
Neurobiologia del consumo di cocaina: Il ruolo del sistema limbico
La neurobiologia ha spiegato il ruolo svolto dal sistema limbico nel consumo specifico di cocaina e come si innesca la dipendenza.
Obesità: i processi cognitivi che influenzano la restrizione dietetica
Aderenza alla restrizione dietetica e implicazioni per il trattamento dell’obesità: i processi cognitivi coinvolti
Alcuni processi cognitivi implicati nella mancata aderenza alla restrizione dietetica e che hanno implicazioni nel trattamento dell' obesità.
Realtà virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool
Realtà virtuale come strumento nella valutazione della dipendenza da alcool
Per la prima volta la realtà virtuale viene utlizzata all’interno della fase di assessment con pazienti con dipendenza da alcool.
Carica altro

Segreti e bugie (1996) di Mike Leigh – Recensione – Cinema & psicologia

 

 

 

Segreti e bugie

 di Mike Leigh (1996)

 

 

 LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Segreti e bugie di Mike LeighSegreti e bugie ha il grande pregio di saper mostrare, in modo asciutto e partecipe al tempo stesso, il dolore e la difficoltà, insita negli esseri umani, di viverlo e di comunicarlo agli altri, anche alle persone più vicine; ognuno dei personaggi si rinchiude in una bolla di isolamento e di ipocrisia nel tentativo disperato di evitare di fare i conti con gli aspetti più problematici della propria esistenza.

Hortense, una giovane donna di colore, è stata data in adozione subito dopo la nascita. Dopo la morte dei genitori adottivi decide di cercare la madre naturale. Riesce a rintracciarla e, con sua grande sorpresa, scopre che si tratta di una donna bianca, Cynthia, che vive in un quartiere alla periferia di Londra. Le due donne si incontrano e, superato un iniziale momento di reciproco imbarazzo e smarrimento, cominciano conoscersi e a frequentarsi, ponendo le premesse per costruire un legame affettivo.

Hortense è stata allevata da una famiglia benestante, che le ha dato la possibilità di studiare, e lavora come optometrista. Cynthia, invece, versa in condizioni economiche disagiate ed è una persona vulnerabile, dalla vita complicata; ha avuto da una relazione occasionale un’altra figlia, Roxanne, una ragazza ventenne irruente ed arrabbiata con la vita. Cynthia ha anche un fratello, Maurice, che lavora come fotografo; i due si vedono raramente, anche perché Cynthia non è in buoni rapporti con Monica, la moglie di Maurice.

In occasione del ventunesimo compleanno di Roxanne, Maurice decide di organizzare una festa, per cercare di recuperare il rapporto con la nipote e con la sorella; Cynthia decide di invitare anche Hortense, la figlia ritrovata, presentandola ai familiari come una collega di lavoro. Nel corso della festa il clima, apparentemente sereno, si fa via via sempre più teso; il nervosismo serpeggia, le questioni irrisolte ritornano a galla, fino ad arrivare, quando la tensione raggiunge il culmine, all’esplosione di una serie di rivelazioni shock che riguardano tutti i membri della famiglia.

Il film ha il grande pregio di saper mostrare, in modo asciutto e partecipe al tempo stesso, il dolore e la difficoltà, insita negli esseri umani, di viverlo e di comunicarlo agli altri, anche alle persone più vicine; ognuno dei personaggi si rinchiude in una bolla di isolamento e di ipocrisia (da qui il titolo del film “Segreti e bugie”) nel tentativo disperato di evitare di fare i conti con gli aspetti più problematici della propria esistenza.

In questo senso, la scena della festa rappresenta, pur nella sua estrema drammaticità, un momento catartico, in cui tutti possono spogliarsi della propria corazza di difese, esprimere liberamente i pesi che hanno nel cuore e ricevere dagli altri il riconoscimento e il conforto di cui hanno profondamente bisogno.

Il finale del film rappresenta un invito alla speranza e alla possibilità di potersi mostrare agli altri con maggiore autenticità; questo permette di convivere più serenamente con i “lati oscuri” della propria esistenza, riappacificandosi con la propria vulnerabilità e dando alle ferite che la vita infligge la possibilità di cicatrizzare, in modo da poter andare incontro al futuro con maggiore leggerezza, un po’ più liberi dalle zavorre del passato.

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

LEGGI ANCHE:

CINEMA – GRAVIDANZA E GENITORIALITA’

RAPPORTI INTERPERSONALI – FAMIGLIA

ARTICOLO CONSIGLIATO:

I GIORNI DELL’ABBANDONO (2005) CINEMA & PSICOTERAPIA NR. 16

 

 

Psicoanalisi, Identità e Internet di A. Marzi (2013)- Recensione

 

 

Psicoanalisi, Identità e Internet

Esplorazioni nel Cyberspace

A. Marzi (2013) – Franco Angeli

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Psicoanalisi Identita e internet. Esplorazioni nel cyberspace. Franco Angeli (2013)Le fantasie e i sogni che fanno tutti gli esseri umani e che spesso sono materia di sedute terapeutiche possono essere considerati in parte una realtà virtuale.

La realtà virtuale è, infatti, una simulazione della realtà oggettiva e riguarda ogni genere di realtà simulata.

Che cosa avrà mai a che fare la psicoanalisi con la realtà virtuale e con le Nuove Tecnologie? Apparentemente potrebbe sembrare nulla e, invece, anche grazie a questo bel testo che raccoglie contributi da voci ed angolature differenti, la risposta potrebbe stupirci. Potremmo, infatti, scoprire che la psicoanalisi non è (e non è mai stata) semplicemente racchiusa nella stanza di analisi, con un lettino, un taccuino e una matita, ma che raccoglie – come ha sempre fatto – spunti e modalità che afferiscono al clima storico, sociale e culturale del momento. 

Ed è quindi capace di adattarsi, naturalmente con i propri limiti, anche alla modernità. Modernità caratterizzata, come lo stesso Zygmunt Bauman (2000) ci ricorda, da una liquidità di rapporti e di identità, in cui lo spazio per pensare ed essere sembra molto risicato, dando adito così a modalità comunicative nuove, ma anche a patologie o disturbi nuovi. Non si può, naturalmente, pensare che i cambiamenti, anche in analisi, avvengano dall’oggi al domani e che quindi un intero metodo o un’intera teoria modifichi il proprio“assetto” in un batter d’occhio (o, per meglio dire, in un batter di tweet).

Ciò che però trovo interessante di questo testo è la possibilità e la capacità di mettersi in gioco e di riflettere davvero sull’opportunità di aprire un metodo, una teoria e uno strumento di cura anche al nuovo.

Aprirsi significa riflettere nuovamente e mettere a punto strumenti migliori che forse, in fondo, non sono poi così lontani da quelli sinora utilizzati. Sono solo diversi.

Mi viene infatti da pensare al concetto di terapeuta e di setting, e alla fatidica domanda: cosa rende efficace e quindi utile ai fini terapeutici un setting? Forse, più che quello esterno (formato da elementi concreti come il luogo in cui si svolge la seduta, l’orario – tendenzialmente stabile e ripetitivo, quanto meno nel classico setting analitico – etc), conta l’assetto terapeutico, il famoso setting interno, ossia l’assetto mentale e la capacità del terapeuta o di essere con il paziente, di sentire e utilizzare gli strumenti a disposizione per il meglio, di essere in grado di entrare in relazione empatica con le angosce, sentimenti e fantasie della persona che ha davanti.

Le fantasie e i sogni che fanno tutti gli esseri umani e che spesso sono materia di sedute terapeutiche possono essere considerati in parte una realtà virtuale. Ecco perché tale concetto non sembra, a Marzi, il curatore del libro, così lontano all’approccio analitico. La realtà virtuale è, infatti, una simulazione della realtà oggettiva e riguarda ogni genere di realtà simulata.

Ciò significa che anche le immagini mentali o i sogni possono essere considerati in qualche modo realtà virtuale. Potremmo dunque azzardarci ad ipotizzare che in fondo la psicoanalisi (e gli approcci psicoterapeutici più in generale) da sempre ha a che vedere con una realtà virtuale, quella cioè che il paziente porta nella seduta, e che difficilmente corrisponde o può essere ridotta ad una realtà “oggettiva”.

Mi piace molto il paragone tra il cyberspace (luogo nel quale vengono ospitati siti internet, per dirne una) e la mente. Entrambi, infatti, sono luoghi-non luoghi: sono realtà che pur avendo una base fisica e materiale (l’hardware per il cyberspace e il cervello per la mente), risultano in realtà smaterializzati.

Non hanno poi confini, o per meglio dire: la loro esistenza supera i confini materiali. E’ un luogo-metafora che continua ad essere definito comunque da coordinate quali lo spazio e il tempo, ma in realtà non può essere ridotto a nessuna delle due. Allo stesso modo la seduta analitica è scandita dalle variabili di spazio e di tempo, ma non può essere ridotta ad una chiacchierata in una stanza. Stati d’animo, fantasie, angosce, sentimenti si scambiano all’interno della seduta, si intrecciano e possono dare vita a qualcosa di nuovo, ad un germoglio che impiegherà chissà quanto tempo a sbocciare (i risultati di un’analisi o di una terapia, la risoluzione di un sintomo etc.).

Un ulteriore punto di contatto e paragone tra la mente e il cyberspace è la possibilità di utilizzare in entrambi giochi di  proiezioni e di poter mettere alla prova aspetti di sé che altrimenti potrebbero non vedere mai la luce nella realtà “concreta” che, a differenza di quella virtuale, è legata alle due variabili spazio tempo. E’ possibile, infatti, fantasticare e sognare ad occhi aperti di essere come non siamo o ciò che non saremo mai; nel mondo virtuale questa fantasia può assumere la forma di un avatar, di un gioco di ruolo, di un gioco di finzione.

E’ quindi anche concreto e reale il rischio per determinati soggetti (forse in particolar modo gli adolescenti, o i più giovani) di perdersi all’interno di questa voragine virtuale, in cui i confini – lo ripetiamo – non sono poi così netti né definiti e dove quasi risulta un imperativo e non una scelta esserci. Risulta anche difficile, forse, difendersi da un bombardamento sensoriale continuo, da un non poter mai scollegarsi, che può spingere la persona ad essere letteralmente consumata dallo strumento e dal mezzo e non essere più un consumatore o un fruitore del mezzo.

E’ facile perdere il senso della misura e il senso dei confini. Come fanno notare Ardovino e Ferraris (2012): “E’ tutto lì dentro, il mondo è in mano a noi. Quello che però non ti viene detto è che anche tu sei in mano al mondo”.

Ed è altrettanto semplice considerare il computer o lo spazio virtuale come un’estensione della propria mente, uno spazio che riflette gusti, atteggiamenti e modi di essere. Se ci riferiamo a Jeammet (1980) e alla considerazione che l’adolescente sviluppa il proprio Sé anche grazie allo spazio psichico allargato (il mondo della scuola, dei pari, della famiglia), capiamo come il web e le nuove tecnologie possano rappresentare un banco di prova altrettanto importante.

Per i giovani, soprattutto, il web sembra rappresentare una fonte infinita di stimoli, che li raggiungono senza interruzione, rischiando così di creare dei “bulimici sensoriali” che non sono in grado di scollegarsi, pena la perdita della propria identità.

La socialità sembra essersi spostata sulle nuove tecnologie: un po’ forse questo può rappresentare, come gli autori del libro sottolineano, una difesa fobica dal contatto reale, ma anche – semplicemente – un cambiamento nella modalità di fruire le relazioni.

Gli autori sottolineano anche come la dimensione del web metta in risalto soprattutto la dimensione gruppale, del network, della platea e del pubblico, nel quale alcuni soggetti, forse più fragili di altri, potrebbero perdere i propri confini identitari. Questo sembra essere il contraltare della perdita dei così detti garanti meta psichici e meta sociali (Kaes, 2010), le grandi istituzioni (partiti, chiesa, famiglia) che hanno costituito i binari sui quali si sono fondate le identità delle generazioni precedenti.

In mancanza quindi di una socialità articolata, il web potrebbe rappresentare un sostituto nel quale è più semplice mascherare e annullare e non sentire il dolore psichico. Poterlo sopportare e gestire rappresenta, secondo gli autori, l’ingresso nella vita adulta.

Al di là delle possibili ricadute psicopatologiche che la Rete (come qualunque altro mezzo, mi verrebbe da dire) nasconde, a mio avviso il valore di questo testo completo e ben argomentato è il fatto di aver avvicinato la psicoanalisi al mondo del web 2.0, spiegando – forse con un linguaggio un po’ troppo artificioso e tecnico, che potrebbe risultare ostico e noioso ai non addetti ai lavori – come in realtà la fantasia, l’inconscio, e il mondo immaginato e sognato nella stanza d’analisi abbiano molti più punti in comune con il cyberspace di quanto potessimo mai immaginare.

 

ARGOMENTI CORRELATI:

PSICOANALISI RECENSIONIPSICOLOGIA DEI NEW MEDIA PSICOLOGIA & TECNOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Amici di diverse culture accrescono il nostro benessere psicologico!

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Avere amici di diverse culture, appartenenti a diversi gruppi etnici è di beneficio, oltre che salutare secondo il British Journal of Developmental Psychology.

In uno studio da poco pubblicato su questa rivista gli studiosi hanno voluto indagare l’effetto di amicizie multiculturali sulla percezione di discriminazione etnica (perceived ethnic discrimination – PED)  e sul benessere in individui biculturali anglo-asiatici.

Nella ricerca sono stati coinvolti e sottoposti a interviste semi-strutturate e questionari circa 200 ragazzini anglo-asiatici dell’età di 11 anni.

Dai risultati è emerso che la qualità dei legami amicali- e non la quantità- con ragazzi di altre etnie sarebbe correlata positivamente con un maggior benessere psicologico e maggiori livelli di resilienza; invece proprio la quantità delle amicizie cross-culturali sarebbe un fattore moderatore degli effetti negativi del PED sul benessere psicologico e sulla resilienza.

Quindi, qui ne abbiamo la prova scientifica, l’amicizia cross-culturale può svolgere da fattore protettivo in relazione al benessere psicologico dei ragazzi biculturali. E perché no, ma ancora da dimostrare, anche dei ragazzi monoculturali.

ARGOMENTI CORRELATI:

RAPPORTI INTERPERSONALI PSICOLOGIA CROSSCULTURALE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Giovani VS Adulti: come l’età influenza il giudizio sui comportamenti antisociali – Psicologia

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Uno studio dell’Università di Cambridge da poco pubblicato sulla rivista Crime Prevention and Community Safety, ha messo in luce come l’età sia una discriminante riguardo a quali comportamenti vengono percepiti come antisociali o “inappropriati” e quali no.
Omicidio, aggressione, furto e taccheggio erano tra i pochissimi comportamenti che sia il campione dei giovani (185 adolescenti) che quello degli adulti (200 ) identificava come antisociale.
Per il resto, sono emerse forti differenze…

More than 80% of adults thought swearing in a public place was ASB compared with less than 43% of young people, and more than 60% of adults listed cycling or skateboarding on the street compared with less than 8% of young people.

40% of adults saw young people hanging around as ASB compared with 9% of teenagers.

Lead researcher Dr Susie Hulley, from Cambridge’s Institute of Criminology, compared views of teenagers at a secondary school with those of adult residents in the same part of Greater London, and believes that perceptions of risk may influence adults’ views of young people.

 

Generation blame: how age affects our views of anti-social behaviour | University of CambridgeConsigliato dalla Redazione

Research reveals disconnect between what adults and young people interpret as anti-social behaviour (ASB), as 40% of adults see young people gathering in public as ASB. Study is the first to directly compare teenage perceptions of ASB with those of adults. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

ABSTRACT DEL PAPER ORIGINALE: What is anti-social behaviour? An empirical study of the impact of age on interpretations


Articoli di State of Mind su Disturbo Antisociale di Personalità
Psicopatia e disturbo antisociale di personalità: un’analisi clinica e cinematografica dei disturbi
Discriminare tra la psicopatia e il disturbo antisociale di personalità tramite il supporto di parallelismi cinematografici
La porta sul sogno. Dimensione borderline e sociopatia nel campo archetipico (2023) – Recensione
Il testo esplora il mondo della persona con disturbo di tipo borderline, attento a coniugare i piani teorici con quelli più operativi.
Disturbo antisociale di personalità: eziologia e caratteristiche
L’eziologia del disturbo antisociale di personalità
Le cause del disturbo antisociale sono multifattoriali, biologiche e ambientali; particolamente significative sembrano essere le esperienze di abuso
Disturbo antisociale: tra teoria della mente, empatia e alessitimia
Disturbo antisociale: che ruolo hanno l’empatia e la teoria della mente?
Un recente studio ha indagato le differenze nei livelli di alessitimia, empatia e teoria della mente tra pazienti con disturbo antisociale e controlli
Jeffrey Dahmer: l’omicidio come dipendenza comportamentale
L’ipotesi della dipendenza comportamentale nell’analisi del caso Jeffrey Dahmer
Lankford e Hayes nel loro studio del 2022 hanno raccolto informazioni per esplorare l’ipotesi di dipendenza comportamentale come spiegazione del caso Dahmer
Disturbo antisociale di personalita caratteristiche e trattamento - VIDEO
Il paziente con disturbo di personalità antisociale – Video dal Webinar tenuto da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre
Un interessante approfondimento sul paziente con disturbo di personalità antisociale organizzato da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre
Il pensiero mafioso
Il mafioso prova un forte senso di appartenenza ad un gruppo ampio, coeso, con una forte identità sociale e si identifica con i suoi simboli, metodi e riti.
Disturbi di personalità: il processo di valutazione e diagnosi con il DSM 5
Disturbi di personalità: i cambiamenti nel processo diagnostico dopo l’arrivo del DSM-5
La classificazione dei disturbi di personalità è cambiata nel corso degli anni insieme agli strumenti utilizzati per fare diagnosi
Aggressività e mentalizzazione nelle condotte antisociali - Psicologia
Aggressività e mentalizzazione: possiamo curare il disturbo antisociale?
Capire gli antecedenti del comportamento antisociale è fondamentale per pianificare il trattamento e individuare chi ne può beneficiare
Stile genitoriale: quale ruolo nello sviluppo di tratti antisociali nei figli
Stile genitoriale e sviluppo di comportamenti antisociali nei figli
Stile genitoriale: uno studio recentemente pubblicato sul Journal of the American Academy of Child & Adolescent Psychiatry ha cercato di indagare il peso di fattori biologici ed ambientali nello sviluppo di comportamenti e tratti antisociali nei figli
Disturbo Narcisistico di Personalità: Il caso Schepp - Psicocronaca
L’ipotesi del narcisismo maligno alla base dell’acting-out di Matthias Schepp
Quando si passa dalla patologia narcisistica meglio funzionante al disturbo narcisistico di personalità grave, l’intensità dell’aggressività aumenta raggiungendo il picco nella sindrome di narcisismo maligno che è possibile osservare in numerosi fatti di cronaca, come il caso di Matthias Schepp.
Comportamento criminale le lesioni cerebrali che potrebbero determinarlo
La localizzazione cerebrale del comportamento criminale: i codici del cervello che potrebbero aiutarci nella prevenzione e nel trattamento di condotte antisociali
L’obiettivo di un recente studio è stato quello di mappare le lesioni cerebrali per vedere se esse sono temporalmente associate al comportamento criminale
Disturbo Antisociale di Personalita
La personalità antisociale: fattori di rischio e indicazioni al trattamento
Il disturbo antisociale di personalità è caratterizzato da pattern di inosservanza e di violazione dei diritti degli altri, mancanza di colpa e di empatia.
Shameless ritratto di una famiglia moderna tra forme del trauma e della resilienza - Psicologia e Serie Tv
Shameless (TV Series): ritratto di una famiglia moderna tra forme del trauma e della resilienza
In Shameless la disfunzionale famiglia Gallagher trova il modo di funzionare: si riconosce la nostra fallibilità ma anche la capacità di adattamento
Personalità antisociale: i fattori psicologici e ambientali che la determinano
Profili di Personalità e tipologia di reati: Il pregiudizio del soggetto antisociale
Secondo molti autori la personalità antisociale si associa allo sviluppo nell'infanzia del disturbo della condotta e della devianza.
Psicopatia: le capacità di ragionamento morale degli psicopatici
Quali sono le capacità di ragionamento morale nella psicopatia?
Psicopatia: Alcuni studi sullo sviluppo morale degli psicopatici hanno dimostrato come le abilità di ragionamento morale siano più scarse degli altri
Fotolia_86380235_“Il Mostro razionale” Insensibilità, Psicopatia e Antisocialità
Il Mostro razionale: Insensibilità, Psicopatia e Antisocialità
Psicopatia: riconoscere le personalità psicopatiche tra i detenuti può consentire di definire nuovi sistemi trattamentali e detentivi negli istituti di pena
Nightcrawler, lo sciacallo (2014): quando la psicopatia diventa istituzione - Recensione
Nightcrawler, lo sciacallo (2014): quando la psicopatia diventa istituzione – Recensione
Il protagonista di The Nightcrawler segna il passaggio da un'immagine dello psicopatico come criminale, ad una integrata nel contesto sociale ipermoderno.
Confessioni di una sociopatica
Confessioni di una sociopatica: viaggio nella mente di una manipolatrice – Recensione
Il libro è la testimonianza di M. E: Thomas, una donna con diagnosi di disturbo antisociale di personalità che tende a manipolare gli altri per i suoi scopi
State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicoogiche - Flash News
Criminalità & Psicopatia: le punizioni sono sempre utili?
Un programma di prevenzione, in una fase precoce dello sviluppo attuato da parte dei genitori, potrebbe essere più efficace di un provvedimento punitivo
Carica altro

Orientamento politico e il senso di disgusto: una singolare correlazione

 

 

Lo Psicologo e Ricercatore David Pizarro racconta come esista una correlazione tra la sensibilità a stimoli “disgustosi” (come ad esempio fotografie di feci o l’esposizione a odori spiacevoli) e posizioni di conservatorismo morale e politico.

VIDEO E TESTI RIPRODOTTI SU LICENZA CREATIVE COMMONS 3.0 – TED.COM – AUTORE: DAVID PIZARRO

ARTICOLI CONSIGLIATI:

Dimmi se ti disgusta e ti dirò chi voti – Il giudizio morale: una Questione di Stomaco.

TRASCRIZIONE DEL TESTO

Traduzione di Sabrina Palumbo · Revisione di Anna Cristiana Minoli

Nel diciassettesimo secolo, una donna di nome Giulia Tofana gestiva una profumeria che aveva molto successo. La gestì per più di cinquant’anni. Ma chiuse all’improvviso quando fu giustiziata — (Risate) — per aver assassinato 600 uomini. Sapete, il profumo non era così buono. In effetti, era completamente inodore, insapore e incolore, ma come veleno, non c’erano soldi meglio spesi, perciò le donne si affollavano da lei per uccidere i loro mariti.

0:40 Pare che gli avvelenatori fossero un gruppo stimato e temuto, perché avvelenare un essere umano è una cosa davvero difficile. La ragione è che abbiamo una specie di rilevatore di veleno incorporato. Si può vedere addirittura già nei neonati. Se volete provare, potete prendere un paio di gocce di qualche sostanza amara o aspra, e vedrete questa faccia, la lingua fuoriesce, il naso si arriccia, come se provassero a liberarsi di ciò che hanno in bocca. La reazione aumenta negli adulti e diventa una specie di reazione totale di disgusto, non più soltanto nel caso in cui stiamo per essere avvelenati, ma ogni volta che c’è un pericolo di contaminazione fisica per una qualunque causa. Ma il viso rimane incredibilmente simile. Si è sviluppata di più, tuttavia, dal solo tenerci lontano da agenti contaminanti fisici e c’è un crescente numero di prove che suggeriscono che, in effetti, questo sentimento di disgusto influenza anche le nostre convinzioni morali e persino le nostre profonde intuizioni politiche.

1:40 Perché? Possiamo comprendere il processo conoscendo un po’ meglio le emozioni in generale. Le emozioni umane di base, quel tipo di emozioni che condividiamo con tutti gli altri esseri umani, esistono perché ci spingono a fare cose buone e ci tengono lontani dal commettere cattive azioni. Perciò in generale, sono buone per la nostra sopravvivenza. Prendiamo il sentimento della paura, ad esempio. Ci tiene lontani dal compiere azioni molto, molto rischiose. Questa foto è stata scattata appena prima che morisse — (Risate) — in realtà è — No, uno dei motivi per cui questa foto è interessante è che la maggior parte delle persone non farebbero questa cosa, o se la facessero, non vivrebbero per raccontarlo, perché la paura si sarebbe manifestata da molto tempo di fronte a un predatore. Così come la paura ci offre vantaggi protettivi, il disgusto fa la stessa cosa, tranne per il fatto che il disgusto non ci tiene alla larga da cose che potrebbero divorarci, o dalle altezze, ma dalle cose che potrebbero avvelenarci, o farci venire la nausea e farci stare male. Dunque una delle caratteristiche del disgusto che lo rendono un’emozione così interessante è che è davvero facilissimo da suscitare, in effetti lo è ancor più che probabilmente qualunque altra emozione di base, e vi dimostrerò con un paio di immagini che forse posso farvi provare disgusto. Giratevi. Vi dirò io quando voltarvi di nuovo. (Risate)

2:56 La vedete ogni giorno, giusto? Dai, su. (Risate)

3:01 (Pubblico: Bleah.)

3:02 Okay, giratevi, se non avete guardato.

3:05 Queste immagini probabilmente hanno fatto sentire molti di voi tra il pubblico molto, molto disgustati, ma se non avete guardato, vi posso raccontare di altre cose che sono state mostrate in tutto il mondo per far provare disgusto, cose tipo feci, urina, sangue, carne putrefatta. Queste sono cose dalle quali ha senso stare alla larga, perché potrebbero davvero contaminarci. In effetti, anche solo avere un aspetto malato o compiere strani atti sessuali, anche queste cose ci provocano molto disgusto.

3:33 Darwin è stato probabilmente uno dei primi scienziati ad esaminare in modo sistematico le emozioni umane, e ha sottolineato la natura universale e la forza della reazione di disgusto. Questo è un aneddoto tratto dai suoi viaggi in Sud America.

3:46 “Nella Terra del Fuoco un nativo ha toccato con il dito della carne secca fredda mentre mangiavo … e ha mostrato chiaramente disgusto rispetto alla sua morbidezza, mentre io provavo assoluto disgusto al veder toccare il mio cibo da un selvaggio nudo — (Risate) — benché le sue mani non sembrassero sporche.” In seguito scrisse, “Va bene, alcuni dei miei migliori amici sono selvaggi nudi.” (Risate)

4:04 Beh, pare che non solo gli scienziati britannici dei tempi andati siano così schizzinosi. Di recente ho avuto l’occasione di parlare con Richard Dawkins per un documentario, e sono stato capace di disgustarlo un bel po’ di volte. Ecco la mia preferita.

4:15 Richard Dawkins: “Ci siamo evoluti attorno al corteggiamento e al sesso, siamo legati a emozioni profondamente radicate e a reazioni di cui è difficile sbarazzarsi in una notte.”

4:25 La mia parte preferita di questo video è che il Professor Dawkins aveva davvero conati di vomito. Ѐ balzato indietro, ed ha avuto dei conati, e abbiamo dovuto rifarlo tre volte, e tutte e tre le volte ha avuto dei conati. (Risate) E stava davvero per vomitare. Pensavo che potesse vomitarmi addosso, a dire il vero.

4:42 Tuttavia, una delle caratteristiche del disgusto, non è soltanto la sua universalità e la sua forza, ma il modo in cui lavora attraverso delle associazioni. Perciò quando qualcosa di disgustoso viene a contatto con una cosa pulita, quella cosa pulita diventa disgustosa, non il contrario. Questa è una strategia molto utile se volete convincere qualcuno che un oggetto o un individuo o un intero gruppo sociale sia disgustoso e debba essere evitato. La filosofa Martha Nussbaum lo indica in questa citazione: “Così attraverso la storia, alcune proprietà del disgusto — la repulsione, il cattivo odore, l’essere appiccicoso, la decomposizione, la sporcizia — sono state associate ripetutamente e in maniera monotona a… ebrei, donne, omosessuali, intoccabili, persone appartenenti alle classi basse — tutti immaginati macchiati dalla sporcizia del corpo.” Lasciate che vi faccia degli esempi di come, alcuni esempi efficaci di come questo sia stato sfruttato nella storia. Questo è tratto da un libro nazista per bambini pubblicato nel 1938: “Ma guardateli! Quelle barbe infestate dai parassiti, le sudicie orecchie a sventola, quei vestiti larghi e macchiati… gli ebrei spesso hanno uno sgradevole odore dolciastro. Se avete un buon naso, potete identificare gli ebrei dall’odore.” Un esempio più moderno ci viene da chi cerca di convincerci che l’omosessualità sia immorale. Questo è tratto da un sito web anti-gay, dove hanno detto che i gay sono “meritevoli di morte per le loro vili … pratiche sessuali.” Sono come “cani che mangiano il loro stesso vomito e scrofe che si rotolano nelle loro stesse feci.” Queste sono proprietà del disgusto che cercano di essere collegate direttamente al gruppo sociale che non dovrebbe piacervi.

6:07 Quando stavamo studiando per la prima volta il ruolo del disgusto nel giudizio morale, una delle cose che ci interessò fu se questo tipo di richiami funzioni di più con individui che provano più facilmente disgusto. Dunque mentre il disgusto, insieme alle altre emozioni elementari, sono fenomeni universali, è anche vero che alcune persone sono più facili da disgustare di altre. Probabilmente l’avete notato nel pubblico quando ho mostrato quelle immagini disgustose. L’abbiamo misurato tramite una scala elaborata da altri psicologi che chiedeva semplicemente alle persone in varie situazioni quanto fosse probabile che fossero disgustate. Perciò ecco un paio di esempi. “Anche se fossi affamato, non berrei una ciotola della mia zuppa preferita se fosse stata mescolata con uno schiacciamosche usato ma lavato con cura.” “Ѐ d’accordo o no?” (Risate) “Mentre camminate in un tunnel sotto dei binari, sentite odore di urine. Sarebbe molto disgustato o non disgustato per niente?” Se fate abbastanza domande come queste, potrete avere un punteggio generale della sensibilità al disgusto. Pare che questo punteggio sia davvero significativo. Quando portate la gente in laboratorio e chiedete loro se vorrebbero partecipare ad attività sicure ma disgustose come mangiare cioccolato cotto a forma di cacca di cane, o come in questo caso mangiare larve del cibo che sono perfettamente sane ma abbastanza schifose, il punteggio sulla scala predice davvero se prendereste parte a tali attività o meno.

7:26 La prima volta che abbiamo iniziato a raccogliere i dati e ad associarli a comportamenti politici o morali, abbiamo trovato uno schema generale — con gli psicologi Yoel Inbar e Paul Bloom — che in effetti, in tre ricerche abbiamo sempre scoperto che le persone che sostenevano che erano facilmente disgustate sostenevano anche che erano più conservatrici politicamente. Un’altra maniera di dire questo è che le persone che sono molto liberali sono anche difficili da disgustare. (Risate)

7:54 In uno studio successivo più recente, abbiamo potuto osservare un campione ancora maggiore, più grande. In questo caso, hanno risposto quasi 30.000 statunitensi, e abbiamo trovato lo stesso schema. Come vedete, le persone che hanno risposto di essere molto conservatrici nell’orientamento politico sono anche più propense a sostenere che sono disgustate facilmente. Questi dati ci permettono anche di controllare statisticamente un numero di cose che sapevamo legate all’orientamento politico e alla sensibilità al disgusto. Abbiamo potuto controllare per genere, età, reddito, istruzione, anche variabili elementari della personalità, e il risultato è stato lo stesso.

8:30 Quando abbiamo osservato non solo l’orientamento politico dichiarato, ma il comportamento al voto, abbiamo potuto osservare geograficamente la nazione. Abbiamo scoperto che in Stati in cui le persone hanno affermato di avere livelli alti di sensibilità al disgusto, McCain ha avuto più voti. Dunque non solo è stato previsto l’orientamento politico dichiarato, ma il reale comportamento politico. Con questo campione abbiamo anche potuto osservare il mondo, abbiamo fatto le stesse domande in 121 diversi Paesi, come potete vedere, questi sono 121 paesi ridotti a 10 diverse regioni geografiche. Non importa dove guardiate, quello che rileva è la misura della relazione tra la sensibilità al disgusto e l’orientamento politico, e non importa dove abbiamo guardato, abbiamo osservato un effetto molto simile. Anche altri laboratori ci hanno dato un’occhiata usando diverse misure per la sensibilità al disgusto, perciò piuttosto che chiedere alla gente quanto facilmente sia disgustata, hanno collegato dei parametri fisiologici, in questo caso la conduttanza della pelle. E hanno dimostrato che le persone che dichiarano di essere più conservatrici politicamente sono anche più stimolate fisiologicamente quando vengono loro mostrate immagini disgustose come quelle che vi ho fatto vedere io. Curiosamente, hanno anche mostrato in una scoperta che continuavamo a ritrovare anche in studi precedenti che una delle influenze più forti è che gli individui che sono molto sensibili al disgusto non solo è più probabile che affermino di essere politicamente conservatori, ma si oppongono anche di più ai matrimoni gay e all’omosessualità e a un bel po’ di questioni riguardanti la sfera sessuale. Dunque in questo studio, la stimolazione fisiologica ha previsto l’atteggiamento verso i matrimoni gay.

10:03 Ma anche con tutti questi dati che collegano la sensibilità al disgusto all’orientamento politico, una delle domande che rimane senza risposta è: cos’è che causa il collegamento? Ѐ davvero il disgusto che determina le convinzioni politiche e morali? Dobbiamo ricorrere a metodi sperimentali per rispondere, e perciò quello che possiamo fare è portare veramente le persone in laboratorio, disgustarle e confrontarle con un gruppo di controllo che non è stato disgustato. Pare che negli ultimi cinque anni l’abbiano fatto vari ricercatori, e in generale i risultati sono stati tutti gli stessi, ossia, quando le persone si sentono disgustate, il loro atteggiamento si sposta verso la destra dello spettro politico, e anche verso un maggior conservatorismo politico. Dunque se usate un cattivo odore, un cattivo sapore, tratti da spezzoni di film, suggestioni post-ipnotiche di disgusto, immagini come quelle che vi ho mostrato, anche solo per ricordare alle persone che il disagio è predominante e dovrebbero diffidarne e lavarsi, mantenere tutto pulito, hanno tutti effetti simili sul giudizio.

10:58 Lasciate che vi faccia un esempio tratto da uno studio che abbiamo condotto di recente. Abbiamo chiesto ai partecipanti di darci semplicemente la loro opinioni su vari gruppi sociali, e abbiamo invaso la stanza con cattivi odori o meno. Quando la stanza puzzava, abbiamo visto che gli individui hanno riportato atteggiamenti più negativi verso gli omosessuali. Il disgusto non ha influenzato gli atteggiamenti nei confronti degli altri gruppi sociali di cui abbiamo chiesto, incluso gli afroamericani e gli anziani. Riguardava tutto gli atteggiamenti verso gli omosessuali. In un’altra serie di studi abbiamo semplicemente ricordato alle persone — era al tempo dell’influenza suina — abbiamo ricordato alle persone che per prevenire la difusione dell’influenza avrebbero dovuto lavarsi le mani. Ad alcuni partecipanti abbiamo fatto rispondere a questionari accanto ad un cartello che ricordava di lavarsi le mani. E abbiamo scoperto che il solo fatto di svolgere il questionario vicino al promemoria di lavarsi le mani ha fatto sì che gli individui affermassero di essere più conservatori politicamente. E quando abbiamo posto delle domande sull’adeguatezza o la scorrettezza di alcuni atti, abbiamo anche scoperto che il solo fatto che fosse loro ricordato di doversi lavare le mani li rendeva moralmente più conservatori. In particolare, quando abbiamo posto domande su pratiche sessuali tabù ma piuttosto innocue, il solo fatto che fosse ricordato loro di lavarsi le mani li faceva pensare che fossero moralmente sbagliate. Lasciate che vi faccia un esempio di cosa intendo per pratiche sessuali innocue ma tabù. Gli abbiamo fornito uno scenario. Uno diceva che un uomo custodisce la casa della nonna. Quando la nonna è via, fa sesso con la sua ragazza sul letto della nonna. In un altro, abbiamo detto che a una donna piace masturbarsi con il suo orsacchiotto preferito vicino a lei. (Risate) Le persone li trovano moralmente ripugnanti se è stato ricordato loro di lavarsi le mani. (Risate) (Risate)

12:50 Okay. Il fatto che le emozioni influenzino il nostro giudizio non dovrebbe sorprenderci. Cioè, è parte di come funzionano le emozioni. Non solo ci spingono a comportarci in un certo modo, ma cambiano il nostro modo di pensare. Nel caso del disgusto, quello che sorprende un po’ di più è l’ampiezza di questa influenza. Ha perfettamente senso, e per noi è una emozione positiva, che il disgusto mi faccia cambiare il modo in cui percepisco il mondo fisico quando c’è una possibile contaminazione. Ha meno senso che un’emozione costruita per evitare che ingerisca del veleno dovrebbe prevedere chi voterò alle prossime elezioni presidenziali.

13:24 La domanda se il disgusto dovrebbe influenzare i nostri giudizi morali e politici deve essere certamente complessa, e potrebbe dipendere esattamente da quali tipi di giudizi stiamo parlando e, in quanto scienziato, a volte dobbiamo concludere che il metodo scientifico è mal equipaggiato per rispondere a questo tipo di domande. Ma una cosa di cui sono piuttosto sicuro è quantomeno che quello che possiamo fare con queste ricerche è indicare quali domande dovremmo porre prima di tutto. Grazie. (Applausi)

 

ARGOMENTI CORRELATI: PSICOLOGIA POLITICA

Verso la neuroestetica: le premesse filosofico-psicologiche

Barbara Missana.

 

 

Verso la neuroestetica- le premesse filosofico-psicologiche. -Immagine:© shotsstudio - Fotolia.com

Neuroestetica –  “I segnali sensoriali non sono adatti a ottenere percezioni immediate e certe; cosicché per vedere gli oggetti si rende necessario che sia l’intelletto a formulare una serie di congetture”.

DEFINIZIONE DI NEUROESTETICA SU PSICOPEDIA

Sin dal passato l’uomo ha tentato di afferrare l’intima essenza di un’esperienza estetica ricercando una definizione il più possibile oggettiva di “opera d’arte” e del concetto di bellezza. Platone esaltava la bellezza e condannava l’arte in quanto copia del mondo sensibile, a sua volta copia dell’Iperuranio e quindi allontanatrice della verità. Il corpo è sede di piacere e bellezza ineffabili superabili salendo le scale di Eros e giungendo per gradini all’amore vero per la giustizia, le leggi, la conoscenza, all’intellezione della bellezza in se stessa.

Tuttavia l’affermazione di un gradino percettivo e corporeo nella conoscenza e formazione del fatto artistico sfiorava già l’intuizione di una mediazione fisica e biologica dell’intelletto umano. Kant ed Hegel invece avevano esaltato il compito dell’arte dando nella loro dottrina una maggiore importanza a quanto compie il cervello: per entrambi l’arte è capace di rappresentare la realtà meglio delle sensazioni effimere e particolari soggette a continui mutamenti. Hegel nella sua Estetica del 1842 diceva che l’idea derivante dal concetto ha la peculiarità di elevarsi al di sopra di ogni dato sensibile. In un’ottica neurologica tale superiorità deriva dalle innumerevoli registrazioni visive immagazzinate nel cervello: si tratta di immagini mnemoniche selezionate in modo da poter estrarre le caratteristiche essenziali degli oggetti, le loro costanti.

In un quadro, allo stesso modo, l’artista può mostrare ciò che è visibile, ma anche ciò che al momento sussiste solo nella sua memoria per accumulazione; cosi l’arte rappresenta la cosa in sé, traendola dall’interno della mente.

Arthur Schopenhauer nel Mondo come volontà e rappresentazione del 1819 esaltava il primato dell’immaginazione sulla conoscenza promuovendo la sua idea di un mondo visivo complesso ed elaborato dal cervello: a suo dire la pittura deve sforzarsi di ottenere la conoscenza di un oggetto non come cosa particolare ma come forma permanente di quella sfera di affetti.

Tuttavia, queste importanti figure del pensiero occidentale non hanno mai avuto l’opportunità di vedere direttamente cosa avviene nel nostro cervello, per esempio, quando siamo di fronte ad un’opera d’arte. Oggi invece lo sviluppo delle tecniche di brain imaging, come la PET, la SPECT e la risonanza magnetica funzionale, hanno infatti consentito la rilevazione in vivo della funzioni cerebrali permettendo l’identificazione in parte anche di quei circuiti coinvolti a livello neurale nell’apprezzamento estetico.

E tali circuiti sono costanti e invarianti da uomo a uomo: quando il cervello giudica un’opera bella, si attivano le stesse aree ben identificabili in base all’apporto maggiorato di ossigeno e glucosio e di conseguenza i parametri per la valutazione di un’opera sono da ricercare nell’attività del nostro cervello piuttosto che nelle parole e definizioni.

In realtà già i primi testi sulla ricerca estetica erano ricchi di spunti a riguardo questa compenetrazione tra arte-cervello: Jean Baptiste Dubos nel 1719 nelle sue Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura affermava che “le caratteristiche della nostra mente e le nostre inclinazioni dipendono molto dalla qualità del nostro sangue”, a loro volta dipendenti dal contesto ambientale in cui l’uomo vive; oppure ancora Burke parlava dell’organo vista nella sua Inchiesta sul Bello e il Sublime del 1759 sostenendo che tra le cause del bello e del sublime vi fosse la successione di elementi tra loro uguali per taglio, colore e dimensione come in una teoria di colonne uniformi, che inviano impulsi all’occhio.

Sicuramente le prime ricerche che hanno costituito una base solida ai fini dell’approccio neuroestetico sono state quelle della psicologia sperimentale. Primo fra tutti a porre una traccia per lo studio dell’artista e della sua personalità è stato Freud e con la sua psicoanalisi dell’arte.

La psicoanalisi infatti, seppur nata come trattamento per i disturbi della personalità tramite la pratica medico-psichiatrica e neurologica, ha avviato lo studio della psicoanalisi dell’arte – avendo perfino ripercussioni su correnti quali il surrealismo.

Freud con il suo saggio su Leonardo da Vinci del 1910 si è occupato di arte utilizzando gli stessi strumenti della sua pratica clinica e quindi lapsus, sogni, libere associazioni, per indagare in profondità la personalità artistica di Leonardo. Freud è stato il primo che dalla patologia è passato ad occuparsi di una psicologia della creatività.

Secondo la sua tesi, senza che io entri troppo nello specifico, il dipinto di Sant’Anna, la Vergine e il Bambino avrebbe a che fare con la storia infantile dell’autore, il quale ebbe appunto due madri e una nonna: l’interpretazione è che gli eventi della vita che segnano un uomo traspaiono nelle sue creazioni. Freud per primo punta l’attenzione non sulle caratteristiche formali, ma sul contenuto psicologico dell’opera, convinto che l’arte serva a liberare l’uomo dalle tensioni del suo inconscio.

Gli psicologi della Gestalt invece hanno puntato la loro analisi non sul contenuto ma sulla percezione indagando le qualità formali delle immagini.

Fondata negli anni Venti da un gruppo di scienziati tedeschi capeggiato da Rudolph Arnheim, questa “psicologia della forma” si è occupata proprio della composizione analitica dell’attività di percezione visiva convinti del ruolo fondamentale della intuizione. Chiarificante è il famoso esperimento dello scimpanzé Sultan che per prendere una banana posta troppo in alto utilizzò una serie di bastoncini molto corti che gli erano stati mostrati congiungendoli per recuperarla in seguito alla sua improvvisa intuizione. Le percezioni visive per i gestaltisti derivano da stimoli organizzati secondo delle leggi derivate da un resoconto soggettivo sul modo in cui una certa disposizione di punti crea una forma.

Queste leggi dell’organizzazione visiva della Gestalt – tra cui cito la “chiusura”, quella tendenza a vedere un’unica forma definita  in un insieme di punti disposti su di una scia circolare, “il destino comune”, la tendenza a ricondurre ad un’unica forma più elementi e punti moventi verso una stessa direzione e “la contiguità di particolari ravvicinati” e la preferenza delle curve, delle forme cioè senza spigoli – individuano le caratteristiche comuni di un oggetto e sono pertanto possedute da tutti gli uomini che appuntano rivelano avere una identica struttura visiva.

I gestaltisti hanno quindi capito che un mosaico di stimoli esterni stimolano la retina creando però una percezione visiva che è netta, definita e questo fatto è frutto di una serie di regole; c’è quindi dietro all’organo occhio una ferrea organizzazione comune che trasforma immagini dai bordi indefiniti in oggetti concreti e chiaramente definibili.

Questa tendenza del nostro sistema visivo- percettivo a raggruppare singoli e frammentari stimoli luminosi in unità fu studiata prendendo in considerazione degli elementi puntiformi e conducendo una serie di esperimenti che consentirono la codifica di tali regole biologiche – tra l’altro tali intuizioni sono state fruttuose per la creazione dei moderni calcolatori artificiali.

Il processo di “raggruppamento dinamico”, per usare un termine coniato da Richard Gregory, è evidente se prendo una matrice puntiforme.

Sam Tasty’s art
Sam Tasty’s art

Gli occhi percepiscono i punti ma sin da subito tendono a collegarli in linee e colonne a organizzarli, a ordinarli secondo un nesso logico, a raggrupparli aumentandone la complessità dell’immagine e della forma.

E questo perché nel processo percettivo interviene la logica e cioè il cervello che continuamente organizza i dati registrati dall’occhio. Questo è quanto accade anche con i disegni dei cartoni animati un insieme spezzettato di linee e colori che col loro movimento porta la memoria cerebrale all’identificazione di precise forme.

Questa capacità del nostro sistema occhio-cervello ha di certo una sua funzione: è chiaro che laddove i fasci di luce che si imprimono sulla retina sono inadeguati a ottenere una netta e precisa visione, interviene la elaborazione della corteccia che tramuta quelle illusioni in forme concrete. Per la Gestalt quindi le percezioni sono delle azioni attive che avvengono a livello cerebrale, contrastando con quanti credevano nella loro passività, nel loro ruolo di registrazione realistica.

La percezione è quindi un processo attivo e intellettivo, basato su dati sensibili non completamente soddisfacenti la visione: secondo la tesi di Herman von Helmholtz, fisiologo e psicologo, “i segnali sensoriali non sono adatti a ottenere percezioni immediate e certe; cosicché per vedere gli oggetti si rende necessario che sia l’intelletto a formulare una serie di congetture”.

È proprio questo il trampolino di lancio per gli studi della neuroestetica, la scoperta del presupposto che è l’intelligenza attiva nel cervello a costruire il mondo.

In Arte e Percezione Visiva del 1954 Rudolph Arnheim distingue poi una “buona forma” intendendo per essa quella più regolare, ordinata, equilibrata, armonica che il campo percettivo preferisce interpretare.

Il nostro occhio, seppur percepisca una miriade di informazioni, sceglie sempre quella più semplice figuralmente economizzando gli sforzi interpretativi.

Secondo poi la teoria della espressione, la percezione non è appresa e né è soggetta a modificazioni, bensì sono gli oggetti che tramite le loro caratteristiche formali trasmettono un corrispettivo psicologico.

L’esempio migliore è quello del salice piangente che ricorda una persona triste perché la sua forma impone un tipo di configurazione simile a quella della tristezza nell’uomo.

L’espressione è cioè basata sull’isomorfismo: la percezione di una forma trova corrispondenze nei processi del cervello; c’è una relazione tra forma e attivazione di aree cerebrali.

I

l primo filone di ricerca estetica che ha però utilizzato come strumenti quelli tipici delle discipline scientifiche è stato l’estetica sperimentale, sempre nell’ottica di stabilire quali forme esteriori fossero le più accreditate dal cervello dell’uomo.

Secondo Gustav Fechner, il padre di questo tipo di studi, le proprietà fisiche dell’oggetto ossia le proporzioni, la forma etc. determinano la reazione di preferenza nell’uomo. L’esempio più noto è quello sui rettangoli in cui la preferenza della maggior parte degli uomini ricadde su quello avente una proporzione aurea e quindi sul “più proporzionato”.

Secondo lo psicologo Daniel Berlyne ci sono alcune proprietà in particolare che stimolano la preferenza e tra queste di sicuro vi sono la novità, la incertezza, la ambiguità e la complessità che aumentano l’attivazione del cervello eccitandolo, risvegliandolo, motivandolo, da cui scaturirebbe il piacere estetico.

Ogni immagine che giunge alla retina è infatti ambigua e incerta, ossia potrebbe rappresentare e significare una miriade di possibili forme, eppure noi siamo in grado di vedere in essa un sola configurazione che potrebbe anche non corrispondere alla realtà. Questo è certamente uno dei grandi misteri ancora della mente umana e infatti le cosiddette “figure ambigue” oggi mettono proprio in luce il dinamismo della percezione svelando come anche essa non sia mai netta.

Il più noto è certamente l’esperimento del cubo del cristallografo Albert Necker del 1832 che non consente di capire né il verso, né la direzione, né la proiezione della figura lasciando alla libera interpretazione capire quale delle due facce sia quella frontale e quale quella posteriore.

Il nostro cervello nel momento in cui osserva tale figura è indeciso e prende in considerazione tutte le possibili interpretazioni che sono tuttavia equamente possibili.

 

Cubo di Necker e le sue due possibili interpretazioni
Cubo di Necker e le sue due possibili interpretazioni

Questo ci dimostra che le percezioni sono mutevoli anche quando gli stimoli visivi non lo sono e che il processo percettivo è un processo creativo e intelligente.

Un intero movimento artistico, quello della Op Art, si è sviluppato servendosi di questa ambiguità di fondo: i suoi esponenti hanno creato immagini complesse che proprio sfruttano le incertezze nella decodificazione cerebrale della visione di modo che le loro figure appaiano dinamiche; basti osservare Fall di Bridget Riley, un dipinto del 1963 oggi conservato nella Tate Gallery di Londra, influenzato dai dipinti monocromatici e lineari di Victor Vasarely, che proprio sfida la mente del fruitore illudendolo.

 

Fall, Bridget Riley 1963, Tare Gallery, London
Fall, Bridget Riley 1963, Tate Gallery, London

Questo sta a significare che la percezione è un’ipotesi, un passaggio da generale al particolare senza che noi abbiamo alcuna conferma sensoriale: la nostra supposizione si basa essenzialmente sulla intuizione, sulla nostra esperienza visiva passata che deriva dalle impressioni che il nostro cervello ha per istinto memorizzato.

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Definizione di Neuroestetica su Psicopedia

ARGOMENTI CORRELATI:

ARTE NEUROESTETICAPSICOLOGIA & FILOSOFIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

Buonsenso – Tribolazioni Nr. 23 – Rubrica di Psicologia

 

 

Dolore cronico e senso di giustizia: quale relazione?

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I ricercatori hanno cercato di approfondire la relazione tra le cognizioni relative al senso di giustizia e il dolore cronico, analizzando diversi studi pubblicati negli ultimi anni.

In un articolo da poco pubblicato su Current Directions in Psychological Science alcuni autori hanno studiato il senso di giustizia in alcune condizioni particolari, come ad esempio di dolore cronico, in cui l’esperire cronicamente e lungamente dolore fisico può facilmente portare a percepire un senso di ingiustizia – a tratti fluttuante lungo tutto il percorso della condizione di sofferenza (da suo inizio, al fallimento dei trattamenti e cosi via).

Cosi i pazienti possono percepire ingiustizia in relazione a ciò che hanno perduto – magari in termini di mobilità o di capacità lavorative, cosi come possono vedere ingiustizia anche a livello sociale per la stigmatizzazione delle loro condizione.

I ricercatori hanno dunque cercato di approfondire la relazione tra le cognizioni relative al senso di giustizia e il dolore cronico, analizzando diversi studi pubblicati negli ultimi anni.

Diverse ricerche dimostrano che la percezione di ingiustizia sarebbe correlata a peggiori condizioni in coloro che soffrono di dolore cronico, cioè a dire che coloro che vivono un maggiore senso di ingiustizia sono coloro che riportano livelli più gravi di sofferenza e dolore, con anche una maggiore presenza di sintomi depressivi e di minore accettazione del dolore; viceversa dunque una credenza riguardante un mondo tutto sommato equo e giusto sarebbe associata a migliori esiti nei pazienti con dolore cronico.

Il punto chiave e limite chiaramente identificabile in questa meta-analisi è che non si è stabilita una relazione causale tra credenze di ingiustizia e gravità della sintomotalogia di dolore cronico. Gli autori – riconoscono solo formalmente questo limite, mentre proseguono il loro contributo sorvolandolo e sottolineando  che specifiche credenze di ingiustizia subita non favoriscano il processo di accettazione del dolore cronico bloccando strategie di regolazione emotiva efficace in tali situazioni di difficoltà (punto peraltro su cui non possiamo non essere d’accordo).

Innegabile, quale che sia la relazione causale delle due variabili, che strategie di re-appraisal e interventi volti a promuovere l’accettazione sono altamente consigliabili nel momento in cui il dolore cronico si interseca anche con una sofferenza di natura emotiva.

 

ARTICOLO CONSIGLIATO: Dolore Cronico: il modello cognitivo stress-valutazione-coping

Dolore Cronico: Come lo Possiamo Affrontare e Gestire?

ARGOMENTO CORRELATO: DOLORE – REAPPRAISAL

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

La Rational Emotive Behavior Therapy in Italia – REBT – Paper

 

Albert Ellis Institute - Day 1 - Cronache da New York. - State of MindIl Journal of Rational-Emotive & Cognitive-Behavior Therapy ha pubblicato oggi in versione online un articolo che racconta un pezzo importante della diffusione della terapia cognitiva in Italia. Si tratta appunto della rational emotive behavior therapy (REBT) la forma di psicoterapia cognitiva ideata da Albert Ellis.

Storicamente essa fu la prima forma di terapia cognitiva, precedente al modello di Beck. In Italia essa approdò alla fine degli anni ’70 per merito Cesare De Silvestri e Carola Schimmelpfennig, e poi si diffuse grazie agli sforzi successivi di Franco Baldini e Mario Di Pietro. Non basta. La REBT in Italia si integrò con i modelli costruttivisti di Gianni Liotti e Vittorio Guidano e poi di Sandra Sassaroli e Roberto Lorenzini. Per questo oggi i terapeuti cognitivi italiani usano massicciamente il modello ABC per esplorare gli stati interni del paziente, anche quando essi non sono di formazione ortodossa REBT. All’estero, dove invece l’influenza di Ellis è oscurata dal modello di Beck, l’uso dell’ABC è meno diffuso. Questo, e molto altro, è raccontato nell’articolo pubblicato dal Journal of Rational-Emotive & Cognitive-Behavior Therapy.

 

ABSTRACT

REBT_Milano_Studi Cognitivi
NOVITA’: Corso Base REBT a Milano con i docenti dell’ Albert Ellis Institute di New York

This paper describes and critically discusses how rational emotive behavior therapy (REBT) spread among Italian cognitive psychotherapists. In the 1980s Cesare De Silvestri, with the help of Carola Schimmelpfennig, Franco Baldini, and Mario Di Pietro, brought REBT to Italy and eagerly disseminated it. In addition, De Silvestri cooperated with the two leading figures in the Italian clinical cognitive movement, Vittorio Guidano and Gianni Liotti. Guidano and Liotti applied the ABC framework to their constructivist version of cognitive therapy. Given that the large majority of Italian cognitive therapists adopted Guidano and Liotti’s approach, they all started applying the ABC framework and are still applying it today. However, Italian therapists adapted the ABC framework to their constructivist training. For example, Guidano and Liotti interpreted the ABC framework as aimed at promoting cognitive and emotional awareness in clients, while they considered the ‘disputing’ phase to be not compatible with the constructivist principles they held. They also encouraged the application of John Bowlby’s ideas to REBT and the use of life experience report techniques in the ABC. Sandra Sassaroli and Roberto Lorenzini applied George Kelly’s “laddering” technique to the ABC framework, a technique more focused on dilemmatic structures than on REBTian dysfunctional thought. Caselli investigated REBT’s influence on Adrian Wells’ metacognitive version of the ABC. Finally, Ruggiero and Ammendola have made a strong call for “back to Ellis”. This implies that any innovation should involve a more stringent and faithful application of REBT principles.

(Per un reprint dell’articolo scrivere all’autore)

 

 ARTICOLO CONSIGLIATO:

La REBT in Italia: tra Razionalismo e Costruttivismo

ARGOMENTI CORRELATI:

REBT – Rational Emotive Behavioral Therapy

 

 

BIBLIOGRAFIA:

cancel