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Come rappresentiamo il tempo? Il passato…è a sinistra!

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Per rappresentare e spiegare a noi stessi il tempo costruiamo mentalmente sequenze di eventi correlati tra loro e organizzati in modo cronologico lungo una linea temporale; per questo motivo molte persone in Occidente pensano al passato come a sinistra e al futuro come a destra.

Traccia una linea verticale su una pagina, scrivi quello che hai mangiato per cena ieri e quello che hai intenzione di mangiare domani. Se sei europeo senza dubbio hai scritto il menu della cena di ieri a sinistra di quello della cena di domani.

Questo succede perché per rappresentare e spiegare a noi stessi il tempo costruiamo mentalmente sequenze di eventi correlati tra loro e organizzati in modo cronologico lungo una linea temporale; per questo motivo molte persone in Occidente pensano al passato come a sinistra e al futuro come a destra.

Un team di ricercatori dell’Università di Ginevra si sono chiesti se la capacità di evocare mentalmente una linea del tempo sia una parte necessaria del ragionamento su eventi cronologici.

Hanno reclutato sette soggetti europei con con neglect dell’emisfero sinistro, cioè persone che a causa di lesioni cerebrali unilaterali all’emisfero destro hanno difficoltà ad esplorare lo spazio controlaterale alla lesione (cioè quello sinistro) e non sono  consapevoli degli stimoli presenti in quella porzione di spazio esterno o corporeo e dei relativi disordini funzionali; ad esempio possono mangiare solo dal lato destro del piatto, radere solo la parte destra del viso e ignorare i numeri sul lato sinistro di un orologio .

Il team ha reclutato anche sette volontari che hanno subito danni al lato destro del cervello ma non presentavano neglect emisferico, e sette persone prive di danni cerebrali.

Tutti i volontari hanno preso parte a una serie di test di memoria. In primo luogo hanno imparato un po’ di cose su un personaggio immaginario chiamato David, gli sono state poi mostrate le immagini di quello che a David piaceva mangiare 10 anni fa e di quello che avrebbe potuto piacergli nell’arco dei prossimi 10 anni. I partecipanti sono stati poi mostrati i disegni di 10 dei cibi preferiti di David , più quattro alimenti che non avevano mai visto prima . I partecipanti dovevano dire se era un cibo che a David era piaciuto in passato o se avrebbe potuto piacerli in futuro. Il test sono stati ripetuti con oggetti nell’appartamento di David e con i suoi vestiti preferiti.

Le persone con neglect emisferico riuscivano a ricordare solo alcuni, pochi, dei cibi e degli oggetti, in particolare il ricordo degli elementi del passato di David era più scarso di quello degli elementi relativi al futuro e commettevano anche più errori quando gli elementi si riferivano al passato. In pratica le persone con neglect emisferico avevano difficoltà a immaginare il lato sinistro della loro sequenza temporale.

Questi risultati suggeriscono che i concetti di tempo e spazio hanno una base neurale nel cervello e la capacità di rappresentare visivamente lo spazio della mente è fondamentale per la nostra capacità di ricordare e ragionare sugli eventi che si verificano cronologicamente.

Sarebbe interessante vedere se le persone con neglect dello spazio destro hanno problemi con eventi che dovrebbero verificarsi nel futuro, dicono i ricercatori, ma questi tipi di sintomi sono rari poiché le aree cerebrali che rappresentano lo spazio si trovano prevalentemente nell’emisfero destro.

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NEUROPSICOLOGIA

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BIBLIOGRAFIA:

 

Psicoanalisi: intervista con Lucio Sarno – I Grandi Clinici Italiani

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Lucio Sarno

Psicoanalista, Didatta della Società Psicoanalista Italiana (SPI)

State of Mind  intervista Lucio Sarno, Psicoanalista e Didatta della Società Psicoanalitica Italiana (SPI). Professore Ordinario di Psicologia Clinica e Psicoterapia, Università Vita-Salute San Raffaele di Milano. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

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La formazione in psicoterapia. Quale scuola scegliere dopo la laurea? – Recensione

La formazione in psicoterapia - RecensioneLa formazione in psicoterapia: “Quale scuola scegliere dopo la laurea?”. E’ questo il quesito su cui noi psicologi ci interroghiamo dopo aver conseguito il diploma di laurea in vista di un futuro da psicoterapeuta.

Quale sarà l’orientamento e, quindi, la scuola che ci permetterà di diventare dei terapeuti? Il manuale La formazione in psicoterapia – Quale scuola scegliere dopo la laurea?, a cura di Alberto Zucconi ed edito da Alpes, offre un valido strumento per orientarsi nella scelta della scuola di specializzazione all’interno di un panorama costellato da approcci psicoterapeutici differenti per origine, base teorica, tecniche psicoterapeutiche.

Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale

Il testo comprende 10 capitoli relativi alla storia della psicoterapia internazionale, agli aspetti qualitativi della formazione e alla figura dello psicoterapeuta, più una parte conclusiva che raccoglie un elenco di tutte le Scuole di specializzazione presenti in Italia. La parte iniziale propone una classificazione storica e descrittiva delle psicoterapie e delle varie correnti psicologiche, dalla psicoanalisi al movimento cognitivo-comportamentale fino agli approcci più recenti, tra cui l’approccio umanistico che, intorno alla metà degli anni ’50, si propone come “terza via” rispetto alla psicoanalisi e al movimento comportamentale, con l’obiettivo di assumere una prospettiva sociale nell’ambito del pensiero psicologico.

Tale classificazione ha lo scopo di esplorare sinteticamente le diversità dei paradigmi e come questi si sono sviluppati nel corso degli anni. Punto focale del manuale, su cui si concentra buona parte della riflessione dell’autore, riguarda i processi che assicurano la qualità interna ed esterna dei corsi di studio terziari (universitari e post secondari) di fondamentale importanza all’interno del processo di qualificazione delle Scuole. In Italia questo aspetto è garantito dal Coordinamento Nazionale Scuole private di Psicoterapia (CNSP), un’associazione fondata nel 1989 senza fini di lucro che “opera per promuovere la qualità e la trasparenza nella formazione e difendere i legittimi diritti delle scuole afferenti a tutti i vari approcci psicoterapeutici”.

Insieme alla Federazione Italiana delle Associazioni di Psicoterapia (FIAP), questa Istituzione dà voce ai maggiori rappresentanti della psicoterapia in Italia. Una prima parte del libro, quindi, è incentrata soprattutto sulle Istituzioni e sui processi che hanno lo scopo di garantire la qualità nella formazione post-lauream. Nel corso degli ultimi anni l’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS) ha stimato che nel mondo circa 450 milioni di persone soffre di disturbi mentali e che la richiesta di trattamento di queste malattie attualmente eccede l’offerta di accesso della popolazione.

Questo allarme porta con sé la necessità di garantire sia la qualità delle cure psicologiche offerte che quella della formazione psicoterapeutica. L’autore sottolinea l’esigenza di migliorare l’efficacia dei corsi di formazione in psicoterapia e dei servizi erogati dai diversi approcci attraverso la promozione sistematica della ricerca all’interno di ogni scuola, in vista di un miglioramento nella pratica clinica.

Successivamente il testo si focalizza sulla figura dello psicoterapeuta e sulla definizione delle competenze professionali implicate in questa professione. Chi è lo psicoterapeuta e quali capacità mette a disposizione in ambito clinico? La definizione di queste competenze delinea l’identità di questo specialista ed è utile per definire ulteriormente i percorsi formativi in questo settore, per chiarire l’identità della professione, il suo operato e il processo di costruzione della figura dello psicoterapeuta.

L’ultima parte del libro raccoglie informazioni descrittive di tutti gli Istituti di Psicoterapia abilitati in Italia e delle Scuole di specializzazione in ambito psicoterapeutico. Per ogni Scuola di formazione si presenta il modello teorico di riferimento, i fondatori, la storia, indirizzi e contatti utili, docenti, affiliazioni con organismi scientifici nazionali ed internazionali, pubblicazioni, attività culturali svolte, orari e costi del corso. 200 pagine di informazioni utili presentate in modo chiaro e dettagliato, da offrire agli studenti come strumento per muoversi più abilmente nella ricerca della scuola.

Questa raccolta, infatti, chiarisce approfonditamente il panorama attuale delle Scuole di psicoterapia in Italia, in un formato comodo e facilmente accessibile allo studente.

Questo testo rappresenta uno scritto utile e ben strutturato ed offre un quadro esaustivo dell’attuale situazione della psicoterapia nel nostro Paese, dello sviluppo storico dei paradigmi, dei processi che garantiscono la qualità della formazione e soprattutto un elenco completo degli Istituti di Psicoterapia abilitati e delle Scuole di Psicoterapia nel nostro Paese, da sfogliare e consultare nel momento in cui ci si affaccia al mondo della formazione post-universitaria.

 

Scopri le Scuole di Specializzazione in Psicoterapia Cognitivo-Comportamentale in Italia del network Studi Cognitivi

Guardare altrove: Blue Jasmine, di Woody Allen (2013) – Recensione

 

 

Guardare altrove

Recensione

Blue Jasmine (2013)

di Woody Allen.

 

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Blue Jasmine di Woody Allen - RecensioneBlue Jasmine: il bel film di Woody Allen racconta la fine dell’epoca garrula e chiacchierona, ricca e cinica dell’America precrisi. E la racconta con una storia emblematica.

La storia la sapete, e questa non è una recensione cinematografica ma vuole essere una notazione su alcune cose di area psicologica che mi hanno colpito nel film.

Un aspetto importante, di tipo sociale, è il racconto degli aspetti dolorosamente irrealistici, narcisistici al limite dell’antisocialità di una certa forma di successo economico dell’America dei fondi e dei prodotti di investimento non convenzionali (Madoff insegna).

Dove il lusso esagerato ostentato senza scrupolo alcuno nell’accumulo disordinato di oggetti di status è l’unico piano che delinea una vita degna di essere vissuta. “L’avidità è un istinto naturale e la dipendenza dai soldi è molto simile a quella per la droga. È difficile essere equilibrati” (da Di Caprio che commenta il suo ultimo film: The Wolf of Wall Street).

Questo film è come se fosse concentrato tutto sul marito di Jasmine. Mentre Blue Jasmine è concentrato sulle donne che guardano altrove, The Wolf of Wall Street è concentrato sulla follia avida che genera il denaro in alcuni uomini.

E’ molto bella la descrizione di questa coppia, Hal e Jasmine, che vivono tra New York e Martha’s Vineyard, e si vede la loro confusione, il vuoto, la fragilità della coppia, si vede anche la loro solitudine. Tra amici, cene e braccialetti di Tiffany, la relazione tra i due è una delle cose dolorose del film. Quella donna poteva trovare un uomo che la costringesse a una relazione di intimità autentica? No, e quando lo trova, lo perde perché una vicinanza autentica lei non sa cosa sia.

La storia è quella di Jasmine bella donna di 40 anni, che si trova a affrontare il trauma della perdita di tutto ciò che era la sua vita precedente. E arriva nella casa di sua sorella (da New York a San Francisco,) per cercare un qualche rifugio. Il marito le ha comunicato la volontà di andarsene, con un’altra donna. Poi è stato incarcerato, poi lei ha perso ogni cosa, poi lui è morto. Lei non ha più niente.

Si è detto che è una donna fragile, sì una donna fragile, incapace di affrontare la vita, incapace di guardare veramente ciò che il marito le fa firmare, di rendersi conto della inautenticità del marito e delle sue relazioni, di approfondire, di analizzare e di ragionare. Ha il bisogno di sognare una vita fastosa e senza problemi, leggera e invidiabile.

Jasmine non era in grado di affrontare la realtà prima della disgrazia, preferiva voltarsi altrove e sognare, e ora dopo il tracollo non è in grado di guardare l’errore delle sue scelte, di aver sposato questo marito, di non avere mai deciso di uscire dall’ invenzione di una vita perfetta, di non avere abbastanza studiato, di non essersi abbastanza concentrata e protetta.

Viene da pensare che sia Jasmine che sua sorella Ginger, entrambe adottate, abbiano temi dolorosi, molto dolorosi alle spalle. Per la sorella questo dolore, questo essere quella geneticamente inferiore, meno bionda, meno alta, meno bella, ha voluto dire imparare a volare basso, ad accontentarsi di una vita un po’ sfortunata e faticosa e povera, ma le ha imposto la capacità di essere a volte duramente realista e così salvarsi.

Per Jasmine, che era quella “dai geni buoni”, più bella e più bionda, che ha volato più alto, che si è tenuta più lontana dai temi dolorosi, l’incontro con la realtà, con il fallimento di tutte le sue relazioni, di tutti i suoi progetti di vita, non lascia piani alternativi, è semplicemente impossibile. E come reagisce? Il film lo mostra in modo molto chiaro e insieme delicato.

Jasmine reagisce in modo sempre uguale: usa la dipendenza (da alcool, da pillole), a volte diviene dissociata, si allontana dalla situazione che sta vivendo, straparla, parla da sola, si racconta agli altri non vedendoli, non ascoltandoli mai, inventa una vita diversa. Un altro suo modo di reagire è il disprezzo verso la normalità e tutto quello che sa di “normale”, “squallido” e poco elegante.

Ma a volte, quando viene messa alle strette ha anche crisi di rabbia disregolata, ad esempio urlando a sua sorella, al ragazzo di sua sorella, Chili, uscendo dalla macchina del suo nuovo fidanzato, Dwight, quasi in corsa, quando si accorge di essere stata smascherata, oppure facendo atti impulsivi che qui non svelerò, e con questo decretando sì la fine della carriera (e della vita di suo marito) ma anche la sua stessa rovina.

Jasmine era sola quando era sposata con suo marito, era sola con le sue amiche al bar, era sola nel mondo luccicante della sua vita di prima, ed è sola quando è in casa con la sorella e i nipoti, e infine è sola seduta su quella panchina che dialoga con i fantasmi della sua vecchia vita.

Ma un bravo clinico avrebbe potuto salvarla?

 

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Fumare altera la normale funzionalità del ritmo circadiano

 

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Una recente ricerca pubblicata sul numero di gennaio 2014 di “The FASEB Journal” aggiungerebbe una nuova motivazione a tutti i fumatori  per smettere di fumare. Il fumo, infatti, così come responsabile dell’insorgere di patologie tumorali e cardio-vascolari, distruggerebbe la normale funzionalità del ritmo circadiano sia nei polmoni che nel cervello, causando di conseguenza sia disturbi cognitivi che dell’umore, in particolare depressione e ansia.

Rahman e collaboratori hanno utilizzato due gruppi di topi che erano stati collocati in spazi ricchi di fumo di sigaretta per far si che inalassero tabacco per periodi brevi (3 e 10 giorni) e lunghi (6 mesi).

Uno dei due gruppi veniva esposto solo all’aria pulita e l’altro gruppo era esposto al fumo di più sigarette durante il giorno. I ricercatori hanno poi monitorato i loro pattern di attività giornaliera attraverso la misurazione dell’espressione dei geni responsabili dell’espressione del ritmo circadiano, dei ritmi circadiani dell’attività locomotoria, della funzionalità polmonare e della risposta infiammatoria polmonare.

I risultati hanno mostrato che l’esposizione al fumo di sigaretta altererebbe l’espressione genica e ridurrebbe l’attività locomotoria distruggendo i regolatori del ritmo circadiano sia a livello periferico che a livello centrale e incrementando l’infiammazione polmonare, causando enfisema nei topi.

L’esposizione al fumo a breve e lungo termine in particolare diminuirebbe l’espressione di SIRTUIN1 (SIRT1), molecola anti-aging, e di conseguenza questa riduzione altererebbe il livello della proteina BMAL1 (Brain and Muscle Arnt-like proteine), responsabile della regolazione del ritmo circadiano, sia nei polmoni che nei tessuti cerebrali nel topo. Studi precedenti infatti hanno mostrato che la proteina BMAL1 veniva influenzata da SIRT1, e nello specifico che la diminuzione di SIRT1 danneggiava l’espressione di BMAL1, causando quindi un’alterazione del ciclo del sonno nei topi e nell’uomo, nello specifico nei fumatori e nei pazienti affetti da ostruzione bronco-polmonare cronica (BPCO). È noto inoltre dalla letteratura che pazienti affetti da BPCO mostrano anomalie del ritmo circadiano a livello della funzionalità polmonare.

I ricercatori hanno inoltre osservato che topi carenti di SIRT1 esposti al fumo di tabacco mostravano un drammatico declino nella loro attività mentre questo effetto era attenuato nei topi con una sovra espressione di questa proteina o trattati con un attivatore farmacologico appunto di questa proteina anti-aging SIRT1.

Questo studio ha trovato un circuito comune mediante il quale il fumo di sigaretta influenzerebbe sia la funzionalità polmonare che le funzioni neurofisiologiche. In aggiunta, questi risultati suggeriscono il possibile valore terapeutico dell’identificare composti farmacologici mirati a questo circuito per migliorare sia la funzionalità sia polmonare che cerebrale nei fumatori e siamo speranzosi riguardo agli sviluppi che le nostre scoperte potrebbero fornire al trattamento di questi pazienti affetti da patologie legate appunto al tabagismo”  afferma Irfan Rahman, Ph.D., ricercatore coinvolto in questo lavoro svoltosi all’interno del Department of Environmental Medicine at the University of Rochester Medical Center in Rochester, N.Y.

 

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BIBLIOGRAFIA

 

Pink Freud. Psicanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan a Van De Sfroos – Recensione

Pink Freud.

Psicanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan a Van De Sfroos.

Di Angelo Villa (2013) – Mimesis Editore

 

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Pink Freud. Psicoanalisi della canzone d'autore

Pink Freud. Psicanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan a Van De Sfroos. Immaginiamo un esperto psicanalista lacaniano, grande appassionato di musica, che fa accomodare sul proprio lettino Sua Maestà il rock (ma anche il folk…) e che questo particolare paziente si esprima tramite la forma comunicativa che gli è più congeniale: la canzone.

L’analista lavora per associazioni partendo dalle canzoni, ma anche dalle storie psicologiche di chi le ha scritte. L’autore si è documentato in modo approfondito traendo preziosi dati anamnestici dalle biografie delle rockstar e dei cantautori, che notoriamente spesso assomigliano a delle cartelle cliniche, soprattutto se si tratta di songwriter che hanno vissuto gli anni sessanta e settanta. La lunga seduta psicanalitica parte dai trovatori, i precursori dei cantautori, e da Freud che non amava la musica, ma che riconosceva che “Quando il viandante canta nell’oscurità rinnega la propria apprensione”.

Nella lunga carrellata di personaggi troviamo: le oscillazioni del senso di identità di Bob Dylan; le pulsioni edipiche di Jim Morrison esplicitate nel celeberrimo brano The end; il lutto non elaborato per la perdita del padre di Leonard Cohen; parte della produzione solista di John Lennon, influenzata da un complesso rapporto con la figura materna; l’identificazione di Fabrizio De Andrè con i reietti protagonisti delle sue canzoni e alcune interessanti ipotesi psicodinamiche sulle prostitute che compaiono in tanti brani di Faber; un capitolo sulle cantautrici capitanate dalla martire del rock Janis Joplin.

Le analisi sono interessanti, anche se chiaramente molto dense di teoria psicanalitica. Quindi può capitare di leggere che “la dimensione pulsionale si riflette con forza” nella celeberrima “svolta elettrica” di Bob Dylan, o che “la fantasia di Imagine invoca un mondo materno”. Le interpretazioni sono suggestive, anche se tolgono un po’ di magia alle canzoni, che speso nascono come geniali inafferrabili intuizioni.

Credo che il pregio più grande di questo libro, oltre alla perizia e alla profondità con cui vengono osservati tanti frammenti di cultura pop, sia l’importanza e la dignità che l’autore dedica alle canzoni come forme espressive ricche di significati.

L’autore sottolinea come la canzone nella nostra epoca, si sia in parte sostituita a quello che nei secoli scorsi era il romanzo di formazione. Non mi risulta ci siano tanti psicanalisti che si siano avvicinati all’argomento canzone, mentre abbondano studi e dissertazioni su altre forme espressive come la pittura (si pensi a quanto è stato scritto su Munch e quante volte è stato utilizzato il suo L’urlo) o il cinema (i cineforum con i film di Bergman…).

I cantautori, o i “nuovi trovatori” come li definisce Villa, esprimono cantando i disagi, le aspettative e le contraddizioni della propria generazione e possono riempire il vuoto narrativo del mondo postmoderno. Per questo meritano grande attenzione.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Dislessia: Da KO a OK! Il font ad alta leggibilità EasyReading

Di Massimo Rondi

 

Dislessia- Da KO a OK! - Disturbi specifici dell'apprendimento (DSA). -Immagine:© Fiedels - Fotolia.com Sono dislessico e collaboratore editoriale. Binomio impossibile? Assolutamente no. Le case editrici si sono presto accorte che un collaboratore dislessico è un’opportunità.  Perché quello che va bene per un dislessico va benissimo  per tutti i lettori.

Avete mai pensato che allo specchio le lettere KO diventano esattamente il contrario?

OK

Mi viene in mente che Leonardo da Vinci (mancino e dislessico) era capace di scrivere al contrario, da destra verso sinistra e dall’ultima pagina verso quella iniziale (“Storie di normale dislessia” di Rossella Grenci e Daniele Zanoni).

La scrittura è una convenzione recente per il nostro cervello. Non è intuitiva neppure la “direzione”, da sinistra a destra o da destra a sinistra.

E il modo di leggere “dislessico” potrebbe essere giusto in un altro sistema di scrittura.

Secondo le stime più recenti la dislessia oggi interessa almeno il 10% della popolazione mondiale, ovvero circa 700 milioni di persone. E la dislessia può apparire sotto molte e diverse forme, rendendo difficile la diagnosi quando il problema si manifesta.

Sono dislessico e collaboratore editoriale. Binomio impossibile? Assolutamente no. Le case editrici si sono presto accorte che un collaboratore dislessico è un’opportunità.  Perché quello che va bene per un dislessico va benissimo  per tutti i lettori.

E la mia esperienza di lettore  per professione e per piacere si è sempre scontrata con la grafica della pagina scritta.

Per fortuna, rispetto al passato, tanto si sta muovendo nell’universo dei caratteri agevolanti per le difficoltà di lettura. Altre ricerche (come quella del Centro Risorse – Clinica Formazione e Intervento in Psicologia: Gradimento e prestazione nella lettura in Times New Roman e in EasyReading® di alunni dislessici e normolettori della classe quarta primaria)  perseguono, con risultato affermativo, l’obiettivo di verificare se la preferenza per un carattere sia giustificata da un effettivo aumento in termini di velocità di lettura e correttezza, nei normolettori e nei dislessici.

Come semplice lettore con DSA,  mi piacerebbe iniziare uno scambio di idee tra dislessici adulti sui font in uso: che poi sempre con questi dobbiamo comunque fare i conti, nella realtà, sia cartacea sia elettronica.

Ci sono soluzioni che sembrano miracolose: usiamo il tablet e sconfiggeremo i problemi…

Molto interessanti a questo riguardo le riflessioni e le conclusioni della professoressa Roberta Penge, raccolte da Tina Simonello su Repubblica (19/11). Il titolo dell’articolo così sintetizza: “Dislessia. Se un tablet velocizza la lettura”, ma in realtà il testo ci fa capire una volta di più che non basta l’idea astratta di tablet, perché la scrittura non è un elemento impercettibile, tutt’altro.

Le ricerche di questi ultimi anni hanno evidenziato alcuni dati comuni.

Scrive la professoressa Penge: «Un supporto che permette di modificare l’aspetto del testo funziona molto bene per i dislessici con difficoltà più di tipo visuospaziale, ma rappresenta sicuramente un aiuto valido anche per i cosiddetti dislessici linguistici (la cui difficoltà ha a che vedere più con il linguaggio, con la decodificazione dei segni in suoni)».

Come Edo di Roberta Moriondo (Edo non sa leggere. E’ dislessico. Proprio come Einstein) che scambia Voce e Foce.

L’effetto affollamento è sempre in agguato per noi dislessici: quella foresta, peggio: quel muro senza appigli che può diventare la pagina scritta.

Lo studio di Marco Zorzi, docente di Psicologia e intelligenza artificiale all’università di Padova, in collaborazione con l’istituto Burlo Garofalo di Trieste e l’università di Aix en Provence-Marsiglia, pubblicato sulla rivista Pnas  (vedi: Il Secolo XIX – 19-06-12), ha puntato l’obiettivo sull’affollamento percettivo: aumentando la spaziatura tra lettere di un testo si ottengono migliori performance di lettura. (Leggi: Dislessia e Perceptual Crowding: un App per facilitare la lettura)

Anche altri elementi possono confondere chi ha difficoltà di lettura: «Il tipo di carattere per esempio», il disegno del carattere in sé.
In effetti per me (dislessico compensato) il Times New Roman ha un po’ troppe grazie ma l’Arial è troppo “rotondo”, indifferenziato, soprattutto in alcuni caratteri (dbpq  oppure “u” e “n” rovesciato)..

L’OpenDyslexic del designer Abelardo Gonzales utilizza l’effetto zavorra per ancorare le lettere alla riga e impedire che girino, “capottino” etc. I non dislessici non lo amano, solitamente, e io stesso non mi sento sciolto nella lettura. Bene ha fatto Biancoenero®  “a non accentuare la differenza di questa font con altre in uso nei testi per ragazzi, per non disorientare il lettore”.

Dal video Dislessia & Design un non dislessico può avere un’idea di cosa sia la dislessia. Il Design For All è quello del font ad alta leggibilità EasyReading:

carattere ibrido che si propone di evitare l’effetto affollamento con ampi spazi calibrati (automatici) tra parole, punteggiatura, lettere, righe.

Lo scambio percettivo, possibile con Arial, è evitato o almeno reso difficile dalla “forte caratterizzazione”e dalle grazie dedicate (non troppe come in Times New Roman, solo quelle necessarie).  Anche EasyReading se è “eccellente per i dislessici”, è pure  “ottimo per tutti”.

LEGGI:

DISLESSIA – DISTURBI SPECIFICI DELL’APPRENDIMENTO -DSA

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

Contenuti virali sulla rete? Devono emozionare – Comunicazione

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Cosa rende un articolo, un post o un video virale in rete? Il segreto della viralità è nelle emozioni che il contenuto telematico è in grado di evocare in chi lo guarda: un mix di emozioni positive e negative sembra essere la formula perfetta, in grado di superare in potere virale sia i contenuti neutri che quelli che suscitano emozioni prevalentemente negative o positive.

Nello specifico è il livello di arousal a determinare quanti click riceverà un contenuto in rete,  e più alto è l’arousal più virale sarà la diffusione del post. Rabbia e senso dell’umorismo, ad esempio, sono emozioni ad alto arousal, contentezza e tristezza a basso arousal.

Un team di ricercatori della National Science Foundation ha mostrato a 256 individui un video, parte di una collezione di video in grado di abbracciare tutto lo spettro emotivo. Alcuni di loro hanno visto una selezione di clip carini o divertenti che erano stati virali su YouTube, altri hanno visto un video di successo che evocava rabbia o disgusto. Altri ancora hanno visto un video neutro sul basket.

Dopo la visione, ai partecipanti al test è stato chiesto se avrebbero voluto condividere i video. Coloro che avevano visto il video divertente e quelli che avevano visto il video che evocava rabbia o disgusto erano significativamente più propensi alla condivisione di quelli che avevano visto il video neutro sul basket. Un test di follow-up con 163 partecipanti ha trovato lo stesso modello di potenziale virale: sono le emozioni negative e quelle positive le più virali.

Il contagio emotivo, insomma, funziona anche indirettamente, con la condivisione di articoli o video in rete.

Alcuni anni fa, due studenti del Wharton Behavioral Laboratory  hanno analizzato circa 7.000 articoli apparsi sul sito del New York Times per vedere quali avevano ricevuto più condivisioni. Dopo il controllo per fattori, come la rilevanza della pagina e la fama dell’autore, i ricercatori hanno trovato che i pezzi “emotivi” erano di gran lunga più virali di quelli non-emozionali .

All’interno degli articoli virali, i ricercatori hanno studiato le emozioni evocate scoprendo un’ alta frequenza di quelle ad alto arousal (timore, rabbia e ansia, tutte emozioni che che ci spingono ad agire), rispetto a quelle a basso arousal (come ad esempio la tristezza, legate a maggiore passività).

Alla luce di questi risultati Berger, autore nel 2013 del libro “Contagious: Why Things Catch On”, ha condotto uno studio e ha chiesto ai partecipanti di sedersi prima di leggere un articolo neutro, o di fare jogging sul posto per un minuto prima di leggere lo stesso pezzo. Poi ha dato ai partecipanti la possibilità di condividere il pezzo letto con qualcuno: tre quarti dei joggers lo hanno condiviso, contro solo un terzo di quelli che erano rimasti seduti prima della lettura. Questo, secondo Berger, è un segno ulteriore dell’importanza che il livello di arousal riveste nella trasmissione sociale.

LEGGI:

LINGUAGGIO & COMUNICAZIONEPSICOLOGIA DEI NEW MEDIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Psicologia Ambientale: gli effetti psicologici dei luoghi che abitiamo

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Uno studio di Psicologia Ambientale della Newcastle University ha indagato gli effetti della permanenza (anche minima, 45 minuti) di 50 volontari in un quartiere ad alto tasso di criminalità.
E’ bastato un breve tempo per sviluppare un grado di paura e paranoia paragonabile a quello dei residenti.

“We weren’t surprised that the residents of our high-crime neighbourhood were relatively low in trust and high in paranoia”, says lead researcher Professor Daniel Nettle of the Institute of Neuroscience at Newcastle University. “That makes sense. What did surprise us though was that a very short visit to the neighbourhood appeared to have much the same effects on trust and paranoia as long-term residence there.”

The results suggest that people respond in real time to the sights and sounds of a neighbourhood – for example, broken windows, graffiti and litter – and that they use these cues to update their attitudes concerning how other people will behave.

 

The psychological effects of the environment – Press Office – Newcastle UniversityConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Spending as little as 45 minutes in a high-crime, deprived neighbourhood can have measurable effects on people’s trust in others and their feelings of paranoia. (…)

 

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LINK all’articolo scientifico


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La mente orientale. Psicoanalisi e Cina, di Christopher Bollas – Recensione

Erica Salomone.

 

Recensione

La mente orientale. Psicoanalisi e Cina

Christopher Bollas (2013)

Cortina Editore

 

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La mente orientale - RecensioneL’ultimo libro di Christopher Bollas, il cui titolo originale è “China on the Mind”, si presenta come un’ampia  ricognizione di natura letteraria e filosofica sulla forma mentis orientale, ricca anche di digressioni di carattere autobiografico; è in corso la sua traduzione in cinese presso l’Università di Pechino.

Bollas, Americano di nascita e inglese d’adozione, con questo testo si sporge verso l’Oriente per individuare passaggi culturali e riflettere sulla pratica clinica, come prima di lui Carl Gustav Jung, Wilfred Bion, Nina Coltart, Masud Khan e molti altri. La prima parte del libro, Preconcezioni, prende in considerazione i tre testi classici della cultura orientale: Il libro delle odi, Il libro dei riti, Il libro dei mutamenti  (“I Ching”: di quest’ultimo se ne occupò ampiamente Jung). La seconda parte, Realizzazioni, prende in considerazione gli autori che interpretano e rappresentano i testi madre nei propri scritti, poi diffusi nella cultura cinese; gli scritti di Lao Tzu, Confucio, Zhuangzi ed altri sono collegati da Bollas al pensiero psicoanalitico contemporaneo, in particolare a Winnicott e a Khan.

La terza parte, Concettualizzazioni, prende in esame la psicologia sociale della mente individuale e di gruppo, indagando in  particolare i possibili nessi tra il pensiero psicoanalitico di Bion sui gruppi ed esamina il fiorente interesse per la psicoanalisi in Cina.

Appartenente alla tradizione psicoanalitica britannica degli “Indipendenti”, ovvero quel gruppo di psicoanalisti che non intendevano schierarsi né con la tradizione Viennese di Anna Freud, né dalla parte di Melanie Klein, Bollas ha introdotto nei suoi primi lavori1, 2  il concetto di “conosciuto non pensato”, ovvero ciò che ci è in qualche modo noto, ma che non possiamo pensare. Conosciute ma non pensate sono le prime esperienze preverbali del bambino, così come l’interazione tra le comunicazioni transferali del paziente e il controtransfert dell’analista.

Ne La mente orientale, il “conosciuto non pensato”  del metodo psicoanalitico viene messo in relazione da Bollas con l’immediatezza dell’essere e del relazionarsi orientali, che non si affidano al linguaggio per spiegare, ma al piu’ per evocare con le immagini della poesia.. Da qui scaturisce la riflessione-avvertimento di Bollas: secondo l’autore la psicoanalisi è, per definizione, in grado di operare un’integrazione tra la struttura della mente occidentale e quella orientale; tuttavia quest’ultima componente, materna e associativa, è stata nel tempo progressivamente rimossa a favore di un causalistico, paterno pensiero occidentale.

Scrive Bollas nell’introduzione: “quando si fa riferimento alla differenza tra modo di pensare orientale e occidentale, non si parla di menti diverse, ma di diverse parti della mente. Storicamente, il pensiero orientale propende per forme di pensiero basate sull’ordine materno, mentre il pensiero occidentale riflette forme di pensiero provenienti dall’ordine paterno” (p. 13).

Oriente come pensiero presentazionale, preverbale, collettivo, correlativo e sincronico; Occidente come pensiero rappresentazionale, verbale, individuale, causale e diacronico. Tale schema non viene introdotto da Bollas come assoluto, ma come chiave di lettura per comprendere come dalla scissione di una mente originaria unica si siano generate due opposte visioni del mondo.

La psicoanalisi, quale filosofia introspettiva occidentale fondata su entrambi gli ordini di pensiero, comprende al suo interno la stessa dinamica di opposti. Se infatti nel pensiero psicanalitico classico è prevalente un’impostazione di pensiero di tipo patriarcale, in quanto il ruolo del padre nella formazione della struttura psichica sembra in Freud marginalizzare la relazione madre-bambino, quest’ultimo aspetto è comunque rappresentato secondo Bollas nell’invenzione stessa del setting, cioè quel processo e nucleo della relazione che sono il cuore della psicanalisi. Gli aspetti legati al “codice materno” che privilegia forme di comunicazione non verbale, la capacità di stare da soli, l’essere piuttosto che il fare sono ancora più evidenti nella tecnica clinica sviluppata successivamente da Donald Winnicott e Masud  Khan in Inghilterra.

La psicoanalisi contemporanea può e deve, secondo Bollas, operare una nuova integrazione interna tra gli aspetti occidentali e quelli orientali, riconciliando Freud con Winnicott. Nel libro Bollas associa la pratica psicoanalitica alle immagini della tradizione poetica orientale: la poesia, infatti, nella quale la forma prevale sul contenuto, fa da sfondo alla sua tesi secondo cui “il processo analitico ha una sua poetica della forma che si collega al modo di essere orientale” (p. 27). Bollas trova altri parallelismi tornando all’idea di “idioma”, centrale nel suo pensiero.  L’ “idioma umano”, ovvero  di “quel nucleo unico di ciascuno […] che, in circostanze favorevoli, può svilupparsi e articolarsi” (2, p.226) si costituisce gradualmente a partire dalle prime esperienze del bambino. Il nostro idioma, e l’idioma di chi incontriamo, non sono una forma statica, ma un processo, una serie di trasformazioni che avvengono nel corso della vita. È anche però una struttura integrata dell’essere, una fonte di energia psichica (come il Vero Sé di Winnicott) che protegge l’individuo dall’ambiente. Ripercorrendo i testi classici della cultura cinese, Bollas ritrova questo concetto nella “semplicità del senza nome” e nell’ “insegnamento senza parole” indicati da Lao Tzu nel Tao come ciò che ci può aiutare ad affrontare il nostro percorso individuale (Tao significa “la Via”).

Nell’ultima parte, Bollas si sofferma sulle prescrizioni rituali e convenzionali dell’Oriente: “Possiamo vedere nelle culture di Cina, Corea e Giappone migliaia di anni di sforzi per integrare l’interiorità del sé individuale con la trasparenza del sé sociale” (p.163) e cita il progetto intellettuale di Mao Zedong di creare una mente collettiva integrando Marx e Lenin con Confucio come esempio, “pur grossolano e criticabile”, di mettere in relazione Oriente e Occidente.

Il libro sembra pertanto aprire prospettive sociali e politiche che vanno al di là dell’ambito di interesse strettamente psicologico e psicanalitico.  Tuttavia, nell’epoca della selvaggia globalizzazione dei mercati a scapito dei diritti individuali e della distruzione ambientale in atto a livello planetario, l’auspicio di Bollas di avvicinarsi ad Est si riferisce ad un Oriente antico e ideale e non alle sue manifestazioni storiche concrete (come forse fa trapelare il sottotitolo, qui si parla della Cina che Bollas “ha in mente” e non dell’Oriente di oggi, come ha sottolineato acutamente Vittorio Lingiardi su Il Sole 24 Ore3).

Da un punto di vista clinico invece, Bollas si augura per la psicoanalisi che possa ritrovare gli aspetti materni rimossi e coniugare “l’inclinazione orientale per l’idioma-potenziale della forma con l’interesse occidentale per la parola detta” (p. 164).

Un approccio capace di tale integrazione sarà anche in grado, dice Bollas, di accompagnare l’interesse crescente della Cina per la psicoanalisi.

 

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LEGGI ANCHE:

PSICOANALISI E TERAPIE PSICODINAMICHE – TRANSFERT – SIGMUND FREUD

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

AUTORE: 

Erica Salomone Ph.D. Psychologist, Research Officer at Centre for Research in Autism and Education, Institute of Education, University of London

Nonostante tutto… W Peppa Pig! – Bambini & Psicologia

 

 

W Peppa Pig! Nonostante tutto… - Bambini & Psicologia - Immagine: © 2004-2014 Astley Baker Davies
Immagine dalla serie televisiva di animazione Peppa Pig. © Astley Baker Davies

Sì è vero, Peppa è a volte irriverente, prepotente, femminista e occasionalmente crudele ma quale cinquenne non lo è?! Credo che la simpatia che i bambini nutrono nei confronti di Peppa derivi proprio dalla facilità con cui ci si identificano.

Tutti i bambini amano o hanno amato, prima di averne fatto indigestione, Peppa Pig.

Merito della programmazione no stop e del merchandising sconfinato?

Forse… Ma non solo, a mio parere.

Peppa Pig, per chi abbia fatto ritorno sul pianeta Terra solo ieri e non ne avesse mai sentito parlare, è un cartone animato di enorme successo dedicato ai bambini in età prescolare ma apprezzato anche dai più grandicelli.

Narra le vicende di Peppa, graziosa maialina di 5 anni, della sua famiglia e dei suoi amici multietnici, appartenenti cioè a diverse specie animali.

Il mio rapporto, da madre, con Peppa è caratterizzato da una forte ambivalenza: la adoro al calare delle tenebre, quando i miei adorabili figli si trasformano in creature affamate e lamentose e la maialina rosa è l’unica cosa, priva di zuccheri, che li tiene lontani dalla cucina mentre cerco di rimediare in tempi record una cena degna di questo nome. La detesto in ugual misura al sorgere del sole quando il mio apparato uditivo, ancora appagato dalle uniche ore di silenzio a lui concesse, subisce la violenza dei grugniti della famiglia Pig, lo strimpellare di Madame Gazzella o le canzoncine del grammofono di Nonno e Nonna Pig.

Quel che penso, da psicologa, è che si tratti di un buon prodotto da proporre ai bambini, soprattutto se riconosciamo alla televisione lo scopo di intrattenere (con ragionevole moderazione) i nostri figli più che di educarli.

Sì è vero, Peppa è a volte irriverente, prepotente, femminista e occasionalmente crudele ma quale cinquenne non lo è?!

Credo che la simpatia che i bambini nutrono nei confronti di Peppa derivi proprio dalla facilità con cui ci si identificano. La vita della famiglia Pig è su per giù la vita di una famiglia qualsiasi: i bambini vanno all’asilo, giocano al parco con gli amici e vanno a trovare i nonni. Niente di eccezionale direte voi ma per i bambini la quotidianità è ancora qualcosa di straordinario e mi piace che questo cartone rispetti questa visione attraverso la curiosità dimostrata da Peppa nei confronti di qualsiasi cosa la circondi.

Un’altra cosa che apprezzo è che questo mondo rosa si macchi ogni tanto di litigi, incomprensioni, piccole trasgressioni e disobbedienza perchè anche questo fa parte della vita di tutti i giorni. Mamma e Papà Pig danno delle regole ai figli ma permettono loro di verificare gli esiti della loro inosservanza, Peppa litiga con la compagna Suzy Pecora perchè così fanno le amiche del cuore e Papà Pig demolisce mezza casa nel tentativo di appendere un quadro a dimostrazione del fatto che anche i genitori sbagliano. Il lieto fine è comunque sempre garantito dall’epilogo della puntata che vuole tutti i protagonisti scomposti in una sonora e contagiosa risata, dando la possibilità ai giovani telespettatori di osservare le vicende più drammatiche (mi riferisco ad un pancake mal riuscito al massimo) con la rassicurante consapevolezza che tutto si risolverà nel migliore dei modi.

C’è un’altra cosa tanto rassicurante per i piccoli quanto snervante per noi adulti: la ripetitività.

La sigla è semplice e ridondante e dal momento che il più delle volte ad una puntata ne seguono diverse altre, capita di riascoltarla spesso. La programmazione è a dir poco invasiva, permettendo ai fan di gustare l’episodio con rassicurante prevedibilità. La pacata voce narrante supporta i dialoghi ribadendone i contenuti e anticipando i possibili e tipici “perchè” dei bambini di questa età.

In linea con lo sviluppo cognitivo dell’audience sono anche la durata delle puntate (5 minuti), la ridotta complessità dei dialoghi e la struttura lineare della trama, costruita attorno ad un unico tema centrale. Anche le canzoni contenute nel cartone sono di breve durata, i testi semplici e la melodia assolutamente orecchiabile, forse anche troppo visto che mi sono ritrovata a cantarle sotto la doccia.

I disegni sono stilizzati intelligentemente. Predominano forme semplici ed essenziali come il cerchio, gli occhi sono posizionati entrambi sul laterale del viso modello “sogliola” , le case sfidano la gravità sul cucuzzolo di una collina e tutto è vivacemente colorato. Tutto ciò non può non ricordare proprio il tipico disegno infantile e così la maialina non conquista solo i nostri televisori ma invade anche i fogli bianchi dei nostri bambini.

Insomma un prodotto davvero indicato, nonostante anche su peppa Pig siano piovute critiche e teorie complottistiche frutto forse di un atteggiamento genitoriale che tende a giudicare con eccessiva serietà e severità ogni prodotto destinato all’infanzia.

Sarà mica colpa, anche in questo caso, della smania di controllo nei confronti dei nostri figli?!

LEGGI:

BAMBINI TELEVISIONE – TV SERIES

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Facebook: le regole di buona condotta – Psicologia dei New media

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Così come ci sono regole non scritte di lunga data che disciplinano il modo in cui ci comportiamo con gli altri, oggi esistono aspettative su come ci si dovrebbe comportare su Facebook.

Con oltre un miliardo di utenti nel mondo, Facebook è diventato una parte importante della vita sociale . Così come ci sono regole non scritte di lunga data che disciplinano il modo in cui ci comportiamo con gli altri, oggi esistono aspettative su come ci si dovrebbe comportare su Facebook.I ricercatori della Trinity University hanno condotto uno dei primi studi volto a scoprire in cosa consistono queste regole.

Erin Bryant e Jennifer Marmo hanno condotto sei focus group con 44 studenti per gruppo (età 19-24), nei quali hanno chiesto ai partecipanti di fare un brainstorming sulle norme sociali che regolano le interazioni su Facebook. Dai diversi focus group sono emerse un totale di 36 regole.

Successivamente, queste regole sono state mostrate a 593 soggetti di età compresa tra 18-52 anni e gli è stato chiesto di dire quanto rispettavano ciascuna di queste regole nell’interazione abituale con un amico scelto all’interno della cerchia FB.

13 delle regole emerse dai focus group hanno ricevuto l’approvazione da parte dei partecipanti al sondaggio, eccole:

– mi aspetto una risposta da una persona se posto qualcosa sul suo profilo

– non dovrei dire niente di irrispettoso su un amico di FB

– dovrei considerare che ciò che posto sulla pagina di un amico può influenzarlo negativamente 

– se posto qualcosa sulla pagina di un amico e questo rimuove il post non dovrei  pubblicarlo nuovamente

– dovrei comunicare con questa persona anche al di fuori di Facebook

– dovrei presentarmi positivamente ma onestamente agli altri

– la comunicazione via FB con una persona non dovrebbe interferire con ciò che faccio sul lavoro

– non dovrei mettere su FB informazioni che qualcuno in futuro potrebbe usare contro di me 

– dovrei usare il buon senso nell’interagire con gli altri su FB

– dovrei considerare che ciò che posto può influire negativamente sulla carriera di un amico di FB

– dovrei dire a un amico di FB buon compleanno in un modo diverso dal solo uso di FB 

– dovrei proteggere l’immagine di un amico FB quando posto qualcosa sul suo profilo

non dovrei leggere troppo in Facebook le motivazioni di una persona

Una quattordicesima regola che ha quasi raggiunto l’approvazione complessiva dai partecipanti al sondaggio era: devo essere consapevole che ciò che qualcuno posta su di me può avere conseguenze nel mondo reale.

Guardando di nuovo all’intero elenco delle 36 regole, i ricercatori hanno trovato che queste sono raggruppabili in cinque distinte categorie: 

  • i canali di comunicazione (ad esempio, dovrei usare Facebook per chiacchierare con un amico)
  • il controllo e l’inganno (ad esempio, bloccare chi compromette la mia immagine)
  • manutenzione relazionale (ad esempio, dovrei usare Facebook per comunicare buon compleanno a un amico)
  • conseguenze negative per il sè (ad esempio, non postare informazioni che qualcuno potrebbe usare contro di me)
  • conseguenze negative per gli altri (per esempio, dovrei proteggere l’immagine on-line degli amici)

Un altro risultato è stato che le categorie di regole che erano considerate più importanti variavano a seconda del tipo di amico a cui ci si riferiva. Regole di comunicazione e quelle che regolano la protezione degli amici sono considerate tanto più importanti quanto più è importante l’amicizia. Le regole di manutenzione della relazione, invece, sono più importanti quando ci si relaziona con amici e conoscenti occasionali, forse perchè con gli amici più cari c’è una relazione anche al di fuori del canale FB.

Lo studio ha evidenti limiti: il fatto di riferirsi a un campione di studenti statunitensi e anche il fatto che i comportamenti reali su FB non sono stati osservati. Tuttavia questo studio esplorativo può servire come punto di partenza per la ricerca futura per quanto riguarda il tema delle regole di interazione sociale nell’era digitale; secondo i ricercatori, per esempio, sarebbe interessante studiare cosa accade quando queste regole vengono infrante.  

LEGGI:

LINGUAGGIO & COMUNICAZIONEPSICOLOGIA DEI NEW MEDIASOCIAL NETWORK

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Un questionario sulla Psicoterapia – Partecipa alla Ricerca!

 

Aaron T. Beck e Albert Ellis - APA 2000
Aaron T. Beck e Albert Ellis, padri fondatori della Psicoterapia Cognitiva

Cari lettori e care lettrici,

come probabilmente già sapete, la psicoterapia cognitiva ha avuto due padri: Albert Ellis (1913-2007) e Aaron T. Beck (1921). I loro modelli teorici e la loro pratica terapeutica erano simili e largamente sovrapponibili. Ma c’erano anche alcune differenze nella loro visione della sofferenza umana. Molto è stato scritto e pensato sulle loro differenze e somiglianze. È però vero non ci sono ancora sufficienti dati scientifici che veramente restituiscano un quadro empirico delle differenze tra le loro visioni.

Per questo vi chiediamo di partecipare a una ricerca pensata da alcuni nostri colleghi. Si tratta di compilare alcuni questionari cognitivi. Accanto al possibile disturbo (i questionari non sono pochi) avrete anche la possibilità di entrare personalmente in contatto con vari e interessanti concetti di terapia cognitiva semplicemente leggendo le domande. Non si tratta di domande impegnative e nemmeno particolarmente invadenti.

Potete rispondere conservando l’anonimato, e inoltre le informazioni saranno protette dal segreto professionale. La vostra partecipazione sarebbe di grande aiuto per la ricerca scientifica.

 

PARTECIPA ALLA RICERCA!

SE HAI PROBLEMI A VISUALIZZARE IL QUESTIONARIO, PUOI PARTECIPARE CLICCANDO QUESTO LINK

 

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ARTICOLI CHE CITANO L’AUTORE ALBERT ELLIS

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ARTICOLI SULLA PSICOTERAPIA COGNITIVA

Magia & Superstizioni – Tribolazioni Nr. 22 – Rubrica di Psicologia

Chi ha spostato il mio formaggio? Cambiare se stessi in un mondo che cambia. Recensione

Spencer Johnson

Chi ha spostato il mio formaggio?

Cambiare se stessi in un mondo che cambia

(1999) Sperling e Kupfer

 RECENSIONI

Chi ha spostato il mio formaggio? Cambiare se stessi in un mondo che cambia  Spencer Johnson   (1999)  Sperling e Kupfer - locandina

Chi ha spostato il mio formaggio? – Si tratta di una lettura che  invita, in modo leggero e spiritoso, a relazionarsi alla vita con stile innovativo, evitando di farsi eccessivamente condizionare  dalle abitudini e dalla quotidianità.  

Cosa c’entra il formaggio con il cambiamento? La risposta è in questo libro-favola che racconta di due topolini, Nasofino e Trottolino, e di due gnomi, Tentenna e Ridolino, che vivono in un imprecisato Labirinto.

Per nutrirsi ed essere felici i quattro protagonisti hanno bisogno di Formaggio, per procurarsi il quale vagano nel Labirinto fino a quando, un giorno, riescono per puro caso a trovare un enorme deposito, in cui ciascuno di loro trova il tipo di Formaggio che lo soddisfa di più.

Da quel momento la vita, grazie all’abbondanza di Formaggio, scorre tranquilla, anche se lo stile con cui i topi e gli gnomi la affrontano è diverso: i topolini vanno ogni giorno al deposito del Formaggio, ma sono sempre all’erta; notano i cambiamenti e tengono sempre le loro scarpe da ginnastica attaccate al collo per poter fare fronte, se ne presentasse la necessità, all’esigenza di dover ricominciare a correre per cercare.

Gli gnomi, invece, cominciano a considerare il deposito di Formaggio un posto dove sistemarsi e vivere senza problemi per il resto della loro esistenza. Arrivano con calma, sistemano le loro scarpe, cominciano a decorare il magazzino con scritte che lo rendano familiare e si considerano al riparo dagli imprevisti, ora che l’apparentemente inesauribile  riserva di Formaggio  è a loro disposizione.

Ma un giorno, inevitabilmente,  le cose cambiano: il Formaggio comincia a diminuire finché si esaurisce del tutto. I topolini, che avevano già intuito i segni di questo cambiamento, non vengono colti di sorpresa; senza fare drammi si adattano alla nuova situazione e si rituffano nel Labirinto, per andare alla ricerca di un nuovo deposito di Formaggio.  

Per gli gnomi le cose vanno diversamente; da bravi abitudinari essi continuano a tornare ogni mattino al magazzino aspettandosi che, una volta entrati, tutto sia tornato come prima. Sperano che il Formaggio ritorni magicamente; invece di cambiare il loro comportamento per adattarsi alla nuova situazione, rimangono passivi, nella speranza che venga restituito loro ciò che avevano.

Il tanto amato “Formaggio” simbolizza ogni sorta di desiderio umano: il Labirinto rappresenta la vita, con il suo cammino mai lineare,  e  il Formaggio costituisce ciò che è importante per vivere bene.

Il libro non contiene  concetti complessi  e il suo valore risiede proprio in questo: propone suggerimenti apparentemente scontati che, tuttavia, nei momenti in cui ci  si trova in fasi di cambiamento (in cui qualcuno o qualcosa ha spostato il Formaggio!) spesso non vengono presi in considerazione.

Ci sono persone istintive che, come il topo Nasofino, sentono arrivare i cambiamenti e sono pronte a reagire prima che gli eventi li costringano a farlo; ma ci sono anche molti che, come lo gnomo Tentenna, non guardano in faccia la realtà e, schiavi delle abitudini, rimangono prigionieri di situazioni compromesse, ostinandosi a sperare che le cose tornino magicamente come prima.

Poi ci sono persone timorose come Ridolino (non hanno l’intuito di Nasofino, né l’energia di Trottolino) che inizialmente esitano, limitati dalla paura di guardare fuori dal Labirinto, ma poi riescono a acquistare coraggio, riscoprendosi nuovamente capaci di partire alla ricerca del “Nuovo Formaggio”.

Si tratta di una lettura che  invita, in modo leggero e spiritoso, a relazionarsi alla vita con stile innovativo, evitando di farsi eccessivamente condizionare  dalle abitudini e dalla quotidianità.  

Sarebbe interessante, mentre si legge, domandarsi se ci si identifica di più con Nasofino o  Ridolino, Trottolino o Tentenna, per verificare se ciò che abbiamo ora corrisponde veramente al Formaggio che vogliamo.

Alcune regole che  Ridolino scrive su muri del Labirinto sono:

  • se noterai per tempo i piccoli cambiamenti ti sarà più facile adattarti a quelli grandi, quando arriveranno;
  • seguire una direzione nuova aiuta a trovare il Nuovo Formaggio;
  • quando superi le tue paure ti senti libero;
  • se immagini di gustare il Nuovo Formaggio già prima di trovarlo, scoprirai la via giusta per conquistarlo;
  • quanto più rapidamente abbandonerai il Vecchio Formaggio tanto prima gusterai quello nuovo;
  • è meno pericoloso affrontare il Labirinto che rimanere fermi senza  Formaggio.

Spesso risulta difficile accettare il fatto che le cose intorno a noi cambino; tuttavia, se riuscissimo ad accettare il cambiamento con serenità,  sarebbe più semplice affrontare tutto quello che la vita riserva (nel bene e nel male).  La convinzione che il cambiamento può condurre soltanto a delle cose negative (perché non conosciute) impedisce di riconoscere che esso può portare a dei miglioramenti e costituire occasione di crescita.

LEGGI:

RECENSIONILETTERATURAPSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Cosa farei se vincessi alla lotteria? Sognare ad occhi aperti – Mind Wandering

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche“Cosa farei se vincessi alla lotteria?”. Probabilmente tutti almeno una volta nella vita ci siamo posti questa domanda e adesso la ricerca ci dice che forse dovremo sognare ad occhi aperti più spesso.

Per esempio, in un recente articolo pubblicato su Psychological Science, viene riportato che dopo soli 12 minuti durante i quali il compito richiesto era semplicemnte di “lasciare vagare la mente“, i soggetti erano in grado di elaborare un gran numero di idee su diversi tipi di uso alternativo di oggetti quotidiani.

Come riporta Kalina Christoff “la gente pensa che quando la nostra mente sta vagando, sia di fatto vuota. In realtà, in questi momenti, la nostra mente si trova in un grande stato di attivazione, spesso più forte di quando sta compiendo ragionamente attvi davanti a un compito complesso”.

Per mantenere attiva questa capacità di sognare ad occhi aperti (e quindi aumentare anche la capacità di produrre risposte creative) è fondamentale focalizzarsi sulla parola “farei” (cosa farei se vincessi alla lotteria/avessi a disposizione un grosso budget da spendere a piacimento ecc?).

In altre parole è importante riconoscere la fantasia come tale, in modo da non chiudere automaticamente la nostra mente nei confini imposti dalla condizione reale.

Solo immaginando di non avere confini divienta possibile superarli.

 

LEGGI ANCHE:

MIND WANDERING – SOGNI

SOGNARE: E’ POSSIBILE ANCHE A MENTE VUOTA

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Fox, K.C.R., Andrews-Hanna, J.R., & Christoff, K. (in preparation). Mind wandering: More than just default mode network activity? Trends in Cognitive Sciences.

Leadership negli Sport di Squadra #14: La valutazione della leadership

Leadership negli Sport di Squadra #14:

La valutazione della leadership

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

Leadership negli Sport di Squadra #14: La valutazione della leadership. -Immagine:© Ivelin Radkov - Fotolia.com I risultati delle ricerche effettuate utilizzando la Leadership Scale for Sports hanno permesso di dimostrare l’esistenza di diverse relazioni tra variabili che possono influenzare le preferenze degli atleti.

La psicologia dello sport ha elaborato, in questi ultimi anni, alcuni strumenti validi per l’analisi del comportamento del leader. In realtà, la maggior parte di questi, si sono concentrati sulla figura del leader istituzionale piuttosto che sulla leadership intima, limitandosi, quindi, all’analisi dell’efficacia del comportamento dell’allenatore rispetto alle prestazioni della squadra e alla soddisfazione dei membri del gruppo.

Questi strumenti non solo hanno permesso di analizzare il sistema delle dinamiche sociali che connette l’allenatore ai componenti della squadra e ai suoi risultati ma sono risultati essere una base indispensabile per la costruzione, come nel caso del lavoro di Smith e Smoll, di programmi di formazione e di miglioramento delle proprie capacità di leader. Questi percorsi di formazione hanno permesso all’allenatore di squadre professionistiche di apprendere quelle abilità umane necessarie, oltre alla competenza tecnica, per ottenere il massimo sforzo dai propri giocatori, e agli allenatori di squadre giovanili di comprendere l’aspetto educativo del proprio ruolo e imparare a gestirlo positivamente.

Lo strumenti che verrà preso in considerazione in questo articolo è la Leadership Scale for Sports di Chelladurai e Saleh [1980].

Leadership Scale for Sports (LSS)

Questo questionario costruito da Saleh e Chelladurai [1980] ha come base teorica il modello multidimensionale della leadership elaborato da quest’ultimo, secondo cui il ruolo di leader dipenderebbe da caratteristiche individuali, dalle richieste della situazione e da quelle dei compagni di squadra. Da questo punto di vista l’apparato teorico del modello in questione rappresenta una sintesi di tutto ciò che lo ha preceduto.

Il suo punto forte è quello, quindi, di non tralasciare nessuna categoria di variabili potenzialmente rilevante. Per questo motivo utilizzare l’LSS implica la somministrazione di tre versioni composte dagli stessi item ma orientate a soggetti diversi, attraverso una modificazione nelle istruzioni per la sua compilazione.

Le tre versioni sono rispettivamente indirizzate a misurare: a) le preferenze degli atleti per specifici comportamenti del leader (esempio: “Preferisco che il mio allenatore chieda le opinioni degli atleti su questioni importanti per l’allenamento”), b) percezioni degli atleti sul comportamento del leader (esempio: “Il mio allenatore fornisce apprezzamenti ad una atleta in seguito ad una prestazione positiva”), e c) la percezione degli allenatori relative ai propri comportamenti (esempio: “In seguito a prestazioni positive rinforzo gli atleti”) [Cei, 1998].

La struttura del questionario è costituita da 40 item divisi in cinque dimensioni comportamentali del leader che sono:

Allenamento e istruzione: che racchiude tutti i comportamenti dell’allenatore orientati a migliorare le prestazioni della squadra e alla sua preparazione tecnico/fisica nel corso dell’allenamento.

Comportamento democratico: che rappresentano eventuali comportamenti partecipativi messi in atto dall’allenatore davanti alla necessità di prendere decisioni importanti per la squadra.

Comportamento autocratico: sono i comportamenti dell’allenatore che evidenziano un forte grado di autorità e di indipendenza nel prendere decisioni importanti per la squadra.

Supporto sociale: sono i comportamenti dell’allenatore che esprimono interesse per lo stato di salute e di forma fisica e mentale degli atleti e per la condizione delle relazioni interpersonali interne alla squadra.

Feedback positivi: sono i comportamenti dell’allenatore che rinforzano l’atleta e che permettono a quest’ultimo di percepire come riconosciuto il suo sforzo e il suo risultato.

I risultati delle ricerche effettuate utilizzando la Leadership Scale for Sports hanno permesso di dimostrare l’esistenza di diverse relazioni tra variabili che possono influenzare le preferenze degli atleti. Con l’aumentare dell’età e dell’esperienza i giocatori tendano ad apprezzare maggiormente il sostegno sociale e il comportamento autocratico dell’allenatore [Chelladurai e Carron, 1983], una preferenza che, secondo Horn [1992] potrebbe essere legata più che altro a caratteristiche situazionali.

Anche il genere influenza i risultati del questionario. Tendenzialmente le femmine prediligono uno stile decisionale più democratico rispetto a i maschi, i quali però ricercano maggior supporto sociale nell’allenatore [Martin e al, 1999].

Infine il tipo di sport di squadra praticato può essere un’altra variabile importante nell’analisi delle preferenze degli atleti, in effetti, secondo gli studi di Terry e Howe [1984], quelle discipline caratterizzate da un’interazione diretta tra i membri risultano prediligere un allenatore più autocratico rispetto a quelle in cui l’interazione tra giocatori è solamente indiretta.

Una rassegna su tutte queste indagini è stata compilata da Chelladurai [1990, 1993] al fine di riconfermare le ipotesi di base del suo modello multidimensionale. I risultati ottenuti in effetti sembrerebbero avvalorare l’idea che sia le caratteristiche dei giocatori , sia quelle situazionali, sia quelle tipiche dell’allenatore incidano sulle preferenze degli atleti per il comportamento del leader e sulla sua efficienza, traducibile nell’analisi delle prestazioni e della soddisfazione della squadra.

Da questa rassegna l’autore individua due aspetti che suggerisce di prendere in considerazione nelle ricerche future attraverso l’LSS. Il primo è riconducibile al fatto che la maggior parte degli studi finora effettuati ha preso in considerazione le variabili inerenti le caratteristiche dei membri della squadra tralasciando i fattori situazionali. Il secondo riguarda un’eventuale ricostruzione del questionario attraverso item più appropriati all’ambito sportivo e derivati dalle esperienze degli atleti e degli allenatori più che dall’ambito organizzativo e industriale (da quale dipendono quelli della versione attuale).

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

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