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Frontiere della Psicoanalisi – Limite e Caos – Milano Febbraio-Maggio 2014

Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti – Società Psicoanalitica Italiana
PRESENTANO:

Frontiere della Psicoanalisi

LIMITE E CAOS

Milano 10 Febbraio – 27 Maggio 2014

In molti settori della nostra società (economico, politico, giuridico, scientifico, culturale) si avverte il bisogno di introdurre un limite, di ristabilire una qualche forma di ordine, di fronte ad una realtà che appare sempre più caotica e confusa.

Intendiamo quest’anno esplorare il concetto di “limite”, liberandolo dalla connotazione esclusivamente negativa di frustrazione depressiva e sottolineandone invece il valore di organizzatore e generatore di pensiero.

 

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Il tempo che ci rimane. Di Elia Suleiman (2009) – Psicologia Film Festival – PFF

 

5° PSICOLOGIA FILM FESTIVAL – PFF

Presenta: 

IL TEMPO CHE CI RIMANE

Di Elia Suleiman (2009)

Presenta Sami Hallac, Presidente del Comitato di solidarietà con il popolo palestinese – Torino

comunicato il tempo che ci rimane il tempo che ci rimane faceb

 

Il Collettivo di Psicologia, in collaborazione con le Officine Corsare, presenta il

6° Appuntamento del Psicologia Film Festival

Giovedì 27 Febbraio ore 21,30

presso “Sala Poli – Centro Sereno Regis, via Garibaldi 13 – Torino”

con la proiezione del film

Il TEMPO CHE CI RIMANE

di Elia Suleiman (2009)

presenta il film Sami Hallac

Ingresso ad offerta liberta

Il Film

Di fronte ad una casa c’è un enorme carro armato; un ragazzo esce per buttare la spazzatura. Il cannone lo segue in tutti i suoi minimi spostamenti; il ragazzo fa finta di nulla e risponde come se niente fosse al cellulare. Una riflessione in quattro parti sulla storia degli arabi palestinesi a partire dal 1948, anno della proclamazione dello Stato di Israele, sino ad oggi. Viene raccontata attraverso episodi comici o tragici della vita di tutti i giorni ed è ispirata ai racconti del padre del regista, alle lettere della madre e ai ricordi del regista stesso. È il ritratto di un popolo che ormai convive con l’orrore, ma che va avanti con la propria quotidianità.  “Il tempo che ci rimane” è folgorante fin dall’incipit, un claustrofobico viaggio in taxi nella Terra Santa sotto un diluvio biblico e nell’accecante oscurità della notte, con il protagonista che fa capolino,  mentre il conducente ebreo testimonia (anche) il proprio disorientamento nei confronti di un paese divenuto irriconoscibile. La pellicola si riavvolge poi nel tempo, soffermandosi su quattro date dal 1948 ad oggi cui corrispondono quattro episodi significativi della vita pubblica dei Territori e privata dei personaggi. Per tutto il film, c’è il coraggio di una partigianeria schietta, che ancor più dei grandi crimini dello Stato ebraico ne stigmatizza le piccole, continue provocazioni quotidiane che logorano i palestinesi fino a indurli alla follia o al pensiero del suicidio. Il tempo che ci rimane trasforma la frustrazione e la rabbia in un discorso cinematografico.

 

Il regista

Elia Suleiman Nasce il 28 luglio 1960 a Nazaret da una famiglia palestinese di fede cristiana. Terminati gli studi, dal 1982 al 1993 vive e lavora a New York, dove gira Homage by Assassination, dura e lucida critica alla Guerra del Golfo. Nel 1996 gira il suo primo lungometraggio, Cronaca di una sparizione, che ottiene il Premio per la miglior Opera Prima alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Il grande successo arriva nel 2002 con Intervento divino da lui scritto, diretto ed interpretato, che narra una storia d’amore ambientata al checkpoint tra Nazaret e Ramallah. Il film fa incetta di premi, fra cui il  Gran Premio della Giuria a Cannes.

 

Sami Hallac

Presidente del “Comitato di solidarietà con il popolo palestinese – Torino”. Palestinese di Gerusalemme Est, lavora come educatore per il comune di Torino.

 

Vi aspettiamo numerosi

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ARTICOLI SU CINEMA & PSICOLOGIA

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

 

Piano del sogno, Pt. 1 – Il sogno come desiderio sommo della nostra umana esistenza.

E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai di giocatori
che non hanno vinto mai
ed hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro
e adesso ridono dentro a un bar,
e sono innamorati da dieci anni
con una donna che non hanno amato mai.
Chissà quanti ne hai veduti, chissà quanti ne vedrai.  

Francesco De Gregori, La leva calcistica della classe ‘68

 

PIANO DEL SOGNO PT.1

Piano del sogno. - Immagine: ©-Andrii-Salivon-Fotolia.comÈ quantomeno curioso l’uso del termine e l’analogia tra l’esperienza onirica notturna e l’ideale desiderato. Qui vorrei occuparmi della seconda veste: il sogno come desiderio sommo della nostra umana esistenza.

Uno degli aspetti caratteristici della mente umana è la possibilità di prefigurarsi i sogni personali e la passione con la quale si cerca di realizzarli.

È quantomeno curioso l’uso del termine e l’analogia tra l’esperienza onirica notturna e l’ideale desiderato. Qui vorrei occuparmi della seconda veste: il sogno come desiderio sommo della nostra umana esistenza. Sin da piccini è culturalmente e socialmente trasmessa l’importanza di avere un sogno nel cassetto. Non solo. La società moderna induce la necessità di coltivare i sogni sotto l’egida del pensiero positivo.

Una vasta corrente di filosofi, motivatori e psicologi urlano l’importanza dei desideri personali, di rimanervi attaccati innanzi alle difficoltà, perseguirli senza timori con strenuo sforzo e imperituro sacrificio. I giovani navigano nei sogni e consumano sforzi (propri e dei familiari) per cercare di realizzarli. Ora più che in passato la macchina del commercio cavalca l’onda dei sogni, nei talent show, nella facilità di accesso a una vetrina telematica, attraverso l’autopromozione condivisa dei social network.

Questo movimento possiede un valore sociale, aumenta non solo l’introito economico ma amplifica anche lo spettro di opportunità e anche di illusioni. Il messaggio educativo è centrato sul sogno. Senza sogni, siamo solo uomini (come se esserlo fosse obiettivo da poco). Senza sogni siamo solo mediocri (come se fosse un male o si possa effettivamente essere qualcosa di diverso).

D’accordo, rallento con il cinismo, che dietro al cinismo si sa, v’è sempre un romantico frustrato. Iniziamo con sottolineare la forza motivante del sogno ideale. La vetta della montagna ha una sua funzione, ci permette di sostenere ostacoli per una gratificazione lontana nel tempo. Offre energia, motivazione ed entusiasmo, passione motoria e concentrazione mentale, esperienze ottimali di flow, vale a dire un completo assorbimento nel viaggio che si sta percorrendo.

E questo di per sé rende felici. E spesso aiuta. Molti personaggi famosi che arricchiscono le copertine patinate di altrettanto famose biografie espongono in bella mostra l’attaccamento ai propri sogni. Mi chiedo quanto sia vasta la parte cieca: quelli che non hanno raggiunto la riva. Di loro poco si conosce. Erano davvero meno attaccati ai sogni, meno fortunati, meno talentuosi. Conosciamo bene coloro che sono stati premiati dal sogno, ma quanti ne vengono bruciati, questo ci è più oscuro. Tuttavia qualche riflessione è lecito farla attorno a questo elogio del sogno, o meglio dell’avere sogni. In particolare può valer la pena chiedersi quando e quanto il sogno ci costringa entro una gabbia.

Il sogno è una spinta motivante verso il raggiungimento dei propri scopi. Ma cosa succede quando l’attaccamento al sogno e alla ricompensa dei propri sforzi diventa rigido e inflessibile? Un sogno è rigido quando non si modula sulla base delle risposte che la realtà offre, anzi si cristallizza. La realtà bastona e la risposta alle bastonate è la chiusura e l’incremento del proprio investimento, ad oltranza. Forse è proprio in questo passo che il sogno diventa una vulnerabilità alla sofferenza psicologica.

Primo, la chiusura nel sogno allontana i dati di realtà fin quasi a non considerarli.

Garantisce di vivere entro i confini della propria mente idilliaca e rassicurante, con l’occhio puntato sempre e solo sulla vetta. Ciò che dicono gli altri e le risposte della realtà divengono meno influenti, talvolta inutili, all’estremo fastidiosi. Le reazioni ad esse si fanno prima evitanti, poi rabbiose e sprezzanti nei confronti di chi o cosa prova ad abbassare il nostro sguardo. Lo sguardo altrove riduce la capacità di adattarsi a ciò che ci circonda, quei maledetti o noiosi cinque centimetri davanti ai piedi.

Secondo: restare a lungo nel desiderio e nel suo perseguimento sostiene il diritto a vederlo realizzato.

Tra le leggi naturali vediamo scritto che a impegno corrisponde successo e se il nostro impegno è smisurato allora lo è il credito che ci è dovuto e conseguentemente il senso di ingiustizia del vederlo insoluto, e infine la rabbia.

E come terzo viene il costo. Sì perché quei cinque centimetri davanti ai piedi che abbiamo smesso di osservare potrebbero essere ricchi e benedetti.

Talvolta vi crescono i piccoli piaceri quotidiani, le esperienze di pace, di condivisione e affetto con gli altri. Gridava Al Pacino in Any Given Sunday “i centimetri sono intorno a noi”, distanti dalla vetta ma a portata della nostra mano. Si tratta del lato brillante della tanto osteggiata mediocrità, quella che il sogno può impedirci di gustare.

E infine la pratica: il lato concreto della semplice sopravvivenza che forse è paradossalmente anche la via migliore per avvicinarsi alla vetta.

D’altronde guardare la vetta non è il miglior modo per vedere come raggiungerla.

Insomma, la testa può stare ogni tanto tra le nuvole, ma l’attenzione è bene che sia anche ai piedi, piantati per terra, al fine di scegliere intanto il prossimo passo.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

I disturbi dissociativi della coscienza (2013) di Giuseppe Miti – Psicologia

Paola Castelli Gattinara

 

 

I disturbi dissociativi della coscienza

 Giuseppe Miti (2013). Carocci, Roma

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I disturbi dissociativi della coscienza di Giuseppe Miti. -Immagine: copertina

I disturbi dissociativi della coscienza – Miti ci introduce, partendo dall’idea di coscienza come un’entità non unitaria ma come una pluralità organizzata di stati di coscienza, alle due principali ipotesi che sono state utilizzate per descrivere i fenomeni di dissociazione: quella del Continuum e quella del Detachment e compartmentalization. 

Il libro di Giuseppe Miti ci propone uno dei temi più complessi e affascinanti della psicopatologia contemporanea: la dissociazione. La sua è una proposta sulla dissociazione rigorosa nell’analisi dei fondamenti scientifici, della descrizione nosografica e clinica ma, nello stesso tempo, anche una proposta storica e culturale che questo fenomeno ha assunto in epoche diverse.

L’esperienza del “dolore estremo”, così come la definisce nell’introduzione Giovanni Liotti, uno dei maggiori studiosi dei disturbi dissociativi, è declinata lungo diverse prospettive: quella relativa al suo inquadramento diagnostico, agli aspetti neurofisiologici che la sottendono, alle diverse modalità di cura e infine alla forma metaforica che ha assunto nel passato in diversi ambiti: religioso, filosofico, politico e antropologico.

Nella prima parte vengono definiti i concetti di dissociazione e coscienza, unitamente all’ampio dibattito e alle diverse concezioni proposte dagli studiosi per spiegare le variegate forme dissociative presenti nei pazienti.

Miti ci introduce, partendo dall’idea di coscienza come un’entità non unitaria ma come una pluralità organizzata di stati di coscienza, alle due principali ipotesi che sono state utilizzate per descrivere i fenomeni di dissociazione: quella del Continuum e quella del Detachment e compartmentalization.  Entrambe queste ipotesi, pur implicando meccanismi sottostanti differenti, cercano di rendere conto della natura del rapporto fra trauma, memoria e dissociazione. 

Dal 1980 in poi, il rinnovato interesse clinico per la patologia post-traumatica ha portato a sottolineare il legame fra trauma e dissociazione, sviluppando moltissimo la ricerca in questo ambito.

La dissociazione, infatti, viene strettamente collegata al trauma, inteso come l’impossibilità per il soggetto di organizzare psicologicamente l’esperienza che si trova a vivere.

Questa esperienza inelaborabile rimane pertanto dissociata e si manifesta attraverso le vie espressive del corpo e della disregolazione affettiva.

Il progredire degli studi sull’attaccamento e in particolare sull’attaccamento disorganizzato, unitamente all’accento posto da molti studiosi sulla natura relazionale della coscienza, permettono all’Autore di introdurci all’importanza della storia di sviluppo quale variabile in gioco nel determinare un particolare predisposizione a produrre esperienze dissociative di fronte ad episodi traumatici.

Nella seconda parte, dopo aver descritto le problematiche connesse all’inquadramento nosografico dei sintomi dissociativi in ambito psichiatrico, Miti passa ad affrontare il tema della memoria prendendo in esame anche lo spinoso problema dei falsi ricordi che ha suscitato, negli anni ’90, un ampio dibattito critico negli Stati Uniti. In particolare l’Autore ci offre una utile panoramica delle ricerche sperimentali mirate a definire dei criteri che possano indicare il grado di attendibilità delle memorie ricostruite.

La complessità del trattamento dei fenomeni dissociativi, dove sono implicati disturbi della memoria, è ben illustrata dall’Autore che, riportando le parole dei suoi pazienti, afferma: “la cosa più drammatica che hanno vissuto non è il dramma di per sé (gli eventi traumatici), ma le conseguenze che ne sono scaturite, cioè l’esperienza stessa della dissociazione della coscienza. L’assoluta impossibilità di dare senso agli avvenimenti….la percezione di non potersi fidare neppure dei propri ricordi e delle proprie percezioni”.

Ne consegue necessariamente un approccio clinico articolato, orientato per fasi, che tenga conto del corpo e dell’esperienza fisica come luogo privilegiato d’intervento. Il corpo, infatti, è la sede del ricordo traumatico, il quale rimane attivo anche in contesti non pericolosi e questo è il motivo per cui sono necessarie tecniche e strategie fondate sul non verbale. Tecniche che risultano essere particolarmente utili nei disturbi dissociativi gravi in quanto sono in grado di produrre un cambiamento senso-motorio.

Nell’illustrare brevemente queste strategie cliniche buttom up, che mettono da parte il racconto e partono dal corpo per integrare solo in seguito i contenuti mentali, Miti propone un’interessante spiegazione del loro funzionamento utilizzando il modello neurofisiologico della gerarchia polivagale proposto da Porges. 

L’ultima parte del libro tratta il tema della dissociazione da un’angolatura particolare. Giuseppe Miti, sulle orme di Janet che nel 1929 tenne delle Lezioni al College de France proprio su Le Possessioni e sullo Spiritismo quali forme della disaggregazione psicologica, traccia una storia, lunga 500 anni, di come il fenomeno dissociativo fu usato dalla Sacra Inquisizione come forma di repressione e di controllo sociale.

E’ la storia di uno dei periodi più bui della Chiesa Cattolica, che mostra come il fantasma del diavolo o dei demoni si riveli una realtà da esorcizzare e combattere “quando il male s’incorpora nel corpo della persona”. La possessione incarnata stravolge completamente la personalità tanto che una persona diventa un’altra, ed è talmente incomprensibile e destabilizzante perché, questa altra personalità, si presenta quasi sempre nelle sembianze di un maligno o di una strega.

La possessione, di là dell’interpretazione religiosa, che tuttavia è durata fino al 2000, quando Papa Giovanni Paolo II ha ammesso gli errori della Chiesa, è oggi riconosciuta dalla comunità scientifica come un disturbo dissociativo strutturale.

Un traguardo che ha una sua storia nella psichiatria che parte dalle teorie di Mesmer di metà ‘800 sul ruolo sociale che queste manifestazioni ricoprivano, passando poi per la psichiatria fenomenologica di Jaspers del primo ‘900, fino alle attuali teorie corroborate dalla ricerca scientifica.

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Aspetti neuropsicologici nell’Anoressia Nervosa e correlazioni con fattori ansiosi

Matteo Aloi.

 

 

Aspetti neuropsicologici nell’Anoressia Nervosa e 

correlazioni con fattori ansiosi

 

 

 

Aspetti neuropsicologici dell'anoressia nervosa. - Immagine: © Kzenon - Fotolia.comAnoressia Nervosa: l’interesse delle scienze neuropsicologiche per i Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) appare evidente dal gran numero di studi pubblicati nell’ultimo decennio. (Roberts et al., 2007; Abbate Daga et al., 2011; Stedal et al., 2012).

Avere l’opportunità di individuare le caratteristiche neuropsicologiche che caratterizzano in maniera significativa i pazienti affetti da DCA può essere senz’altro interessante e utile sia dal punto di vista nosografico che dal punto di vista clinico-terapeutico.

Particolarmente interessante per l’Anoressia Nervosa sembra essere la rigidità cognitiva che risulta essere misurabile tramite test neuropsicologici. La scarsa flessibilità cognitiva sembra essere ereditaria, stato-indipendente e collegata ai fattori causali del disturbo, e considerata da molti recenti studi un buon candidato come endofenotipo per l’AN (Bulik et al., 2007).

La rigidità cognitiva potrebbe essere una caratteristica neuropsicologica presente prima dell’insorgenza del disturbo che però fa si che il sintomo alimentare si radichi nella paziente e sia difficilmente modificabile, anche a causa della messa in atto di comportamenti restrittivi con conseguente denutrizione che rende la paziente più rigida e la porterà ad incontrare sempre maggiori resistenze per intraprendere un percorso terapeutico. Oltre alla rigidità cognitiva, in letteratura sta emergendo anche come le pazienti con Anoressia Nervosa sembrano avere deficit nei compiti di Decision Making e scarsi indici di Coerenza Centrale.

Appare evidente che l’individuazione di endofenotipi per i DCA potrebbe portare ad una nuova classificazione di essi secondo appunto i tratti endofenotipici che li caratterizzano e si aprirebbero le strade per nuove e più specifiche tecniche terapeutiche che mirino proprio al cambiamento dei tratti endofenotipici. Si ipotizza infatti che i modelli endofenotipici di malattia possano aiutare la comprensione dell’eziologia e l’inquadramento diagnostico di complesse alterazioni della fisiologia psichica.

Il presente studio è stato svolto su un campione di 52 soggetti affetti da Anoressia Nervosa e 51 soggetti di controllo. Tutti i soggetti partecipanti sono stati valutati con test neuropsicologici sulla flessibilità cognitiva quali il Wisconsin Card Sorting Test (WCST), il Trail Making Test (TMT) e l’Hayling Sentence Completion Task, sul Decision Making quale l’Iowa Gambling Task (IGT) e sulla Coerenza Centrale quale la Rey-Osterrieth Complex Figure Test (RCFT). Sono stati somministrati anche test autovalutativi quali: l’Eating Disorders Inventory-2 (EDI-2), il Beck Depression Inventory (BDI), il Temperament and Character Inventory (TCI), la Toronto Alexithymia Scale-20 (TAS-20), il Metacognition Questionnaire-30 (MCQ-30) e la Intolerance of Uncertainty Scale (IUS)

L’ipotesi è quella di confermare il deficit neuropsicologico in termini di rigidità cognitiva, di deficit nel Decision Making e di ridotta Coerenza Centrale nelle pazienti con Anoressia Nervosa. La conferma della rigidità cognitiva come deficit neuropsicologico delle pazienti con Anoressia Nervosa avvalorerebbe l’utilità di terapie innovative mirate al miglioramento neuropsicologico, come la Cognitive Remediation Therapy (Tchanturia et al., 2005; 2006; 2007; Abbate Daga et al., 2012). Il miglioramento neuropsicologico potrebbe portare ad un miglioramento nella sintomatologia e consentirebbe alle pazienti di affrontare un percorso psicoterapeutico di crescita individuale con maggiori risorse.

Infine, per la prima volta in letteratura, si valuterà se e quanto le capacità metacognitive valutate con il Metacognition Questionnaire-30 (MCQ-30), l’intolleranza dell’incertezza valutata con la Intolerance of Uncertainty Scale (IUS) e gli stati emotivi valutati con la Toronto Alexithymia Scale-20 (TAS-20) influiscano sulla performance neuropsicologica delle pazienti con Anoressia Nervosa.

 

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ARGOMENTI CORRELATI: DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – EDANORESSIA NERVOSA – NEUROPSICOLOGIA

 

L’AUTORE:   Dott. Matteo Aloi.
Questo articolo è direttamente estratto dalla tesi di laurea magistrale. Corso di Laurea in Scienze della Mente del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino. La tesi è una tesi sperimentale condotta presso il Centro Pilota Regionale per la Diagnosi, la Cura e lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare di Torino diretto dal Prof. Secondo Fassino. La suddetta tesi è stata discussa in data 8 luglio 2013. La votazione finale è stata di 110/110 con lode e menzione speciale.

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2013 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia, Sezione Junior.

 

L’ossessione per l’ordine nell’arte di Ursus Wehrli

 

 

L’artista e attore comico Ursus Wehrli  è l’autore di Tidying Up Art: l’arte di mettere in ordine.

Nella sua visione estetica, l’arte e il circostante necessitano di una buona risistemata: quello di cui c’è bisogno è di una forma d’arte contemporanea più pulita, razionale e organizzata!
Questa brillante provocazione artistica non può che farci sorridere e ci chiediamo: fino a che punto l’artista svizzero impersona uno stereotipo e in che misura è veramente preda di questa ossessione?
Ancora, possiamo ridurre e assimilare questa “arte del mettere in ordine” alle tante estetizzazioni pop delle piccole ossessioni quotidiane e del disturbo ossessivo-compulsivo (OCD)?

GUARDA LA CONFERENZA TED TALK DI URSUS WEHRLI

 L’arte di mettere in ordine di Ursus Wehrli:

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TED Conference: Ursus Wehrli riordina l’arte

FONTE: TED.COM RIPRODOTTO SU LICENZA CREATIVE COMMONS 3.0 – AUTORE: URSUS WEHRLI

ARTEINSTALLAZIONI & PERFORMANCES – OSSESSIONIDISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO

Trascrizione:

Tradotto in italiano da Lela Selmo  •  Revisione di Maria Gitto

Mi chiamo Ursus Wehrli, e vorrei parlarvi, questa mattina, del mio progetto, Tidying Up Art (Riordinando l’Arte). Prima di tutto – qualche domanda fin’ora? Prima di tutto, devo dirvi che non sono di queste parti. Vengo da un’ area culturalmente completamente diversa, forse l’avrete notato? Voglio dire, primo, indosso una cravatta. E secondo, sono un po’ nervoso perché sto parlando in una lingua straniera, e voglio scusarmi in anticipo per ogni errore che potrò commettere, perchè sono svizzero, e spero che non pensiate che la lingua che sto parlando sia lo svizzero tedesco. E’ solo come suona quando noi svizzeri cerchiamo di parlare americano. Ma non preoccupatevi – non ho problemi con l’inglese in sé. Voglio dire, non è un mio problema, è la vostra lingua dopo tutto. (Risate) Io sono a posto. Dopo questa presentazione qui al TED posso semplicemente tornare in Svizzera, siete voi a dover continuare a parlare così. (Risate)

Mi è stato chiesto dagli organizzatori di leggere dal mio libro. Si chiama, Tidying Up Art (L’arte a soqquadro n.d.t.) e, come potete vedere, è più o meno un libro illustrato. Quindi la lettura finirebbe ben presto. Ma visto che sono qui al TED, ho deciso di tenere la mia presentazione in una maniera più moderna, nello spirito del TED, e mi sono organizzato con alcune diapositive per voi. Vorrei mostrarle in giro, così che possiamo, sapete… (Risate) Di fatto, ho preparato per voi degli ingrandimenti – anche meglio.

Quindi Tidying Up Art, intendo, devo dire, che è un termine relativamente nuovo. Non vi sarà familiare. Intendo dire, è un hobby al quale mi sono dedicato negli ultimi anni, e tutto è cominciato con quest’opera dell’artista americano, Donald Baechler che avevo appesa a casa mia. Dovevo guardarla ogni giorno e dopo un po’ non sono più riuscito a sopportare il disordine che questo tizio doveva guardare tutto il giorno. Sì, mi sentivo un po’ dispiaciuto per lui. E mi sembrava che persino lui si stesse davvero male costretto a guardare questi quadrati rossi disorganizzati, giorno dopo giorno. Quindi ho deciso di dargli un piccolo aiuto, e ho riportato un po’ di ordine impilando i blocchi uno sull’altro. (Risate) Sì. E penso che ora sembri un po’ meno scontento. Ed è stata una cosa meravigliosa. Con questa esperienza ho cominciato a guardare con più attenzione all’arte moderna. E mi sono reso conto che, sapete, il mondo dell’arte moderna è particolarmente sotto sopra.

E posso mostrarvi un ottimo esempio. E’ di fatto un esempio semplice, ma è un buon inizio. E’ un’opera di Paul Klee. E possiamo vedere chiaramente come sia una confusione di colore. (Risate) Sì. L’artista sembra non sapere davvero dove mettere i diversi colori. Le varie immagini qui, dei vari elementi dell’immagine — l’intera opera manca di struttura. Non possiamo saperlo, forse il signor Klee, era probabilmente in ritardo. Voglio dire… (Risate) …forse doveva prendere un aereo o qualcosa del genere. Possiamo vedere qui che aveva cominciato con l’arancio e qui l’aveva già finito, e qui possiamo vedere che aveva deciso di fare una pausa per un quadrato. E vorrei mostrarvi la mia versione ordinata di questo quadro. (Risate) Possiamo vedere ora quello che si poteva a malapena riconoscere nell’originale: 17 quadrati rossi e arancio sono giustapposti a 2 quadrati verdi. Sì, è incredibile. Voglio dire, questa è roba per principianti. Vorrei mostrarvi un lavoro un po’ più avanzato. (Risate)

Cosa possiamo dire? Che casino. Intendo dire, vedete, tutto sembra essere stato sparso alla rinfusa nello spazio. Se la mia camera a casa dei miei fosse stata così, mia madre mi avrebbe messo in castigo per tre giorni. Quindi vorrei… vorrei reintrodurre un po’ di struttura in questo quadro. E questo è riordinare ad uno stato avanzato. (Applauso) Avete ragione. A volte la gente applaude a questo punto ma di solito succede in Svizzera. (Risate) Noi svizzeri siamo famosi per il cioccolato e il formaggio. I nostri treni sono in orario. Siamo contenti solo quando le cose sono in ordine.

Ma per andare avanti, questo è un buon esempio da vedere. Questo è un quadro di Joan Mirò. E sì, possiamo vedere che l’artista ha disegnato un po’ di linee e forme e le ha lasciate cadere in qualche modo su uno sfondo giallo. E’ il tipo di cose che si producono quando si scarabocchia al telefono. (Risate) E questo è mio… (Risate) …potete vedere che ora l’intera cosa occupa molto meno spazio. E’ più economico e più efficiente. Con questo medoto il signor Mirò avrebbe potuto risparmiare tele per un altro quadro.

Ma posso vedere dalle vostre facce che siete ancora un po’ scettici. Affinché possiate capire quanto sono serio su questo argomento, ho portato i brevetti, le specifiche di alcuni di questi lavori, perché ho fatto brevettare i miei metodi al Eidgenössische Amt für Geistiges Eigentum a Berna, Svizzera. (Risate) Riporto dalle specifiche. “Laut den Kunstprüfer Dr. Albrecht –” non è ancora finito. “Laut den Kunstprüfer Dr. Albrecht Götz von Ohlenhuse wird die Verfahrensweise rechtlich geschützt welche die Kunst durch spezifisch aufgeräumte Regelmässigkeiten des allgemeinen Formenschatzes neue Wirkungen zu erzielen möglich wird.”

Sì, avrei potuto tradurre, ma non ci avreste capito niente in ogni caso. Neanche io sono sicuro di cosa voglia dire ma suona bene. Ho capito di recente che è importante il modo in cui uno introduce nuove idee al pubblico, ecco perché i brevetti a volte sono necessari. Vorrei fare un breve test con voi. Siete tutti seduti in maniera ordinata questa mattina. Quindi vorrei chiedere a tutti voi di alzare la mano destra. Sì così. La mano destra è quella con la quale scriviamo, eccetto che per i mancini. Ed ora, conterò fino a tre. Voglio dire, siete ancora belli ordinati. Ora, conterò fino a tre, e al tre vorrei che diate la mano alla persona dietro di voi. OK? Uno, due, tre. (Risate)

Vedete ora, ecco un buon esempio di come comportarsi in maniera ordinata, sistematica possa portare a volte, al caos completo. Questo lo possiamo vedere molto chiaramente nel prossimo dipinto. Questo è un dipinto dell’artista, Niki de Saint Phalle. E voglio dire, nell’originale è praticamente impossibile vedere cosa questi triangoli e colori e forme dovrebbero rappresentare. Ma nella versione ordinata, è evidente che è una signora scottata dal sole che gioca a pallavolo. (Risate) Sì, è una… questa qui, è molto meglio. Questa è un’opera di Keith Haring. (Risate) Credo non importi. Voglio dire, questo quadro non ha nemmeno un titolo. Si chiama “Senza Titolo” e penso che sia appropriato.

Quindi, nella versione ordinata abbiamo una specie di negozio di pezzi di ricambio di Keith Haring. (Risate) Così è come guardare Keith Haring statisticamente. Qui si può vedere chiaramente, che ci sono 25 elementi verde chiaro, dei quali uno a forma di cerchio. O qui, per esempio, abbiamo 27 quadrati rosa e una sola curva rosa. Voglio dire, è interessante. Uno potrebbe estendere questo tipo di analisi statistica per coprire tutti i lavori del signor Haring. Così, per vedere in quale periodo l’artista preferiva cerchi verdini o quadrati rosa. E l’artista stesso potrebbe trarre beneficio da questo tipo di procedura usandola per prevedere di quante latte di vernice avrà probabilmente bisogno in futuro. (Risate)

Uno può anche ovviamente fare delle combinazioni. Per esempio, i cerchi di Keith Haring e i punti di Kandinsky. Li puoi aggiungere a tutti i quadrati di Paul Klee. Alla fine, uno ha una lista con la quale creare composizioni. Poi le puoi categorizzare, archiviare, e metterle in un catalogatore, metterlo in ufficio e portare a casa il pane con questo lavoro. (Risate) Certo! Esperienza personale. Quindi, io… (Risate) Di fatto, abbiamo anche artisti che lavorano con un po’ più di struttura. Non è male. Questo è Jasper Johns. Possiamo vedere che qui si esercitava con il suo righello. (Risate)

Ma penso che possa comunque migliorare con un po’ più di disciplina. E penso che il tutto funzioni meglio se facciamo così. (Risate) E qui, questo è uno dei miei preferiti. Riassettare Rene Magritte, questo è davvero divertente. Sapete, c’è… (Risate) mi è stato chiesto cosa mi ha inspirato ad iniziare questo progetto. Dobbiamo andare indietro ad un tempo quando stavo spesso in hotel. Una volta ho avuto l’occasione di soggiornare in un hotel “ritzy” a 5-stelle . E sapete, c’era uno di questi cartellini — Tutte le mattine mettevo fuori dalla porta questo cartello che diceva: “Per cortesia, riordinate la stanza.” Non so se li avete da queste parti. Quindi, la mia stanza non veniva ripulita una volta giorno, bensì tre. Quindi dopo un po’ decisi di divertirmi un pochino, e prima di lasciare la stanza ogni giorno sparpagliavo un po’ di cose qua e là. Libri, vestiti, spazzolini, eccetera. Ed era grandioso. Quanto tornavo tutto era stato precisamente rimesso al proprio posto. Ma una mattina, appesi lo stesso cartellino al quadro di Vincent van Gogh. (Risate) E dovete concedermi che questa stanza non è mai stata rifatta dal 1888. E quando tornai era così. (Risate) Sì, per lo meno ora è possibile passare l’aspirapolvere. (Risate)

Ok, voglio dire, vedo che ci sono sempre persone alle quali piace contestare che quella o quell’altra immagine non è stata riordinata adeguatamente. Quindi, vorrei fare un piccolo test con voi. Questo è un quadro di Rene Magritte, e vorrei che tra di voi — nella vostra testa, intendo — lo riordinaste. E’ possibile che alcuni di voi la immaginino così. (Risate) Sì? Io preferirei farlo in questo modo. Alcuni ne farebbero una torta di mele. Ma è un ottimo esempio per vedere che l’intero lavoro è stato più che altro un lavoro manuale che ha preso parecchio tempo, per tagliare tutti i vari elementi e riattaccarli in nuove configurazioni. E non è stato fatto con il computer, come molti immaginano, altrimenti sarebbe così (Risate)

Fin’ora ho avuto l’occasione di riordinare immagini che avrei voluto ripulire da parecchio tempo. Qui c’è un ottimo esempio. Prendete Jackson Pollock, per esempio. E’ — oh no, è — è uno difficile davvero. Ma dopo un po’, ho deciso di andare fino in fondo e di rimettere tutta la vernice nelle lattine. (Applauso) Oppure potreste dedicarvi all’arte tridimensionale. Qui abbiamo la Fur Cup di Meret Oppenheim. Qui l’ho riportato al suo stadio originale. (Risate) Ma sì, è fantastico, e potete persino, sapete — O abbiamo il movimento puntinista, per quelli tra di voi che non se ne intendono d’arte. Il movimento puntinista è quel tipo di pittura dove tutto è ridotto a puntini e pixel E allora, io — questo tipo di cose sono l’ideale per riordinare. (Risate)

Quindi, mi sono dedicato al lavoro dell’ inventore di questo metodo, Georges Seurat, e ho collezionato tutti i suoi puntini. Ed ora sono tutti qui. (Risate) Potete contarli dopo, se volete. Vedete, questa è la cosa straordinaria di questa idea del riordinare: E’ nuova. Non esistono tradizioni. Non ci sono manuali, voglio dire, non ancora, almeno. Voglio dire, è il “futuro che creeremo”. (Risate) Ma per concludere vorrei mostrarvene solo un altro. Questo è La piazza del villaggio di Pieter Bruegel. Questo è quello che si vede quando mandate tutti a casa. (Risate) Sì, forse vi starete chiedendo dov’è finita la gente di Bruegel il Vecchio? Ovviamente, non sono scomparsi. Sono tutti qui. (Risate) Ne ho fatto una bella catasta. (Risate)

Quindi… di fatto per il momento ho finito. E per quelli che vogliono vedere altro, c’è il mio libro nella libreria sotto. E sono felice di firmarvelo con il nome di qualsiasi artista. (Risate) Ma prima di andare vorrei mostrarvi, che sto lavorando ad un altro — in un campo affine con il mio metodo per riordinare l’arte. Sto lavorando in un campo affine. E ho iniziato a portare un po’ di ordine nelle bandiere. Qui — questa è la mia proposta per la Union Jack. (Risate) E ancora, prima di lasciarvi… sì, credo, dopo che avete visto questa dovrò andare via comunque. (Risate) Qesta è stata dura. Non riuscivo a trovare il modo di riordinarla adeguatamente, quindi ho deciso di semplificarla un po’. (Risate) Molte grazie. (Applauso)

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La psicologia positiva è utile per contrastare il tabagismo

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Alcuni esercizi di psicologia positiva sono efficaci per supportare le tecniche e i trattamenti per contrastare il tabagismo.

Un gruppo di ricercatori americani ha studiato gli effetti dell’applicazione della psicologia positiva (Positive Psychology) nei cambiamenti delle cosiddette cattive abitudini. La psicologia positiva è conosciuta dei tecnici del mestiere come area di interesse in cui i processi psicologici non sono studiati a partire dalla psicolopatologia ma dalle aree di funzionamento sano ed efficace.

In particolare, nel caso della cessazione della dipendenza da nicotina i ricercatori si sono focalizzati sulla promozione di emozioni positive e di umore positivo potenziandone l’espressione e l’esperienza soggetiva stessa.

Nello studio preliminare sono stai reclutati 19 fumatori con bassi livelli di affettività positiva (positive affect, PA) ed elevati livelli di affettività negativa (fattori predittivi di bassi tassi di astinenza tra i fumatori in trattamento) che erano a rischio di drop del trattamento anti-tabagismo che consisteva in sei sedute di counseling e 8 incontri di terapia sostitutiva della nicotina. Il campione è stato diviso in tre sottogruppi a uno dei quali sono stati proposti – accanto a strategie standard di cessazione di smoking – anche esercizi di psicologia positiva finalizzati ad aumentare le emozioni positive e relativi correlati cognitivi e comportamentali.

I risultati rivelano che circa un terzo dei partecipanti hanno mantenuto l’astinenza dal fumo per i successivi sei mesi, a differenza di coloro che sottoposti a trattamento standard per cui la percentuale di efficacia è di circa un terzo.

Dunque la psicologia positiva può costituire un’utile integrazione ai tradizionali protocolli di trattamento, da testare su campioni più ampi e consolidarne l’efficacia evidence-based. La capacità di spostarsi da una fase di pre-contemplazione e contemplazione a fasi di cambiamento per ridurre e cessare l’abitudine al fumo è in parte dipendente dagli aspetti motivazionali e da un ruolo che l’affettività positiva può giocare nel favorire questi aspetti. 

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Psicoanalisi: Intervista con Giuseppe Civitarese – I Grandi Clinici Italiani

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State of Mind intervista:

Giuseppe Civitarese

Psichiatra e Psicoanalista. Membro Didatta e Trainer della Società Psicoanalitica Italiana (SPI).

Direttore della Rivista di Psicoanalisi.

 

 

State of Mind intervista Giuseppe Civitarese, Psichiatra e Psicoanalista. Membro Didatta e Trainer della Società Psicoanalitica Italiana (SPI). Direttore della Rivista di Psicoanalisi. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.


VEDI IL PROFILO DI GIUSEPPE CIVITARESE.

 

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Dimmi che foto hai e ti dirò chi sei – Psicologia & Social Network.

 

 

Dimmi che foto hai e ti dirò chi sei. - Immagine: ©-venimo-Fotolia.comQuanta curiosità si cela dietro un nome? Tanta, tantissima al punto da andare su Facebook, digitare il nome e il cognome della persona in questione e scorgerne le foto.

Siamo tutti lì a sbirciare per scoprire l’ennesima curiosità su quella persona a noi sconosciuta fino ad un attimo prima. Subito dopo, siamo in grado di designare, addirittura, delle caratteristiche del comportamento e di definirne dei tratti. Come è possibile? Grazie alle foto pubblicate, attraverso le quali si è in grado di dipingere accuratamente le caratteristiche personologiche di qualcuno. Le foto sono lo specchio statico del nostro essere. Quindi, ognuno di noi in base alle proprie attitudini assume posture diverse a seconda delle situazioni, dei luoghi e della compagnia.

I social network come Facebook, concedono la possibilità, tramite le foto, di rivelare la storia della vita di ognuno di noi, o di immortalare, dichiarandolo al mondo intero, quanto si è felici in un determinato momento o evento. Ci sono persone che vivono per postare foto, infatti minuto per minuto rivelano accuratamente cosa fanno e dove si trovano. Una sorta di crono-foto-storia per far sapere agli altri cosa si fa in ogni istante della propria esistenza.

Ma che foto si sceglie di pubblicare?

Immediatamente, risalta la foto scelta per definire il proprio profilo, di che immagine si tratta?

E’ un’immagine ravvicinata del volto che non lascia spazio allo sfondo? O è una foto dove si lascia spazio al contesto? Si è soli o in compagnia?

Ognuno sceglie foto e immagini diverse di se stessi, ma la decisione da cosa deriva?

Pare possa dipendere dalla cultura di origine, dal posto dal quale si proviene e si è cresciuti.

A seconda di quelli che sono i valori culturali inculcati o appresi si prediligono primi piani o paesaggi.

Tutto ciò deriva da uno studio in cui si analizzavano 200 profili di Facebook, la metà dei quali erano di cittadini statunitensi mentre l’altra di cittadini di Taiwan. Il lato interessante dalla ricerca fu che si riscontrarono corrispondenze culturali indipendentemente dal contesto della foto. Infatti,  chi era di Taiwan optava per immagini nelle quali si notava bene il contesto mentre gli statunitensi preferivano foto dove si vedevano meglio i volti a scapito del contesto. 

In seguito, per verificare questi risultati si è sviluppato un secondo studio coinvolgendo un campione più vasto di soggetti, 312 utenti di Facebook di tre università americane (California, San Diego, Texas ad Austin) e di tre università asiatiche (Hong Kong, Singapore e Taiwan). I dati confermano i precedenti e completano la letteratura esistente che mostra l’influenza della cultura sulle abitudini di ognuno di noi. Infatti, in uno studio del 2008 ai partecipanti erano mostrate delle immagini e, grazie alla tecnica di “eye tracking” (che permette di tracciare come si muovono gli occhi mentre osservano gli oggetti), si è rilevato che le persone di cultura occidentale prediligono il volto mentre le persone di cultura orientale tendono ad apprezzare di più il contesto. In aggiunta, individuarono tratti annoverabili ai big five che potrebbero determinare definitivamente la scelta.

Quindi, in generale, potremmo affermare che gli estroversi tenderanno a postare foto stravaganti, mentre gli introversi possono non avere affatto una foto! Gli amiconi saranno pieni di foto con amici, quelli arrabbiati inseriranno foto che si riferiscono a proteste, etc.

E tu, che foto hai? scopriamolo insieme attraverso degli esempi illustrativi derivanti dagli articoli sopra citati.

1. Perfettamente centrata: Sei un adulto maturo con fiducia in te stesso ma forse un poco annoiato.

2. Ritratto a distanza: Non desideri rivelare la tua personalità, sei timido e riservato. Probabilmente nascondi qualche difetto fisico che non vuoi mostrare.

3. Foto di quando eri bambino: Pensi che il tuo passato sia la parte migliore della tua vita, provi una forte nostalgia per lo stesso e probabilmente continui ad ascoltare la stessa musica da decenni o usi sempre gli stessi vestiti. Insomma, non vuoi cambiare.

4. Foto del proprio figlio: Probabilmente pensi che avere un bambino è stata la cosa più importante che abbia mai realizzato nella tua vita. Ed essere genitore è bello, ma ricordati che sei anche molto di più di questo.

5. Foto del matrimonio: Desideri dare l’impressione di essere una persona adulta e matura che sa assumersi le sue responsabilità. Ma … lo sei davvero?

6. Foto in coppia: Indica che l’altra persona è enormemente importante per te. Probabilmente saresti disposto a fare qualsiasi cosa pur di mantenere la relazione perché non riesci ad immaginarti la vita senza l’altro.

7. Foto di un personaggio fittizio: Non desideri rivelare la tua vera identità o sei di quelle persone che si lasciano trasportare facilmente dalle opinioni degli altri. Non ti interessa far valere i tuoi criteri e le tue opinioni.

8. Caricatura: Questa scelta si può interpretare in due modi: come un tentativo di mantenere le distanze o come una persona che non si prende davvero sul serio.

9. Foto artistica: Normalmente sono in bianco e nero ed hanno come obiettivo di gridare al mondo che siete un pittore, uno scrittore o un poeta. Ma … lo siete davvero?

10. Foto di una festa con gli amici: Probabilmente indica una persona suggestionabile che si piega facilmente ai desideri del gruppo e che desidera offrire un’immagine di sé estroversa e aperta alle nuove esperienze.

Beh, sicuramente ti sarai rivisto in alcuni di questi esempi; ognuno di noi non è solo una foto, ma  molto di più!

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Frozen – Il regno di ghiaccio – Recensione – Psicologia & cinema

Alessia Incerti

Frozen – Il regno di ghiaccio

 

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Frozen. - Immagine © locandina Frozen: Ultimo nato nella casa di Walt Disney Animation Studios, una commedia di genere fantastico, divertente con i colori e l’ambientazione che si addice al periodo natalizio.

Una storia familiare, d’amore e di amicizia, che ci mostra come rielaborare traumi del passato.

SPOILER ALERT! ATTENZIONE, VIENE RIVELATA LA TRAMA DEL FILM.

Protagonista è la famiglia reale che vive in uno sfarzoso castello in completa armonia e serenità: il re, la regina, Elsa la figlia grande e Anna la più piccola. Come spesso accade nelle favole l’inizio è idilliaco ma dopo poco più di cinque minuti di pellicola già si comprendono le difficoltà.

La principessa primogenita ha un potere magico, una caratteristica speciale, un’abilità ancora poco compresa e non gestita dalla stessa Elsa. Come spesso accade tutto ciò che è diverso e poco conosciuto spaventa e ciò che ci spaventa si fugge.

Elsa con le sue mani produce scie di ghiaccio, in un momento di gioco e grande divertimento tra le sorelle, Elsa ferisce la piccola Anna con il suo potere. Allarmata chiama i genitori che subito ricorrono allo sciamano troll che guarisce la piccola Anna.

Tutto bene, viene da chiedersi, la famiglia reale ha superato la disavventura?  Sì, ma a che prezzo? Elsa vive isolata nella sua stanza e cresce senza nulla più condividere con Anna e nessun altro, non solo deve anche custodire il segreto. Ovvero addolorata (sentimenti di colpa, tristezza e paura) ed emarginata! I genitori reali, sempre per proteggere il segreto di Elsa, chiudono le porte del castello: riducono il personale e niente più feste o udienze.

Bhe! Direi che fino a qui molti genitori e psicologi s’indignerebbero: come i genitori non pensano a come possa stare Elsa? Non credono di poter trovare una soluzione migliore? Magari che contempli la condivisione e l’empatia?

I genitori muoiono durante un viaggio ed Elsa, diviene la nuova regina. Per l’occasione della proclamazione, si aprono le porte del castello, il regno è in festa, e le sorelle si rincontrano. Ma, il potere segreto di Elsa prende il sopravvento così la regina fugge.

Anna sarà la chiave e la soluzione, stabilisce da sé cosa è meglio fare!

Anna, che probabilmente ha potuto beneficiare di una base sicura, ottimista ed esploratrice, intraprende un epico viaggio in compagnia di un coraggioso uomo di montagna, Kristoff, e della sua fedele renna Sven alla ricerca della sorella Elsa, i cui poteri glaciali hanno intrappolato il regno di Arendelle in un inverno senza fine. In condizioni estreme come quelle dell’Himalaya, dopo aver incontrato creature fantastiche come i troll e un buffo pupazzo di neve di nome Olaf, Anna e Kristoff combattono contro le forze della natura per salvare il regno.

Ed è in questo viaggio che emergono gli elementi più fiabeschi:

Kristoff che s’innammora di Anna, e le mostra le proprie origini e le radici dei suoi vissuti di abbandono;

Anna che non teme la sorella ma è fiduciosa di poter trovare una soluzione, parlandole; Elsa fugge perché teme di essere cattiva ma, Anna sa che ha solo bisogno di essere accettata e di qualcuno che creda in lei.

Olaf, buffo e semplice pupazzo di neve, ha grandi intuizioni, ed è disposto al sacrificio per amicizia.

Anna ed Elsa, entrambe disposte al sacrificio l’una per l’altra.

La chiave della disavventura sarà proprio “un gesto d’amore vero”.

Un gesto d’amore che scioglie gli incantesimi, che risana vecchie ferite , che fa riconoscere i legami veri e dà ad Elsa la forza di imparare a gestire il suo potere che diverrà una risorsa per tutto il regno.

Il film si conclude con una festa da fiaba e l’apertura delle porte del castello, ci lascia il presagio di una regina di buon senso, Elsa, supportata dalla principessa Anna e dal suo principe Kristoff, di umili origine ma di grande coraggio e bontà d’animo.

La visione del film, è resa piacevole, come in ogni produzione disneyana, da una colonna sonora azzeccata e d’autore.

 

TRAILER:

 

 

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Migliorare l’esito della schizofrenia nelle varie epoche della vita

 

SOPSI 2014  

Report dalla Sesssione Plenaria:

Migliorare l’esito della schizofrenia nelle varie epoche della vita

(S. Galderisi, Napoli)

 

SOPSI 2014 - Plenaria Silvana GalderisiNegli anni 80-90 il trattamento per la schizofrenia era volto a controllare i sintomi, evitare le ricadute e l’ospedalizzazione.

Oggi l’obiettivo è più ambizioso: reintegrare pienamente i pazienti nella vita quotidiana. Nonostante la vasta mole di ricerche di trattamenti sperimentati e consolidati e nonostante l’esistenza di linee guida sui trattamenti più efficaci in circolazione, la schizofrenia permane tra le 10 cause di disabilità nel mondo.

Le variabili che influenzano la malattia sono molteplici: i sintomi, le abilità sociali, la neurocognizione, la social cognition, lo stigma e la discriminazione, la famiglia, i fattori ambientali, la salute fisica. Il quadro è quindi molto complesso e richiede soluzioni complesse.

Quando si parla di trattamento per la schizofrenia, sono tre le parole chiave da tenere a mente: il trattamento deve essere precoce, integrato ed individualizzato.

L’intervento deve inoltre essere modulato in base all’età di esordio:

1 – Schizofrenia ad esordio precoce (Infanzia / Prima adolescenza).
2 – Schizofrenia (Tarda adolescenza / Giovane età adulta).
3 – Schizofrenia ad esordio tardivo (Età anziana).

 

 

Schizofrenia nell’infanzia / prima adolescenza

Nella schizofrenia ad esordio infantile Il disturbo insorge prima dei 13 anni e si osserva un declino del funzionamento ed un mancato raggiungimento delle capacità scolastiche e relazionali appropriate per l’età.

Nei bambini un’accurata diagnosi differenziale è imprescindibile per distinguere il disturbo da condizioni mediche, manifestazioni dovute ad abuso di sostanze o assunzione di farmaci (corticosteroidi, anestetici, anticolinergici, antistaminici), vivida immaginazione tipica dei bambini sani, sintomi dissociativi (maltrattamento, manifestazioni post-traumatiche) e disturbi pervasivi dello sviluppo / autismo.

Le forme ad esordio adolescenziale, la cui diagnosi soddisfa gli stessi criteri delle forme adulte, rappresentano circa il 18% dei casi, l’onset è prima dei 18 anni ed interessa più spesso il genere maschile. In queste forme si osserva una progressiva perdita del volume della materia grigia prefrontale e dell’integrità della materia bianca (Gochman et Al., 2005; Frangou, 2010; 2013)

Nella schizofrenia ad esordio precoce il trattamento deve essere precoce e prevedere l’integrazione di più interventi (psicofarmacologico, pscoterapeutico e psicosociale) rivolti ai deficit cognitivi e funzionali, nonché all’aderenza al trattamento:

  • Social e cognitive skill training individualizzato
  • Psicoeducazione sulla malattia, le diverse opzioni di trattamento e la promozione della compliance al trattamento
  • Psicoeducazione rivolta alla famiglia per aumentare la comprensione della malattia, delle opzioni di trattamento e della prognosi, e per sviluppare strategie di coping per gestire i sintomi del paziente

Ueland & Rund (2004; 2005); Driver et Al. (2013)

 

 

Schizofrenia in tarda adolescenza / prima età adulta

Per quanto riguarda la schizofrenia con esordio nella giovane età adulta, l’intervento deve essere tarato sulla fase in cui il disturbo si presenta:

1)   fase prodromica

2)   primo episodio

3)   mantenimento

 

Fase prodromica

Durante la fase prodromica, se intervenire o meno con un trattamento farmacologico è argomento controverso in quanto non sempre soggetti in fase prodromica evolvono in un disturbo schizofrenico: alcuni svilupperanno schizofrenia, alcuni svilupperanno altri disturbi come il Disturbo Bipolare o andranno incontro a suicidio, altri ancora andranno in remissione oppure permarranno in uno stadio prodromico.

 

Primo episodio

Il primo episodio, invece, è riconosciuto come momento critico della malattia, in cui si verifica la maggior parte della perdita disfunzionale.

I programmi elaborati per gestire il primo episodio e migliorare l’outcome dell’intervento sono diversi e possono fare molto. Un esempio è lo studio OPUS (Nordentoft et Al. 2013; Austin et Al. 2013), uno studio traslazionale che in Danimarca ha avuto una ricaduta sulla pratica clinica unica nel suo genere e che è diventato lo standard per eccellenza; ulteriore nota positiva, ha un costo minore rispetto ai trattamenti standard. L’intervento comprende un trattamento assertivo in comunità con un numero adeguato di operatori dedicato al paziente, il coinvolgimento della famiglia e un social skill training.

Tra gli obiettivi primari vi è quello di ridurre i sintomi negativi ed il periodo di non trattamento della psicosi intervenendo con una diagnosi precoce. Infatti i sintomi negativi persistenti e la compromissione cognitiva limitano il recupero funzionale ed interferiscono con la motivazione del paziente e con la compliance al trattamento farmacologico (Harvey PD. & Bellack AS. , 2009; Harvey PD. & Strassnig M., 2012 ).

Ad oggi si stanno pertanto testando diversi approcci per comprendere come affrontare in maniera efficace i sintomi negativi, come la CBT e la cognitive remediation, sebbene siano necessari ulteriori studi per stabilirne l’efficacia (Pfammatter M et Al., 2006; Wykes T. et Al., 2008; Klingberg S. et Al., 2011). Altri studi si stanno invece interessando ai training cognitivi per cercare di capire quale sia il migliore (Bucci et Al., 2013).

 

Fase di mantenimento

Durante la fase di mantenimento lo psichiatra ha il compito di coordinare l’aspetto delle malattie fisiche (imprescindibile occuparsi dello screening degli aspetti metabolici) e di non trascurare di intervenire sullo stile di vita del paziente, in quanto un’elevata percentuale di gravi malattie fisiche ha un impatto negativo sulla mobilità, flessibilità e coordinazione motoria di questi pazienti che soffrono, tra l’altro, di un’aspettativa di vita minore di 15-20 anni.

A tal proposito vi sono diversi approcci evidence-based, tra cui:

  • trattamento assertivo in comunità
  • CBT per le psicosi
  • cognitive remediation
  • terapia familiare / psicoeducazione
  • supporto dei pari e strategie di self-help
  • social skill training
  • impiego lavorativo protetto
  • trattamento integrato per la coesistenza di disturbi da abuso di sostanze

 

Altri approcci promettenti sembrano essere:

  • terapia cognitiva adattiva
  • interventi per la promozione di stili di vita salutari
  • interventi su individui più vecchi
  • interventi sulla fase prodromica
  • social cognition training
  • social rehabilitation (Clubhouse Model)

 

 

Schizofrenia in età anziana

Si tratta di schizofrenia cronica oppure di forme che esordiscono tardivamente.

I casi ad esordio tardivo hanno una maggiore prevalenza femminile e, soprattutto negli esordi dopo i 60 anni, presentano sintomi negativi, disturbi del pensiero e deficit cognitivi meno marcati.

Nei soggetti anziani vi sono diversi fattori che contribuiscono ad aumentare il rischio di sviluppare psicosi (Karim S. & Byrne EJ., 2005):

  • il deterioramento della corteccia frontale e temporale dovuto all’età
  • i cambiamenti neurochimici dovuti all’età
  • l’isolamento sociale
  • deficit sensoriali
  • il declino cognitivo
  • i cambiamenti farmacocinetici e farmacodinamici dovuti all’età
  • terapia multifarmacologica

Ad oggi non ci sono evidenze su quale sia il trattamento migliore.

 

CONCLUSIONI

Al termine del suo brillante discorso la Prof.ssa Silvana Galderisi ha sottolineato come sia sempre più riconosciuta l’importanza di un intervento precoce, individualizzato ed integrato per la schizofrenia. Il trattamento della psicosi non è sufficiente, ma per chi si occupa di pazienti affetti da schizofrenia deve diventare una priorità considerare anche i sintomi negativi, la depressione, l’abuso di sostanze, le risorse personali del paziente ed una buona relazione terapeutica.

La Professoressa ha concluso il suo intervento osservando come la prospettiva nichilista che ha dominato la scena in passato sia stata sostituita da una visione più ottimista, che vede la guarigione in senso funzionale da questo disturbo quanto meno possibile. Da qui la necessità di un impegno, anche delle istituzioni, affinché interventi evidence-based ed integrati siano disponibili per la maggior parte di questi pazienti, cosa che, purtroppo, ad oggi ancora non avviene.

 

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BIBLIOGRAFIA: 

Schizofrenia: la CBT come trattamento evidence-based

 

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il trial è annoverabile tra gli studi che supportano la CBT come trattamento evidence-based a maggior ragione per i pazienti che sono resistenti al trattamento farmacologico, senza che questo significhi forzatamente escludere in maniera definitiva la ricerca dell’alleanza anche farmacologica.

 

Un nuovo trial che analizza gli effetti della CBT (cognitve-behavioural therapy) su pazienti schizofrenici è stato recentemente pubblicato sulla rivista The Lancet.

L’aspetto interessante è che i soggetti che hanno costituito il campione del trial sono pazienti schizofrenici che al momento dello studio non stavano assumendo alcuna terapia farmacologica, quindi completamente depurati da eventuali effetti co-occorrenti delle terapie farmacologiche solitamente associate agli interventi psicologici in tale tipologia di pazienti.

Chiaramente lo studio ha sfruttato una delle difficoltà che si incontra con una certa frequenza nel trattare i pazienti schizofrenici: la loro scarsa compliance alla terapia farmacologica in termini di netto rifiuto o assunzione discontinua contrariamente al parere medico.

Il trial è stato effettuato in Inghilterra tra il 2010 e il 2013 e ha coinvolto 74 pazienti con diagnosi di schizofrenia (età compresa tra i 16-65 anni) che non stavano assumendo alcuna terapia psicofarmacologica.

La metà di essi è stato assegnato alla condizione CBT, l’altra metà a una condizione di trattamento usuale non specifico. Come misura di outcome è stata utilizzata la scala PANSS (Positive and Negative Syndrome Scale) alla baseline e a diversi punti di follow-up (fino a 18 mesi dal termine del trattamento).

Dai dati emerge che i punteggi totali della scala PANSS sono significativamente inferiori nel gruppo sottoposto alla terapia cognitiva rispetto al gruppo di controllo. Il trial è dunque annoverabile tra gli studi che supportano la CBT come trattamento evidence-based a maggior ragione per i pazienti che sono resistenti al trattamento farmacologico, senza che questo significhi forzatamente escludere in maniera definitiva la ricerca dell’alleanza anche farmacologica.

Come dire una valida alternativa per questa specifica categoria di pazienti, in attesa di trial successivi che rafforzino ulteriormente queste conclusioni.

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BIBLIOGRAFIA:

 

SOPSI 2014 – Sessione Plenaria: The Early Natural History Of Bipolar Disorder. A. Duffy, Calgary Canada

SOPSI 2014

Report dalla Sessione Plenaria

The Early Natural History Of Bipolar Disorder

(A. Duffy Calgary, Canada)

 

SOPSI 2014 - Plenaria A. Duffy BIPOLARE

Il Disturbo Bipolare è un disturbo altamente ereditabile. Data l’elevata probabilità di svilupparlo se si ha un genitore affetto da Disturbo Bipolare, appare evidente l’importanza di condurre studi longitudinali su figli di pazienti bipolari.

L’obiettivo di tali studi è quello di:

– Comprendere la natura della vulnerabilità ereditata.
– Descrivere il decorso naturale del disturbo sin dai suoi stadi più precoci ed i marcatori biologici associati.
– Identificare gli obiettivi primari per un trattamento efficace.
– Identificare gli obiettivi per la prevenzione delle recidive, della morbilità e della mortalità.

La ricercatrice psichiatra Anne Duffy ha presentato i risultati di alcuni di questi studi.

 

Decorso clinico ed ereditarietà

Dall’analisi di gruppi di pazienti che rispondono al trattamento con il litio (Lithium responder – LiR) e di pazienti non rispondenti (LiNR), e dei loro figli è emerso che i pazienti adulti LiR rappresentano un sottogruppo omogeneo dalle caratteristiche cliniche definibili che sono osservabili anche nei loro figli affetti da Disturbo Bipolare.

Inoltre se si confrontano i due gruppi di figli si osservano differenze:

  • nel funzionamento durante l’infanzia
  • nello sviluppo psicopatologico (ADHD nei LiNR)
  • nel decorso del disturbo dell’umore
  • nella qualità della remissione
  • nella risposta al trattamento di mantenimento

 

Modello clinico a stadi

Le ricerche longitudinali su soggetti ad alto rischio hanno fornito elementi di prova convergenti a favore dell’ipotesi che nelle persone predisposte i disturbi depressivi maggiori e i disturbi psicotici spesso si sviluppano da antecedenti non specifici nel corso dello sviluppo. Ad esempio, l’evoluzione del Disturbo Bipolare pare seguire un iter definito:

  • il disturbo sembra evolvere da antecedenti infantili non specifici, tra cui ansia e disturbi del sonno (stadio 1)
  • segue una disregolazione dell’umore caratterizzata da sintomi ansioso-depressivi sotto stress durante la prima adolescenza (stadio 2)
  • si manifestano episodi conclamati di depressione in tarda adolescenza (stadio 3)
  • si sviluppano episodi di mania nella prima età adulta (stadio 4).

La possibilità di individuare sin dall’inizio gli stadi clinici di uno sviluppo di Disturbo Bipolare ha un enorme potenziale per l’identificazione precoce della malattia, per lo sviluppo di trattamenti fase-specifici e per aumentare la nostra comprensione della fisiopatologia associata con l’esordio della malattia e la sua progressione.

Alla luce di quanto sopra descritto appare evidente che l’approccio diagnostico corrente sia necessariamente da rivedere. Troppo spesso, infatti, le diagnosi enfatizzano i sintomi presenti non specifici del disturbo, non prendono in considerazione i fattori predittivi (storia familiare, decorso clinico, risposta al trattamento, peggioramento paradossale) e si focalizzano esclusivamente sugli ultimi stadi della malattia; non considerano né il decorso clinico longitudinale né il rischio familiare, con la conseguenza che le fasi iniziali della malattia non sono riconosciute come appartenenti al disturbo e il trattamento impostato rischia di non essere la scelta ottimale.

 

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Il Piccolo Principe, un magico trattato di Psicologia umana – I Pensieri dei Grandi Pt.1

 

Il Piccolo Principe

I Pensieri dei Grandi Pt.1

 

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Il Piccolo Principe Il Piccolo Principe” è un piccolo e magico trattato di psicologia umana, di sentimenti delicati, un viaggio in forma di favola attraverso una realtà immaginaria e più vera del reale, fra i sentieri dell’irrazionale amore per la vita.

E’ forse una delle più importanti lezioni che la letteratura dà agli uomini spiegando loro qual è il significato più profondo delle esperienze che vivono e di quelle che non vivono, soffrendone. La grande forza poetica di quest’opera è la capacità di colmare le drammatiche lacune del linguaggio degli adulti utilizzando il linguaggio dei bambini, che non dispone di tutte le parole della vita matura ma coglie l’essenza di ciò che le parole non possono esprimere.

Cosa è davvero importante comprendere? “Il Piccolo Principe” ha una risposta chiara.

Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava. Ma mi risposero: “Spaventare? Perché mai, uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?” Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante. Affinché vedessero chiaramente che cos’era, disegnai l’interno del boa. Bisogna sempre spiegargliele le cose, ai grandi. Questa volta mi risposero di lasciare da parte i boa, sia di fuori che di dentro, e di applicarmi invece alla geografia, alla storia, all’aritmetica e alla grammatica. Fu così che a sei anni io rinunziai a quella che avrebbe potuto essere la mia gloriosa carriera di pittore. Il fallimento del mio disegno numero uno e del mio disegno numero due mi aveva disanimato.

…Quando ne incontravo uno [dei grandi] che mi sembrava di mente aperta! Tentavo l’esperimento del mio disegno numero uno, che ho sempre conservato. Cercavo di capire così se era veramente una persona comprensiva. Ma, chiunque fosse, uomo o donna, mi rispondeva: “E’ un cappello“. E allora non parlavo di boa, di foreste primitive, di stelle. Mi abbassavo al suo livello. Gli parlavo di bridge, di golf, di politica, di cravatte. E lui era tutto soddisfatto di avere incontrato un uomo tanto sensibile.

…Se vi ho raccontato tanti particolari sull’asteroide B 612 e se vi ho rivelato il suo numero, è proprio per i grandi che amano le cifre. Quando voi gli parlate di un nuovo amico, mai si interessano alle cose essenziali. Non si domandano mai: “Qual è il tono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle?” Ma vi domandano “Che età ha? Quanti fratelli? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?” Allora soltanto credono di conoscerlo. Se voi dite ai grandi: “Ho visto una bella casa in mattoni rosa, con dei gerani alle finestre, e dei colombi sul tetto“, loro non arrivano a immaginarsela. Bisogna dire: “Ho visto una casa da centomila lire“, e allora esclamano: “Com’è bella”. Così se voi gli dite: “La prova che il piccolo principe è esistito, sta nel fatto che era bellissimo, che rideva e che voleva una pecora. Quando uno vuole una pecora è la prova che esiste” Be’, loro alzeranno le spalle, e vi tratteranno come un bambino. Ma se voi invece gli dite: “Il pianeta da dove veniva è l’asteroide B 612” allora ne sono subito convinti e vi lasciano in pace con le domande. Sono fatti così.

Possiamo forse ritrovarci tutti nella sottile malinconia e insieme nell’ironica presa di coscienza di un’incomunicabilità che spesso ci attanaglia, e non per mancanza di contenuti da svelare né per carenza di strumenti espressivi, bensì dentro le rigide strutture di un pensiero che credendosi evoluto si scontra con la difficoltà di accedere alle emozioni intime, abbandonando le certezze apparenti e il tentativo di controllarle. Da “Il Piccolo Principe” si irradia un messaggio potente come solo le cose semplici sanno essere.

FINE PRIMA PARTE

 

 

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Le basi neurobiologiche dell’anoressia nervosa: è tutta una questione di Attaccamento?


SOPSI 2014 

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

La Psicopatologia e le età della vita – Torino 12-15 Febbraio 2014

 

 Le basi neurobiologiche dell’anoressia nervosa:

è tutta una questione di Attaccamento?

Antonio Cerasa1, Aldo Quattrone1, Stefania Alfano2, Iolanda Martino2, Maria Cecilia Gioia2, Annalisa Silipo1, Paolo Perrotta1, Federico Rocca1, Angela Funaro2

1 Unità di Neuroimmagini, Istituto di Bioimmagini e Fisiologia Molecolare-CNR; Germaneto (CZ).

2 Associazione Centro Trauma Ippocampo, 5 – Castrolibero (CS). 

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Coinvolgere adolescenti riluttanti: l’efficacia di un primo incontro familiare

Di Matteo Selvini. Brani estratti dall’articolo omonimo inviato a Terapia Familiare, gennaio 2014.

 

 Coinvolgere adolescenti riluttanti:

l’efficacia di un primo incontro familiare

 

 

Coinvolgere gli adolescenti nel percorso psicologico . - Immagine: © Lisa F. Young - Fotolia.comLa stragrande maggioranza degli esperti dà per scontato che la strategia ottimale o obbligata sia quella di incontrare per la prima volta l’adolescente non richiedente e non collaborante da solo.

Il tabù dell’incontro congiunto genitori-adolescente

La stragrande maggioranza degli esperti dà per scontato che la strategia ottimale o obbligata sia quella di incontrare per la prima volta l’adolescente non richiedente e non collaborante da solo (Tommaso Senise, Aliprandi et al., 1990; Arnaldo Novelletto,1986 e Gustavo Pietropolli Charmet, 1992). In realtà credo pesi soprattutto la difficoltà della gran parte dei professionisti a gestire incontri familiari.

Una recente ricerca (Selvini, 2014) sulle ultime 179 richieste di aiuto ricevute dal mio centro privato di consultazione familiare ha mostrato come non sia mai l’adolescente stesso a prendere contatto. Tuttavia in 90 casi il giovane è collaborativo (seppur con frequenti modalità compiacenti o rinunciatarie), in altri 60 casi arriva trascinato/muto/ostile/negativista. In altri 29 non si presenta proprio ed il primo colloquio è con i familiari.

Il dato che mi ha colpito è quello che si arriva ad una presa in carico con l’88% dei giovani collaboranti, il 78% dei negativisti, ma solo il 41% degli assenti. L’assenza del giovane al primo colloquio è dunque un segnale prognostico molto negativo sull’efficacia della presa in carico.

 

Rafforzare il ruolo guida dei genitori

Nella nostra casistica, così come si legge nella letteratura, molto spesso i genitori vorrebbero delegare al professionista il figlio adolescente. Ma è proprio questa “complicità” espulsiva tra terapeuta e genitore che va evitata: mai iniziare vedendo l’adolescente non richiedente da solo. 

I dati dimostrano che anche una presenza negativista ad una riunione familiare è potenzialmente preziosissima per arrivare ad una presa in carico. Al contrario invitare l’adolescente da solo può comunicare un’implicita e quindi potentissima squalifica dei suoi genitori, figure che al contrario hanno di solito bisogno di essere sostenute e rafforzate: di fronte ad un adolescente problematico, che non chiede di essere aiutato, guidare i familiari affinché, con delicatezza, cerchino di portarlo con loro ad incontrare congiuntamente un esperto, è una tattica/tecnica più efficace del cercare di organizzare un incontro dell’adolescente da solo con il professionista.

E questo per i seguenti motivi:

Aumentano, e di molto, le probabilità che l’adolescente arrivi ad incontrare l’esperto.

L’incontro familiare lo aiuta a mettersi in gioco molto più di un incontro individuale affrontato con atteggiamento negativista.

L’incontro familiare è più efficace e rapido nel cominciare a valutare non solo le risorse/patologie dell’adolescente, ma contemporaneamente quelle dei familiari.

Può essere il primo passo di un processo di riconciliazione.

I familiari, fianco a fianco con l’adolescente, possono dimostrarsi capaci di dare l’esempio nell’aprirsi e nel mettersi in discussione.

È rarissimo che l’adolescente si opponga all’incontro familiare e “negozi” di venire invece da solo.

La seduta congiunta può farci incontrare pazienti psicotici gravi non trattati e consentire un’immediata presa in carico.

Una vastissima letteratura (a partire da Selvini Palazzoli, 1963) dimostra che il tentativo di costruire un’alleanza terapeutica con questi ragazzi attraverso sedute individuali, prassi tipica di un approccio iper-individuale, richiede spesso anni, produce innumerevoli abbandoni della terapia, e per di più può dare cattivi risultati, perché l’adolescente talvolta vive la terapia individuale stessa come un (ennesimo) abbandono/delega del genitore, e questo può portare ad un pericoloso allontanamento affettivo dell’adolescente dai suoi genitori, oltre ad un transfert negativo sul terapeuta (Selvini, 2013).

 

La difficoltà del primo incontro. Il ruolo di guida del conduttore.

Il rischio di un abbandono immediato del ragazzo/a o dei familiari è molto forte.

L’obiettivo essenziale di stabilire una relazione significativa richiede un atteggiamento attivo e direttivo da parte del conduttore. Sarebbe fallimentare mettersi in posizione di ascolto, verremmo travolti dalle interazioni disfunzionali, mentre dobbiamo tentare di produrre un’esperienza innovativa/correttiva. Le linee guida di un primo colloquio puntano sulla co-costruzione dell’autorevolezza del terapeuta e sull’intensità del coinvolgimento emotivo, in primo luogo dell’adolescente. Tuttavia rispetto a questi obiettivi è prioritario, anche proprio cronologicamente, che un primo incontro familiare garantisca a tutti i partecipanti uno spazio emotivamente sicuro (Friedlander et al, 2006; Escudero et al., 2010). Costruire un contesto di condivisione dove nessuno si senta attaccato è la premessa indispensabile.

 

Preparazione dell’incontro

L’adolescente accetta più volentieri una riunione familiare per parlare più in generale di quello che non va in famiglia, piuttosto che un suo personale invio dallo “strizzacervelli”.

È più che opportuno che il genitore non stia troppo a discutere se il figlio ha o non ha un problema, ma dichiari che sicuramente lui stesso è in crisi con lui.

Di fatto è molto molto raro che, a partire da una chiamata/richiesta di un genitore, possa seguire un incontro individuale con un adolescente, a meno che non sia l’esperto stesso, commettendo un grave errore, a favorire questo tipo di passaggio.

Per concludere daremo indicazioni affinché l’adolescente sia sollecitato a partecipare: “Vieni almeno questa volta, per dare il tuo parere su questa strada e questa persona, fammi questo favore, fallo per me…”, ma non forzato, ricattato, obbligato o pagato.

Non ha proprio senso fare affrontare al giovane da solo un’esperienza che non ha scelto/deciso lui e che molto probabilmente lo preoccupa, dato che non sa cosa aspettarsi. Magari ci sono fantasie di essere puniti, umiliati, criticati, trattati con farmaci o addirittura ricoverati! (Keating-Cosgrave, 2006).

È evidente che l’atto stesso di chiedere per lui una visita specialistica per problemi psichici, mentali, comportamentali, contiene una implicita e quindi potentissima connotazione negativa: “C’è qualcosa che non va in te, ed è qualcosa di molto importante che concerne la tua stessa persona”.

Sarà chiaro che questo messaggio potrebbe essere difficile da reggere, e ancor più se l’adolescente teme ci sia del vero… È quindi un passaggio davvero critico in cui ha bisogno del massimo sostegno/accompagnamento, non certo di essere mandato allo sbaraglio verso l’ignoto.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Non si può più dire “è più forte di me”, ora si può gestire l’aggressività.

 

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Come mai chi mette in atto comportamenti aggressivi non riesce a fermarsi in tempo?

Per il senso comune è quasi impossibile pensare che una persona aggressiva o violenta non sia in grado di controllare la propria impulsività.

Ecco che ci vengono in aiuto alcune ricerche che ci dimostrano come chi è più aggressivo di fatto tenta di inibire il primo impulso di rabbia, ma che non sempre è possibile.

Questi fattori che vengono esplicati e messi a confronto nelle  ricerche dell’articolo, comprendono sia fattori genetici (gene della monamina ossidasi-A),sia livelli ormonali (cortisolo, testosterone…) che infine quelli di glucosio. Il fattore comune di queste ricerche sembra essere che non esiste un “è più forte di me” e la scienza ce lo dimostra!

Grazie anche all’intervento dei fattori, genetici od organici sembra esserci da parte del cervello un tentativo di inibizione del comportamento, che però spesso va a discapito di altro, ad esempio una prestazione cognitiva.

Quello che queste ricerche suggeriscono è che sia possibile andare ad agire sul cervello dell’aggressivo e limitare il danno del suo comportamento, gli si può insegnare a mantenere quello che lui tenta di mettere in atto spontaneamente.

 

An impatient commuter shoves us out of the way to get onto the subway train. The bullying boss enjoys berating us in front of colleagues. The grouch next door yells at the neighborhood kids whenever a kickball accidentally ends up in his yard. We routinely deal with people who seem socially reckless, quick to retaliate at any perceived slight, and unremorseful if not downright sadistic.

In truth, though, the modern mantra “mean people suck” fails to capture many underlying drivers of aggression, cruelty, and hostility. Recent work in social neuroscience indicates that the brains of hotheaded people seem to work extra hard to control their outbursts, but for some reason fail.

 

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Più empatia e fiducia in chi si prende cura di un animale – Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo un nuovo studio chi si prende cura di un animale ha relazioni sociali più solide e maggiore senso di appartenenza alla comunità.

Mentre gli effetti positivi degli animali sui bambini in contesti terapeutici sono ormai noti, non si sa molto di come le interazioni quotidiane con gli animali possono influire sviluppo dei giovani. I risultati dello studio suggeriscono che a fare la differenza non sia tanto la presenza di un animale ma la qualità della relazione che si stabilisce con esso.

Megan Mueller, psicologa dell’età evolutiva e ricercatrice della Cummings School of Veterinary Medicine alla Tufts University, ha esaminato gli atteggiamenti e l’interazione con gli animali di più di 500 giovani di età compresa tra 18-26 anni.

Le risposte sono state incrociate con i dati provenienti da uno studio longitudinale nazionale (4-H Study of Positive Youth Development) che ha misurato negli stessi soggetti caratteristiche di sviluppo quali la competenza, la cura, la fiducia, la connessione, il carattere, i sentimenti di depressione.

I giovani adulti che si sono presi cura di un animale hanno riferito di impegnarsi maggiormente in attività collaborative (per esempio fornire un servizio alla propria comunità o aiutare gli amici o la famigliae dimostrato maggiore leadership, di chi invece non aveva un animale.

Inoltre più si sono occupati attivamente dell’animale e più alto è stato il punteggio nella collaborazione.  Lo studio ha anche evidenziato che livelli elevati di attaccamento ad un animale nella tarda adolescenza e nella giovinezza erano associati con un positivo senso di appartenenza al gruppo, e maggiore empatia e fiducia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

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