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Depressione: la Vulnerabilità Cognitiva è contagiosa? – Psicopatologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

E’ stato ipotizzato un effetto contagio e cioè di trasferibilità delle modalità depressive di pensiero e di elaborazione dell’informazione da un compagno all’altro.

La vulnerabilità cognitiva alla depressione è contagiosa. Questo quanto rilevato da un recente studio pubblicato su Clinical Psychological Science in cui gli autori hanno proprio dimostrato un effetto contagio tra pari.

La vulnerabilità cognitiva alla depressione consiste nella presenza di bias associativi negativi nel momento in cui si costruisce la propria idea di sé nei diversi contesti (Beevers, 2005); ad esempio, se posta di fronte a una nuova situazione, un individuo cognitivamente vulnerabile alla depressione penserà per prima cosa fallirà con un’autovalutazione negativa di sé.

Tale vulnerabilità cognitiva è considerata un fattore di rischio per lo sviluppo di un disturbo dell’umore e anche se tendenzialmente stabile non è immutabile essendo costituita da elementi squisitamente psicologici e cognitivo-emotivi. In particolare gli studiosi hanno ipotizzato un possibile effetto contagio tra pari focalizzando l’attenzione sulla popolazione dei ragazzi frequentanti il college.

Mettendo a punto uno studio longitudinale prospettico hanno coinvolto circa 100 coppie di studenti roommates – che cioè si trovavano a condividevano la stanza nel college. Ingegnosamente gli sperimentatori hanno avuto la possibilità di accoppiare a priori alcuni studenti con elevati livelli di vulnerabilità cognitiva alla depressione con altri studenti che non presentavano tale caratteristica.

E’ stato dunque ipotizzato un effetto contagio e cioè di trasferibilità delle modalità depressive di pensiero e di elaborazione dell’informazione da un compagno all’altro.

Ebbene i dati hanno confermato l’ipotesi: gli studenti che furono assegnati al roommate con un elevato livello di vulnerabilità cognitiva depressiva avevano una elevata probabilità di appropriarsi – in modo probabilmente automatico e metacognitivamente inconsapevole- dello stile cognitivo depressivo del loro coinquilino. 

Inoltre, come ci si poteva attendere coloro che presentavano accresciuti livelli di vulnerabilità cognitiva alla depressione riportavano anche maggiori livelli di sintomi depressivi rispetto ai soggetti di controllo. Ahimè dunque appare molto potente il virus dello stile cognitivo depressivo che contagia addirittura i compagni di stanza, peccato che non sia accaduto l’inverso, la conversione verso una modalità di pensiero più positiva e non depressiva nella coppia di amici.

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BIBLIOGRAFIA: 

 

Come conquistare una donna? Fatevi crescere la barba!

VOLETE CONQUISTARE UNA DONNA? FATEVI CRESCERE LA BARBA!  Eclissa il modello dell’uomo sbarbato, dall’aria innocente e fanciullesca, per lasciare spazio all’uomo rude e virile. Ma attenzione ai dettagli! Per assicurarsi fascino e mistero non è sufficiente una barba incolta, al contrario occorre calibrare lunghezza e forma.

Lo conferma una curiosa ricerca condotta in Australia presso la University of New South Wales e pubblicata sulla rivista Evolution and Human Behavior, che ha coinvolto 177 donne e 351 uomini, tutti eterosessuali.

Gli amanti dello stile glabro si devono arrendere alle preferenze delle donne, che ancora una volta dettano legge in materia di estetica e sex appeal. Eclissa il modello dell’uomo sbarbato, dall’aria innocente e fanciullesca, per lasciare spazio all’uomo rude e virile. Ma attenzione ai dettagli! Per assicurarsi fascino e mistero non è sufficiente una barba incolta, al contrario occorre calibrare lunghezza e forma. Niente basettoni e baffi a manubrio, la barba che assicura irresistibilità  non deve incontrare il rasoio per 10 giorni. Superato questo limite di tempo, ecco che da maschi avvenenti e virili potreste trasformarvi in potenziali genitori affettuosi e accudenti.

Lo conferma una curiosa ricerca condotta in Australia presso la University of New South Wales e pubblicata sulla rivista Evolution and Human Behavior, che ha coinvolto 177 donne e 351 uomini, tutti eterosessuali. Ai partecipanti è stato chiesto di esprimere un parere rispetto a quanto trovassero attraenti barbe di diverso taglio: completamente rasato, barba di 5 giorni, barba di 10 giorni, barba lunga. Quella più apprezzata  è risultata la barba di 10 giorni.

 

Tipi di barba. VOLETE CONQUISTARE UNA DONNA? FATEVI CRESCERE LA BARBA!

Le donne, oltre ad esprimere pareri favorevoli in termini di estetica, hanno anche sottolineato il senso di sicurezza e protezione emanato dal look bohemien. Secondo i ricercatori, le preferenze femminili non avevano alcun legame con la fase del ciclo mestruale, anche se le donne in fase di ovulazione hanno considerato questa tipologia di uomo come estremamente affascinante.

La nuova tendenza era già emersa nel 2012 in un’indagine condotta da Found!, la prima agenzia in Italia di mood marketing comunication,  attraverso un monitoraggio on line sui principali social network, blog e community interattive, coinvolgendo circa 1300 utenti femminili tra i 25 e i 55 anni per indagare le caratteristiche dell’uomo ideale. Anche in questa indagine è stato messo in luce l’imperativo categorico della barba incolta.

Le passerelle e i rotocalchi non si sono resi immuni al cambio di rotta, sfoggiando modelli e attori del piccolo e grande schermo con un look che asseconda pienamente le aspettative femminili, basti pensare al Red Carpet o ai volti noti nelle pubblicità, scenari privilegiati dell’elogio alla barba incolta. Superati i miti dell’uniformità tra i sessi, dove uomini e donne fanno a gara per accaparrarsi un appuntamento dall’estetista, assistiamo dunque a un ritorno alla differenziazione, alla riscoperta dell’altro e del suo valore nella diversità, che sottolinea una verità intramontabile, ovvero il bisogno delle donne di sentirsi protette e rassicurate dal proprio partner. Quindi uomini, se volete conquistare una donna, fatevi crescere la barba!

 

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Ragazze interrotte, tratto dal diario di Susanna Kaysen – Cinema & Psicoterapia

Susanna Kaysen, la giovane protagonista di Ragazze interrotte, ha un pessimo rapporto con i genitori, insicura e fragile, spesso si rifugia nel suo mondo mentale. La madre la convince a partecipare ad una festa e la induce ad assumere psicofarmaci e alcool. Viene portata al Claymore Hospital dove la ricoverano per tentato suicidio.

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

Ragazze Interrotte (1999) Cinema e Psicoterapia - Disturbo BorderlineRagazze Interrotte (Girl, Interrupted)

Diretto da James Mangold con Winona Ryder e Angelina Jolie. Usa 1999. È tratto dal diario di Susanna Kaysen, La ragazza interrotta.

 

Trama del film:

Ragazze interrotte è la storia di alcune ragazze ricoverate in un ospedale per malattie mentali. Solo una delle ragazze riuscirà ad uscire e a recuperare una vita quasi “normale”. Susanna imparerà ad accettare il fatto di soffrire di disturbi, comincerà a parlarne e a scrivere sul proprio diario le emozioni e i sentimenti provati. Riuscirà a conoscere se stessa e ad affrontare con più serenità la propria vita.

 

Motivi di interesse:

Susanna Kaysen ha un pessimo rapporto con i genitori, insicura e fragile, spesso si rifugia nel suo mondo mentale. La madre la convince a partecipare ad una festa e la induce ad assumere psicofarmaci e alcool. Viene portata al Claymore Hospital dove la ricoverano per tentato suicidio.

La conseguente diagnosi di disturbo borderline di personalità suscita disappunto nella madre, disgustata da una figlia poco conformista e matta.

L’atteggiamento squalificante e invalidante di uno o di entrambi i genitori è una delle cause eziologiche che si ritrovano nelle storie di vita dei pazienti borderline. Si sentono completamente sbagliati e si aspettano che prima o poi gli altri gli rimanderanno un’immagine intollerabilmente negativa.

Nell’ospedale Susanna incontra le altre ragazze: Lisa affetta da un disturbo antisociale di personalità, Daisy ricca e viziata isterica (si esprimeranno in seguito i tratti borderline della sua personalità), Georgina bugiarda patologica, Jane anoressica e Polly con alle spalle un grave incidente da cui è uscita piena di ustioni. Susanna stringe amicizia con Lisa che ricopre un ruolo di leader nel gruppo delle ragazze.

L’ipercoinvolgimento nelle relazioni è una modalità tipica dei pazienti borderline. Le sequenze del film presentano i temi problematici di ogni ragazza in un contesto poco accogliente e piuttosto alienante, più custodialistico che curativo. Così Lisa e Susanna decidono di fuggire e raggiungono Daisy, precedentemente dimessa. Daisy presenta comportamenti autolesionistici, è bulimica e costretta ad un rapporto incestuoso con il padre. Lisa, che per via del suo disturbo non tiene da conto la sicurezza propria e altrui, insinua che, in fin dei conti, Daisy forse trova soddisfazione nel rapporto col padre. Il mattino seguente Daisy s’impicca. Susanna sconvolta torna in ospedale, mentre Lisa continua la fuga.

Quando Lisa torna nella clinica trova il diario di Susanna, e per punirla dell’abbandono nella fuga, lo legge ad alta voce. Quello dell’abbandono associato all’indegnità e alla vulnerabilità è un tema centrale del disturbo borderline. Susanna si scuote, sembrerebbe finalmente regolare in maniera più adattiva le sue emozioni, e rompe definitivamente l’amicizia con Lisa. Viene infine dimessa e torna a vivere in libertà.

Sembra aver migliorato le capacità di individuare e intervenire sugli stati problematici anche grazie all’esperienza relazionale con le altre ragazze: “a volte l’unico modo per rimanere sani di mente è diventare un po’ pazzi”.

 

Indicazioni per l’utilizzo:

Utile per incrementare la consapevolezza e la motivazione al cambiamento nelle componenti di self-efficacy, locus of control, bilancia decisionale. La valutazione delle conseguenze di determinati comportamenti può stimolare l’autoriflessività.

La descrizione e la chiarificazione di alcuni schemi relazionali può aiutare ad attivare con il terapeuta un ciclo protettivo, portando il paziente ad avere fiducia di un validatore autorevole che rafforza il sé degno. Utile anche a fini didattici.

 

Ragazze interrotte, Trailer del film:

The Baby illusion – come i genitori sottovalutano l’altezza dei figli – Psicologia & Genitorialità

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo una recente ricerca australiana molti genitori pensano che i loro bambini siano più piccoli di quello che realmente sono.

Quando i ricercatori della Swinburne University of Technology di Melbourne hanno chiesto alle madri di indicare su un muro l’altezza del loro figlio più piccolo queste hanno indicato sempre un altezza inferiore a quella effettiva del bambino, e non di poco.

In media, infatti, lo scarto tra l’altezza reale e quella percepita era di 3 centimetri, e per bambini tra i due e i 6 anni questa è una grande differenza: per un bambino di 4 anni, ad esempio, 3 centimetri di altezza in meno significano che la mamma lo vede come uno di 3.

Le madri però non avevano alcun problema ad indovinare l’altezza dei loro figli più grandi. Questa “baby illusion”  infatti scompare nel momento in cui un nuovo nato arriva in famiglia. 

I ricercatori hanno fatto questa scoperta dopo avere condotto un sondaggio online su 747 madri che avevano appena avuto un bambino, il 70% di loro ha riferito di percepire il figlio più piccolo come improvvisamente più grande all’arrivo in famiglia di un nuovo nato. I ricercatori hanno deciso di capire meglio questo fenomeno e hanno reclutato 77 madri con almeno un figlio di età compresa tra i 2 e 7 per fare il test dell’altezza percepita sul muro.

Più grande era il figlio minore più era probabile che la madre sottovalutasse la sua altezza e complessivamente i figli minori ricevevano sempre stime inferiori alle loro altezze reali, addirittura molte di loro hanno dato stime inferiori di 10 centimetri.

La “baby illusion” motiva  le cure parentali, dicono i ricercatori: esagerando la piccolezza del figlio minore i genitori sono spinti a dedicare particolari attenzioni al piccolo di casa, indipendentemente dalla sua età reale, un po’ come se le mamme tenessero una mano sulla testa dei loro figli più piccoli a dire…“smetti di crescere!”

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Disturbi Mentali: i poster di minimal design di Patrick Smith

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

L’artista e graphic designer Patrick Smith utilizza uno stile di design minimale per rappresentare visivamente alcuni dei più tipici disturbi mentali.

To combat the ever growing silence surrounding mental health struggles like depression and obsessive compulsive disorder, artist Patrick Smith chose a simple path. Draw them. His series of minimalist posters capture the essence of various personal afflictions, translating everyday conflict and pain into simple shapes and colors…

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

 

This Is What OCD Looks LikeConsigliato dalla Redazione

Obsessive Compulsive Disorder - OCD - © Patrick Smith
To combat the ever growing silence surrounding mental health struggles like depression and obsessive compulsive disorder, artist Patrick Smith chose a simple path. Draw them. (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Il cervello degli innamorati, Helen Fischer – Neuroscienze

 

La redazione di State of Mind consiglia questo interessante contenuto: 

Neuroscienze: L’Antropologa Helen Fisher ci racconta cosa ha scoperto il suo gruppo di ricerca sul cervello degli innamorati, grazie all’utilizzo della risonanza magnetica funzionale (fMRI).

 

TRASCRIZIONE:

(Translated into Italian by sabrina de felice  •  Reviewed by Elena Montrasio)

Io ed alcuni colleghi, tra cui Art Aron e Lucy Brown abbiamo sottoposto 37 persone, pazzamente innamorate, a uno scanner di Risonanza Magnetica cerebrale funzionale. 17 erano felicemente innamorate, 15 erano state appena lasciate, e stiamo iniziando ora il nostro terzo esperimento: studiare persone che si dicono ancora innamorate dopo un periodo tra i 10 e i 25 anni di matrimonio. Questa è la breve storia della nostra ricerca.

Nella giungla del Guatemala, a Tikal, si trova un tempio. Fu costruito dal grandioso Re Sole, della grandiosa città stato della grandiosa civilizzazione delle Americhe, i Maya. Il suo nome era Jasaw Chan K’awiil. Era alto piú di 2 metri. Visse più di 80 anni, e fu sepolto sotto questo monumento nel 720 d.C. Le iscrizioni Maya proclamano che era profondamente innamorato di sua moglie. Egli, in suo onore, le fece costruire un tempio di fronte al proprio. Ogni primavera e ogni autunno, nel giorno dell’equinozio, il sole sorge dietro il suo tempio e con l’ombra di lui copre perfettamente il tempio di lei. E quando nel pomeriggio il sole tramonta dietro il tempio di lei abbraccia perfettamente il tempio di lui con l’ombra di lei. Dopo 1.300 anni, questi due innamorati ancora si sfiorano e si baciano dalle loro tombe.

In tutto il mondo le persone amano. Cantano per amore, danzano per amore, compongono poemi e storie sull’amore. Raccontano miti e leggende sull’amore. Si struggono per amore, vivono per amore, uccidono per amore e muoiono per amore Come scrisse Walt Whitman: “Oh, mi giocherei tutto per te”. Gli antropologi hanno trovato testimonianze di amore romantico in 170 società. Non ne hanno mai trovata una in cui fosse assente.

Ma l’amore non è sempre un’esperienza felice. In uno studio condotto tra studenti universitari, sono state poste molte domande sull’amore, ma le due che per me sono emerse,sono: “Sei mai stato rifutato da qualcuno che amavi veramente?” e la seconda domanda: “Hai mai lasciato qualcuno che ti amava veramente?” Quasi il 95 % tra uomini e donne ha risposto di sì ad entrambe. Quasi nessuno esce vivo dall’amore

Ora, prima di iniziare a parlarvi del cervello voglio leggervi quello che considero il poema d’amore più potente sulla Terra. Ci sono altri poemi che sicuramente sono ugualmente belli, ma non credo che questo possa essere superato. Fu raccontato da un anonimo indiano Kwakutl dell’Alaska del sud ad un missionario, nel 1896. Non ho mai avuto la possibilità di recitarlo prima. “Il fuoco attraversa il mio corpo con il dolore di amarti, il dolore corre attraverso il mio corpo con il fuoco del mio amore per te. Un dolore ardente al punto di scoppiare con il mio amore per te, consumato dal fuoco con il mio amore per te, Ricordo quello che mi dicesti. Sto pensando al tuo amore per me, sono devastato dal tuo amore per me. Dolore e ancora più dolore, dove stai andando con il mio amore? Mi hanno detto che te ne andrai da qui. Mi hanno detto che mi lascerai qui. Il mio corpo è reso insensbile dal dolore. Ricroda quello che ti dissi, amore mio. Addio, amore mio, addio.” Emily Dickinson una volta scrisse, “La separazione è tutto ciò di cui abbiamo bisogno per conoscere l’inferno”. Quante persone hanno sofferto durante i milioni di anni dell’evoluzione umana? Quante persone in tutto il mondo stanno ballando di gioia in questo preciso momento? L’amore romantico è una delle sensazioni piú potenti sulla Terra.

E cosí, diversi anni fa, decisi di esaminare il cervello e studiare questa follia. Il nostro primo studio sulle persone che erano felicemente innamorate è stato ampliamente pubblicizzato, per cui non mi soffermerò a lungo su questo aspetto. Abbiamo trovato dell’attivitá in una minuscola zona vicino alla base del cervello detta area tegmentale ventrale. Abbiamo trovato dell’attività in alcune cellule chiamate cellule ApEn. Cellule che in realtá producono dopamina, uno stimolante naturale, e lo distribuiscono in molte regioni celebrali. Difatti questa parte, la TVA, è parte del sistema di ricompensa del cervello. Si trova molto al di sotto del processo cognitivo del pensiero. Si trova sotto le emozioni. È parte di ciò che chiamiamo il cervello rettiliano, associato con la volontá, con la motivazione, con la concentrazione e con il desiderio. Infatti, la stessa regione cerebrale dove abbiamo trovato attivitá si attiva anche quando si acuisce il bisogno di cocaina.

Ma l’amore romantico fa molto più di una dose di cocaina- se non altro, l’effetto della cocaina passa. L’amore romantico è un’ossessione. Ti possiede. Si perde la percezione di se stessi. Non riesci a smettere di pensare ad un altro essere umano. Qualcuno si è accampato nella tua testa. Come disse un poeta giapponese dell’ottavo secolo, “Il mio desiderio non ha tempo quando cessa.” Salvaggio è l’amore. E l’ossessione può peggiorare quando vieni rifiutato.

Così, proprio ora, io e Lucy Brown, la neuroscienziata del nostro progetto, stiamo osservando dati ricavati dalle persone sottoposte a risonanza poco dopo essere state lasciate. In realtà fu veramente difficile, collocare queste persone nel macchinario, poiché erano in pessime condizioni. (Risate) In ogni caso, trovammo attività in tre regioni del cervello. Trovammo attivitá nella regione del cervello, esattamente nella stessa regione del cervello associata con l’intenso amore romantico. Che problema. Sapete, quando vieni lasciato, l’unica cosa che desideri fare è dimenticare quest’essere umano, e continuare con la tua vita, invece no, li amiamo ancora piú intensamente. Come disse una volta il poeta latino Terenzio, “minore la mia speranza, piú ardente il mio amore”. Ed infatti, ora sappiamo il perché. 2000 anni dopo, possiamo rilevarlo nel cervello Quel sistema cerebrale, il sistema di ricompensa per la voglia, la motivazione, il desiderio, la concentrazione si attiva maggiormente quando non si ottiene ciò che si desidera. In questo caso, la più grande ricompensa della vita: il compagno giusto per noi.

Trovammo attivítà anche in altre regioni del cervello— in una regione cerebrale associata al calcolo dei guadagni e delle perdite. Capite, siete distesi lí, state guardando un’immagine, e siete in una macchina, e state valutando, come dire, cosa è andato storto. E vi chiedete, per esempio, cosa ho perso? Io e Lucy abbiamo una piccola barzelletta al riguardo. Viene da una commedia di David Mamet, in cui ci sono due geni della truffa. Una donna sta imbrogliando un uomo, e l’uomo guarda la donna e dice: “oh sei un cavallo perdente, non scommetteró su di te”. E certamente, è questa parte del cervello, il cuore del nucleus accumbens, che si attiva nel momento in cui calcoli i tuoi guadagni e le tue perdite. È anche la regione cerebrale che diventa attiva quando sei disposto a correre grossi rischi legati a grandi guadagni e grandi perdite.

Ultimo, ma non per questo meno importante, trovammo dell’attivitá in una regione cerebrale associata con il profondo attaccamento ad un altro individuo. Non c’é da stupirsi se le persone soffrono, e e se nel mondo si commettono tanti crimini passionali. Quando vieni rifiutato in amore, non solo vieni travolto dai sentimenti legati all’amore romantico, ma ti senti profondamente attaccato all’individuo in questione. Inoltre, con questo circuito cerebrale della ricompensa in funzione, tu stai sentendo un’energia e una concentrazione molto intense, una forte motivazione e la disponibilità a rischiare tutto per vincere il premio più grande della vita.

Dunque, cosa ho imparato da questo esperimento che vorrei raccontare al mondo? Principalmente sono arrivata a pensare che l’amore romantico sia un impulso, un impulso di base legato all’accoppiamento. Non un impluso sessuale- l’impulso sessuale ti fa uscire in cerca di un’intera gamma di partners. L’amore romantico ti permette di concentrare la tua energia di accoppiamento su un individuo, e di conservare tale energia, per iniziare il processo di accoppiamento con una sola persona. Credo che, tra tutte le poesie che ho letto sull’amore romantico, le parole che lo riassumono meglio vengano da Platone, che ce le regalò più di 2000 anni fa: “Il dio dell’amore vive in uno stato di bisogno. E’ un bisogno. E’ un’urgenza. E’ uno squilibrio omeostatico. Come la fame, o la sete, è quasi impossibile da evitare.” Sono arrivata anche a credere che l’amore romantico sia una dipendenza: una dipendenza perfetta, meravigliosa, quando va bene, ed una dipendenza perfetta ma orribile quando va male.

E, senza dubbio, ha tutte le caratteristiche di una dipendenza. Ti concentri su una persona, ci pensi in maniera ossessiva, la desideri, alteri la realtà, e la tua disponibilità a correre grandi rischi per conquistare questa persona. E possiede le tre principali caratteristiche della dipendenza. Tolleranza—hai bisogno di vederla sempre di piú— astinenza e, infine, ricaduta. Ho un’amica che si sta riprendendo da una terribile storia d’amore, sono passati circa otto mesi, e ora sta iniziando a sentirsi meglio. L’altro giorno era in macchina, quando, tutt’a un tratto, alla radio, ha sentito una canzone che le ha ricordato quell’uomo. E non solo è rinato in lei l’istinto del desiderio, ma ha dovuto accostare a lato della strada per fermarsi a piangere. Cosí, una cosa vorrei che la comunità medica, e la comunitá legale, insieme alla comunità educativa, notassero, se riescono capire. Che, in effetti, l’amore romantico è una delle sostanze che crea maggior dipendenza sulla Terra.

Vorrei inoltre raccontare al mondo che gli animali amano. Non c’è animale su questo pianeta che si accopierà con la prima cosa che gli passi davanti. Troppo vecchio, troppo giovane, troppo trasandato, troppo stupido, e loro non lo faranno. A meno che tu non sia bloccato in una gabbia da laboratorio– e sai, se passerai il resto della tua vita in una piccola scatola, non più sarai cosí esigente — ma ho osservato un centinaio di specie, e ovunque, nel loro ambiente naturale, gli animali hanno delle preferenze. A dire la veritá gli etologi lo sanno. Sono circa otto le parole con cui definiscono il favoritismo animale: procettività selettiva, scelta della coppia, scelta della femmina, scelta sessuale. E difatti ci sono tre articoli accademici nei quali loro hanno segnalato questa attrazione, che può durare anche solo un secondo, ma è un’attrazione ben definita, e questa stessa regione cerebrale, o questo sistema di ricompensa, oppure i fattori chimici di questo stesso sistema di ricompensa sono coinvolti. Infatti, penso che l’attrazione animale possa essere immediata– si può vedere un elefante dirigersi all’istante verso un altro elefante. E penso che qui si celino veramente le origini di ció che voi ed io chiamiamo, “amore a prima vista.”

Le persone mi hanno spesso chiesto se quello che so sull’amore mi abbia rovinato. Semplicemente, rispondo, quasi per nulla. Puoi conoscere i singoli ingredienti di una torta al cioccolato, ma quando ti siedi e la assaggi, provi comunque la stessa gioia. E sicuramente commetto gli stessi errori che tutti gli altri commettono, ma questi studi ampliano la mia comprensione e la compassione che provo nei confronti della vita umana. A dire la verità, a New York spesso mi fermo a guardare nei passeggini e mi dispiace un po’ per i bimbetti, e qualche volta provo un po’ di dispiacere per il pollo che mi ritrovo nel piatto a cena, quando penso quanto sia intenso questo sistema cerebrale. Il nostro più recente esperimento è nato da un’idea del mio collega, Art Aron, che ha pensato di fare la risonanza magnetica a quelle persone che si dicono ancora innamorate dopo anni e anni di relazione. Finora abbiamo studiato cinque persone, e, indubbiamente, abbiamo notato la stessa cosa: non stanno mentendo. Le aree del cervello associate con l’intenso amore romantico, continuano ad essere attive dopo 25 anni.

Ci sono ancora molte domande a cui rispondere e altre ancora da fare sull’amore romantico. La domanda che mi sto facendo proprio in questo momento, e ne parlerò solo per un istante, prima di concludere, è questa: perché ti innamori di una persona e non di un’altra? Mai avrei pensato di dovermelo chiedere, ma Match.com, il sito internet che combina appuntamenti, venne da me tre anni fa e mi fece quella domanda. Ed io dissi, non lo so. So cosa succede nel cervello quando ti innamori, ma non so il perché ti innamori di una persona piuttosto che di un’altra. E così, ho trascorso gli ultimi tre anni a studiare l’argomento E sono molte le ragioni per cui ci si innamora di una persona piuttosto che di un’altra; gli psicologi te lo possono dire. E quando tendiamo ad innamorarci di qualcuno del nostro stesso ambiente socioeconomico, dello stesso livello generale di intelligenza, dello stesso livello generale di bellezza, dagli stessi valori religiosi. La tua infanzia sicuramente ha un ruolo ma nessuno sa quale. Questo è tutto quello che sanno. No, loro non hanno mai scoperto il modo in cui due personalità interagiscano per creare una buona relazione.

Cosí, iniziò a venirmi in mente che forse la tua biologia ti porta verso alcune persone piuttosto che altre. E ho creato un questionario per vedere a che livello esprimi dopamina, serotonina, estrogeno e testosterone. Credo che ci siamo evoluti in quattro tipi di personalità molto chiari, legate alle quantità di queste quattro sostanze chimiche nel cervello. E in uno di questi siti di appuntamenti che ho creato, chiamato Chemistry.com ho formulato prima una serie di domande per vedere a che livello tu esprimi questi elementi chimici, e osservo come le persone si scelgono. In America 3,7 milioni di persone hanno compilato il questionario, circa 600.000 persone lo hanno fatto in 33 altri paesi. Sto mettendo insieme i dati ora. Ad un certo punto ci sará sempre la magia dell’amore, ma penso che arriverò più vicina a capire perché puoi entrare in una stanza trovare persone provenienti dal tuo stesso ambiente, con il tuo stesso livello generale di intelligenza, lo stesso livello generale di bellezza, e non sentirti attratto da tutti allo stesso modo. Penso che ci sia in gioco un fattore biologico. Penso che nei prossimi anni riusciremo a capire tutti i tipi di meccanismi del cervello che ci spingono verso una persona piuttosto che un’altra.

Vorrei concludere così: questi sono i miei genitori. Faulkner disse una volta, ” Il passato non è morto, non è ancora passato.” Infatti, noi ci portiamo molto bagaglio dal nostro passato nel cervello umano. E così c’è una cosa che mi continua a spingere verso la comprensione della natura umana, e questo me lo ricorda. Ecco due donne. Le donne tendono ad avere un senso di vicinanza diverso dagli uomini. Le donne creano tale senso parlando faccia a faccia. Noi ci giriamo una verso l’altra, ingaggiamo “lo sguardo fisso” e parliamo. Questo dà alle donne un senso di intimità. Penso che ciò venga da milioni di anni passati a tenere un bambino davanti al volto per persuaderlo, rimproverarlo, educarlo con le parole. Gli uomini tendono a creare intimità stando fianco a fianco. (Risate) Appena uno alza lo sguardo, l’altro guarda da un’altra parte. (Risate) Penso che venga da milioni di anni passati a stare dietro – a sedersi dietro i cespugli, guardare davanti, cercare di colpire quel bufalo sulla testa con una pietra. (Risate) Penso che per milioni di anni gli uomini abbiano affrontato i nemici seduti fianco a fianco con gli amici. Cosí la mia ultima dichiarazione è: l’amore è dentro di noi. E’ profondamente integrato nel cervello. La nostra sfida sta nel capirci l’un l’altro. Grazie. (Applausi)

 

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FONTE: 

I 5 motivi per cui leggerete questo post – Psicologia & Comunicazione

 

 

I 5 motivi per cui leggerete questo postCari internauti perdonatemi ma non ho potuto fare a meno di tentare di ingaggiarvi nella lettura di questo post attraverso un titolo di questo tipo. Quante altre volte del resto vi siete ritrovati a leggere articoli titolati in modo simile?!

Sia che si tratti di contenuti seri, semiseri o sfacciatamente goliardici, chi scrive sul web non sembra infatti poter fare a meno di ricorrere a titoli presentati sotto forma di lista. C’è chi addiritura fa dell’ironia a proposito, immaginando notizie della cronaca passata riscritte secondo lo stile attuale. Sulle pagine dei giornali di allora leggeremmo  titoli come “Le 9 atrocità naziste che ti faranno perdere ogni fiducia nell’umanità” o ancora “I 6 sopravvisuti al Titanic che avrebbero dovuto morire”.

Questa volta però sarà diverso perché il mio intento è proprio quello di spiegarvi come mai questa scelta stilistica è diventata una moda dilagante soprattutto nel panorama delle pubblicazioni web.

Ecco dunque le 5 ragioni scientifiche per cui siete stati catturati dal titolo di questo post.

1.La salienza grafica del numero.

Il nostro sistema visivo, bombardato da numerossisimi stimoli, si lascia catturare da quel qualcosa che presenta notevoli differenze rispetto a ciò che lo circonda.

Così, se mentre esploriamo una rivista cartacea alla ricerca di contenuti di nostro interesse, lo facciamo secondo ritmi dettati dallo sfogliare le pagine, la consultazione dei contenuti web risulta molto più frenetica e la nostra attenzione visiva si sofferma solo su ciò che ha la capacità di emergere dalla mischia. Se si tratta quindi di dover scegliere tra un articolo ed un altro, la presenza di grafemi numerici nel titolo di uno di essi può essere sufficiente a decretare il vincitore.

2. La capacità delle liste di semplificarci la vita.

Ce lo dice la neuroscienza, siamo più bravi a processare informazioni organizzate in elenchi piuttosto che distribuite in tradizionali paragrafi. Ciò consente non solo una più immediata comprensione dei contenuti, risparmiandoci buona parte della fatica mentale di concettualizzare e categorizzare, ma anche un loro più puntuale recupero dalla memoria in un secondo momento. Ciò che insomma un titolo in formato lista promette è un insieme di informazioni pronte ad un facile consumo.

Non è forse più comodo bersi una spremuta aprendo un tetrapack piuttosto che spremere mezzo chilo di arance per gustarne un misero bicchiere?!

3. La rassicurante consapevolezza di una fine.

Spesso ci si ritrova a consultare il web tra una cosa e l’altra, durante una pausa in ufficio, mentre si fa colazione o seduti sul water. Imbattersi nella lettura di articoli dall’imprecisata lunghezza non è la scelta più consona a tali circostanze. Un titolo che garantisce di soddisfare la nostra curiosità in pochi punti si adatta più facilmente a fugaci letture ma anche a tutte quelle situazioni in cui ci ritroviamo a dover interrompere la lettura per poi riprenderla in un secondo momento, se per esempio sentiamo incombere il capo dietro le spalle, se ci cade della marmellata sulla tastiera o se ci accorgiamo che la carta igienica è finita.

4. Questione di stile.

La ricerca ha dimostrato che i lettori prediligono titoli che si dimostrano sia capaci di anticipare le informazioni contenute nell’articolo, sia in grado di farlo attraverso una veste creativa. Un titolo originale e accattivante non ha semplicemente la capacità di suscitare curiosità e interesse ma invoglia alla lettura dell’intero articolo.

5. La naturale tendenza all’organizzazione spaziale.

Avete mai pensato come mai quando fate la lista della spesa non lo fate attraverso la tradizionale scrittura in riga ma preferite ricorrere ad elenchi? Organizzare l’informazione nello spazio è una strategia che consente alla nostra mente una più facile rievocazione dei contenuti. Semmai vi capitasse di dimenticare la lista a casa, l’aver organizzato le parole in un foglio offrirebbe un utile suggerimento per il recupero mnemonico.

Ricevere informazioni già organizzate in elenchi è in buona sostanza come farsi servire su un piatto d’argento.

L’esperienza positiva di lettura che ne deriva costituisce la premessa per indirizzare le nostre scelte future verso articoli dalle caratteristiche sopra citate, dando vita ad un circolo vizioso auto-rinforzante.

Dunque aspirante giornalista d’assalto o umile blogger della domenica sappilo: non importa saper scrivere bene se non sai titolarlo con astuzia!

 

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BIBLIOGRAFIA:

Più forti delle avversità (2014). Recensione – Letteratura & Psicologia

 Recensione del libro:

Più forti delle avversità

di Anna Oliverio Ferraris e Alberto Oliverio

Bollati Boringhieri

(2013)

 

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Più forte delle avversità - Oliverio Ferraris-Oliverio. Più forti delle avversità: esperienze negative, ansiogene e, talvolta, addirittura traumatiche possono, purtroppo, colpire la nostra esistenza, stravolgerla e comportare una serie di cambiamenti di natura emotiva, economica o fisica.

La psicologia si è occupata di indagare le conseguenze derivanti da lutti, catastrofi naturali, difficoltà economiche e altre esperienze stressanti, ma ciò che è emerso da diversi studi condotti è che se alcune persone tendono a farsi travolgere dagli eventi senza avere la forza di reagire, altre sono capaci di trovare interiormente la forza d’animo per affrontare le problematiche e trovarne una soluzione. Dunque, un aspetto sul quale la recente psicologia clinica vuole porre l’attenzione riguarda la capacità che ognuno di noi ha di resistere agli eventi negativi e di superarli e tale concetto è riassunto nel termine “resilienza”.

Il saggio intitolato “Più forti delle avversità” scritto da Anna Oliverio Ferraris e Alberto Oliverio della casa editrice Bollati Boringhieri in uscita il prossimo 23 Gennaio, si propone di mettere in evidenza la complessità del concetto “resilienza” e la pluralità di contesti in cui essa può rivelarsi funzionale ed essenziale per la sopravvivenza e il superamento di eventi negativi: infatti, non solo il singolo individuo, ma anche le collettività, come la famiglia, la scuola e le organizzazioni lavorative possono risultare resilienti.

Secondo gli autori, per superare le difficoltà, diventa importante puntare su fattori protettivi e di compenso, che risultano diversi a seconda dei contesti e delle età: la rete sociale, il supporto della famiglia, il gioco, la ricerca di soluzioni innovative o un semplice cambio di prospettiva nell’interpretare gli eventi possono favorire l’accettazione delle avversità e il loro superamento.

Un aspetto rilevante di questo saggio è quello di aver messo in evidenza come per ciascuna delle fasi della propria esistenza, dall’infanzia alla terza età esistano delle difese o delle risorse che consentono di adattarsi agli eventi e di accettarli: ad esempio, durante l’infanzia sia il gioco che l’immaginazione possono consentire di sviluppare delle competenze sociali ed emotive, affrontare gli eventi, trovare soluzioni alternative, diventare più sicuri e fiduciosi; l’amico immaginario potrebbe aiutare i bambini ad affrontare le loro paure e a non sentirsi soli di fronte alle difficoltà.

Ma un fattore importantissimo che, secondo gli autori, favorisce la resilienza nei bambini è la relazione di attaccamento sicuro con la propria madre: poter contare su una “base sicura” consente di essere più ottimisti, fiduciosi, ci rassicura e ci incoraggia ad affrontare gli eventi negativi senza perdersi d’animo. Tuttavia, la figura materna non è la sola che può diventare un’ancora di salvezza e un punto di riferimento nei momenti difficili; anche altre figure significative per il bambino, quali i nonni, i fratelli o la tata possono fornire supporto e protezione, soprattutto nei casi in cui la mamma non è “sufficientemente buona”. Persino la scuola potrebbe costituire un contesto capace di fornire sicurezza, se l’insegnante non si propone esclusivamente di impartire delle nozioni, ma si presenta come guida e figura di riferimento. Ed infine la rete di sostegno, composta da amici, familiari, colleghi, ecc. potrebbe rivelarsi una risorsa per affrontare le difficoltà durante l’intero arco della propria esistenza.

E’ per questo motivo che, affinché un intervento psicologico sia efficace, secondo gli autori, sarebbe opportuno non agire soltanto sul singolo ma tener conto dei rapporti tra l’individuo, la famiglia e la rete sociale; bisognerebbe aiutare la persona a ritrovare la speranza, la sicurezza, anche grazie al supporto fornito dall’ambiente in cui vive.

Un concetto rilevante riportato in questo saggio è che anche durante la terza età si può essere resilienti e capaci di accettare i cambiamenti psicofisici che, inevitabilmente, si verificano durante la vecchiaia: tenere la mente e la memoria in allenamento, dedicarsi ad un hobby, intrattenere relazioni sociali sono considerati comportamenti resilienti.

Ed infine, possono anche le organizzazioni mettere in atto comportamenti resilienti? Secondo Anna Oliverio Ferraris e Alberto Oliverio sì: infatti, alcune di esse sono capaci di adattarsi ai cambiamenti economici, sociali e culturali della società in cui vivono e, per questo, applicano dei cambiamenti anche al proprio interno; altre, invece, soccombono, in quanto non si evolvono al passo con i tempi e restano ancorate a strategie tradizionali e, dunque, obsolete.

Il libro risulta di facile lettura, scritto con un linguaggio semplice seppur preciso e non mancano riferimenti degni di nota a testi e pellicole cinematografiche di spicco.

La lettura del saggio è consigliata a psicologi, psicoterapeuti, educatori, ma soprattutto a chiunque voglia comprendere come si possa essere più forti delle avversità, perché c’è sempre una speranza, un modo per ricominciare e forse la frase pronunciata da Don Abbondio ne “I promessi sposi”: “Il coraggio uno non se lo può dare!” non è poi così vera.

 

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Il potenziale dell’effetto placebo: nuovi orizzonti?

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Placebo: sappiamo da tempo che l’efficacia di un farmaco dipende, almeno per metà, dalle aspettative del paziente sulla sua efficacia: nel bel mezzo di un attacco di emicrania, infatti, ha lo stesso effetto sul dolore prendere un farmaco con l’idea che sia placebo che prendere placebo con l’idea che sia un farmaco.

Secondo un recente studio non c’è nessuna differenza tra prendere una pillola e prendere un placebo indorato dalle parole giuste: le parole, secondo i risultato di questo studio, possono addirittura raddoppiare l’effetto di un farmaco. Ciò che un medico dice su un farmaco sembra cioè avere a che fare con la sua efficacia nel ridurre i sintomi. E se funziona nel trattamento dell’emicrania potrebbe funzionare per una vasta gamma di altri disturbi che coinvolgono l’esperienza soggettiva dei sintomi, dall’asma, al mal di schiena, ai crampi intestinali.

Lo studio ha dimostrato che il placebo rivaleggia con l’effetto del farmaco in pazienti con asma; anche anche quando i pazienti sapevano che stavano prendendo un placebo, hanno ottenuto sollievo da crampi, gonfiore e diarrea tipica della sindrome dell’intestino irritabile; inoltre suggerimenti subliminali possono attivare la risposta dei pazienti al placebo.

La ricerca è stata condotta all’interno del Program in Placebo Studies e del Therapeutic Encounter at Beth Israel Deaconess Medical Centerad in collaborazione con altri ospedali di Boston.

Il team ha deciso di utilizzare l’emicrania per separare la componente placebo delle aspettative dei pazienti: hanno osservato gli effetti durante sette attacchi di emicrania successivi in 66 soggetti, per un totale complessivo di 495 attacchi.

I ricercatori hanno chiesto a tutti i loro pazienti di astenersi dal prendere qualsiasi farmaco per due ore dopo l’inizio del loro primo attacco di emicrania  Poi sono state date sei bustine, ognuna contenente una pillola, da prendere durante i successivi sei attacchi di emicrania.

Due delle buste erano etichettate Maxalt (un farmaco noto), due avevano l’etichetta che indicava che potevano essere entrambe farmaco o placebo e le ultime due erano etichettate come placebo. I soggetti hanno valutato la loro quantità di dolore due ore dopo l’assunzione di ogni pillola.

Quando i soggetti non hanno preso pillole hanno segnalato un aumento del 15 per cento nel dolore dell’emicrania dopo due ore .

Quando hanno preso un placebo, etichettato come tale, hanno riferito il 26% in meno di dolore; quando hanno preso il Maxalt, etichettato come tale, hanno riferito il 40% in meno di dolore; e quando hanno preso una pillola che avrebbe potuto essere un placebo o Maxalt, hanno segnalato una diminuzione del dolore del 40% .

Quando i soggetti hanno assunto Maxalt etichettato come placebo la diminuzione del dolore non era statisticamente differente rispetto a quando hanno preso un placebo etichettato come Maxalt.

Una cosa che colpisce nei risultati è il potere dell’incertezza: i pazienti avevano sollievo dal dolore anche quando non sapevano se stavano assumendo il farmaco o il placebo. 

Questi risultati mostrano come potenzialmente il placebo potrebbe essere utilizzato nei trattamenti quotidiani di una serie di disturbi.

LEGGI:

PLACEBO – EFFETTO PLACEBODOLORE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Terapia dialettico comportamentale (DBT): Incontro di formazione – Report

Roberto Framba

 

DIALECTICAL BEHAVIORAL THERAPY (DBT)

Incontro di Formazione alla Terapia Dialettico Compartamentale per pazienti Borderline

Vicenza – 17, 18, 19 gennaio 2014

 

Prof. Charles Swenson - DBT Workshop Vicenza 2014
Prof. Charles Swenson – DBT Workshop Vicenza 2014

Terapia dialettico comportamentale – DBT . La centralità del lavoro sui comportamenti autolesivi e suicidari è stata presentata da Swenson con l’immediatezza e la padronanza tipica dei terapeuti DBT che sanno alternare validazione e spinta al cambiamento con grande naturalezza.

Il 17, 18 e 19 gennaio 2014 alla Casa di Cura Villa Margherita di Vicenza si è svolto il primo modulo di formazione per psicoterapeuti all’utilizzazione della Terapia Dialettico-Comportamentale (dialectical-behavior therapy, ovvero DBT) per il paziente Borderline guidata dal prof. Charles R. Swenson, Psichiatra e professore associato di Psichiatria presso l’Università del Massachusetts Medical School e responsabile del Dipartimento di Salute Mentale del Massachusetts centrale e occidentale. 

Prima di diventare un terapeuta DBT, Swenson ha svolto pratica psicanalitica al Cornell University Medical College di New York, dove per cinque anni ha diretto un programma di ricovero a lungo termine ad orientamento psicoanalitico per i pazienti con disturbi di personalità, tra cui il disturbo di personalità borderline.

Dal 1987 ha  intrapreso la formazione in DBT e in terapia cognitivo-comportamentale e ha sviluppato e diretto  programmi ospedalieri di trattamento diurno per i pazienti con disturbo borderline di personalità basato sulla DBT. Nel 1990 e nel 1993, è stato votato “Teacher of the Year” da parte dei residenti psichiatrici. Alla Cornell ha lavorato come formatore e consulente DBT negli Stati Uniti e in Europa, diventando uno degli esponenti di spicco accanto alla fondatrice Marsha Linehan.

Le tre giornate rappresentano il modulo introduttivo alla DBT. Swenson ha illustrato accuratamente le procedure di addestramento alle abilità di regolazione emotiva e gestione dei rapporti interpersonali (cosiddetto skills traning) dimostrando una smagliante competenza acquisita in decenni di esperienza sul campo e una grande passione e coinvolgimento nel rapporto con il paziente.

La centralità del lavoro sui comportamenti autolesivi e suicidari è stata presentata da Swenson con l’immediatezza e la padronanza tipica dei terapeuti DBT che sanno alternare validazione e spinta al cambiamento con grande naturalezza.

Colpisce la capacità di rimanere in contatto con i pazienti, contemporaneamente proponendosi come figura di attaccamento sicuro e muovendosi su un piano cooperativo che responsabilizza il paziente. È questa la dilettica di cui parla sempre Marsha Linehan. A questi interventi Swenson aggiunge il costante sforzo di sostenere le risorse e di valorizzare i progressi anche minimi che compie il paziente borderline.

Swenson ha anche annunciato una novità: l’imminente revisione del manuale della DBT, che sarà pubblicata alla fine del 2014. Il nuovo manuale introdurrà una maggiore attenzione per le teorie dell’attaccamento e per il trattamento degli aspetti dissociativi. Se le attese saranno soddisfatte, questa nuova versione colmerà alcuni degli aspetti a cui la DBT è stata meno attenta.

L’evento è stato organizzato dall’Associazione NEABPD ITALY in collaborazione con altri enti formativi, le cui fondatrici sono Paola Bertulli, Elena Prunetti, Maria Elena Ridolfi e Roberta Rossi. Questa associazione sta promuovendo una formazione DBT offerta ai singoli terapeuti e non vincolata alla partecipazione a una équipe DBT.

 

SULLO STESSO EVENTO, LEGGI ANCHE IL REPORTAGE:

Dialectical Behavioral therapy (DBT): Skills Training – Report

ARGOMENTI CORRELATI:

DISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’DIALECTICAL BEHAVIOUR THERAPY – DBT

 

AUTORE: 

Roberto Framba. Psicologo e Psicoterapeuta. Didatta presso Studi Cognitivi Milano e Psicoterapia Cognitiva e Ricerca Bolzano-  VEDI PROFILO

Coglioneno! O almeno si spera – Collettivo Zero – Psicologia e lavoro

 

Coglioneno - Immagine: © Collettivo Zero

E parliamo anche noi come forse già troppi altri siti della campagna #coglioneno sviluppata dal collettivo Zero per combattere lo sfruttamento dei creativi. Pagheresti il tuo idraulico con un po’ di “like” su Facebook?

E anche noi –come gli altri siti- un po’ appoggiamo la campagna, un po’ la critichiamo. Si vede che è il destino dei creativi ricevere uno scappellotto insieme alla pacca sulla spalla. Il dubbio è che i creativi non facciano una trattativa dura prima di fornire il lavoro. Almeno questo è quel che emerge dai video. Sicuramente i datori di lavoro sono predatori e scorretti, almeno per come li presenta il video. Una versione urbana e civile (non sempre) del disturbo di personalità antisociale, descritto da Madeddu e Dazzi (2009). Ma proprio per questo occorre chiarire i termini del rapporto economico prima, e non dopo, aver eseguito il lavoro. 

Il video presenta i creativi come dei ragazzi un po’ tristi, per non dire depressi. Propensi a una rassegnata accettazione dei loro stipendi fatti di niente e di aerea visibilità. C’è un legame tra depressione e debolezza economica? Secondo Barbanti, primario del Centro delle Cefalee e del dolore dell’IRCCS San Raffaele Pisana, la crisi può determinare perfino un raddoppio dell’incidenza della depressione.

Per Barbanti, la mancanza di lavoro genera almeno 3 effetti drammatici: la debolezza del ruolo sociale (non servo a niente); la perdita dei rapporti interpersonali sul luogo di lavoro (spesso i nostri amici sono i nostri colleghi); e la difficoltà di incanalare la nostra capacità creativa (per chi ha la fortuna di svolgere lavori in cui ci si identifichi in pieno).

Tuttavia questa tristezza non è di aiuto per gestire con forza i rapporti di lavoro, e le trattative sull’onorario. Occorre reagire. Mi viene in mente: e noi psicoterapeuti non rischiamo di deprimerci a nostra volta? In fondo anche il nostro mestiere è da creativi. Per evitare di diventare coglioni, oltre che creativi, una chiara e dura trattativa sul pagamento va intavolata subito. Il pagamento è parte del contratto terapeutico, dei limiti che occorre trasmettere a pazienti certamente sofferenti e maltrattati, ma talvolta anche propensi a maltrattare. Mi chiedo se l’insistenza su accoglimento e accettazione non possa generare effetti imprevisti: un incremento della coglioneria dei terapeuti, ad esempio.

Mi è capitato proprio alcuni giorni fa di supervisionare un giovane collega ancora non pagato da un paziente giunto alla 12a seduta. La supervisione è stata facile: accettazione si, coglione no! Questa gavetta sottopagata genera effetti paradossali, in cui accanto alla povertà di chi è sfruttato c’è anche l’ironico privilegio di chi è in grado economicamente di farsi sfruttare, di accettare –per ricchezza di famiglia- la lunga attesa che attende chi vuole tentare di inserirsi nel mercato del lavoro creativo.

Su Wired qualcuno si è chiesto se questi non siano i danni del famigerato discorso di Jobs a Stanford, il discorso dei sogni, del siate affamati e pazzi.

Col senno di poi di un creativo del collettivo Zero, quell’affamati suona sinistro. E anche quel pazzi. È arrivato il momento di aggiungere anche un bel: siate cattivi! Almeno durante le trattative.

 

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Neuroestetica

 

 

 

 Neuroestetica

 

PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservataNell’estetica tradizionale si fa sempre riferimento al processo affettivo e psicologico che scaturisce nell’incontro con l’oggetto, la neuroestetica invece riconosce che nella percezione intervengono processi meccanici di memorizzazione che sono uguali per tutti e probabilmente la risonanza emozionale prodotta dall’oggetto osservato è il risultato di processi “costanti” presenti nel nostro cervello.

La neuroestetica è una nuova disciplina che prende le mosse dall’estetica tradizionale ma che nasce dalla sinergia tra le discipline artistiche e le neuroscienze.

Nel 1994 sul numero 117 della rivista di neurologia Brain un artista, Mathew Lamb, ed un professore di neurobiologia, Semir Zeki, firmavano insieme l’articolo The Neurology of Kinetic Art: per la prima volta l’arte veniva criticata da un punto di vista scientifico e si sanciva la nascita di una nuova disciplina, interessata fondamentalmente allo studio dell’organizzazione del cervello visivo, in cui l’artista era elogiato come inconsapevole “neurologo” per via della stimolazione del cervello visivo istigata dalle proprie opere: la neuroestetica.

Semir Zeki, professore di neurobiologia alla University College di Londra, ha condotto la maggiorparte delle sue ricerche sul mondo delle immagini, convinto che anche attraverso l’opera d’arte si possa indagare il meccanismo di percezione e cognizione dell’uomo, e le ha raccolte nel 1999 nel testo La visione dall’interno, incoraggiando i neurobiologi ad accostarsi all’arte per poter conoscere il funzionamento del cervello. Per tale motivo è considerato il padre fondatore della disciplina.

Contemporaneamente lo scienziato di fama Changeux ha pubblicato Ragione e piacere. Dalla scienza all’arte e Lamberto Maffei e Adriana Fiorentini Arte e cervello: sono stati tutti questi i primi passi mossi verso quello che si può definire un “Secondo Rinascimento” o un “nuovo umanesimo” basato sul prefisso “neuro”.

Dalla ricerca scientifica e dalla diagnosi patologica si sono sviluppate le prime indagini neuroestetiche che hanno assunto l’opera d’arte come una sorta di test fisiologico e comportamentale da sottoporre al paziente-osservatore col fine di comprendere quali sono i meccanismi biologici che sono alla base delle emozioni e dell’apprezzamento estetico.

Prendendo come oggetto un’opera d’arte, la neuroestetica propone l’indagine dei meccanismi percettivi alla base della visione e dimostra il modo in cui l’oggetto stimoli il cervello visivo.

Cosa succede a livello cerebrale quando osserviamo un dipinto di Veermer, la Gioconda, un opera astratta di Kandinsky? Oppure ancora, come è possibile che abbiano creato delle opere che provocano una reazione a più livelli in noi?

Il motto zekiano è “le arti visive devono obbedire alle leggi del cervello visivo, sia nella fruizione sia nella creazione; le arti visive sono un’estensione del cervello visivo che ha la funzione di acquisire nuove conoscenze; gli artisti sono in un certo senso dei neurologi che studiano le capacità del cervello visivo con tecniche peculiari”.

Le scoperte sulla funzione visiva del cervello, soprattutto quella della specializzazione funzionale dei centri della corteccia visiva, hanno influito sull’idea di Zeki che anche gli artisti abbiano sfruttato questa specializzazione corticale dando risalto chi alla forma, chi al colore, chi al movimento. La neuroestetica esamina perciò le relazioni fra le aree specializzate della corteccia visiva e la percezione di forme, colori e movimenti, sviluppando le intuizioni della Gestalt.

L’idea è che l’arte sia un’estensione del cervello visivo per via dell’assimilabilità delle loro funzioni: “rappresentare le caratteristiche costanti, durevoli, essenziali e stabili di oggetti, superfici, volti e situazioni e così via”, ossia eseguire un processo di astrazione e generalizzazione. Esistono delle forme universali?

Artisti e neurologi si pongono interrogativi simili in quanto strettissima è l’analogia tra il mondo dell’arte contemporanea e la fisiologia delle cellule cerebrali riguardo la visione.

L’attenzione di questi artisti per le geometrie e le forme astratte va al di là delle loro conoscenze matematiche e si può assimilare agli esperimenti per ridurre l’insieme delle forme all’essenziale per cercare l’essenza di una forma cosi come è rappresentata nel cervello a seconda della propria percezione visiva. 

L’arte è, infatti, una ricerca di costanti attraverso le forme singole: dal particolare verso l’universale.

L’idea deriva dal concetto e cioè da una registrazione nel cervello delle immagini mnemoniche selezionate. Il dipinto di un oggetto quindi rappresenta tutte le caratteristiche comuni a quell’oggetto e ne costituisce la realtà perché si pone come universale sopra ogni particolare. Gli artisti pertanto sono sempre impegnati nella ricerca dell’essenziale, della essenza di una forma, la cosiddetta “costanza di forma”.

Le ricerche di neuroestetica hanno inoltre identificato l’origine di alcune percezioni elementari comuni, a prescindere dalla propria esperienza: molte aree della corteccia visiva si attivano infatti in modo identico in tutti gli uomini quando sono posti di fronte allo stesso oggetto. Lo stesso scopo dell’arte non è rappresentazione descrittiva bensì ricerca di emozione tramite l’essenzialità dell’oggetto raffigurato. “Proprio come l’arte, il cervello crea ciò che è costante ed essenziale”.

Allora conoscere i meccanismi che permettono di apprezzare l’arte, studiare la natura dell’esperienza estetica può aiutare a conoscere i meccanismi della percezione e le strategie che il cervello usa nell’affrontare gli stimoli esterni.

Quindi, come fa il cervello, l’artista seleziona gli attributi essenziali della realtà e li conferisce alla sua opera.

Nell’estetica tradizionale si fa sempre riferimento al processo affettivo e psicologico che scaturisce nell’incontro con l’oggetto, la neuroestetica invece riconosce che nella percezione intervengono processi meccanici di memorizzazione che sono uguali per tutti e probabilmente la risonanza emozionale prodotta dall’oggetto osservato è il risultato di processi “costanti” presenti nel nostro cervello.

L’opera d’arte nel momento in cui viene contemplata, viene percepita, riconosciuta e analizzato prima di tutto nelle sue caratteristiche strutturali e poi scaturisce la risposta emotiva.

Ecco che psicologi e neurobiologi parlano comunemente di “costanza” in relazione alla visione dei colori, delle forme e delle linee e il professor Zeki ha definito la sua legge di costanza: “… quello che ci interessa sono gli aspetti essenziali e persistenti degli oggetti e delle situazioni, ma l’informazione che ci giunge non è mai costante. Il cervello deve quindi avere qualche meccanismo per scartare i continui mutamenti ed estrarre dalle informazioni che ci raggiungono soltanto ciò che è necessario per ottenere conoscenza delle proprietà durevoli delle superfici”. Connessa a questo principio è anche una legge di astrazione, il processo con cui il cervello predilige il generale al particolare e conduce alla realizzazione dei concetti da manifestare nell’opera d’arte.

Tuttavia, non essendo uno storico dell’arte, Zeki ha ammesso di aver trasformato l’estetica in “estetica neuronale” elogiando ossia una competenza artistica di base che è a priori nel cervello dell’uomo e riducendo talvolta l’espressione artistica a mero processo percettivo-cerebrale.

La neuroestetica desta per questo motivo acluni dubbi e scetticismo, tanto che c’è chi parla di sconfinamento verso una “neuromania” che banalizza l’importanza della personalità artistica, il cosiddetto “neuroessenzialismo” la tendenza a ridurre l’uomo alla sua materia grigia e quindi l’arte ad elaborazione visiva.

LEGGI:

NEUROPSICOLOGIA ARTE – SCIENZE COGNITIVE

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BIBLIOGRAFIA:

Mind Wandering: I sogni segreti di Walter Mitty (2013), di Ben Stiller

I sogni segreti di Walter Mitty

di Ben Stiller (2013)

 

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I sogni segreti di Walter MittyI sogni segreti di Walter Mitty: Walter Mitty lavora da molti anni come archivista di pellicole per la più importante rivista fotografica americana, Life. E’ un lavoratore appassionato, umile e silenzioso, molto responsabile e attento.

Lavora nel piano terra di una grande edificio, lontano dai piani alti in cui sfrecciano eccentrici creativi, esperti della comunicazione, manager arrivisti e giovani headhunters con poche idee e molto narcisismo da sfoggiare.

Walter vive nell’ombra, ma il suo ruolo è fondamentale: conservare tutti i preziosi negativi che da circa 20 anni sono passati tra le sue mani e che sono il simbolo e la forza di quella rivista. Inconsapevole della centralità del suo lavoro, vive indisturbato in una piatta ma tranquilla quotidianità. E’ single, segretamente innamorato di una sua collega che cerca di contattare tramite un sito di incontri pur incontrandola tutti i giorni a lavoro, si occupa della madre e della sorella con affetto e grande senso del dovere e sopporta con stoica determinazione ed autocontrollo le sbruffonate dei suoi colleghi.

Come riesce a non esplodere??

Fantastica di volare tra un palazzo e l’altro per salvare la sua bella , di rispondere con battute sarcastiche e taglienti all’ennesimo sopruso subito, di ricevere dichiarazioni d’amore plateali mentre compie imprese titaniche. Nei momenti in cui immagina tali scenari, gli capita tuttavia di perdere il senso del tempo, appare “assopito” e questo alimenta la derisione dei colleghi, il suo essere bizzarro agli occhi degli altri, diverso.

Se solo gli altri potessero vedere il contenuto dei suoi sogni, capirebbero che proprio quel vagare della mente è per Walter linfa vitale, energia pura, necessaria a ricaricarsi per andare avanti.

La rottura della routine arriva con l’annuncio della chiusura della rivista e della sua trasformazione in una testata online, così la copertina dell’ultimo numero di Life sarà al centro del bizzarro viaggio di formazione che condurrà Walter a scoprirsi protagonista del proprio destino.

Tra immagini visionarie, situazioni drammatiche e un’assurda comicità, Ben Stiller riesce a creare momenti di grande condivisione con Walter, che conducono lentamente il pubblico quasi a fare il tifo per lui a mano a mano che la sua impresa va avanti e assume, non a caso, connotati epici da supereroe!

Alla regia, più che alla storia in sé, va forse il merito più grande, ma lascerei le analisi ai cineasti.

Dal punto di vista psicologico risulta invece eccellente e ricchissima la rappresentazione di Walter, dei suoi modi di combattere un profondo senso di inadeguatezza e di muoversi nel “mantello di invisibilità” che si è costruito con estrema dedizione.

Walter è un evitante, preferisce non affrontare i conflitti e in generale il confronto con gli altri, non si sente parte delle situazioni in cui si muove e non riesce a vivere una reale intimità nelle relazioni. Fatica nel riconoscersi meriti e qualità, mentre nutre la sua fragile autostima con lunghi momenti di wandering, di sogni ad occhi aperti.

La lettura che offre Stiller è tuttavia diversa da quella di tanti altri personaggi evitanti e sognatori: l’immaginazione non è soltanto fuga dalla realtà, ma diventa fonte di inspirazione per modificare l’agire nella vita vera, proprio come se nel sogno si potessero sperimentare ed allenare alcune parti di sé che – effetti speciali a parte – potranno trovare spazio per apparire nella vita quotidiana. Il wandering non è un sintomo, non è cioè espressione di una patologia, ma sembra avere le caratteristiche di un vera e propria mastery adattiva e funzionale a tollerare emozioni di vergogna, di paura, di impotenza e di rabbia.

Sognare ad occhi aperti non gli impedisce insomma di vivere, come succede ad Amelie (ne Il meraviglioso mondo di Amelie), ma al contrario gli permette di prendersi la sua rivincita, di trovare soluzioni e azioni utili a perseguire i suoi obiettivi, di sperimentarsi finalmente coraggioso e determinato. La lettura del regista sembra quindi allinearsi, forse inconsapevolmente, ai più recenti contributi delle neuroscienze sul wandering e sul suo ruolo nel funzionamento cognitivo generale e sulle capacità di elaborare informazioni emotive determinanti per la nostra vita.

Il confine tra realtà e immaginazione si assottiglia lentamente nel corso del viaggio, il contenuto del wandering diventa più realistico, più vicino all’effettivo potere d’azione di Walter, senza mai sovrapporsi completamente alla realtà, mentre a poco a poco l’immagine che Walter ha di sé cambia, in uno scenario surreale e fantastico da tenere fino alla fine lo spettatore nell’incertezza di come andrà a finire ….

Certo, qualche pezzo di realtà si perde nei lunghi secondi di “assenza” e forse la sua interpretazione rischia di essere talvolta distorta, ma del resto senza la capacità di sognare ad occhi aperti quei pezzi sarebbero forse persi per sempre. Lunga vita ai sognatori, bravo Ben Stiller!

 

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Mappare le emozioni: l’amore scalda tutto il corpo

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Dove sentiamo l’amore? Alcuni parlano di “farfalle nello stomaco”, altri di palpitazioni. Ma il modo in cui le sensazioni si manifestano nel nostro corpo è universale? Secondo un gruppo di ricercatori finlandesi si.

Mappando l’attivazione del corpo di diversi soggetti , i ricercatori hanno osservato che quando siamo felici o innamorati, il nostro corpo sembra attivarsi completamente dalla testa ai piedi, mentre la depressione tende a “disattivare” gambe, braccia e testa.

Ancora, paura e pericolo sembrano scatenare una forte attivazione nella zona toracica, mentre la rabbia è una delle poche che porta all’attivazione delle braccia. I ricercatori hanno mappato sei emozioni basiche (rabbia, paura, disgusto, felicità, tristezza, sorpresa) e sette emozioni non basiche (“complesse”) ( ansia, amore, depressione, disprezzo, orgoglio, vergogna e invidia) usando una tecnica chiamata emBODY, (una sorta di tomografia self-report), in cui ai soggetti veniva chiesto di indicare per ogni emozione, quali aree del corpo sentivano come più attive e quali come meno attive.

In seguito, per verificare l’ipotesi iniziale, ovvero se le emozioni conducono alle medesime sensazioni corporee indipendentemente dalla cultura di appartenenza, hanno confrontato i risultati ottenuti con il campione originario (composto da soggetti nativi dell’Europa dell’est) con soggetti est-asiatici.

Confrontando i due gruppi, hanno trovato una correlazione dello 0.70 tra le emozioni basiche con attivazione corporea simile. Infine, per assicurarsi che le aree indicate come attive/non attive non fossero influenzate da semplici stereotipi, il gruppo di ricerca è ricorso a delle tecniche di immaginazione guidata per indurre i soggetti a provare una specifica sensazione, per poi fornire una descrizione immediata.

Sebbene Nummenmaa e colleghi non possano affermare con sicurezza che le sensazioni riportate corrispondano a delle reali attivazioni fisiologiche, i risultati portano a evidenziare una universalità delle emozioni corporee riferite.

E se si considerano i risultati di studi precedenti, sembrano esserci buone possibilità di riuscire, un giorno, a usare la mappatura del corpo come strumento aggiuntivo nella diagnosi dei disturbi dell’umore.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

La Ricerca Scientifica in Italia: 2 bilanci per una panoramica realistica (e non catastrofista)

 

 

 

ricerca scientifica in italia - Immagine: © Noigiovani.it Fare bilanci non è facile, e forse nemmeno utile. Di fronte all’ennesimo scenario l’informazione che ne ricaviamo può risuonare scontata, e l’impressione può essere di futilità. Per esempio, la ricerca scientifica in Italia. Parlarne significa intonare un già previsto lamento funebre, la solita processione che accompagna il cadavere nella bara al cimitero. Senza che poi si arrivi mai a questo cimitero, senza che mai si riesca a seppellire il morto.

Abbiamo trovato online un paio di resoconti, uno un po’ meno catastrofico del solito, l’altro più negativo e propenso al lamento disperato, ma più nei toni che nei risultati riportati. Leggendo Giuseppe De Nicolao (2013) sulla rivista online Roars (acronimo un po’ misterioso e ruggente che sta per: Return On Academic Research) impariamo che le critiche che si accumulano sul corpo sempre da seppellire dell’attività scientifica dell’Università Italiana sono infinite, ma anche contraddittorie e non sempre fondate. Si va dal rimprovero che ci sono troppi atenei (per poi scoprire che invece i numeri dicono il contrario) o che il rapporto alunni/professori è troppo elevato (e anche qui i numeri smentiscono) o che solo in Italia ci sono i fuoricorso (ce ne sono di più in USA).

Si dice che l’Università italiana abbia una produzione scientifica risibile, ma i dati smentiscono anche questo: un’elaborazione SCImago su dati Scopus 1996-2012 rivela che l’Italia mantiene stabilmente la sua dignitosa ottava posizione nella classifica dei paesi produttori di articoli scientifici, con un leggero incremento del la percentuale di ricerca mondiale prodotta in Italia, passata dal 3,3% al 3,5% dal 1996 al 2012. E così via, con altri dati.

Un articolo banalmente ottimistico, quello di De Nicolao? Può darsi. Non è facile rendere interessanti  testi che non profetano l’apocalisse, si rischia la noia. E probabilmente molto del successo dell’ultimo libro della Bibbia deriva proprio dal suo tono terrificante. Però anche l’Ecclesiaste, quando ammonisce che nulla mai cambia sotto il sole, ci incoraggia a non esagerare in nessuna direzione, nemmeno in quella negativa.

Se però tutto questo non ci convince, possiamo tornare a lamentarci e a vestirci di scuro insieme a Marco Cattaneo, che usa ampie pennellate di nero per distoglierci dalla carezza consolatoria di De Nicolao. Cattaneo, come un nuovo Catone, tuona di rabbia e orgoglio (interessante questa allusione a Oriana Fallaci e alla catastrofe dell’11 settembre) e ci presenta il ben noto quadro -ormai stucchevole- del ricercatore italiano che riesce, nonostante tutto e in mezzo a inimmaginabili difficoltà, a fare della buona ricerca. Apprendiamo così che l’Italia ha conquistato 46 fondi ricerca (ovvero, grant) su 312 bandi proposti nel 2013. Il 15%.

Ci sarebbe di che essere orgogliosi, dice Cattaneo. Ma non possiamo. Questo perché di questi 46 grant ben 26 sono andati a ricercatori italiani che lavorano all’estero, mentre solo 20 davvero rimangono in Italia. Questa non sembra essere una gran notizia, siamo d’accordo con Cattaneo. Però anche con questa mutilazione la prestazione dell’Italia rimane accettabile, sia in assoluto che in rapporto agli altri paesi citati. Anche la Germania soffre di una simile emorragia: 15 grant tedeschi “fuggiti” contro 33 rimasti in patria. Diverso il comportamento dei ricercatori inglesi e francesi, tutti ferreamente rimasti attaccati al paese di origine.

Da parte nostra, non sosteniamo che non si possa fare meglio e che non ci siano cose da migliorare. Un dato sicuramente negativo tra quelli riportati da Cattaneo c’é: l’assenza di ricercatori che vengano in Italia  a fare ricerca. L’Italia, e gli italiani, hanno un problema di comunicazione con il resto d’Europa. Non sempre siamo capaci di capire e di farci capire. Non ripeteremo le solite cose: dobbiamo migliorare il nostro inglese, l’efficienza delle nostre infrastruttura, l’amichevolezza della nostra burocrazia. Aggiungiamo che forse dobbiamo diventare un po’ più sciolti, meno ossessionati dalla nostra -a volte supposta e a volte reale- cialtronaggine. Che esiste, ma non si risolve rimuginandoci su.

Rimane il fatto che anche nelle informazioni trovate da Cattaneo l’Italia esce fuori come un paese in grado di dare il suo significativo contributo alla ricerca scientifica. Per questo ci pare che lo stile di Cattaneo sia eccessivo. Egli adotta il noto repertorio, con qualche interessante novità pop: così il paese muore, e poi la “rabbia, e l’orgoglio“, e l’ “incazzatura che arriverebbe a vette inesplorate“, e “vado a misurarmi la pressione“, e la cialtronaggine, e così via. Uno schiumante frasario sull’Italia che eternamente delude i sogni di gloria e non è all’altezza delle sue potenzialità.  I sogni devono esserci,  non devono diventare un incubo, e ciascuno di noi deve fare il meglio che riesce a immaginare, in creatività e serietà e pazienza. Diciamo che a fronte dei dati, misti, un po’ buoni un po’ tristi, la ruminazione depressiva non aiuta anzi, a circolo vizioso, aggrava il problema.

 

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PREMIO STATE OF MIND PER LA RICERCA IN PSICOLOGIA E PSICOTERAPIA

 

BIBLIOGRAFIA:

Story Editing – Le nostre preoccupazioni possono avere un lieto fine

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Non sempre è necessaria una psicoterapia per mettere in atto un cambiamento nella nostra storia o risolvere una preoccupazione. Il dott. Timothy D. Wilson, professore di Psicologia presso l’Università della Virginia, infatti ha studiato come applicare dei piccoli cambiamenti alle storie di vita o ai ricordi possa aiutare emotivamente. Questo processo è stato chiamato da lui Story Editing.

Ad esempio ha provato ad applicare questo processo con degli studenti del college che erano bloccati nel proseguimento degli studi.  Ha visto come cambiando la “loro storia” potesse portare maggior beneficio a livello psicologico nell’affrontare il loro percorso di studi. In particolare è andato a modificare la loro credenza (belief) che mai avrebbero ottenuto buoni risultati, con un pensiero più positivo ad esempio  “a chiunque può capitare di non riuscire in un primo momento“.

Il processo è molto simile a quello che avviene in psicoterapia, si introduce un pensiero/prospettiva o punto di vista diverso e ci si lavora per 45 minuti, così ad esempio ha fatto nel caso dei ragazzi del college, gli ha fatto leggere per 45 minuti account di ragazzi che avevano avuto un percorso simile ma con un risvolto positivo.

Il senso è proprio quello di cambiare il finale agendo su dei punti “critici” della storia, così una persona che ha un piccolo problema o preoccupazione  può ogni giorno scrivere per 15 minuti cosa lo preoccupa e vedere magari che guardandosi indietro forse non era così preoccupante.

Wilson ancora non si spiega perchè questa metodica funzioni, ma sicuramente sottolinea come questo metodo possa permettere alle persone di sbloccarsi e di guardare avanti modificando quello che credevano doloroso o difficoltoso nel passato.
Sicuramente non è paragonabile a una psicoterapia, ma può essere un utile input per vedere quali sono le difficoltà.

E forse può anche essere interessante vedere come cambiare personaggio della storia alle volte può essere utile per avere un punto di vista più funzionale.

 

Editing Your Life\’s Stories Can Create Happier EndingsConsigliato dalla Redazione

Writing about a troubling event and revising the story in a more positive light can improve life. (…)

Tratto da: NPR.org

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Alla ricerca dei meccanismi del cambiamento nell’intervento psicologico. Premio State of Mind 2013

Chiara Scarampi.

 

Alla ricerca dei meccanismi del cambiamento nell’intervento psicologico.

Studio sull’alleanza terapeutica e sulla coesione di gruppo.

 

PREMIO STATE OF MIND 2013

Alla ricerca dei meccanismi del cambiamento nell'intervento psicologico. - Immagine: ©-pressmaster-Fotolia.com-.jpgIl seguente elaborato analizza l’alleanza terapeutica e la coesione di gruppo, fattori che contribuiscono fortemente al miglioramento dei pazienti e rappresentano le più importanti variabili di processo, correlate all’esito della psicoterapia di gruppo.

La ricerca presentata ha voluto esaminare la capacità predittiva che i due costrutti possono avere sugli esiti di un intervento psicologico, ad orientamento cognitivo. Lo studio ha previsto l’utilizzo di videoregistrazioni di incontri di Mental Fitness, organizzati tra il 2009 e il 2011, nell’ambito della psicocardiologia e nell’ambito della formazione di studenti iscritti alla scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitiva di Torino. Gli strumenti utilizzati per valutare l’alleanza e la coesione sono stati rispettivamente il Working Alliance Inventory (WAI) e la Group Cohesiveness Scale (GCS).

I risultati evidenziano un andamento crescente dei due costrutti tra la prima e la quarta seduta, con una differenza statisticamente rilevante tra le due misurazioni. Inoltre emerge la connessione tra i due costrutti, anche se essi rappresentano due differenti aspetti del processo terapeutico di gruppo.

Dalle analisi effettuate si evince che l’alleanza e la coesione, valutate alla quarta seduta, influiscono positivamente su aspetti quali: la percezione della qualità della vita (in particolare nelle relazioni sociali e nell’ambiente di vita), la prevenzione di un pensiero orientato all’esterno, la capacità a identificare le emozioni, le capacità di coping focalizzate sulle emozioni e sul problema e la compliance alle indicazioni terapeutiche. Inoltre si evidenzia un’associazione significativa con la riduzione dell’utilizzo di strategie di coping disfunzionali.

Questi risultati confermano quanto è emerso da altri studi, che hanno rilevato l’importanza dei due costrutti come fattori curativi presenti nell’intervento psicologico di gruppo.

Abstract. The following paper examines therapeutic alliance and group cohesion, which constitute important mechanisms of change in group intervention and are predictive of successful goal attainment. They have been found to be the major variables in predicting treatment outcome across a range of patient populations in varied settings.

The aim of the current study was to conduct an analysis of the contribution to outcome of therapeutic alliance and group cohesion in a cognitive treatment. We used videotaped group sessions of a cognitive intervention called Mental Fitness, organized between 2009 and 2011 within a psychocardiology program and a training for some students of the Superordinate School of Cognitive Psychotherapy in Turin.

The alliance was assessed using the observer version of the Working Alliance Inventory (WAI), while cohesion ratings were made using the Harvard Health Plan Group Cohesiveness Scale (GCS).

The results highlighted an increasing trend of the two variables among the first and the last session, with a statistically significant difference between the two measurements. Moreover, the results showed that cohesion and alliance were related concepts, even though they represented two different aspects of the group therapeutic process.

Both therapeutic alliance and group cohesion were found to have a significant effect on many clinical outcome such as: perception of life quality (especially in social relationships and life environment), prevention of an external oriented thinking, ability in identifying emotions, coping abilities focused on emotions and problems, and compliance with therapeutic indications. In addition, the research showed a significant association with a reduction in the use of dysfunctional coping strategies.

These results confirmed findings from others studies, pointing out the importance of the two constructs as curative factors in the psychological group intervention.

 

Parole-chiave: alleanza terapeutica; coesione di gruppo; relazione terapeutica; efficacia clinica; processi di gruppo

Keywords: therapeutic alliance; group cohesion; therapeutic relationship; clinical effectiveness; group processes

 

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ARTICOLI SU: RELAZIONE TERAPEUTICA

 

INTRODUZIONE

 

Nel corso degli anni, molti studi hanno evidenziato l’importanza e l’efficacia nella psicoterapia dei fattori “aspecifici”, trasversali ai modelli terapeutici, individuando come fattore aspecifico per eccellenza la qualità della relazione terapeutica, intesa come la capacità del paziente e del terapeuta di costruire un’alleanza, ossia promuovere sforzi congiunti per raggiungere obiettivi comuni, nel contesto di una relazione che abbia caratteristiche di sicurezza e fiducia.

Ultimamente l’interesse dei ricercatori si è spostato verso le forti potenzialità della terapia di gruppo. Le ricerche finora compiute hanno ampiamente confermato che questo tipo di trattamento è efficace tanto quanto quello individuale (MacKenzie & Livesley, 1986; Burlingame, MacKenzie & Strauss, 2004). Tuttavia, anche se questi due tipi di intervento possono vantare valutazioni comparabili in termini di efficacia, i meccanismi con cui si raggiungono il cambiamento e il successo sono innegabilmente differenti (Johnson, Pulsipher, Ferrin, Burlingame, Davies & Gleave, 2006).

La processualità di un gruppo terapeutico è difficilmente riconducibile a quella della psicoterapia individuale. Mentre il processo terapeutico individuale si fonda sull’unica relazione diadica paziente-terapeuta e sugli interventi di quest’ultimo, lo scenario in cui si svolgono le terapie di gruppo è notevolmente più complesso. In tale contesto si viene a creare un universo relazionale (costituito dall’insieme delle interazioni che si svolgono tra pazienti del gruppo, tra pazienti e terapeuta e tra pazienti e il gruppo nel suo complesso) di uguale, se non maggiore beneficio rispetto alla singola relazione con il terapeuta (Holmes & Kivlighan, 2000) e un’atmosfera emozionale caratteristica del “qui ed ora” che contraddistingue quello specifico gruppo.

L’intreccio tra le innumerevoli variabili che concorrono ad influenzare l’andamento di una psicoterapia di gruppo fa sì che alcune questioni sorgano fin dalla operazionalizzazione dei costrutti presi in considerazione (Strauss, Burlingame & Bormann, 2008; Lo Coco, Prestano & Lo Verso, 2008). Le misure disponibili si possono collocare a livelli differenti di astrazione rispetto a un determinato aspetto (o più aspetti) del processo terapeutico. A conferma di quanto detto si può far riferimento alla coesione di gruppo e all’alleanza terapeutica in quanto i loro punti di sovrapposizione implicano il riferimento congiunto ai due costrutti (Gargano, Lenzo, Salanitro, Camizzi, & Lo Verso, 2010). La coesione di gruppo e l’alleanza terapeutica sono due elementi che contribuiscono fortemente al miglioramento dei pazienti.

Gli studiosi sono concordi nel definire l’alleanza terapeutica come la parte collaborativa della relazione diadica tra paziente e terapeuta (Bordin, 1979). Essa è una delle variabili maggiormente predittive di esito positivo del trattamento di gruppo, indipendentemente dai modelli teorici di riferimento del terapeuta (Horvath, 1994; Martin, Garske & Davis, 2000). È stata studiata approfonditamente negli ultimi anni, tuttavia in misura minore rispetto alle terapie duali e spesso trascurando le alleanze incrociate che si verificano in gruppo e che sono parte integrante del processo di cura. Inoltre, gli strumenti attualmente più usati in psicoterapia di gruppo, per la sua valutazione, sono insufficienti a spiegarne le caratteristiche in quanto valutano solamente il legame tra terapeuta e paziente e il loro accordo sugli obiettivi della terapia. Vengono trascurate, ancora una volta, le relazioni e le molteplici alleanze presenti nel gruppo.

La coesione invece è comunemente definita come un’atmosfera positiva che si viene a creare all’interno del gruppo (Dion, 2000). Essa attiene al senso di appartenenza, di fiducia, di sicurezza che sperimentano i pazienti di un gruppo (Mc Callum, Piper, Ogrodniczuk & Joyce, 2002). È stato mostrato come essa sia in relazione con il miglioramento dei pazienti (MacKenzie & Tschuschke, 1993), anche se altri autori (Bednar & Kaul, 1994) evidenziano come non vi sia ancora consenso rispetto al significato del termine, sia sul piano teorico, sia su quello operazionale (prova ne è la moltitudine di strumenti utilizzati per studiarla). Risulta pertanto difficile generalizzare queste conclusioni. Tuttavia, la coesione è uno dei fattori terapeutici di gruppo (Yalom & Lesczc, 1995) più studiati poiché se ne riconosce l’importanza clinica ed è dimostrato che la coesione è particolarmente correlata all’alleanza terapeutica (Budman, Soldz, Demby, Feldstein, Springer & Davis, 1989; Gillaspy, Wright, Campbell, Stokes & Adinoff, 2002; Marziali, Monroe–Blum & McCleary, 1997).

 

Teoricamente, molti autori sostengono che la coesione e l’alleanza sono concetti equivalenti e sovrapponibili (Fuhriman & Burlingame, 1990) in quanto la coesione può essere vista come l’insieme delle possibili alleanze che si instaurano tra i vari tipi di relazione (membro-membro, membro-leader, membro-gruppo) (Burlingame, Fuhriman & Johnson, 2002). Altri studiosi ritengono invece che essi rappresentano processi differenti, in quanto la coesione è un concetto più complesso rispetto all’alleanza (Joyce, Piper & Ogrodniczuk, 2007; Marziali et al., 1997).

Marrone (2001) suggerisce di considerare tali fattori come interdipendenti in quanto hanno confini molto sfumati e si manifestano con diversa intensità nei vari gruppi, ma anche all’interno di uno stesso gruppo, nelle persone o nei diversi momenti delle sedute.

 

L’alleanza e la coesione vengono considerate le variabili più importanti che descrivono i processi positivi nella terapia di gruppo (Bernard et al., 2008). Tuttavia, molte questioni che concernono le relazioni teoriche ed empiriche tra questi due processi necessitano ulteriori studi poiché emerge una discordanza tra i risultati delle ricerche finora effettuate (Bakali, Baldwin & Lorentzen, 2009; Johnson, 2007).

Il loro approfondimento è particolarmente difficile e richiede la costruzione di un complesso disegno di ricerca. Allo stesso tempo, si tratta di una tipologia di ricerca molto vicina alla clinica che consente di pensare, capire e approfondire le pratiche terapeutiche. Essa permette di migliorare la conoscenza, la qualità e l’efficacia rispetto a ciò che realmente avviene nel contesto terapeutico, non limitandosi a considerare esclusivamente i modelli teorici adottati (Lo Verso & Ruvolo, 2010).

 

A partire da queste premesse si è proceduto a realizzare una ricerca che perseguisse i seguenti obiettivi:

Monitorare l’andamento della coesione e dell’alleanza nel corso delle sedute;

Verificare in quale misura i fattori di alleanza e coesione siano legati all’esito della terapia;

Verificare la riduzione sintomatica a circa sei mesi dal termine del trattamento;

Studiare la relazione tra l’alleanza terapeutica e la coesione di gruppo per verificare se rappresentano aspetti distinti del processo di gruppo.

METODO

 

Partecipanti

 

La ricerca ha coinvolto un totale di 63 persone appartenenti a due campioni differenti: un gruppo di pazienti seguiti dal reparto di Cardiologia dell’ospedale Molinette di Torino e un gruppo di studenti della scuola di specializzazione in Psicoterapia Cognitiva di Torino.

Il primo campione era composto da 28 persone (4 F, 24 M) di età compresa tra i 43 e i 70 anni (età media 58,6 ± 8,3 ) che a seconda del locus of control per la salute (64,3% con locus of control interno e 35,7% locus of control esterno) sono state suddivise in 8 gruppi (numero medio di partecipanti per gruppo 3,5 ± 0,76). Tutti i partecipanti erano accomunati da un precedente evento cardiaco (82,1% infarto, 17,9% angina).

Il secondo campione era costituito da 35 studenti specializzandi (30 F, 5 M) di età compresa tra i 26 e i 51 anni (età media 31 ± 5,9) che a seconda del locus of control per la salute (71,4% con locus of control interno e 28,6% con locus of control esterno) sono stati suddivisi in 7 gruppi (numero medio di partecipanti per gruppo 5,29 ± 0,95).

 

Al fine di valutare l’alleanza terapeutica e la coesione di gruppo sono state utilizzate videoregistrazioni di incontri di Mental Fitness, organizzati con i due campioni.

Mental Fitness è un protocollo di intervento ideato dal gruppo di ricerca del Professor Bara dell’Università di Torino, in relazione a un progetto di psicocardiologia orientato a migliorare la qualità della vita e l’aderenza alle prescrizioni mediche di pazienti infartuati.

 

Inizialmente, in base ai risultati ottenuti attraverso la compilazione della Multidimensional Health Locus of Control scale (MHLC) (Wallston, Wallston & DeVellis, 1978), i partecipanti sono stati organizzati in piccoli gruppi (da 3 a 6 membri), alcuni composti da soggetti con locus of control per la salute interno e altri formati da individui con locus of control per la salute esterno.

Sono stati previsti quattro incontri settimanali della durata di 90 minuti l’uno, con obiettivi differenti a seconda del Locus of Control dei componenti di ogni gruppo.

Ad ogni incontro erano presenti un conduttore e un co-conduttore, psicologi ad orientamento cognitivista, adeguatamente formati per la conduzione di tali gruppi. In totale hanno preso parte al progetto di ricerca 4 psicologi che hanno condotto dai 2 ai 5 gruppi ciascuno e 6 co-conduttori.

 

 

Strumenti

 

La scelta degli strumenti è stata preceduta da un approfondito esame della recente letteratura relativa alla tematica studiata, al fine di valutare i risultati ottenuti dalle ricerche finora effettuate e gli strumenti più frequentemente utilizzati e validati. Si è poi proceduto a contattare i creatori delle scale per procurare il materiale necessario e ottenere la licenza per il loro utilizzo.

 

L’alleanza terapeutica

 

Per valutare l’alleanza terapeutica è stato utilizzato il Working Alliance Inventory-Observer Rated (WAI-O) (Horvath & Greenberg, 1981, 1982). Si tratta di uno strumento basato sul modello panteorico di Bordin e creato per studiare l’alleanza come fattore terapeutico comune a tutti i tipi di trattamento, tramite una definizione basata su un modello generale di terapia. Esso considera l’alleanza come rapporto collaborativo e interattivo tra paziente e terapeuta, in grado di indurre un cambiamento.

Lo strumento è costituito da un fattore generale di alleanza e tre fattori specifici di ordine inferiore corrispondenti alle tre componenti individuate da Bordin (Legame, Accordi sui Metodi, Accordo sugli Obiettivi). Il legame è costituito da relazioni interpersonali positive tra paziente e terapeuta, quali confidenza, accettazione e fiducia reciproca. I metodi sono le attività terapeutiche alla base del processo terapeutico. Gli obiettivi rappresentano gli scopi da raggiungere tramite il processo terapeutico.

Nell’indagine qui presentata è stata utilizzata la versione per l’osservatore esterno (WAI-O) di Raue, Goldfried e Barkham (1997), composta da 36 item misurati su una scala di tipo Likert a 7 punti.

La scelta dello strumento di valutazione è ricaduta sul WAI-O in quanto fa riferimento a una visione panteorica del concetto di alleanza che trascende i vari modelli di analisi ed integra i diversi contributi e le precedenti formulazioni di questo costrutto in una definizione operativa e consensuale. Esso considera l’alleanza come fattore relazionale comune che agisce in ogni processo terapeutico di cambiamento e, pertanto, è applicabile anche nell’ambito degli interventi di Mental Fitness.

La coesione di gruppo

 

Per valutare la coesione di gruppo è stata utilizzata la seconda versione dell’Harvard Community Health Plan Group Cohesiveness Scale (GCS) (Budman, Demby, Koppenaal, Sabin-Daley, Scherz, Hunter, … & Feldstein, 1982; Budman et al.,1989), strumento che considera la coesione come caratteristica osservabile del funzionamento del gruppo e valutabile da osservatori partecipanti (terapeuta) o non partecipanti (giudici che visionano le videoregistrazioni delle sedute). Questo fenomeno viene definito come “group connectedness, demonstrated by working together toward a common therapeutic goal, constructive engagement around common themes, and openness to sharing personal material” (Soldz et al., 1987).

La GCS è stata disegnata per segmenti di 30 minuti ricavati da sedute di gruppo di 90 minuti. Le valutazioni vengono effettuate da giudici indipendenti su una scala Likert a 9 punti e riguardano le seguenti dimensioni:

Global Cohesiveness: misura il senso globale di coesione dimostrata nella seduta ed evidenzia la necessità di non fornire giudizi basati esclusivamente sulla media o sulla somma dei punteggi delle sottoscale;

Focus: misura il grado in cui le discussioni riflettono un ordine del giorno con coerenza tematica;

Interest/Involvement: misura il grado in cui i membri dimostrano interesse e coinvolgimento verbale e non verbale verso le discussioni del gruppo;

Trust: misura il grado in cui i membri sono disponibili a condividere esperienze personali;

Facilitative Behavior: misura il grado in cui i componenti del gruppo si impegnano in comportamenti volti a promuovere una costruttiva esplorazione affettiva e la crescita personale negli altri membri;

Bonding: valuta in quale misura i membri appaiono connessi l’uno all’altro, sulla base dell’attrazione e del calore reciproci;

Global Quality: misura quanto il segmento valutato è indicativo di una seduta terapeutica di gruppo, ovvero quanto si avvicina all’ideale del processo terapeutico secondo il giudice;

Affective Intensity: valuta la forza delle tonalità emotive manifestate in gruppo, includendo sia gli affetti positivi, sia quelli negativi;

Conflict: misura i comportamenti di disaccordo e di sfida che comportano tensioni crescenti.

 

La scelta dello strumento per valutare la coesione è stata più difficile rispetto alla decisione presa in merito all’utilizzo del WAI. Sono stati individuati pochi strumenti in grado di valutare la coesione dal punto di vista di un osservatore esterno e sono state notevoli le difficoltà a reperirli. La scelta è dunque ricaduta sulla GCS-II dopo averne verificato l’attendibilità e aver riscontrato il suo utilizzo in altri studi recenti. Inoltre è sembrato interessante in quanto il costrutto prende in considerazione le dinamiche del gruppo nel suo insieme e non solo le relazioni tra i singoli partecipanti.

 

Le misure degli outcome

 

Al fine di confrontare l’alleanza e la coesione in relazione agli esiti del trattamento sono stati utilizzati alcuni dati relativi alla ricerca sull’efficacia dell’intervento di Mental Fitness che prevedevano, per la valutazione psicologica, i seguenti strumenti:

Multidimensional Health Locus of Control scale (MHLC) (Wallston et al., 1978; Wallston et al., 1999): si tratta di una scala disegnata per valutare le credenze di una persona in relazione alle cause che determinano il proprio stato di salute: le azioni individuali oppure le azioni di altre persone, del fato, della fortuna, ecc. È possibile distinguere il locus of control per la salute interno e il locus of control per la salute esterno.

Twenty-Item Toronto Alexithymia Scale (TAS-20) (Bagby, Parker & Taylor, 1994): è il test attualmente più diffuso e affidabile per la diagnosi dell’alessitimia. Nella valutazione dei dati, oltre alle informazioni relative alla somma totale dei singoli punteggi di ogni item, è possibile calcolare i punteggi che valutano tre caratteristiche del disturbo: la difficoltà nell’identificare i sentimenti, la difficoltà nel comunicare e descrivere i sentimenti agli altri e il pensiero orientato all’esterno e raramente verso i propri processi endopsichici.

Brief Cope (Carver, 1997): si tratta di uno strumento utilizzato per misurare la capacità di coping sia in situazioni di normalità sia in situazioni stressanti. Vengono valutate strategie di coping mirate alla soluzione del problema che genera stress, strategie focalizzate sugli aspetti emotivi connessi all’evento stressante e strategie disfunzionali.

World Health Organization Quality of Life (WHOQOL) (World Health Organization [WHO], 1998): è un questionario che analizza e registra la qualità della vita percepita dal soggetto in riferimento a quattro specifici ambiti: la salute fisica, la salute psicologica, le relazioni sociali e le condizioni ambientali.

 

Per il campione composto da pazienti seguiti dal reparto di Cardiologia dell’ospedale Molinette di Torino è stata inoltre effettuata una valutazione medica che ha esaminato outcome primari (mortalità e morbilità) e outcome secondari (funzionamento cardiaco, stato di guarigione misurato attraverso il diabete, il fumo, la pressione arteriosa, il colesterolo e l’aderenza al trattamento).

 

RISULTATI

 

L’attendibilità dei dati

 

Per valutare l’attendibilità dei dati ottenuti e il grado di omogeneità tra le osservazioni dei due valutatori (interjudge reliability) è stato calcolato il coefficiente di correlazione intraclasse (ICC).

Per il campione di pazienti i punteggio di correlazione intraclasse totali ottenuti indicano che i giudici hanno stabilito rispettivamente l’85% e il 78% di accordo sulla loro valutazione della coesione e dell’alleanza. Per il campione composto da studenti i valori indicano invece un accordo del 99,9% per la valutazione della coesione e del 93% per l’alleanza.

 

L’andamento delle variabili nel corso del tempo

 

A partire dalle osservazioni effettuate si sono volute analizzare, da un punto di vista inferenziale, le eventuali differenze osservabili tra le medie campionarie dei punteggi. A tale scopo è stato utilizzato il t-test tra le valutazioni relative alla prima e alla quarta seduta. Inoltre sono stati costruiti alcuni grafici per verificare visibilmente l’andamento delle due variabili nel corso delle quattro sedute.

Per entrambi i campioni l’alleanza con il conduttore e la coesione del gruppo sono sempre aumentate con il procedere degli incontri, con una differenza statisticamente rilevante tra le due misurazioni.

 

La relazione con gli outcome fisici e psicologici dell’intervento

 

Per verificare l’esistenza di una correlazione delle due variabili con gli esiti del trattamento è stato calcolato l’indice di correlazione di Pearson tra la media dei punteggi in quarta seduta, forniti dai due valutatori, e i residui standardizzati, calcolati sui dati relativi agli outcome psicologici e medici che, per la ricerca sull’efficacia del Mental Fitness, sono stati misurati precedentemente e successivamente all’intervento. Per calcolare i residui standardizzati è stata calcolata una regressione lineare, ponendo come variabili indipendenti le misure degli outcome prima dell’intervento di Mental Fitness e come variabili dipendenti i dati relativi agli outcome valutati successivamente all’intervento.

 

1. Correlazione tra alleanza terapeutica e outcome nel campione di pazienti cardiopatici

I risultati significativi ottenuti dalla correlazione tra alleanza terapeutica e outcome fisici e psicologi sono presentati sulla tabella 1. riportata in appendice.

La correlazione negativa tra l’alleanza e la sottoscala “Externally oriented thinking” della TAS indica la capacità del costrutto di influire sulla riduzione dell’utilizzo di un pensiero orientato all’esterno. Questo risultato può essere attribuito a uno dei focus caratteristici dell’intervento di Mental Fitness, volto ad approfondire e ad aumentare il grado di attenzione verso il proprio mondo interno ed emozionale.

Un altro importante risultato emerso è riferito all’influenza che l’alleanza esercita sul miglioramento della qualità della vita, dimostrata dalla correlazione tra diverse sottoscale del WHOQoL e tutte le misure del WAI. In particolare, si evince come la costruzione di una buona alleanza con il conduttore correli positivamente con il miglioramento delle relazioni sociali.

La sottoscala “Bond” del WAI ha mostrato una forte correlazione con la misura delle strategie di coping centrate sul problema che evidenzia la capacità dell’alleanza di incrementare il loro utilizzo da parte dei pazienti cardiopatici. Questo dato potrebbe essere spiegato dall’attenzione che il gruppo ha rivolto al riconoscimento e all’accettazione dei pensieri e delle emozioni nel qui e ora. Tale lavoro potrebbe aver aumentato la capacità dei partecipanti di reagire agli stimoli, di attribuire loro un significato e di ridurre la propria dipendenza dalle situazioni di vita incontrate.

Infine sono emerse correlazioni significative tra la misura della glicemia, la sottoscala dell’alleanza relativa all’accordo sui metodi e la sua misurazione totale. Esse indicano che l’alleanza terapeutica incide sul controllo della glicemia. La relazione tra le due variabili potrebbe essere dovuta al lavoro effettuato durante l’intervento di Mental Fitness, che ha previsto la discussione su tematiche fortemente sentite dai pazienti, quali: la patologia cardiaca, l’evento critico e l’esperienza personale vissuta a tal riguardo. Il confronto con altre persone, caratterizzate dalle stesse problematiche, potrebbe aver aumentato la compliance verso le indicazioni mediche e, di conseguenza, aver favorito l’osservanza di prescrizioni e consigli relativi alle abitudini alimentari e di conseguenza alla glicemia.

2. Correlazione tra alleanza terapeutica e outcome nel campione di studenti specializzandi

I risultati ottenuti per il campione costituito da studenti specializzandi confermano, per quanto riguarda le correlazioni negative tra l’alleanza e la sottoscala “Externally oriented thinking” della TAS e tra l’alleanza e la sottoscala “Problem focused” del Bcope, quelli ottenuti per i pazienti. L’associazione negativa tra il pensiero orientato all’esterno e l’alleanza con il conduttore del gruppo può essere attribuita all’obiettivo di rivolgere maggiore attenzione al proprio mondo interno, caratterizzante l’intervento di Mental Fitness, mentre il miglioramento nelle relazioni sociali può essere stato influenzato dai processi che si sono attivati durante gli incontri.

Inoltre è emersa una correlazione tra la riduzione dell’utilizzo di strategie di coping focalizzate sul problema e le sottoscale del WAI, relative all’accordo sui metodi e sugli obiettivi dell’intervento. Questo risultato va in direzione opposta alle nostre aspettative. Una possibile spiegazione potrebbe essere legata all’attenzione dei partecipanti, più rivolta all’espressione emotiva e al riconoscimento dell’importanza delle emozioni nell’affrontare nuove strategie comportamentali di padroneggiamento delle situazioni problematiche.

Infine è emersa l’influenza positiva dell’alleanza sulla riduzione dell’utilizzo di strategie di coping disfunzionale. Essa può essere interpretata come un esito legato alla focalizzazione delle sedute di Mental Fitness sulla consapevolezza dei propri stati mentali. Tale presa di coscienza potrebbe aver fornito ai partecipanti la possibilità di sperimentare nuove modalità atte a saper utilizzare i vissuti personali per affrontare in modo alternativo situazioni diverse.

 

3. Correlazione tra coesione di gruppo e outcome nel campione di pazienti cardiopatici

Come si evince dai dati riportati in appendice sulla tabella 2., dalla correlazione tra la coesione di gruppo e gli esiti del trattamento sono emersi alcuni risultati inaspettati: la correlazione positiva tra la coesione e la difficoltà a identificare i sentimenti e tra la coesione e l’indice di massa corporea, nonché l’associazione negativa tra la coesione e la percezione della qualità dell’ambiente di vita. Questi risultati possono essere giustificati da alcuni limiti metodologici, riscontrati nell’utilizzo della GCS, primo tra i quali la difficoltà dei giudici a interpretare con gli stessi criteri alcuni costrutti.

È emersa una buona capacità predittiva sul miglioramento della percezione della qualità della vita. La costruzione di una buona coesione tra i membri del gruppo e i comportamenti volti a promuovere negli altri la crescita personale correlano positivamente con il miglioramento delle relazioni sociali. È inoltre possibile osservare una forte correlazione tra la presenza di conflittualità durante le sedute e una diminuzione nella qualità di vita generale percepita. Si può pensare che l’incapacità dei membri del gruppo a cooperare per il raggiungimento di obiettivi comuni influisca negativamente sul benessere percepito in relazione alla propria vita in generale.

Un altro importante risultato riguarda la correlazione tra fiducia tra i membri del gruppo e maggiore utilizzo di strategie di coping centrate sul problema e sulle emozioni, che va nella direzione di una maggiore efficacia dell’intervento psicologico quando la fiducia tra i membri del gruppo è più forte.

 

4. Correlazione tra coesione di gruppo e outcome nel campione di studenti specializzandi

Anche dalla correlazione tra la coesione di gruppo e gli esiti del trattamento per gli studenti sono emersi due risultati inaspettati (Tabella 2.) che riguardano la correlazione negativa tra la coesione e la percezione della qualità dell’ambiente di vita e l’associazione positiva tra la coesione e l’utilizzo di strategie di coping disfunzionali. Questi risultati possono essere giustificati da alcuni limiti riscontrati nell’utilizzo della GCS, soprattutto dalla difficoltà riscontrata dai giudici nell’interpretare alcuni costrutti secondo modalità condivise.

Si potrebbe anche ipotizzare che il percepire un ambiente di vita più ostile comporti una tendenza ad aumentare la vicinanza ad un gruppo di persone con caratteristiche simili.

 

Il confronto tra l’alleanza terapeutica e la coesione di gruppo

 

L’ultima analisi effettuata ha previsto la verifica dell’esistenza di una correlazione tra i due costrutti indagati. A tal proposito è stato calcolato l’indice di correlazione di Pearson tra la media dei punteggi, forniti dai due valutatori, in relazione all’alleanza terapeutica e alla coesione di gruppo. I risultati significativi sono presentati sulla tabella 3. in appendice.

Per il calcolo della correlazione si è fatto riferimento ai punteggi del WAI e della GCS relativi al primo e all’ultimo incontro dell’intervento di Mental Fitness.

 

I risultati ottenuti per il campione di pazienti fanno pensare che la scala relativa all’alleanza e la scala relativa alla coesione misurino aspetti differenti dei processi che si attivano nell’intervento di gruppo.

Per gli studenti, invece, alcune sottoscale, volte a rilevare rispettivamente l’alleanza e la coesione, sono risultate significativamente correlate. Questo risultato può indicare che i due costrutti sono altamente connessi tra loro. Tale associazione conferma i dati ottenuti in altri studi presenti in letteratura (Budman et al., 1989; Gillaspy et al., 2002).

Una possibile interpretazione potrebbe attribuire la correlazione agli aspetti simili che caratterizzano l’alleanza e la coesione di gruppo dal punto di vista teorico. Entrambi i concetti vengono definiti in funzione del legame creato e del lavoro svolto nel gruppo. Clinicamente, si può pensare che il rapporto e l’impegno nei confronti degli altri (coesione) si manifestino quando i membri del gruppo e il conduttore sono d’accordo e lavorano insieme per il raggiungimento degli obiettivi terapeutici. Allo stesso modo, la fiducia, il rispetto e la sensibilità verso il gruppo sembrano rappresentare i prerequisiti per essere reciprocamente supportivi e spontanei.

Tuttavia, l’assenza di associazioni positive tra alleanza e coesione, riscontrabili in entrambe le sedute, valutate per il campione di pazienti e nell’ultima seduta per gli studenti, potrebbe indicare l’esistenza di possibili differenze tra i due costrutti.

 

DISCUSSIONE

 

Lo scopo dell’indagine qui descritta è stato quello di studiare la costruzione dell’alleanza terapeutica e della coesione di gruppo con un campione di pazienti cardiopatici e un campione di studenti specializzandi in un intervento psicologico ad orientamento cognitivo. Gli obiettivi principali che hanno guidato la ricerca sono stati tre:

monitorare l’andamento delle due variabili nel corso delle quattro sedute previste per il Mental Fitness;

indagare la correlazione tra le due variabili e gli esiti dell’intervento;

studiare la relazione tra l’alleanza e la coesione per verificare se rappresentano aspetti differenti riscontrabili nel processo terapeutico di gruppo.

 

1. Per quanto riguarda il primo obiettivo, è stato osservato l’andamento di alleanza terapeutica e coesione di gruppo per studiarne l’evoluzione nel tempo. Dai risultati emergono concordanze con altri studi, già presenti in letteratura, che evidenziano un andamento crescente delle due variabili con il procedere degli incontri. Durante l’intervento di Mental Fitness la coesione del gruppo e l’alleanza tra i singoli membri e il conduttore sono sempre aumentate tra la prima e la quarta seduta, con una differenza statisticamente rilevante tra le due misurazioni.

Una possibile spiegazione per l’andamento seguito dalle due variabili potrebbe essere attribuita ai processi di socializzazione e interazione attivati dai membri dei gruppi con il procedere degli incontri. Essi potrebbero aver stimolato nei partecipanti l’acquisizione di una maggiore capacità di apertura e confronto, la nascita di un legame con gli altri membri e il conduttore, la crescita della fiducia verso gli obiettivi dell’intervento, la consapevolezza della sua utilità, lo stimolo ad impegnarsi nell’ottica del cambiamento e, di conseguenza, la formazione graduale dell’alleanza e della coesione.

 

2. Per quanto riguarda il secondo obiettivo è stata valutata l’alleanza di ogni membro con il conduttore del gruppo e non l’alleanza del gruppo nel suo insieme. Nel valutare la coesione i giudici hanno invece avuto il compito di giudicare il funzionamento del gruppo e non semplicemente quello dei singoli partecipanti.

L’alleanza è risultata essere un buon predittore del miglioramento dei seguenti aspetti: la prevenzione di un pensiero orientato all’esterno, la qualità della vita (in particolare nelle relazioni sociali), le capacità di coping focalizzate sul problema e il controllo della glicemia. È inoltre emersa un’associazione significativa con la riduzione dell’utilizzo di strategie di coping disfunzionali.

Questi risultati confermano quanto è emerso da altri studi effettuati nel setting terapeutico di gruppo, che hanno evidenziato come l’alleanza sia un attendibile predittore degli outcome (Marziali et al., 1997; Brown & O’Leary, 2000; Taft, Murphy, King, Musser & DeDeyn, 2003; van Andel, Erdman, Karsdorp, Appels & Trijsburg, 2003).

 

Anche la coesione di gruppo ha un buon potere predittivo su alcune misure d’esito. In particolare è stata verificata l’influenza che il costrutto può avere rispetto ai seguenti aspetti: il miglioramento della qualità della vita percepita, in particolare delle relazioni sociali, le capacità di coping focalizzate sull’emozione e quelle basate sul pensiero.

Questi risultati possono essere una conferma di quanto sostenuto da diversi ricercatori (Tschuschke & Dies, 1994, Yalom & Lesczc, 2005; Burlingame, McClendon & Alonso, 2011; Hornsey, Olsen, Barlow & Oei, 2011) circa il potere predittivo della coesione di gruppo sul miglioramento dei pazienti nell’ambito di diversi tipologie di trattamento, rivolte a molteplici problematiche.

 

Da quanto emerso si può affermare che l’alleanza terapeutica e la coesione di gruppo rappresentano due fattori curativi (sia direttamente, sia come mediatori) presenti nell’intervento psicologico di gruppo.

 

3. Per quanto riguarda il terzo obiettivo il risultato che alcune sottoscale del WAI e della GCS-II siano significativamente correlate può indicare che i due costrutti sono connessi tra loro. Tale associazione conferma i dati ottenuti in altri studi (Budman et al., 1989; Gillaspy et al., 2002). Tuttavia, essi rappresentano due differenti aspetti del processo terapeutico di gruppo, in particolare la coesione di gruppo si focalizza sulle transazioni membro-membro, mentre l’alleanza si riferisce alle interazioni membro-terapeuta. Si può pensare che la collaborazione nello svolgimento dei compiti volti al raggiungimento degli obiettivi terapeutici sia una delle componenti principali dell’alleanza (Bordin, 1979), mentre l’impegno, l’accettazione e i sentimenti verso l’altro siano aspetti che caratterizzano maggiormente la coesione (Crouch, Bloch & Wanlass, 1994; Yalom & Lesczc, 1995).

 

Potenzialità e limiti della ricerca

 

Lo studio si propone come una conferma dei risultati più importanti finora ottenuti dalle ricerche rivolte all’indagine dei processi terapeutici di gruppo.

Si può sostenere che la scelta degli strumenti (il WAI per lo studio della relazione tra soggetto e conduttore e la GCS per l’indagine della coesione tra i membri del gruppo) può aver avuto il merito di approfondire aspetti diversi che caratterizzano i processi che si attivano in un gruppo terapeutico.

Un punto di forza relativo alla metodologia della ricerca riguarda l’utilizzo di valutazioni fornite da osservatori esterni che hanno permesso di evitare le problematiche relative all’utilizzo di scale self-report, quali: l’eventuale mal interpretazione degli item, la scarsa attenzione nella compilazione del test e la possibilità che nella compilazione degli item i soggetti mettano in atto un atteggiamento difensivo, in modo da trasmettere un’immagine positiva di sé conforme alla desiderabilità sociale.

 

Oltre alle positività sopraelencate lo studio qui presentato ha anche riscontrato alcuni limiti.

L’esiguo numero di partecipanti ha permesso di raccogliere un ridotto numero di dati. Poiché ogni gruppo contava pochi componenti, le dinamiche sono emerse in modo sottile e difficilmente riconoscibile. Inoltre, è stato utilizzato un “campione di comodo” che ha fatto riferimento ad altri due progetti di ricerca già terminati. Lo studio si è pertanto potuto basare esclusivamente su valutazioni fornite da osservatori esterni e non ha potuto verificare le potenziali differenze con le prospettive offerte dal terapeuta e dai partecipanti agli incontri.

La breve durata del Mental Fitness non ha permesso di verificare le possibili fluttuazioni nelle variabili studiate, secondo l’ipotesi che la coesione e l’alleanza sono fenomeni dinamici e non statici. Un ulteriore follow-up oltre a quello effettuato avrebbe consentito di valutare gli effetti delle due variabili anche più a lungo termine.

Un ulteriore limite è messo in evidenza dagli studi sugli errori nella metodologia di ricerca i quali indicano che anche costrutti non correlati spesso sono altamente correlati se misurati con lo stesso metodo (Allen & Yen, 1979). Poiché nella presente indagine tutti i costrutti sono stati misurati con questionari rivolti a osservatori esterni, i risultati positivi, relativi alla correlazione tra le sottoscale, potrebbero riflettere, in qualche misura, gli effetti del metodo, anziché correlazioni tra i costrutti che i questionari intendono misurare (Johnson, Burlingame, Olsen, Davies & Gleave, 2005).

 

Note sull’applicazione degli strumenti

 

Da parte dei giudici che hanno fornito le valutazioni è stata riscontrata una forte difficoltà a rispondere ad alcune domande dei questionari a causa della struttura dell’intervento di Mental Fitness. Soprattutto per il WAI, nonostante sia uno strumento costruito su un modello panteorico di alleanza è stato difficile riscontrare, nelle sedute dell’intervento, alcuni elementi e alcune dinamiche indagate dal questionario.

Alcuni item, inoltre, sembrano più adatti a interventi meno strutturati e di maggior durata rispetto al Mental Fitness, a interventi che permettano di approfondire la percezione dei singoli partecipanti rispetto a ciò su cui si focalizza l’attenzione nel gruppo e a interventi che lascino maggior spazio all’esposizione delle problematiche e dei punti di vista dei pazienti.

Anche per la GCS è stato difficile individuare alcune variabili da indagare e attribuire la giusta importanza agli elementi apparentemente significativi e spesso poco evidenti. Inoltre, alcuni costrutti potevano essere interpretati secondo modalità personali ed è stato difficoltoso per i due giudici riuscire a individuare indicatori di riferimento sui quali basare le valutazioni.

 

Suggerimenti per ricerche e studi futuri

 

I limiti sopra elencati non permettono di generalizzare i risultati ottenuti, ma offrono uno spunto di riflessione per ulteriori ricerche.

Sarebbe interessante compiere uno studio con un campione più ampio, che preveda un numero maggiore di partecipanti per ogni gruppo e che confronti le valutazioni dell’alleanza e della coesione fornite dalle diverse fonti possibili (paziente, terapeuta e osservatore esterno).

Occorre approfondire maggiormente come alcune variabili quali: le caratteristiche sociodemografiche, il modello teorico del terapeuta e la popolazione dei pazienti influiscono sulla forza e sulla struttura dei fattori della relazione.

Ulteriori studi potrebbero indagare maggiormente la sovrapposizione tra i costrutti della relazione nella terapia individuale e di gruppo e valutare quali misure, disegnate per la terapia individuale, hanno proprietà psicometriche adeguate e significati simili se applicate al contesto della terapia di gruppo. Si potrebbero indagare maggiormente la validità e l’affidabilità degli strumenti, soprattutto per il loro utilizzo combinato negli studi sulla relazione tra processo ed esito nella psicoterapia di gruppo.

L’approfondimento delle variabili moderatrici e l’attenzione per le questioni metodologiche aumenterebbero la chiarezza sulla loro concettualizzazione e operazionalizzazione.

Se la ricerca realizzasse progetti che integrino i diversi livelli in gioco nel campo terapeutico, fornirebbe un grosso contributo anche alla clinica. Le reti di ricerca sulla valutazione delle psicoterapie, fondate su una cultura dello scambio e del confronto tra ricercatori e clinici consentirebbero di avviare circuiti virtuosi per una migliore comprensione di ciò che avviene nel percorso di cura, al di là del modello teorico di riferimento.

 

 

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APPENDICE A

Tabelle illustrative

 

 

Tabella 1. Correlazione di Pearson tra le sottoscale del WAI e i residui standardizzati delle misure d’esito

 

 

Note. Campione 1= pazienti; Campione 2=studenti

*p <.05 level (one-tailed)

**p <.01 level (one-tailed)

 

Tabella 2. Correlazione di Pearsion tra le sottoscale della GCS e i residui standardizzati delle misure d’esito

 

Note. Campione 1= pazienti; Campione 2=studenti

*p <.05 level (one-tailed)

**p <.01 level (one-tailed)

 

Tabella 3. Coefficiente di correlazione di Pearson tra le sottoscale del WAI e le sottoscale della GCS in ultima seduta per i pazienti e alla prima seduta

per il campione di specializzandi

 

Note. Campione 1= pazienti; Campione 2=studenti

*p <.05 level (one-tailed)

**p <.01 level (one-tailed)

 

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AUTORE: 

Chiara Scarampi. Questo articolo è un estratto della tesi di laurea magistrale discussa in data 07/11/2012 presso la Facoltà di Psicologia dell’Università degli Studi di Torino – Corso di Laurea in Psicologia Clinica e di Comunità

Anno accademico 2011 – 2012 . Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2013 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia

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Il senso della vita in Still life (2013) di Uberto Pasolini – Cinema & Psicologia

 Still life

di Uberto Pasolini (2013)

RECENSIONI DI STATE OF MIND

Still-Life-film-2013. - immagine: Locandina

E ci si chiede, è questo il senso? È questo il senso tragico della vita che non ha ricompensa ma trova la risposta ogni momento nella moralità di ogni gesto?

Guardando il film “still life”, film bellissimo di uberto pasolini che non si può perdere,  colpisce fin quasi dalla prima scena l’ossessività e la ripetitività dei riti quotidiani del protagonista, come  appende il suo cappotto, come sistema le penne sulla scrivania, come risponde a ogni telefonata.

John May è un piccolo impiegato comunale che ha il compito di rintracciare i parenti delle persone morte in solitudine tentando di coinvolgerli per seguire il funerale. Quando non li trova o quando i parenti si rendono irreperibili o non desiderano essere coinvolti, (le persone che muoiono sole spesso avevamo dei terribili caratteracci) John May ha il compito di seppellire dignitosamente le persone sole. E John lo fa in modo serio scrupoloso, ossessivo per ciascuno, cerca la religione, le preferenze musicali per l’ultima cerimonia, e appoggia gli oggetti preferiti dentro la tomba delle persone scomparse. 

A John May che parla pochissimo, questo lavoro piace, è come se rispondesse al suo bisogno di mettere in ordine il mondo, non solo da un punto di vista estetico, ma soprattutto morale. John May è uno Giusto che pensa che ogni persona abbia valore e ogni morte sia degna di essere ricordata. Il film è la descrizione della fine di questo mondo e della sua uscita dal lavoro.

Il municipio si modernizza, le tecnologie cambiano, e lui, si lui è un po’ lento. In questa promessa di fine John May ha  un ultimo caso, quello di Billy Stoke, un rissoso,  violento, anche se a tratti eroico personaggio, che è morto completamente solo e separato dal mondo.  Alcolista, incapace di mantenere gli affetti importanti,  è stato anche mendicante, paracadutista e probabilmente pessimo padre.

In uscita dal lavoro John chiede alcuni giorni al suo municipio per completare il suo ultimo caso, e lentamente ricostruisce la trama affettiva di questa vita perduta, un vecchio amico paracadutista, la figlia offesa e ferita, una vecchia amante. Questo peregrinare ha nel film il colore solenne e sublime della giustizia, della responsabilità umana, del ringraziamento alla vita.  Lui percorre tutta la strada fino alla fine brusca e inaspettata della sua stessa vita.

E ci si chiede, è questo il senso? È questo il senso tragico della vita che non ha ricompensa ma trova la risposta ogni momento nella moralità di ogni gesto?

Pasolini in realtà chiude il film con una scena che non serve. Ma questo è a volte il problema della letteratura e del cinema, e forse della nostra stessa vita, la difficoltà ad accettare una fine talmente tragica e l’idea che la speranza occorra per dare un senso finale alle nostre esistenze.

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