Il Linguaggio e il Cervello! – Infografica su Neuropsicologia & Linguistica
Fonte: VoxyBlog del 5 Aprile 2011.
INFOGRAFICA
Il Linguaggio e il Cervello
NEUROSCIENZE
ARGOMENTI CORRELATI:
NEUROSCIENZE – NEUROPSICOLOGIA




















Fonte: VoxyBlog del 5 Aprile 2011.
INFOGRAFICA
Viviana Spandri
Uno studio condotto dal gruppo di ricerca capitanato dal Dott. Sylvain Baillet, Direttore del Brain Imaging Centre at The Neuro McGill University and the McGill University Health Centre, pubblicato sulla rivista NeuroImage, ha dimostrato che la magnetoencefalografia (MEG) può essere utilizzata come un potenziale strumento terapeutico per controllare e allenare specifiche aree cerebrali.
Questa nuova tecnica di brain-imaging infatti consente alle persone di osservare la propria attività cerebrale in tempo reale e quindi controllarne o aggiustarne la funzionalità in pre-determinate aree cerebrali.
La MEG è una tecnica di brain imaging non invasiva che misura i campi magnetici generati dai circuiti nervosi nel cervello e ha il vantaggio di avere una risoluzione temporale nell’ordine dei millesecondi, superiore a tutte le altre tecniche, che permette di osservare l’attività cerebrale in tempo reale.
Questo vantaggio permettte alla MEG di essere utilizata come tecnica di neurofeedback, processo mediante il quale le persone possono vedere online informazioni fisiologiche di cui solitamente non sono consapevoli, e nello specifico di questa tecnica potrebbero proprio osservare l’attività cerebrale, e utilizzare quest’informazione per allenarsi ad autoregolarla.
Lo scopo di questo gruppo di ricerca è quello di addestrare il paziente ad allenare specifiche regioni cerebrali, così che ad esempio i pazienti epilettici, modificando la loro attività cerebrale, possano prevenire il presentarsi di una crisi.
In questo studio i soggetti venivano sottoposti a 9 sessioni di MEG e utilizzavano il neurofeedback per raggiungere un target specifico, ovvero mentre osservavano un disco colorato su un display dovevano trovare la strategia per modificarne il colore da rosso scuro a un giallo-bianco luminoso e mantenerlo il più a lungo possibile.
I ricercatori hanno programmato questo esperimento in modo che le aree cerebrali target fossero nella corteccia motoria e il colore che appariva sullo schermo era determinato da una predefinita combinazione di attività cerebrale lenta o rapida proprio in queste regioni. Questo è stato reso possibile dall’utilizzo combinato di MEG e MRI, noto come MSI (magnetic source imaging).
I risultati hanno mostrato che i partecipanti, in ogni sessione successiva di training, riuscivano a raggiungere il target sempre più velocemente, nonostante la soglia per il raggiungimento del target per ogni nuova sessione fosse stata alzata.
I partecipanti riuscivano quindi ad utilizzare efficacemente il neurofeedback per alterare il loro pattern di attivazione cerebrale in regioni specifiche della corteccia motoria, così come definito dal loro obiettivo, senza muovere nessuna parte del corpo.
Questo dimostra innanzitutto che la MSI può fornire in tempo reale il neurofeedback di specifiche porzioni cerebrali e che quindi è possibile utilizzare la MEG a scopo terapeutico per la riabilitazione dei pazienti: in particolare sembra essere promettente con i pazienti epilettici, ma potrebbe esserlo anche per svariate altre patologie neurologiche e/o neuropsichiatriche (ictus, demenze, disturbi del movimento).
BIBLIOGRAFIA:
“Ero molto arrabbiato e me la prendevo con la mia prima moglie, le ho reso la vita difficile. Ho cominciato a praticare la meditazione e dopo solo 2 settimane la mia rabbia è svanita”
Inizia così l’intervista a David Lynch, venuto a Milano per condividere ciò che a suo parere gli ha cambiato (in meglio) la vita.
Quello che gli ha permesso di far sparire ciò che sono le sofferenze interiori come paura, rabbia, demoni interni, desiderio di vendetta, depressione è l’utilizzo della meditazione trascendentale che applica da 40 anni mattina e sera.
Sottolinea ridendo, durante l’intervista, che per girare film angoscianti come i suoi non necessariamente si deve passare attraverso stati di sofferenza, ma che si può fare serenamente. Quello che si deve tenere a mente è che ognuno deve capire il proprio intimo mondo interiore, infatti, secondo lui, l’utilizzo della meditazione impedisce alla negatività di restringere il flusso della creatività e di fare film così emotivamente intensi.
Con la sua associazione, David Lynch Foundation For Consciousness-Based Education and Peace, va nelle scuole a raccontare come i ragazzi possano imparare a gestire sofferenze e disagio ad esempio ansia, difficoltà scolastiche, dipendenze con l’utilizzo quotidiano di meditazione, lo stesso vale per i professori anch’essi soggetti a livelli alti di stress emotivi.
In 40 anni di pratica non ha mai perso una sessione di meditazione e non ci sono scuse, è possibile ritagliarsi in qualsiasi situazione 20 minuti la mattina e 20 minuti la sera per praticarla e stare meglio con se stessi.
“La negatività sparisce e un mare di energie positive e di creatività si sprigiona”. E ridendo aggiunge: “Trovano i miei film inquietanti? Ottimo, avranno un motivo in più per sperimentare la meditazione”
L’Oratorio della Parrocchia Sant’Anna e Gioacchino di Selegas, in collaborazione con il Circolo Acli di Selegas, le Acli Provinciali di Cagliari e con il Servizio Punto Famiglia Acli Cagliari, promuove un ciclo di tre Seminari dedicati alla comunicazione genitori-figli nel corso del ciclo di vita. L’iniziativa è promossa con il contributo della Regione Autonoma della Sardegna.
Obiettivo generale degli eventi è approfondire il tema dell’interazione e comunicazione tra genitori e figli a partire dalla vita intrauterina, attraverso l’infanzia, sino all’età dell’adolescenza. Nello specifico gli incontri, rivolti ai genitori e agli insegnanti, forniranno conoscenze adeguate rispetto all’evoluzione delle competenze e abilità del bambino nel corso dello sviluppo e favoriranno l’acquisizione di strumenti operativi e concreti per i genitori che desiderano promuovere una relazione educativa sana con i propri figli, migliorando conseguentemente la condivisione del processo educativo con l’altro genitore.
A condurre gli incontri, che si terranno presso L’Ex Cinema Padre Lino Congiu Via Roma n°31, Selegas, sarà la Dott.ssa Emma Fadda, Psicologa Clinica.
Il ciclo di seminari si aprirà il giorno 13 Febbraio 2014 alle ore 17:00 con il primo seminario dal titolo “Gravidanza e primi anni di vita: la comunicazione genitori e bambino” a cui seguirà il 21 Febbraio 2014 alle ore 17:00 il secondo seminario dal titolo “Le sfide dell’infanzia e la costruzione dei legami familiari”. Il terzo e ultimo evento, dal titolo “Tra sogni, desideri, capacità e paure. Il mondo dell’adolescenza” si svolgerà il 27 Febbraio 2014 alle ore 17:00.
La partecipazione è aperta a tutti. È richiesta l’iscrizione che potrà essere fornita telefonicamente o via mail ai seguenti contatti:
Acli Provinciali di Cagliari
Tel: 070-43039
Mail: [email protected]
13 Febbraio 2014: Gravidanza e primi anni di vita: la comunicazione genitori e bambino
21 Febbraio 2014: Le sfide dell’infanzia e la costruzione dei legami familiari
27 Febbraio 2014: Tra sogni, desideri, capacità e paure. Il mondo dell’adolescenza
ARGOMENTO CORRELATO:
Alessia Zoppi e Chiara Spinaci.
I Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) e le Tossicodipendenze (TD) vengono considerati sindromi tipiche del nostro tempo. I DCA, al pari del Gioco d’Azzardo Patologico, della Cyberdipendenza, lo Shopping Compulsivo e la Dipendenza da Sesso, sono considerati come comportamenti disregolati e caratterizzati da una dipendenza da oggetto non tossico, venendo per questo definiti, da alcuni, “nuove sindromi da dipendenza“.
Le caratteristiche di queste nuove dipendenze sono: 1) una prevalenza ed incidenza in aumento nell’ultimo decennio; 2) manifestazione in aumento in età adolescenziale; 3) nuclearità del disturbo sul versante della dipendenza da oggetto; 4) complessità ezio-patogenetica e terapeutica; 5) fattori eziologici di natura bio-psico-sociale; 6) comorbilità con i Disturbi di Personalità e tra sindromi, soprattutto nella popolazione femminile.
Quest’ultimo punto è uno dei foci che ha spinto i ricercatori a studiare, soprattutto tra DCA e TD, una diretta correlazione non solo di tipo causale/sequenziale o ezio-patogenetico (Baker et al., 2013; Warren et al., 2013), ma anche di tipo clinico-descrittivo, con l’obiettivo di considerare i DCA una vera dipendenza da cibo o “food addiction” (Ziaudden, Fletcher, 2012).
È stata ad oggi confermata un’interessante correlazione bidirezionale tra le sindromi: si è infatti dimostrato che tanto donne con TD dichiarano di aver iniziato l’assunzione con l’obiettivo di controllare o perdere peso, quanto che donne con DCA hanno una più alta prevalenza di sindromi di dipendenza rispetto alla popolazione generale (Baker et al., 2013; Warren et al., 2013).
Più complessa risulta essere invece l’identificazione di una appartenenza dei DCA alla classe delle dipendenze da oggetto o nuove dipendenze patologiche. L’obbiettivo di alcuni studi è dunque quello di cercare di comprendere se sia possibile definire i DCA come vere e proprie sindromi da dipendenza (“food addiction“), o piuttosto sia necessario considerarli come comportamenti maladattivi rispetto al cibo.
In che modo è possibile discernere tra queste due posizioni? In primo luogo è necessario identificare aspetti comportamentali ed emotivi alla base dei comportamenti di dipendenza: esistono correlazioni tra TD e DCA?. Un aspetto centrale e comune in queste sindromi è il nucleo dell’“autodistruttività”, presente al pari del piacere nell’assumere e essere in contatto ripetuto con l’oggetto.
Questo meccanismo è detto “craving“, e spiega l’ assunzione incontrollata e compulsiva come soluzione comportamentale al bisogno irrefrenabile, tanto psicologico quanto biologico, di contatto con la sostanza. È necessario però sottolineare come, a differenza del cibo o di altri oggetti di dipendenza, la sostanza tossica sia di per sé mobilitante e plasmante a livello centrale, determinando non solo una compulsione psicologicamente direzionata ma soprattutto, fin poco dopo la prima assunzione, un bisogno incessante dettato dall’interazione potente e immediata di questa con i circuiti neuronali. Prendendo inoltre in considerazione i fenomeni comportamentali legati alla dipendenza emergono immediatamente alcuni aspetti: il bisogno incessante di contatto/assunzione della sostanza, definibile compulsione; gli effetti legati alla sospensione dell’uso di sostanza con vere e proprie risposte organiche legate all’astinenza; l’aumento di richiesta della sostanza, in termini di quantità, legato al fenomeno della tolleranza; la dipendenza dall’oggetto sul versante psicologico, oltre che biologico, al punto da determinare una vera e propria gestione dell’attività quotidiana in relazione alla ricerca e consumo della sostanza (DSM-IV TR).
Partendo inoltre dai tratti di personalità è possibile sostenere che i comportamenti di addiction siano strettamente legati alla disregolazione emotiva (Spence e Corbasson, 2013). Essa sembra essere rilevante sia nei quadri di DCA che TD e correlata a tre aspetti: incapacità di identificare le emozioni (alessitimia); mancanza di regolazione dell’umore; reazioni comportamentali disregolate.
All’interno della classe dei DCA, a differenza che nelle TD, gli aspetti personologici e le risposte comportamentali precedentemente indicate sembrano essere presenti solo nei casi di Binge Eating e Obesità (Di Leone et al. 2012; Ziaudeen e Fletcher, 2013), ovvero laddove la condotta di assunzione sia presente in forma eccessiva, discontrollata e compulsiva.
In questi casi l’oggetto-cibo viene ricercato tanto da perdere il controllo e, allo stesso tempo, esso è ricompensa piacevole per il soggetto rispetto a stati interni dolorosi, angosciosi, non riconoscibili e identificabili. Per questi stessi motivi, al contrario, non è possibile considerare l’Anoressia Nervosa come una dipendenza da cibo a causa dell’ipercontrollo e dell’evitamento dell’oggetto, sentito come pericoloso e dannoso (Ziaudeen e Fletcher, 2013). Si potrebbe anzi vedere quest’ultima come una forma di “controdipendenza” “autartica” e irremovibile.
In secondo luogo è necessario considerare l’effetto dell’ assunzione di una sostanza e/o dell’uso continuato di un oggetto (non tossico ed esogeno) a livello di modificazioni strutturali del sistema centrale: un cibo può determinare le stesse reazioni di neuro-adattamento di una sostanza tossica esogena? È possibile sostenere che l’assunzione di un cibo possa generare immediate, specifiche e potenti modificazioni a livello neuronale o un consequenziale neuro-adattamento a seguito di una prolungata assunzione? La ricerca in questi ultimi anni si è molto interessata all’identificazione dei meccanismi biologici messi in atto nel manifestare comportamenti alimentari non sani. A livello genetico sono stati identificati geni che sembrano essere determinanti nei comportamenti di TD e in alcuni DCA (specificatamente i Binge Eating e l’Obesità): i geni OPRM1 e DRD2 implicati nell’addiction e nei Binge Eating; il sistema degli endocannabinoidi e il gene CNR1 associato all’uso di sostanze e all’obesità.
Kasanetz et al. (2010) confermano che l’esposizione in maniera cronica a sostanze d’abuso, anche il cibo se assunto in maniera smodata, induce a cambiamenti e modificazioni nel cervello. Nonostante i meccanismi compulsivi possano essere similari nei DCA e TD, Di Leone et al.(2012) sostengono che il cibo e la droga “guidino” il nostro comportamento in direzioni diverse, poiché se da una parte il cibo ci fa mettere in atto strategie di ricerca fondamentali per la nostra sopravvivenza, la droga determina una spinta contraria alla nostra sopravvivenza, definita dagli autori un “dirottamento rispetto alla ricompensa naturale“. Secondo questi i circuiti e i sistemi cerebrali imputati nella regolazione della TD sono: a) Sistema dopaminergico mesolimbico: fondamentale nella tossicodipendenza poiché media l’assunzione della droga, sia nei meccanismi di gratificazione che di rinforzo. I neuroni di quest’area sono neuroni dopaminergici (Da) che vengono rilasciati nel momento in cui viene assunto la sostanza desiderata (droga/cibo). Questo sistema agisce sull’ipotalamo e sull’amigdala, sulla corteccia prefrontale e il nucleo accumbens; b) Ipotalamo: il suo ruolo non è solo quello di modulare l’attività cerebrale del sistema dopaminergico mesolimbico ma anche quello di integrare segnali provenienti da siti cerebrali periferici e quello di gestire la coordinazione metabolica periferica.
Kandel (2007) sottolinea come nei processi che regolano l’assunzione/gratificazione del cibo giochi un ruolo cruciale il sistema dopaminergico mesolimbico e l’ipotalamo. In particolar modo nel controllo dell’assunzione di cibo sono implicati due meccanismi ipotalamici: ipotalamo laterale: regolatore della fame; ipotalamo mediale: regolatore della sazietà.
Manna (2006) individua quattro categorie di segnali neurofisiologici che regolano la nostra funzione omeostatica nutritiva: Segnali di fame: noradrenalina/neuro peptide Y; segnali di sazietà: serotonina; segnali di piacere: dopamina (Da)/ oppioidi endogeni; segnali metabolici: insulina e pectina. L’Autore (2006) conferma l’importanza delle strutture ipotalamiche nel controllo e integrazione dei segnali motivazionali attivi sia nell’assunzione di cibo che di droga, e sottolinea anche l’esistenza di un continuum e di meccanismi patogenetici comuni tra TD e DCA. Nella TD il passaggio da abuso ad uso compulsivo sembra essere determinato da compulsività e impulsività, tratti e comportamenti direttamente condizionati dall’interazione immediata della sostanza con i sistemi dopaminergici, dalle alterazioni dei recettori D2 a livello dell’accumbens, e dal disfuzionamento delle aree prefrontali, prefontrale dorsolaterale e frontale inferiore, connesse allo striato.
La dopamina è dunque un neurotrasmettitore fondamentale per poter parlare di “dipendenza” e un suo aumento nell’organismo favorisce la probabilità di “addiction”, essendo centrale nei meccanismi di apprendimento di nuovi segnali e regolazione del comportamento (Manna, 2006). Importanti studi compiuti su animali hanno confermato alterazioni di questi sistemi in condizione di eccessiva assunzione di cibi, soprattutto ricchi di zuccheri. Gli animali presentavano comportamenti simili all’addiction da sostanze e una marcata compulsività verso il cibo, oltre che modificazioni alle aree cerebrali indicate, in particolar modo rispetto ai recettori D2 nell’accumbens (Ziaudeen e Fletcher, 2013).
Secondo Di Leone et al. (2012) i meccanismi che gestiscono la spinta alla ricerca di cibo e di sostanze sono i medesimi, ma nel modello neuropsicologico della spinta a mangiare si è preso maggiormente in considerazione l’interazione tra cervello e segnali corporei periferici, assente negli studi sulle dipendenze (vedi Fig.1).
Secondo questi Autori i meccanismi comuni tra abuso di cibo e droga sono da rintracciarsi nell’interazione complessa tra nuclei ipotalamici, in particolare laterale, che influenzano il meccanismo di ricompensa, e il circuito mesolimbico, che è determinante nel meccanismo di rinforzo; inoltre l’ipotalamo sarebbe centrale nei meccanismi di ricerca e consumo.
Rispetto ai comportamenti di ricerca dell’oggetto da dipendenza, gli studi su animali (roditori a cui vengono somministrare sia sostanze tossiche che cibo zuccherino e calorico) confermano un comune meccanismo neuronale per la dipendenza da cibo e da droga. Ci sarebbero però differenze importanti nella reazione comportamentale delle cavie se sottoposte a stimoli stressogeni: a differenza degli esseri umani, nei quali lo stress è considerato uno dei fattori precipitanti per il fenomeno di Binge Eating, nei roditori lo stress sembra indurre fenomeni di sospensione di ricerca di cibo, mentre favorirebbe la ricerca e l’assunzione di cocaina. Comunemente a quanto avviene negli esseri umani, l’uso della sostanza sembra predire comportamenti di ricerca e astinenza più persistenti, confermando che le sostanze tossiche possono creare associazioni tra stimoli molto più potenti rispetto alle sostanze naturali.
Secondo gli autori uguaglianze e differenze sono ancora da ricercarsi nei meccanismi cerebrali e nell’interazione tra aree implicate, allo scopo di spiegare come il rinforzo da cibo diventi tanto motivante da muovere il comportamento umano al pari dell’assunzione di una sostanza tossica.
Estendere i risultati ottenuti dagli studi su cavie agli essere umani risulta ancora complesso per evidenti motivi etici, non potendo così generalizzare sui meccanismi implicati in queste forme di comportamento patologico. Ciò risulta però necessario allo scopo di comprendere se la definizione di “food addiction” debba fermarsi alla comune espressione sintomatologica e ai comuni fattori di personalità tra TD e DCA, o possa invece essere considerato una vera e propria sindrome comportamentale in risposta all’assunzione della sostanza-cibo mediata anche da meccanismi a livello centrale.
BIBLIOGRAFIA:
Si parla sempre e spesso solo di emozioni negative trascurando quelle positive. Eppure si è costantemente alla ricerca di qualcosa che possa farci star bene, che possa renderci FELICI! Ma, che cos’è la felicità? Una semplice domanda, parlo proprio con te, sai cos’è la felicità? Immagino la tua fronte corrugata che prova a cimentarsi nel dare una risposta, le idee scorrono, le immagini si susseguono, ma la risposta è impalpabile.
Difficile questo responso, non è bene chiaro cosa rappresenti la felicità e soprattutto pare non sia ovvio capire cosa potrebbe farci felici e cosa aspettarsi. Malgrado ciò, costantemente ogni giorno cerchiamo di rincorrere questa sconosciuta, ma se non sappiamo di cosa si tratta come facciamo ad ambirla?
In primis, proviamo a individuare cosa potrebbe renderci felici. Secondo lo studioso Michael Fordyce esistono 14 punti che contraddistinguono le persone felici da quelle che non lo sono. Questi punti rappresentano aspetti di base, atteggiamenti e pensieri, che una persona può apprendere per essere più incline alla felicità.
Si tratta di una sorta di palestra fatta di cognizioni e comportamenti che se messi in atto possono indurre alla tanto ambita felicità. Sono concetti che possono incitare un cambiamento nel comportamento, visto che si ha a che fare anche con pratiche comportamentali, favorendo un mutamento nelle convinzioni di una persona.
Vediamo di cosa si tratta e entriamo nel vivo del diventare felici!
1. Essere più attivi e tenersi occupati
Mantenersi quotidianamente più attivi permette di migliorare il livello di benessere. Investire le energie in attività coinvolgenti, accattivanti e piacevoli rende soddisfatti e di conseguenza più felici.
2. Passare più tempo socializzando
Avere delle attività sociale, rende felici. Secondo la teoria del bersaglio, più le relazioni sono profonde e intime, maggiore è il loro impatto sulla felicità. Al contrario più si sta soli e più si è tristi e sconsolati.
3. Essere più produttivi svolgendo attività che abbiano significato
L’impegno profuso, quando risulta produttivo, genera soddisfazioni, ma affinchè abbia un reale effetto positivo su se stessi deve essere mirato ad attività ritenute ricche di significato, come un lavoro soddisfacente.
4. Organizzarsi meglio e pianificare le cose
La capacità di organizzare permette di godere dei piccoli risultati raggiunti quotidianamente, mentre il rimandare gli impegni, il procrastinare, spesso si accompagna ad un senso di colpa per aver perso tempo, inducendo sentimenti di tristezza diffusa.
5. Smettere di preoccuparsi
Secondo la teoria time-clock, più tempo sarà dedicato alle preoccupazioni, rimuginii, meno si ha tempo per essere felici. La felicità di una persona aumenta quando diminuiscono i pensieri negativi, infatti le persone felici si preoccupano molto meno della maggior parte della gente. Questo non significa che non hanno dei problemi, ahimè, quelli capitano a tutti, ma non si creano un problema del problema.
6. Ridimensionare le proprie aspettative e aspirazioni
Le persone felici rincorrono meno il successo, ma paradossalmente, ne hanno di più. La rincorsa del successo mette in una posizione di attesa in cui si rimanda l’essere felici a domani. È utile conoscere le proprie risorse e i propri limiti, in modo da domandare alla vita cosa si vuole e godere delle piccole cose.
7. Sviluppare pensieri ottimistici e positivi
L’ottimismo migliora le emozioni e innesca un circolo virtuoso del tipo profezia che si autoavvera. Se si pensa di poter realizzare qualcosa, si è anche invogliati a darsi da fare e questo comportamento aumenterà le probabilità di raggiungere ciò che si desidera.
8. Essere orientati sul presente
Per essere felici è sicuramente utile investire di più sul presente, dando valore ad ogni giorno e godendo delle opportunità quotidiane.
9. Lavorare a una sana personalità
Per avere una condizione di benessere ed essere felici è necessario apprezzarsi, accettarsi, conoscersi, aiutarsi ed essere se stessi.
10. Sviluppare una personalità socievole
Siate socievoli. Oltre ad aumentare la probabilità di conoscere persone significative per la vostra vita, potete aumentare anche la probabilità di ricevere rinforzi positivi concedendovi la possibilità di essere disponibili e gentili con gli altri.
11. Essere se stessi
Mostrarsi per quello che si è, con i propri pregi e i propri difetti, offre la possibilità di piacere a qualcuno e di poter costruire una relazione su basi solide e non fatue.
12. Eliminare sentimenti negativi e problemi
Utilizzando la metafora della pentola a pressione, se accumulate pensieri negativi come la rabbia, il senso di colpa, il risentimento, tenderete a vivere una vita infelice, proprio come nella pentola a pressione dove, crescendo sempre di più la temperatura, senza far sfiatare le pentola, la pressione aumenterà talmente tanto da far scoppiare il coperchio.
13. I rapporti intimi sono la fonte principale di felicità
Le relazioni che si instaurano tra persone felici si fondano sul piacere, inteso come voglia di passare del buon tempo insieme. La qualità del rapporto appaga e rende felici.
14. Considerare la felicità la priorità numero 1
Se non date valore alla felicità come pensate di ottenerla? Il pensiero non è “non devo, non voglio essere triste“, ma “mi piacerebbe essere felice“!
È indispensabile che consideriate la vostra felicità una priorità nella vita di tutti i giorni e il suo raggiungimento come la maggior occupazione.
Insomma, se si resta intrappolati in pensieri negativi e ricorsivi che si assume erroneamente siano la soluzione al problema, ma che portano a distanziarsi dalla realtà, non ci si concede la possibilità di affrontare i fallimenti e viverli per quello che sono, senza generalizzare mai quello che accade ma legare gli eventi al contesto. Solo in questo caso si possono valutare le proprie risorse, rimettersi in gioco puntare dritto all’obiettivo: essere felici!
Le abitudini di pensiero non devono durare per sempre. Le persone possono scegliere il proprio modo di pensare. I pessimisti possono imparare, infatti, ad essere ottimisti: non attraverso stupidi stratagemmi come fischiettare o declamare banalità, ma apprendendo nuove abilità cognitive (Seligman, 2005).
BIBLIOGRAFIA:
Perchè se si chiede a un gruppo di illustri professori americani di puntare il dito verso sud-est tenendo gli occhi chiusi questi indicheranno in ogni direzione possibile, mentre se si chiede lo stesso a un gruppo di bambine di 5 anni originarie dell’Australia aborigena queste indicheranno sempre nella direzione giusta?
Secondo Lera Boroditsky la risposta è nel linguaggio, ovvero: il linguaggio (e più nello specifico la nostra lingua madre) influenza e modella le modalità con cui percepiamo e interpretiamo il mondo. Nel caso sopracitato, la risposta è da ricercare nel fatto che gli aborigeni australiani per indicare la posizione degli oggetti nello spazio, non usano parole come “destra” e “sinistra”, ma fanno ricorso ai punti cardinali e questo, secondo Boroditsky, è alla base della loro capacità di indicare senza esitazioni da che parte di trova uno specifico punto cardinale.
Secondo i ricercatori, le differenze linguistiche sembrano influenzare piccoli ma significanti aspetti del nostro comportamento, come per esempio la logica con cui classifichiamo gli oggetti in categorie diverse o ciò che notiamo all’interno di una scena.
Se per esempio per i madrelingua inglesi la differenza tra tazze e bicchieri è data dal materiale, i madrelingua russi distinguono tazze e bicchieri in base alla forma, per cui, davanti al medesimo gruppo misto di tazze e bicchieri russi e inglesi tenderanno a separare i diversi oggetti secondo modalità distinte. Ancora, davanti alla medesima scena, madrelingua inglesi e madrelingua spagnoli tenderanno a fornire due descrizioni diverse, perchè mentre in inglese l’intenzione dell’azione non viene sempre espressa nel significato del verbo, in spagnolo si.
Boroditsky, sottolinea però che sarebbe scorretto considerare il linguaggio come il principale (o addirittura l’unico) fattore responsabile della modalità con cui processiamo e ricordiamo gli stimoli che percepiamo. “Apprendere una nuova lingua non può essere considerato un processo molto distinto da ciò che accade quando studiamo per diventari avvocati o medici: in entrambi i casi le nostre capacità cognitive si modificano e si evolvono e in entrambi i casi possiamo studiare e analizzare questi cambiamenti”.
BIBLIOGRAFIA:
Di Barbara Missana.
La “scoperta” da parte del pittore russo Wassily Kandinsky (1866-1944) del linguaggio astratto è stata segnata da un episodio avvenuto nel 1895 in occasione della mostra degli impressionisti francesi a Mosca. Osservando un quadro della serie I covoni di Monet (realizzata tra 1889 e 1891) non riusciva a capire cosa raffigurasse quella tela poiché il pittore l’aveva dipinta con piccolissimi tocchi di colore, senza linee di contorno, suggerendo appena l’effetto luminoso: quando si avvicinava riusciva ad individuare il pagliaio, ma scopriva che in fin dei conti quel soggetto non fosse poi così importante. Ciò che contava era il modo in cui era stato dipinto e l’effetto che avrebbe suscitato.
Giungeva in questo modo all’astrattismo, divenendone in seguito il Padre, una tendenza in cui i tradizionali soggetti sono sostituiti da macchie colorate e forme liberamente disposte.
Dopo aver letto gli studi di Semir Zeki circa l’applicazione della ricerca neuroscientifica all’arte astratta, mi sono convinta del fatto che fra i tanti artisti Kandinsky si avvicini alla figura del moderno neuroesteta, specialmente se lo si immagina mentre sottopone punti, linee e superfici ai suoi allievi domandando “riuscite a vedere tali oggetti?”.
Quando Zeki ha studiato i dipinti di Mondrian sostenendo che a essi rispondono le cellule della corteccia visiva selettive all’orientazione, quando ha dimostrato che Magritte condusse esperimenti percettivi con la memoria visiva del cervello introducendo una sorta di trompe esprit, ha gettato le basi per un’impresa neurologica dell’arte astratta che ho voluto studiare.
Le conclusioni che Zeki ha tratto dai suoi ben 25 anni di studio del cervello visivo sono che, a livello elementare, quanto accade nel cervello di un individuo intento nell’osservare l’opera astratta è identico a quanto accade in tutti gli altri, motivo per il quale è possibile comunicare anche attraverso questa tendenza artistica.
Kandinsky lo ha fatto con i suoi dipinti: se Zeki ha definito l’arte come rifugio per i concetti, il pittore ben un secolo prima aveva chiarito la sua posizione in favore del contenuto espresso da elementi ideali.
In aggiunta, il fatto che Kandinsky abbia utilizzato ai fini della comunicazione proprio quegli stimoli che si rivelano essere i più efficaci nell’attivazione delle cellule del cervello visivo, rivela il grandissimo sforzo intellettuale che egli ha compiuto.
Un pittore come Kandinsky che nelle sue teorie ha analizzato i componenti primari di ogni forma, “sta essenzialmente osservando l’attività interna della fisiologia del suo cervello visivo”, come ha detto Semir Zeki.
Kandinsky dipingeva quindi col cervello ossia ricercando gli elementi in grado di eccitare tutti gli individui allo stesso modo, rivendicando il principio di un’arte universale e onnicomprensibile.
Nell’articolo La pittura astratta apparso nel 1935 nel num.6 della rivista Kronick van Hedendaagse Kunst en Kultur ad Amsterdam, chiariva che la pittura astratta fosse a suo avviso una “pittura cerebrale”.
Egli vedeva addirittura nell’arte astratta un “progresso nel campo della conoscenza della natura: si tratta di raggiungere, sotto la pelle della natura, la sua essenza, il suo contenuto” e aggiungeva “col tempo sarà dimostrato sicuramente che l’arte astratta non esclude il legame con la natura ma che, al contrario, questo legame è più grande e più intimo di quanto non sia stato negli ultimi tempi”.
Il suo lavoro si può esprimere come una ricerca analitico-sintetica degli elementi puri della costruzione figurativa.
La teoria dell’astrazione pittorica kandinskiana è racchiusa nelle pagine del suo più noto trattato, Uber das Geistige in der Kunst (Lo spirituale nell’arte), scritto nel 1910 a Monaco di Baviera. Cimentandosi nello studio del sensibilismo cromatico, giungeva lo stesso anno a dipingere la sua prima opera astratta, Primo acquerello astratto, un’esplosione caotica di colore, esempio di un’arte che voleva emanciparsi dall’imitazione della natura ponendosi sul piano contenutistico, alla stregua delle composizioni di Schonberg, del colore di Matisse, dell’atmosfera di Wagner e delle esperienze pittoriche di Cezanne e Picasso.
Lo spirituale nell’arte era una dichiarazione filosofica che propugnava una rinascita dell’arte col fine di risvegliare nell’uomo la capacità di cogliere nelle cose astratte l’elemento spirituale.
La scelta di una linea o di un colore, come quella di una parola o di un suono non dipende, secondo il pittore, in modo completo dal libero arbitrio dell’artista ma avviene sulla base di una legge fondamentale che egli definisce come “principio di necessità interiore”, ossia il principio di adozione di quella forma o di quel colore che siano in grado di toccare l’anima dello spettatore.
Questa legge artistica rispecchia gli studi sugli elementi artistici capaci di stimolare la corteccia visiva, e in questo Kandinsky rappresenterebbe una sorta di precursore, seppur il suo lavoro sia un’analisi approssimativa che egli stesso, consapevolmente, sostiene vada approfondita in modo più concreto.
Nella teoria il pittore rivelava tra l’altro la consapevolezza dell’analogia tra la sua arte e la ricerca scientifica coeva: la teoria della relatività aveva allora dimostrato che massa ed energia fossero convertibili reciprocamente e a questo concetto Kandinsky faceva corrispondere la ricerca di forme dinamiche e caotiche, espresse con le macchie di colore.
Le opere di Kandinsky del primo periodo sono state definite per questo motivo dallo storico dell’arte Ernst Gombrich l’equivalente artistico del test di Rorschach, teorizzato proprio in quegli anni e pubblicato nel 1921 nel libro Psychodiagnostik: le macchie di inchiostro e l’arte astratta si rivelano dunque due linguaggi visivi con il comune fine di svelare l’inconscio e il meccanismo con cui la percezione diventa interpretazione e la strada che Rorschach percorre per associare le immagini alla psiche è analoga a quella che percorreva l’arte astratta che dalla funzione percettiva giungeva all’individuazione delle caratteristiche psichiche dell’osservatore e del pittore.
Relazionando l’arte astratta con la neurobiologia per via della comune ricerca degli elementi essenziali del processo cognitivo, Semir Zeki è convinto che quelle opere stimolino l’osservatore a ritrovare i significati nascosti dall’artista affidandosi alle capacità deduttive del cervello, mediante un processo che può essere sovrapponibile a quello proposto da Rorschach.
Ecco che la necessità artistica del pittore, secondo la teoria di Kandinsky, coincide con l’efficacia espressiva delle forme e dei colori che sono capaci rivelatori di significati: nasce da qui il tentativo di dare una definizione a quello che egli chiama “suono interiore” dei due mezzi espressivi, per costruire una sorta di teoria dell’armonia pittorica.
Kandinsky invita quindi l’osservatore a cercare nelle macchie di colori sperimentate, stimoli visivi per ricostruire interiormente il concetto celato.
La scoperta più importante è stata appunto la realtà interiore che possiede il colore, mutuata dallo studio teorico di Goethe, la quale lo caratterizza in modo del tutto indipendente da una qualunque finalità raffigurativa.
La questione della forma è quindi secondaria rispetto all’essenzialità della comunicazione sentimentale: l’opera d’arte consta infatti di un elemento interiore, corrispondente all’espressione dell’animo dell’artista, che desta nell’osservatore una parallela situazione spirituale di einfuhlung, e uno esteriore che corrisponde alla forma materiale capace di esprimere quella vibrazione.
Se gli influssi delle forme naturali sono casuali e indefiniti, le forme artistiche sono l’incarnazione di un contenuto astratto e l’unica legge immutabile è il principio della necessità interiore di quell’espressione.
Dopo la parentesi a Mosca del 1914-1921 per via della Guerra, Kandinsky tornava a Berlino dove dilagavano il movimento dadaista e l’espressionismo e sentendosi isolato tra quegli stili formalisti accettava senza esitazioni la proposta di Walter Gropius di trasferirsi a Weimar per lavorare nel Bauhaus, il nuovo tipo di accademia d’arte che riuniva arti libere e applicate in un comune lavoro analitico: nel 1922 aveva qui l’occasione di riprendere i suoi slanci psicologici e approfondire la ricerca degli elementi figurativi, collaborando con Paul Klee, Johannes Itten, Gerard Marks.
Riprendendo la giovanile teoria dei colori polari in “quattro sonorità principali”, elaborata da Goethe, Kandinsky studiava le basi fisiche per l’ordinamento dei colori analizzando soprattutto la triade giallo, blu e rosso.
Partendo dall’analisi di elementi singoli come il punto, la linea e il piano e delle loro relazioni, affiancava quelle ricerche alla psicologia della forma.
Hirschfeld-Mack in The Bauhaus, scritto nel 1963, ricordava che in particolare Paul Klee e Kandinsky avevano tenuto un intero seminario per scoprire le reazioni dell’uomo a determinate composizioni cromatico-lineari. Per ricercare la legge universale di relazione psicologica tra forma e colori avevano preso un campione di un migliaio d’individui inviando delle cartoline in cui si chiedeva di colorare tre forme elementari (il triangolo, il cerchio e il quadrato) con i tre colori primari (rosso, blu e giallo): quello che emerse da tale esperimento fu che la maggioranza aveva assegnato al triangolo il colore giallo, al quadrato il rosso e al cerchio il blu.
Gli allievi erano invitati all’osservazione attenta di alcuni oggetti per poterne identificare gli elementi essenziali e per comprendere il procedimento di astrazione pittorica che li avrebbe portati alla semplificazione in linee-forza di quelli, in puri concetti.
Sfruttando le caratteristiche delle linee, dei piani e dei volumi e tenendo conto della loro posizione nella tela, Kandinsky li guidava alla padronanza dei principi del disegno astratto e li stimolava ad associare i colori primari (giallo, rosso e blu) alle forme geometriche elementari (triangolo, cerchio e quadrato) studiandone gli effetti psicologici.
Convinto che la risposta si trovasse nel postulato di necessità interiore, esprimeva un principio mistico interessante: “Elemento dell’arte pura ed eterna che si ritrova in tutti gli esseri umani, in tutti i popoli e in tutti i tempi, che appare nell’opera di tutti gli artisti, di tutte le nazioni, di tutte le epoche e che non obbedisce poiché elemento essenziale dell’arte, a nessuna legge di spazio né di tempo”.
Kandinsky era cioè convinto che il fondamento dell’intuizione artistica fosse la conoscenza delle leggi naturali che regolano l’universo. Pertanto lo scopo del suo insegnamento era scoprire un’essenza comune a tutte le arti, un linguaggio comune generale.
Lo stesso storico dell’arte Ernst Gombrich nel suo fondamentale studio Art and illusion. A study in the psychology of pictorial representation del 1957 teorizzava l´esistenza di schemi figurativi che aiutano alla codificazione dell’immagine. Nelle stesse opere cubiste, ad esempio, dove la realtà è frammentata e ricombinata secondo schemi talmente complicati che è spesso impossibile riconoscere un volto o un oggetto, la codificazione dell’immagine si avvale di schemi mentali recuperati dalla memoria, di un volto o di un oggetto. In questo modo, un viso alterato, “sfigurato”, si può riconoscere grazie alla presenza dei tratti permanenti di quello schema figurativo (occhi, naso, bocca, testa).
Lo stesso Kandinsky negli appunti delle sue lezioni scriveva frasi come “le percezioni dei colori sono localizzate nel cervello (nuca, due centri)”, pur non essendo ancora a conoscenza dei reali meccanismi percettivi presenti dietro la rappresentazione di un’immagine, cosa che oggi a grandi linee è chiara.
Mentre Freud studiava l’inconscio, il mondo dell’Es, e si avvicinava alla neurologia, Kandinsky produceva le “impressioni” e “improvvisazioni” che già per definizione evidenziavano l’importanza dell’atto istintuale. Per questo motivo i suoi dipinti sono paragonabili agli scarabocchi infantili: era convinto che l’arte astratta fosse riconosciuta dentro ciascuno e producesse vibrazioni emozionali che, come nel caso dei suoni, emozionano anche senza raccontare una storia. Per cui sottintendeva che “inconsciamente” uno spettatore reagisce emotivamente di fronte ad una serie di stimoli nati dall’accostamento di colori e forme.
Nel 1926 il pittore russo pubblicava la prima edizione di Punkt und Linie zu Flache all’interno della serie del Bauhaus Bucher (Libri del Bauhaus) diretta da Gropius e Moholy-Nagy che alla lettera significava Punto e Linea sul Piano, ossia in relazione alla superficie (mentre le tradizionali traduzioni italiane equiparano i tre elementi definendolo Punto, Linea, Superficie).
Si trattava di una continuazione del Lo spirituale nell’arte però prodotta come sforzo teorico del periodo di permanenza al Bauhaus, una sorta di compendio generale della dottrina che Kandinsky illustrava agli allievi per la costruzione di una “scienza dell’arte” fondata sull’analisi del punto e della linea in funzione del piano. Kandinsky infatti insistette molto sulla stretta parentela con la scienza sperimentale proponendo di stabilire leggi e formule numeriche che traducessero la costanza degli effetti delle forme sull’uomo.
Leonardo aveva scritto nel Libro di pittura che il principio della scienza fosse il punto, seguito dalla linea, dalla superficie e dal corpo che si veste di essa: questi venivano analizzati da Kandinsky in primo luogo come elementi isolati dal loro contesto originario per poter liberare il loro “suono interiore” e poi la loro tendenza a fissarsi nella superficie.
Verso la conclusione della sua carriera, nella rivista Cahiers d’art, nel 1931, Christian Zervos gli chiedeva di difendere l’arte astratta dalle accuse di inespressività e di “eccesso cerebrale” e di aver sostituito l’emozione con esercizi di toni puri e disegni geometrici riducendo i dipinti a giochi di colori iscritti dentro forme: la risposta di Kandinsky era “il contatto dell’angolo acuto di un triangolo col cerchio non ha un effetto minore di quello dell’Indice di Dio con quello di Adamo in Michelangelo”.
BIBLIOGRAFIA:
Verso una nuova critica d’arte: la neuroestetica e Kandinsky intende formulare un parallelo tra le ricerche svolte dal neuroscienziato Semir Zeki nell’ambito della visione dei colori, della forma e del movimento (con particolare riferimento al suo testo La visione dall’interno) e l’attività teorica e pittorica di Kandinsky.
Gli studi sulle reazioni della corteccia visiva agli elementi primari della rappresentazione hanno spinto l’autrice ad ipotizzare che il pittore possa essere considerato un precursore del moderno neuroesteta per l’attenta scelta cromatico-lineare alla base dei suoi dipinti astratti.
BIBLIOGRAFIA:
Fino al decennio scorso la visione dominante in letteratura è stata quella proposta dal mastino di Darwin, T.H. Huxley: siamo fondamentalmente egoisti e la vera bontà o non esiste o è un passo falso nel percorso dell’evoluzione.
A tal proposito è emblematica l’affermazione del biologo americano Michael Ghiselin (1974): “Se scalfisci la pelle di un altruista ne vedrai uscire il sangue di un ipocrita”. Da questo punto di vista la morale è solo una patina che ricopre la nostra vera, bieca natura; la morale, che con le sue leggi ci permette di stabilire cosa è giusto e cosa è sbagliato, proverrebbe quindi dall’alto, in particolare dalla religione (ma potremmo dire anche dalla scienza o dalla società), che ci insegna ad essere persone morali.
Frans De Waal, etologo e primatologo di fama internazionale, nel suo nuovo libro Il bonobo e l’ateo sostiene esattamente l’opposto: la morale proviene dall’interno, è innata ed ha una sua giustificazione evolutiva.
L’autore parte dal presupposto che la nostra natura di animali sociali (il desiderio di appartenenza ad un gruppo, di andare d’accordo, di amare ed essere amati) ci predispone a comportarci verso gli altri in modo da rimanere in buoni rapporti, e descrive all’interno del suo testo studi che nell’ultimo decennio hanno portato “prove crescenti di empatia innata, di altruismo e di cooperazione nella specie umana e negli altri animali”. (A tal proposito il libro fornisce una ricchissima bibliografia sulle numerose ricerche condotte sull’argomento.)
Le tendenze morali manifestate dagli animali possono insegnarci molto sull’origine della moralità umana. “La morale è un sistema di regole concernente i due aspetti dell’aiutare o almeno del non danneggiare i nostri simili. Si preoccupa del benessere degli altri e antepone la comunità all’individuo. Non nega l’interesse individuale, ma lo ridimensiona a vantaggio di una società fondata sulla cooperazione”. Essa si basa su due grandi pilastri: l’empatia (compassion) e la reciprocità (fairness), entrambi osservabili nel mondo animale, in particolare tra i mammiferi e in maniera spiccata tra i primati a noi più vicini.
Per quanto riguarda l’empatia, che è alla base dei comportamenti altruistici, De Waal distingue tre livelli: la capacità di immedesimarsi nello stato emotivo altrui (contagio emozionale), di provare interesse per gli altri (consolazione) e di adottarne il punto di vista (aiuto orientato).
Poche specie, afferma l’autore, mostrano tutti e tre gli stati, ma il primo è tipico dei mammiferi, particolarmente sensibili alle emozioni altrui. Tra gli studi presentati, esemplificativo quello sui ratti che, di fronte a due contenitori, uno contenente cioccolato e uno contenente un compagno intrappolato terrorizzato, spesso si occupavano prima di liberare il compagno (Inbal Ben-Ami Bartal et Al., 2011).
La reciprocità, invece, riguarda il senso di giustizia relativo alla distribuzione delle risorse, e si distingue in equità di primo livello (protestiamo quando riceviamo meno degli altri) e di secondo livello (proponiamo una distribuzione equa delle risorse). L’essere umano condivide con le scimmie antropomorfe entrambi i livelli e il primo livello con le altre scimmie e i cani.
Se volete farvi quattro risate guardate l’esilarante video del celebre esperimento condotto da De Waal sulle scimmie cappuccino: due scimmie devono consegnare allo sperimentatore un sassolino e in cambio come premio ricevono la prima un pezzo di cetriolo, che mangia con gusto, e la seconda un chicco d’uva; la prima scimmia si accorge che l’altra ha ricevuto un cibo più prelibato, consegna un altro sassolino allo sperimentatore e quando riceve ancora un cetriolo, ecco la sua reazione:
Empatia e reciprocità, assieme al timore di ricevere una punizione e di perdere la propria reputazione in caso di messa in atto di “comportamenti cattivi”, sono i presupposti per vivere serenamente all’interno di un gruppo sociale e preservare il benessere della comunità.
De Waal osserva come però con lo sviluppo di gruppi sociali sempre più grandi (paesi, città, nazioni…) le regole di reciprocità e di reputazione si siano indebolite in quanto il controllo “faccia a faccia”, “uno a uno”, l’uno dell’altro è diventato sempre più difficile; da qui la necessità di una supervisione che garantisse un alto livello di cooperazione, e quindi lo sviluppo delle grandi religioni morali.
Ma “gli ingredienti principali di una società morale non richiedono la religione, dal momento che provengono dall’interno”; le grandi religioni hanno pertanto avuto il merito non di inventare, ma di sostenere una morale che era già dentro di noi e che in realtà è frutto dell’evoluzione naturale.
In conclusione, siamo biologicamente “programmati” per essere empatici, il nostro cervello prova piacere quando siamo altruisti (e ciò ci spinge a reiterare tale comportamento) e sin da piccolini ci arrabbiamo di fronte all’ingiustizia della non equità. Non saremo di certo universalmente buoni, ma indubbiamente siamo inclini ad esserlo… il che non è poco!
Video consigliati
De Waal, F. – La moralità nel comportamento animale (Sub Ita) :
BIBLIOGRAFIA:
Theodore Millon, a psychologist whose theories helped define how scientists think about personality and its disorders, and who developed a widely used measure to analyze character traits, died on Wednesday at his home in Greenville Township, N.Y. He was 85. (New York Times)
Theodore Millon has written numerous popular works on personality, developed diagnostic questionnaire tools such as the Millon Clinical Multiaxial Inventory, and contributed to the development of earlier versions of the Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders.
Among other diagnoses, Millon advocated for an expanded version of passive aggressive personality disorder, which he termed ‘negativistic’ personality disorder and argued could be diagnosed by criteria such as “expresses envy and resentment toward those apparently more fortunate” and “claims to be luckless, ill-starred, and jinxed in life; personal content is more a matter of whining and grumbling than of feeling forlorn and despairing” (APA, 1991, R17). Passive-Aggressive Personality Disorder was expanded somewhat as an official diagnosis in the DSM-III-R but then relegated to the appendix of DSM-IV, tentatively renamed ‘Passive-Aggressive (Negativistic) Personality Disorder’. (Wikipedia)
Theodore Millon è l’inventore del Millon Clinical Multiaxial Inventory-III, uno strumento diagnostico per l’assessment della personalità:
Based on Theodore Millon, Ph.D., D.Sc.’s Evolutionary Theory of personality and psychopathology, the brief Millon Clinical Multiaxial Inventory-III (MCMI-III) instrument provides a measure of 24 personality disorders and clinical syndromes for adults undergoing psychological or psychiatric assessment or treatment. Specifically designed to help assess both Axis I and Axis II disorders, this psychological test assists clinicians in psychiatric diagnosis, developing a treatment approach that takes into account the patient’s personality style and coping behavior, and guiding treatment decisions based on the patient’s personality pattern. (PsychCentral)
Gli studi di Theodore Millon sui disturbi di personalità sono confluiti nella stesura del DSM3 e DSM IV, il Diagnostic and Statistical Manual of Mental Disorders, standard nel mondo occidentale per la diagnostica in psicologia clinica.
ARGOMENTO CORRELATO:
Secondo un recente studio pubblicato sul giornale Motivation and Emotion, dopo una vittoria, la prima ed istintiva reazione di un atleta è quella di ostentare il proprio dominio sull’avversario. Per questo, il loro linguaggio del corpo, conosciuto come “dominance threat display” ed etichettato come “trionfo” in altri studi, è stato oggetto di osservazione nei vincitori di incontri durante le Olimpiadi e le Paraolimpiadi.
“Sembra che sia un comportamento innato che nasce da un bisogno evolutivo di stabilire ordine e gerarchia nella società”, afferma David Matsumoto, Professore di Psicologia dell’Università di San Francisco e co-autore di questo studio insieme a Hyisung Hwang.
In un precedente studio, Hwang e Matsumoto avevano riscontrato che la cultura di appartenenza di un atleta influenza il modo e l’intensità del proprio linguaggio del corpo. “Individui appartenenti a culture volte all’individualismo mostrano maggiormente questo tipo di comportamenti di predominio rispetto ad individui provenienti da culture di tipo più egalitario”, continua Matsumoto.
Sempre in quello studio, gli osservatori avevano etichettato come “trionfo” la posizione vittoriosa che assumevano gli atleti dopo una vittoria e avevano stabilito che questo trionfo poteva potenzialmente essere un’espressione separata rispetto all’orgoglio, il quale richiede una maggior meditazione e riflessione.
Nel nuovo studio, invece, per la prima volta ci si è chiesti se le espressioni di trionfo siano veramente la reazione immediata di un’atleta dopo una vittoria. Per rispondere a questa domanda, Hwang e Matsumoto si sono concentrati sull’osservazione della prima reazione corporea di un atleta quando egli realizzava di aver vinto, verificando se quell’azione appartenesse a quelle che costituivano il “trionfo” e valutandone l’intensità su una scala da 1 a 5.
Le azioni considerate trionfanti includevano alzare le braccia in alto, gonfiare il petto, inclinare la testa all’indietro e sorridere. Questi comportamenti sono stati osservati in atleti vincitori appartenenti a qualsiasi background culturale e anche in atleti ciechi durante le Paraolimpiadi, suggerendo che questi comportamenti siano biologicamente innati.
“L’espressione che viene prodotta da molte persone diverse, di diverse culture, subito dopo aver vinto un match è davvero rapida, immediata e universale”, afferma Matsumoto.
In questo studio, i due autori hanno comparato l’intensità dell’espressione di trionfo dell’atleta con il suo “power distance (PD)” dalla propria cultura, una misura che rappresenta il grado con il quale una certa cultura incoraggia o scoraggia lo status e le differenze gerarchiche tra i gruppi.
Gli autori hanno riscontrato che gli atleti appartenenti a culture con un alto PD mostrano un maggior linguaggio del corpo rispetto a quelli appartenenti a culture con un basso PD. Gli stati con un alto PD includono Malesia, Repubblica Slovacca e Romania, mentre gli stati con un basso PD comprendono Israele, Austria e Finlandia. Gli Stati Uniti e l’Inghilterra si trovano nel mezzo di questo spettro PD, insieme a Italia, Ungheria e Iran. Gli atleti appartenenti a stati che pongono grande enfasi sulla gerarchia mostrano un maggior numero di comportamenti volti a stabilire lo status e il potere.
Matsumoto infine propone un esempio concreto, facendo notare come, durante una riunione, la persona che si capisce che detiene il potere si presenta eretta e sembra più alta, utilizza una voce forte ed utilizza una gestualità che indica dominanza. “Se c’è un conflitto, la persona che urla di più o si mostra più severa sarà vista come il leader e stabilisce una gerarchia in quel determinato contesto”.
BIBLIOGRAFIA:
Un articolo di Giancarlo Dimaggio, pubblicato sulla “Lettura” del “Corriere della Sera” n. 115 del 2 febbraio 2014.
TUTTI GLI ARTICOLI SULLA MINDFULNESS
Il 7 luglio 2013 a Wimbledon c’era un sole da quelle parti inusuale. Nel pomeriggio Novak Djokovic avrebbe giocato la finale con Andy Murray — per la cronaca: vincerà Murray, per la gloria della regina, ma questa è un’altra storia —. Che cosa avrà fatto Djokovic la mattina della finale di un torneo del Grande Slam? Allenarsi, studiare l’avversario? Probabilmente. Ma è certo che si è recato al tempio Buddhapadipa. C’è un bel giardino. Lì, tra le foglie, nel silenzio, ha passato un po’ di tempo, un’ora o giù di lì. A fare cosa? Assolutamente niente. Se non stare fermo, occhi chiusi e portare l’attenzione sul respiro.
La meditazione è una roba così. Vi sedete abbastanza comodi, non immaginate contorsioni yoga dolorosissime, chiudete gli occhi e aspettate che i pensieri vi passino per la testa. Non ci vuole molto, ne arrivano a sciami. E voi li osservate, notate che vi passano per la mente e li lasciate scivolare via, dicendovi «non ora». E riportate l’attenzione al semplice dato primordiale che state respirando.
Perché Djokovic, uno che per inciso di tornei dello Slam ne ha vinti sette, invece di dedicarsi completamente al tennis, in un giorno così importante passa del tempo ad accorgersi che respira? E non è il solo. Ricky Martin, sì quello di Livin’ la vida loca , bello da fare impazzire o morire di invidia, tutta una questione di punti di vista. Un successo senza limiti. Lo immaginate uno che la vida loca la vive veramente. Eppure anche Ricky Martin, tutti i giorni, medita. Sì, quella cosa del respiro. Lo fanno anche The Edge, Oprah Winfrey, Kobe Bryant. E molti altri.
Perché?
Perché quest’arte del non fare niente, ma con dedizione assoluta, come dicono alcuni dei maestri che ho ascoltato, è arrivata sulla copertina di «Time»? Moda? Forse. Ma è una spiegazione insufficiente. Può essere si tratti di qualcosa che cambia la vita. Muove la mente. Modifica il funzionamento del cervello. In meglio. Entro certi limiti naturalmente. Di che si tratta? Molti dei moderni meditanti occidentali ne praticano una forma — derivata dal tipo buddhista chiamato Vipassana — definita mindfulness. In italiano tendiamo a non tradurla, ma significa consapevolezza intenzionale , attenzione consapevole , pienezza mentale.
Avete mai pensato che suono fa un acino d’uva passa? No, non sapore, forma, consistenza. Quelle sono cose che più o meno pensate di sapere. Ma, il suono, quello non vi viene in mente. Un tipico esercizio di mindfulness è portare l’acino d’uva presso l’orecchio. Poi lo si sfrega dolcemente tra le dita. E si ascolta. Emette un suono tutto suo. Fatelo. Vi verranno parole per descriverlo, non le avreste immaginate mai. Ma quelle parole si formeranno nella vostra mente solo se staccate l’attenzione via da tutto il resto. E vi rendete conto che in quel momento esistete voi, l’acino e i vostri polpastrelli che gentili lo sfregano.
La mindfulness è l’esercizio del momento presente, del qui e ora. Seduti comodi. Chiudete gli occhi. Respirate. L’aria entra nel naso, attraversa la trachea, riempie i polmoni, il diaframma si solleva e si abbassa. È il vostro corpo vivo, attivo, funzionante. In quel momento lo sentite. Ma la mente non dà scampo. Arriva l’angoscia, la litigata col coniuge, una multa da pagare, controllare l’email, la riunione che vorremmo evitare, controllare ancora l’email, Facebook, Twitter, Facebook, non valgo niente, non mi amano. Rabbia, rancore, angoscia, lo stomaco si stringe, il cuore batte più forte. Mentre voi siete lì seduti, a badare al respiro, di pensieri come questi ne arrivano a frotte, stormi agguerriti di caccia. Ma voi non vi muovete. Lasciate scorrere il pensiero, senza combatterlo. Vi dite: «Penso all’abbandono. C’è dell’ansia dentro di me». La osservate allontanarsi finché ne resta l’eco. E tornate a concentrarvi sul respiro.
Tutto qui? Quasi. Più altri esercizi. La meditazione camminata: badate al piede che si solleva, al tallone che poggia a terra, alla pianta che morbida tocca il pavimento. Immaginate di essere avvolti da una nube di gentilezza. Già a nominarla fa sentir bene. Che senso ha? Che effetto fa? Ci vuole pratica, esercizio, allenamento.
A un certo punto fate scoperte. La principale è che i pensieri non sono oggetti; descrivono la realtà, ma fino a un certo punto. Che il timore che vi attanagliava fino a un minuto fa, ora non è più nella vostra mente. Al suo posto l’ombra di un olmo in un giorno in cui passeggiavate in campagna d’estate. E un attimo dopo anche quel ricordo è andato via. I pensieri li prendete sul serio. Ci credete, possono avvelenarvi l’esistenza. La mindfulness mai li combatte. Li accompagna gentilmente verso le periferie della coscienza, toglie loro le luci della ribalta, li fa scivolare via.
L’impazienza del lettore ora si affaccia. E una volta che abbiamo privato i pensieri della luce per cui si dibattevano come trote in un lago di pesca artificiale, che succede di così buono? Molte cose a quanto pare. La mindfulness, soprattutto nella forma iniziata da Jon Kabat-Zinn, si è mostrata efficace nel ridurre ansia, stress, dolore cronico, nel prevenire le ricadute della depressione, migliorare la risposta immunitaria e via dicendo. Le applicazioni cliniche sono in aumento. E fa davvero effetto sul cervello.
Un esempio: Véronique Taylor, del Centre de Recherche en Neuropsychologie et Cognition di Montréal, ha pubblicato una ricerca su «Social Cognitive and Affective Neuroscience» che mostrava come nei meditatori esperti rispetto ai novizi si disattivassero quelle aree cerebrali (per amor di rigore: il Default Mode Network) che portano il cervello a riposo a focalizzarsi automaticamente su di sé. Se iper-attivate non ci si stacca mai dal proprio ombelico. Grazie alla mindfulness, la mente si allena a smorzarne l’azione e di conseguenza riprende a guardare il mondo. A vederlo davvero.
Studi simili di neuro-immagini mostrano come la pratica mindfulness aiuti a calmare le emozioni negative e migliori l’empatia. Una moda? Forse. Una panacea? No. Molti non ne saranno incuriositi o, semplicemente, non ne beneficerebbero se la praticassero. È un sostituto della psicoterapia? Non lo è. È un’alternativa. Un complemento. Una sua declinazione. Ma, di solito, quelli che la praticano provano gratitudine.
Ero con il mio amico Edoardo. I piedi immersi nell’acqua del torrente che delimita il suo casale nelle campagne della Sabina. Lui medita da decenni. In quei giorni era affannato dalla ristrutturazione. Muratori, piastrelle, il tagliaerba si era rotto, i costi lievitavano.
Ci ha meditato su. L’acqua scorreva vivace, portandosi foglie che sembravano animate. Rami di nocciolo sporgevano dalle rive. Edoardo mi dice: «Ho capito. Io di questo luogo non sono il proprietario. Sono il custode. Ora lo vivo con più serenità».
Guardo il sole che filtra tra una vegetazione che era lì milioni di anni prima di noi e sarà lì molto dopo che noi non ci saremo più. Ha ragione. Respiro. Sento l’acqua che scorre sulle caviglie. È fresca.
ARGOMENTI CORRELATI:
BIBLIOGRAFIA:
LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND
“Tutta colpa di Freud, dei suoi sordidi inganni, degli incontri imprevisti, delle scelte sbagliate, dei dolori pregressi, dei peccati commessi una sera d’estate, delle mille promesse mancate”.
Così Daniele Silvestri canta nella colonna sonora dell’ultimo film di Paolo Genovese, una commedia divertente, ironica che ruota attorno alle storie amorose di Marta (Vittoria Puccini), Sara (Anna Foglietta) ed Emma (Laura Adriani), figlie di Francesco (Marco Giallini), uno psicoanalista freudiano divorziato, un padre moderno coinvolto in una relazione amorosa platonica con una donna sposata (Claudia Gerini), alle prese con le vite sentimentali complicate delle figlie e che non si esime mai dal dispensare consigli e suggerimenti.
Dopo il successo della commedia agrodolce “Una famiglia perfetta”, Paolo Genovese scende in campo con una nuova trama centrata sulle relazioni familiari, ma questa volta il filo conduttore che muove tutta la commedia è l’amore con tutte le sue sfaccettature perché si sa, come dice lo stesso Marco Giallini, “è la malattia più diffusa che ci sia al mondo” e purtroppo “l’amore ha i denti, i denti mordono; fanno male, lasciano cicatrici e quelle cicatrici non svaniscono più”.
Il film esordisce con la presentazione delle tre figlie di Francesco, ognuna delle quali rappresenta un prototipo della donna attuale, ognuna con le sue contraddizioni e peculiarità. Marta è una libraia, molto dolce, innamorata della letteratura, in attesa del principe azzurro e che, dopo tante storie fallimentari con poeti e scrittori, si innamora di Fabio (Vinicio Marchioni), un cleptomane sordomuto permaloso; Sara è una “ventinovenne da 3 anni” con la paura di varcare la soglia dei 30 anni, che dopo l’ultima delusione amorosa avuta con una donna, decide di provare ad essere eterosessuale; infine, Emma è una diciottenne che si innamora di un uomo (Alessandro Gassman) più grande di lei di 32 anni e sposato con Claudia, la stessa donna di cui Francesco si è invaghito.
Essere al contempo sia analista che genitore non è certo un’ impresa semplice, soprattutto se le proprie figlie sono un po’ sopra le righe e, a volte, viene spontaneo domandarsi dove abbiamo sbagliato; i figli sono sicuramente i pazienti più difficili, in quanto tocca chiedersi continuamente se sia meglio preservarli da futuri fallimenti e delusioni o lasciarli liberi di scegliere e lo psicoanalista Francesco questo lo sa bene; nonostante i suoi tentativi di evitare sofferenze ed errori alle proprie figlie, queste ultime proseguono per la propria strada curandosi poco dei consigli paterni, che pur ricercano continuamente stendendosi sul lettino. Centrale nella trama è, dunque, il rapporto padre-figlie, un rapporto che, come dichiara lo stesso protagonista, non dovrebbe sovrapporsi ad un’amicizia (“I padri devono fare i padri, non gli amici!”).
Una commedia piacevole, mai banale, coinvolgente, in cui la comicità e l’ironia si mescolano, sebbene non manchino battute tese alla riflessione e tematiche significative: la paura di crescere che ritroviamo in Sara, la quale non accetta di aver superato i 30 anni e si dichiara ancora ventinovenne; la sindrome di Peter Pan sempre più frequente negli uomini di oggi e rappresentata appieno dal fidanzato cinquantenne di Emma; l’incontro spesso piacevole e arricchente tra persone con differenze di età, genere e orientamento sessuale.
Momenti densi di dolcezza e di romanticismo caratterizzano soprattutto il rapporto tra Marta e il ragazzo sordomuto, una relazione che svela come i sentimenti possano andare al di là delle parole, la comunicazione non verbale possa essere più profonda e come ancora una volta le differenze possano unire anziché dividere.
Un cast eccezionale capitanato dal protagonista Marco Giallini, perfetto nel ruolo di padre permissivo e moderno, ma al contempo preoccupato delle complicate storie delle figlie, al quale spettano le battute più profonde della commedia. Straordinaria anche Anna Foglietta nel ruolo della lesbica che cerca di cambiare orientamento sessuale con le sue battute spesso ironiche sulla sessualità.
Ebbene sì l’amore è la malattia più diffusa al mondo, ma tranquilli, secondo Paolo Genovese, non è mortale e soprattutto la maggior parte delle volte è solo una specie di influenza che col tempo passa, sebbene continui ad essere ciò che muove continuamente le nostre vite.
(2013) Raffaello Cortina Editore
Vi presentiamo l’ultimo libro di Robin Dunbar, il docente di antropologia dell’evoluzione all’Università di Oxford famoso per aver determinato la quantità massima di relazioni di amicizia che il cervello umano può mantenere (vedi la monografia: 150 amici). Questa volta Dunbar si cimenta nell’elaborazione di un saggio, Amore e tradimento: uno sguardo scientifico, edito da Raffaello Cortina nella sezione scienza e idee, nel quale si parla di come nasce e si sviluppa l’amore in tutte le sue sfumature e sfaccettature, di come la genetica e i neurotrasmettitori influiscono sulle scelte e le alimentano, di come l’antropologia ci influenza.
Apparentemente innamorarsi di qualcuno potrebbe risultare casuale e arbitrario, ma in realtà è un processo che può essere spiegato attraverso una serie di resoconti storici/antropologici e genetici. Eros e agape, da sempre destano l’interesse di tutti, ma spesso si è concentrati solo sulle conseguenze negative psicologiche derivanti, a scapito di capire come si costruisce una relazione partendo dall’interazione madre-bimbo, da come noi ci percepiamo e dal ruolo che svolgiamo all’interno delle relazioni.
L’evoluzione ci spinge nella mischia, perché a livello biologico non si può aspettare per trovare l’anima gemella. Così quando individuiamo una persona attraente, per alcuni aspetti che selezioniamo accuratamente, si riduce l’attività nelle aree cerebrali che ci rendono lucidi e a quel punto dobbiamo “scegliere“.
Quindi, le nostre scelte derivano da veloci valutazioni di una serie di fattori che portano alla individuazione non casuale del partner. Insomma, si ha un considerevole grado di preveggenza prospettandosi anticipatamente i vantaggi da poter trarre dalla relazione. Per questo, calcoliamo perfettamente chi scegliere, sulla base di informazioni apprese alle quali non sempre prestiamo attenzione, facciamo finta di non sapere quale possano essere le conseguenze delle nostre decisioni, lasciandoci imbrogliare dal limbo della passione, amore romantico mosso verso un preciso individuo.
Solo con l’avvento di quest’ultimo siamo diventati monogami, altrimenti ci comporteremmo come gli scimpanzé: promiscui e poligami. E’ stato scoperto che il livello di poligamia nei primati è espresso dalla maggior lunghezza del quarto dito della mano rispetto al secondo dito. Noi abbiamo ancora, in effetti, l’anulare più lungo dell’indice, seppure la differenza sia decisamente minore rispetto alla mano dell’uomo di Neanderthal, siamo meno poligami di un tempo.
Quindi, possiamo dire che la monogamia comparve non più tardi di 200mila anni fa, quando la pressione dei maschi riproduttori sulle femmine diventò intollerabile e la donna sentì il bisogno di creare una situazione monogamica per difendersi da tutti gli altri uomini predatori. Ma avere un legame continuo e duraturo con un uomo è servito alla donna non solo per difendere se stessa, ma anche, e soprattutto, per prevenire l’infanticidio da parte di altri uomini desiderosi di accoppiarsi. Dunque, l’amore romantico è l’effetto collaterale di queste forti spinte evolutive, volto a difendere la relazione e la prole. Ma per ottenere alchimia in una relazione si è dovuto aspettare del tempo, perché per creare sintonia col partner era necessario avere un cervello evoluto che potesse processare un numero notevole di informazioni che permettessero di costruire all’interno di una relazione e non di cercare altrove.
Una volta conquistata la persona che ci piace, si mettono in atto comportamenti che la fanno diventare unica, distogliendo lo sguardo dagli altri, quanto più questi altri sono attraenti, perchè costituiscono una minaccia per la stabilità del rapporto di coppia, comportamento sociale evoluto.
E allora perché a un certo punto si tradisce? Sarebbe colpa di un neurotrasmettitore/ormone la vasopressina, che porta l’uomo ad essere predatore, per natura biologica. La soluzione è incanalarla in comportamenti socialmente condivisi che inducono l’uomo a diventare una “guardia del corpo” a vita per la donna e per i figli.
BIBLIOGRAFIA:
L’ipotesi di fondo, che è stata sottoposta a verifica empirica, è che l’indebolimento cognitivo caratteristico dello SCT rappresenti un mediatore causale della relazione osservata tra l’ADHD e la compromissione delle competenze scolastiche. In secondo luogo, dopo aver confermato l’ipotesi di mediazione, è stato condotto uno studio genetico multivariato allo scopo di chiarire le cause della covariazione osservata tra i tre fenotipi sotto studio.
I tre fenotipi sono stati misurati mediante la “Child Behavior Checklist” (CBCL), in particolare ci si è serviti della scala DSM-oriented “problemi di ADHD”, la scala relativa allo SCT e quella relativa alle competenze scolastiche presenti nello strumento. Il campione è composto da 398 coppie di gemelli appartenenti al Registro Nazionale dei Gemelli, di età compresa tra i 9 e i 18 anni.
Le tre scale sono prima state analizzate dal punto di vista descrittivo, in particolare è stata calcolata la media e la deviazione standard prima nel campione intero e poi separatamente, nei maschi e nelle femmine, e nei monozigoti e nei dizigoti, infine i suddetti parametri sono stati calcolati all’interno di due fasce di età. Utilizzando dei t-test abbiamo potuto rilevare alcune differenze nelle medie tra maschi e femmine: nella sottoscala “problemi di ADHD” i maschi presentano punteggi significativamente più elevati rispetto alla femmine, nelle competenze scolastiche, la media dei punteggi delle femmine risulta essere significativamente maggiore rispetto a quella stimata nei maschi. Inoltre la media relativa alle competenze scolastiche è risultata essere significativamente maggiore nella fascia di età dei bambini più piccoli (8-11 anni), rispetto alla fascia di età di ragazzini più grandi (12-18).
Sono state poi condotte le analisi di mediazione mediante il Test di Sobel. Dopo aver sottratto l’effetto dello SCT dalla relazione tra ADHD e competenze scolastiche, il coefficiente di regressione si è ridotto in modo significativo. Infatti, il grado di attenuazione del coefficiente di regressione è pari al 14.3%. Si deduce, dunque, che lo SCT è un mediatore della relazione esistente tra ADHD e compromissione delle competenze scolastiche.
Infine, sono state condotte le analisi genetiche univariate e multivariate, mediante le tecniche di model fitting. Dalle analisi genetiche univariate è emerso che le differenze tra gli individui per tutte le tre scale sono largamente spiegate dai fattori ambientali idiosincrasici e genetici, rispettivamente (SCT: A=0.31, E=0.69; ADHD: A=0.56, E=0.44; competenze scolastiche: A=0.68, E=0.32). I modelli gemellari multivariati sono stati implementati per poter comprendere le cause della covariazione tra i tre fenotipi. Gli indici di fit calcolati evidenziano che il modello saturato di Cholesky presenti una migliore bontà di adattamento rispetto agli altri modelli messi a confronto (Independent Pathway Model e Common Pathway Model). Le analisi genetiche multivariate hanno evidenziato che la covariazione tra i tre fenotipi può essere spiegata da una comune suscettibilità di natura in parte genetica, in parte ambientale unica.
Abstract
The main objective of this study is to analyze the existing relation between ADHD, Sluggish Cognitive Tempo (SCT) and the impairment of scholastic competence. The basic assumption, which has been subject of empiric tests, envisages that the cognitive impairment, typical of the SCT, represents a causal mediator of the observed relation between ADHD and the impairment of scholastic competence. Farther, after having confirmed the hypothesis of mediation, a multivariate genetic analysis has been carried out in order to explain the causes of the observed covariance among the three phenotypes under observation.
The three phenotypes have been measured through the “Child Behavior Checklist” (CBCL), in particular through the DSM-oriented scale “ADHD problems”, the SCT scale and other related to scholastic competence. The sample consist of 398 pairs of twins registered in the National Twin Registry, with the age between 9 and 18 years old.
The three scales have been analyzed firstly from a descriptive point of view, in particular the average and the standard deviation have been calculated on the whole sample and then separately, in the males and in the females, in the monozygotic and dizygotic, eventually the above mentioned parameters have been figured out within the two age intervals.
Using t-tests we were able to detect some differences between males and females in the averages: in the scale “ADHD-problems” males have significantly higher scores than females, whilst in academic competence, the average scores of females appears to be significantly greater than males. Also, the average of academic competence was significantly higher in the age group of younger children (8-11 years), compared to the age group of older children (12-18).
Then Sobel test has been employed to analyze the mediation aspects. It emerged that after adjusting for the mediator’s effect, the relation between ADHD and scholastic competence was significantly reduced. Indeed, the relief grade of the regression coefficient is equal to 14.3%. We can therefore conclude that the SCT is a mediator of the existing relation between ADHD and the impairment of scholastic competence.
Finally, genetic univariate and multivariate analysis have been performed, using model fitting techniques. From the univariate genetic analysis, it emerges that the differences among people for all three scales are widely explained by idiosyncratic environmental factors and genetic factors, respectively (SCT: A=0.31, E=0.69; ADHD: A=0.56, E=0.44; scholastic competence: A=0.68, E=0.32). After that, we have applied multivariate twin models to understand the reasons of the covariance of the three phenotypes. Fit indexes highlight that the saturated model of Cholesky shows better adaptation features than the other models (Independent Pathway Model and Common Pathway Model). The multivariate genetic analysis showed that the covariance among the three phenotypes can be explained by a common susceptibility, in part genetic and in part due to unique environmental factors.
Parole chiave: ADHD, Sluggish Cognitive Tempo, competenze scolastiche, età evolutiva, genetica del comportamento
INTRODUZIONE
Il Disturbo da Deficit di Attenzione e Iperattività (ADHD) è un disturbo neuropsichiatrico infantile, caratterizzato dalla presenza di pervasivi sintomi di inattenzione, iperattività e impulsività (American Psychiatric Association, 1994). I bambini con ADHD hanno difficoltà ad aspettare il proprio turno, tendono a parlare in modo eccessivo, spesso sembra che non ascoltino quando gli si parla, e tendono ad interrompere ed ad intromettersi nelle attività di gioco dei pari, così come a disturbare le discussioni in classe.
Spesso questo disturbo si manifesta in comorbilità con altre condizioni cliniche, in particolare circa il 30-50% dei bambini con ADHD presenta un Disturbo Oppositivo Provocatorio, e/o un Disturbo della Condotta (Thapar et al., 2001); è inoltre possibile la co-occorrenza di Disturbi d’Ansia nel 20-30% dei casi (Biederman et al., 1991; Hinshaw & Zalecki, 2001). E’ interessante sottolineare come dal 20 al 30% dei bambini ADHD presenti anche un Disturbo dell’Apprendimento (Friedman et al., 2003) o più in generale una compromissione delle competenze scolastiche (Hinshaw & Zalecki, 2001; Frazier et al., 2007; Polderman et al., 2010).
Dal momento che il maggior numero di casi di ADHD si manifesta in età scolare, le problematiche scolastiche che spesso si trovano associate, determinano una compromissione significativa del funzionamento globale del bambino, tuttavia, sono pochi gli studi che hanno indagato in maniera approfondita questa relazione. Pertanto la domanda che ci si è posti nel presente studio è la seguente: i problemi scolastici sono direttamente correlati all’ADHD, o piuttosto sono il risultato di un processo più complesso in cui intervengono anche altri fattori?
I criteri diagnostici dell’ADHD previsti dal DSM-IV si focalizzano sulle manifestazioni meramente comportamentali derivanti dai problemi di attenzione, iperattività e impulsività, senza tuttavia porre sufficiente attenzione alla compromissione del funzionamento cognitivo che pure è caratteristica del disturbo. Si stima, infatti, che dal 30 al 50% dei bambini che presentano il sottotipo inattentivo dell’ADHD, manifesti problemi nella velocità di processazione ed elaborazione cognitiva degli stimoli, fenomeno noto come Sluggish Cognitive Tempo (SCT) (Carlson & Mann, 2002; McBurnett et al., 2001).
La velocità di elaborazione cognitiva degli stimoli consiste nel tempo che l’individuo impiega a recepire informazioni dall’ambiente, tramite i cinque sensi e a modulare una risposta appropriata. Ne consegue che tale lentezza nella processazione degli stimoli influisca negativamente sulle capacità di apprendimento scolastico, rendendo così estremamente difficoltoso lo svolgimento dei compiti scolastici.
Alla luce di quanto appena esposto, lo scopo precipuo del presente studio è quello di indagare la relazione esistente tra l’ADHD, lo SCT e la compromissione delle competenze scolastiche. L’ipotesi di fondo, che è stata sottoposta a verifica empirica, è che l’indebolimento cognitivo caratteristico dello SCT rappresenti un mediatore causale della relazione osservata tra l’ADHD e la compromissione delle competenze scolastiche.
Infine, dopo aver confermato l’ipotesi di mediazione è stato condotto uno studio genetico multivariato allo scopo di chiarire le cause della covariazione osservata tra i tre fenotipi sotto studio.
METODI
Partecipanti
All’interno del Registro Nazionale dei Gemelli sono stati selezionati i nominativi dei soggetti nati tra il 1986 e il 1995 e residenti nelle province di Milano e di Lecco. Delle 2015 famiglie contattate, il 48% (937) ha risposto confermando la presenza di coppie gemellari in famiglia. Di queste il 35% (707) ha accettato di aderire al progetto, di esse 407 ha acconsentito affinché i figli compilassero i questionari psicometrici; infine sono state escluse 9 coppie a causa dell’insufficienza dei dati acquisiti.
Pertanto, il campione dello studio è costituito da 398 coppie di gemelli, la cui età è compresa tra i 9 e i 18 anni (media 13.05 ± 2.59). Da un’analisi descrittiva del campione è emerso che le madri dei gemelli che avevano aderito al progetto, avevano un livello di istruzione e una percentuale di occupazione a tempo pieno lievemente ma non significativamente superiore a quello delle madri che non avevano aderito al progetto (Pesenti-Gritti et al., 2007; Spatola et al., 2007). Infatti le indagini psicometriche hanno evidenziato che il diploma di laurea era presente nel 17.7% delle madri di bambini partecipanti al progetto e nel 16.3% delle madri di bambini che non vi avevano aderito; il dato relativo all’occupazione a tempo pieno mostra una percentuale rispettivamente del 54% e del 52%. Queste cifre rispecchiano fedelmente quelle disponibili relativamente alla popolazione dell’Italia nord-occidentale (ISTAT, 2003).
Il campione è così composto: 74 coppie di gemelli monozigoti maschi, 70 coppie di gemelli monozigoti femmine, 53 coppie di gemelli dizigoti maschi, 81 coppie di gemelli dizigoti femmine, e 120 coppie di gemelli dizigoti di sesso opposto. La frequenza delle diverse tipologie di coppie gemellari (sesso e zigosità), rilevata nel campione sotto studio, non si discosta in maniera significativa da quella delle coppie di gemelli che non hanno preso parte allo studio. Inoltre, il campione risulta essere ben rappresentativo della popolazione generale, in quanto il rapporto tra monozigoti dello stesso sesso, dizigoti dello stesso sesso, e dizigoti di sesso opposto è di 1.1:1.0:0.9, laddove in popolazione generale il rapporto atteso è di 1:1:1.
Misure
Il Questionario di Goldsmith
Per accertare la zigosità di ciascuna coppia di gemelli è stato utilizzato il questionario di Goldsmith (Goldsmith, 1991) (appendice 2), si tratta di un questionario che viene fatto compilare ai genitori. Esso indaga la somiglianza fisica tra i gemelli, informazioni mediche che potrebbero indicare la zigosità (es: gruppo sanguigno, quante placente erano presenti alla nascita), la frequenza con la quale essi vengono confusi da familiari ed estranei. Inoltre, viene richiesta la personale opinione dei genitori e del pediatra circa la zigosità dei figli e le eventuali tendenze degli stessi ad esaltare le somiglianze ovvero le differenze tra i due gemelli. La zigosità viene poi determinata attraverso un algoritmo matematico con una probabilità di errore pari al 6% (van Beijsterveldt et al., 2004).
La Child Behavior Checklist
A tutte le madri è stato chiesto di compilare la Child Behavior Checklist (Achenbach & Rescorla, 2001), una delle scale di valutazione del comportamento infantile più diffuse e utilizzate a livello internazionale in ambito sia clinico che di ricerca. Fa parte di un sistema di valutazione multiassiale, l’“Achenbach System of Empirically Based Assessment” (ASEBA), La prima parte è costituita da 20 items sulle competenze del bambino/adolescente, essi fanno capo alle aree dell’attività, della socialità e della scuola, ovvero indagano la qualità della partecipazione del bambino ad attività varie (sportive, domestiche e scolastiche). La seconda parte contiene 118 items relativi ai problemi comportamentali, valutati su una scala di risposta a tre livelli. Tramite un’analisi fattoriale questi items sono stati raggruppati in 8 scale sindromiche relative a diversi quadri problematici: ritiro, lamentele somatiche, ansia/depressione, problemi sociali, problemi del pensiero, problemi attentivi, comportamento delinquenziale, comportamento aggressivo. Infine la CBCL comprende sei scale DSM-oriented, esse sono state create al fine di confrontare i profili CBCL ai criteri diagnostici del DSM-IV. E’ stato chiesto di stimare la conformità degli items dei problemi del comportamento con i sintomi presenti nei criteri di diversi disturbi del DSM. Se almeno 14 dei 22 (64%) valutatori ritenevano che un item fosse conforme alla categoria diagnostica questo veniva assegnato a quella categoria. Sono state condotte alcune ricerche al fine di indagare la validità e l’affidabilità delle scale DSM-oriented. Achenbach et al. (2003) hanno evidenziato come le scale CBCL DSM-oriented, comparate con le scale sindromiche, presentino un simile grado di coerenza interna, affidabilità test-retest, e accordo tra valutatori. Inoltre, la struttura fattoriale delle scale DSM-oriented è stata replicata all’interno di un campione di popolazione generale (Achenbach et al., 2003)
La scala Sluggish Cognitive Tempo (SCT)
All’interno del presente studio il costrutto della SCT è stato misurato mediante la specifica sottoscala “Sluggish Cognitive Tempo” presente nella CBCL. Quest’ultima è stata introdotta nella CBCL nel 2007 (Achenbach & Rescorla, 2007). Essa comprende i seguenti items: E’ confuso e sembra avere la testa nel pallone; Sogna ad occhi aperti, si perde nei suoi pensieri; Apatico; Fissa il vuoto; E’ poco attivo, lento nei movimenti, non energico.
Analisi
Analisi preliminari
Statistiche descrittive
Sono state analizzate dal punto di vista descrittivo le seguenti scale: DSM4 “problemi di attenzione e iperattività”, SCT “Sluggish Cognitive Tempo” e “competenze scolastiche”. In particolare è stata calcolata la media e la deviazione standard prima nel campione intero e poi separatamente, nei maschi e nelle femmine, e nei monozigoti e nei dizigoti, infine i suddetti parametri sono stati calcolati all’interno di due fasce di età, la prima costituita dai bambini di età compresa tra gli 8 e gli 11 anni, la seconda costituita dai bambini di età compresa tra i 12 e i 18 anni. Si è scelto di usare l’undicesimo anno di vita come valore soglia, in quanto verosimilmente divide la fase pre-puberale dalla pubertà, momento nel quale si suppone avvengano i principali cambiamenti sia per quel che riguarda l’individuo, che per quanto concerne le caratteristiche dell’ambiente.
Al fine di rilevare la significatività delle differenze di medie tra i suddetti gruppi è stato utilizzato il t-test per campioni indipendenti.
Perché possa essere mantenuto il massimo potere statistico, nell’implementare le tecniche di genetica quantitativa, è preferibile disporre di fenotipi normo-distribuiti nella popolazione in esame. Per questa ragione, al fine di valutare la distribuzione dei punteggi, sono stati calcolati i valori di Skewness e Kurtosis delle tre variabili fenotipiche sotto studio.
Alla luce dei dati di Skewness e Kurtosis, al fine di rendere le distribuzioni dei punteggi approssimabili ad una distribuzione normale, è stata effettuata una trasformazione logaritmica (ln(x+1)), necessaria per poter implementare in modo ottimale le tecniche di genetica quantitativa, il cui fit può risentire della non normalità dei dati (Derks et al., 2004). L’appropriatezza della tecnica nel rendere la distribuzione dei punteggi approssimabile ad una normale è dimostrata dal confronto dei valori di Skewness e di Kurtosis calcolati prima e dopo la suddetta trasformazione logaritmica.
Analisi di mediazione: ADHD – SCT – competenze scolastiche
Nel presente studio è stata indagata la relazione esistente tra i problemi di attenzione e iperattività e le competenze scolastiche, ipotizzando che lo SCT possa agire da variabile mediatrice della relazione tra le suddette due variabili. Si tratta di un esempio di mediazione semplice che vede coinvolte soltanto tre variabili: indipendente x=ADHD, dipendente y=competenze scolastiche, ed infine una mediatrice M=SCT.
Per effettuare le analisi di mediazione ci si è serviti del test di Sobel (Sobel ME, 1982); esso permette di valutare se l’effetto totale di x y si riduce in modo significativo dopo aver sottratto l’effetto di un mediatore (M), pertanto esso testa la significatività della relazione tra c e c’ (Figura1).
Abbiamo quindi valutato l’entità della riduzione del valore del path c’, rispetto al path c, al fine di testare l’ipotesi iniziale, ovvero che lo SCT fosse un mediatore della relazione esistente tra ADHD e compromissione delle competenze scolastiche.
Analisi genetiche quantitative
Il Metodo gemellare e le statistiche fondamentali
Sono state calcolate le correlazioni tra i gemelli per lo stesso fenotipo, separatamente per i MZ e per i DZ (cross-twin within-trait). Si tratta di correlazioni tra il gemello-a e il gemello-b per la scala “Problemi di ADHD”, per la scala dello SCT e per quella relativa alle competenze scolastiche. Esse forniscono un’iniziale indicazione riguardo le componenti di varianza. Se le correlazioni tra i gemelli MZ sono più alte rispetto a quelle dei DZ, è possibile ipotizzare che ci sia un’influenza della componente genetica nel determinare il carattere in esame. Nel caso in cui, invece, i valori delle correlazioni siano molto simili nei monozigoti e nei dizigoti è possibile ipotizzare un ruolo dell’ambiente (Silberg et al., 1996).
Infine sono state calcolate le correlazioni tra i due gemelli e tra i due diversi fenotipi (cross-twin cross-trait), separatamente per i MZ e per i DZ. Queste ultime permettono di indagare quanto fattori genetici ed ambientali sottendano alla covariazione tra due fenotipi. Le correlazioni cross-twin cross-trait permettono di valutare quanto il fenotipo-a (ad esempio l’ADHD) presente nel gemello-a sia associato al fenotipo-b (ad esempio lo SCT) nel gemello-b di ciascuna coppia. Nel caso in cui queste correlazioni fossero più alte nei gemelli monozigoti rispetto ai dizigoti, si può ipotizzare la presenza di fattori genetici nell’influenzare la covariazione (Silberg et al., 1996). Nel nostro caso le correlazioni tra gemelli tra tratti sono state calcolate tra i due gemelli di ogni coppia, tra i tre fenotipi sotto studio, prima nei MZ e poi nei DZ.
Analisi genetica quantitativa univariata
Le analisi genetiche quantitative sono state implementate mediante il software Mx (Neale et al., 1992). Si tratta di un programma di model fitting che permette di costruire un modello a partire da dati osservati.
Nel presente studio relativamente ai tre fenotipi (Problemi di ADHD, SCT e Competenze scolastiche) sono state condotte in primo luogo le analisi genetiche univariate, che permettono di stimare le influenze (A, C ed E) sulla varianza di ciascun fenotipo. Mediante le tecniche di model fitting sono stati messi a confronto i modelli univariati ACE, AE, CE ed E, al fine di individuare quale di essi fosse più adatto a spiegare i dati.
Analisi genetica quantitativa multivariata
Le analisi genetiche multivariate permettono di indagare le cause della covariazione fenotipica tra due o più condizioni presenti contemporaneamente nello stesso individuo. Nel presente studio il modello gemellare multivariato è stato implementato al fine di stimare le sorgenti causali – genetiche e ambientali – sottostanti la covariazione osservata tra le scale relative ai problemi di attenzione e iperattività, quelle relative allo SCT e alle competenze scolastiche.
Esistono diverse tipologie di modelli multivariati (Plomin, 2001): il Cholesky model, il Correlated factors model, l’Independent pathway model e il Common pathway model (Neale & Cardon, 1992). Il Cholesky model prevede che ogni carattere abbia dei fattori genetici ed ambientali che ne influenzano la varianza attraverso dei path di regressione specifici, ognuna delle variabili latenti relative ad un tratto può influenzare, però, anche gli altri fenotipi, spiegando in tal modo la covariazione. Il Correlated factors model, una ri-parametrizzazione del Cholesky, assume che i fattori genetici, ambientali condivisi e ambientali unici relativi ad un fenotipo correlino con i rispettivi fattori dell’altro carattere. Si ottengono pertanto delle stime di correlazione genetica, correlazione ambientale condivisa e correlazione ambientale non condivisa. L’Independent pathway model prevede che ci siano dei fattori causali comuni (genetici, ambientali condivisi e ambientali non condivisi) che predicono contemporaneamente la varianza di tutte le misure. Il modello include anche dei path di regressione specifici che agiscono in maniera specifica su ognuno dei caratteri. Infine, il Common pathway model ipotizza che i fattori genetici e ambientali abbiano un effetto indiretto sui fenotipi, mediante la loro influenza su una variabile latente “L”, la quale a sua volta presenta dei path di regressione su tutti i fenotipi.
E’ interessante sottolineare che in questo modo non solo è possibile quantificare l’influenza di A, C ed E sulla covariazione tra i fenotipi, ma è possibile anche comprendere in che modo e attraverso quali percorsi i fattori causali stimati (A, C ed E), influenzano i fenotipi.
I modelli appena descritti sono stati messi a confronto con il modello di Cholesky. Abbiamo quindi confrontato il fit del modello saturato (Cholesky) con il fit di modelli più semplici (Independent pathway model e Common pathway model). Come per l’analisi genetica univariata, anche in questo caso il modello con la migliore bontà di adattamento è stato scelto mediante alcuni indici di fit: il X² (chi-quadro goodness of fit), e l’AIC (Akaike Information Criterion) (Akaike, 1974; Plomin, 2001).
Se la differenza tra i due modelli risulta non significativa si preferisce il modello più parsimonioso, ovvero quello che con il minor numero di parametri spiega meglio i dati osservati.
RISULTATI
Analisi preliminari
Statistiche descrittive
E’ stata calcolata la media e la deviazione standard dei tre fenotipi sotto studio – ADHD, SCT, competenze scolastiche. Tali statistiche descrittive sono state calcolate prima nell’intero campione, e successivamente suddividendo il campione per sesso, zigosità ed età. Le statistiche descrittive sono state calcolate nell’intero campione considerato per individui, non considerando quindi le coppie.
Il t-test ha evidenziato una differenza statisticamente significativa tra maschi e femmine relativamente alla sottoscala “problemi di ADHD”, in questa scala i maschi presentano punteggi significativamente più elevati rispetto alla femmine.
Inoltre è emersa una differenza statisticamente significativa tra maschi e femmine anche per quel che riguarda le competenze scolastiche, la media dei punteggi delle femmine risulta infatti essere significativamente maggiore rispetto a quella stimata nei maschi. Infine, il t-test è risultato significativo per quel che riguarda la differenza di medie relativa alle competenze scolastiche, nelle due diverse fasce di età. La media relativa alle competenze scolastiche è risultata essere maggiore nella fascia di età dei bambini più piccoli (8-11 anni), rispetto alla fascia di età di ragazzini più grandi (12-18).
Infine, dopo la trasformazione logaritmica secondo la formula Ln(x+1), i valori di Skewness e Kurtosis evidenziano una distribuzione campionaria che si avvicina a quella normale. Anche in questo caso le analisi sono state condotte nell’intero campione considerato per individui, non considerando quindi le coppie
Analisi di mediazione
Il Test di Sobel
Le analisi di mediazione sono state condotte nell’intero campione considerato per soggetti. Mediante il test di Sobel sono stati calcolati quattro path di regressione (Figura1), il path a (x M), il path b (M y), il path c (x y) ed infine il path c’ (x y dopo aver controllato per M). Dove x=ADHD, M=SCT e y=competenze scolastiche. Sono quindi stati calcolati i coefficienti di regressione.
Dunque, il test di Sobel valuta se l’effetto totale di x y si riduce in modo significativo dopo aver sottratto l’effetto di un mediatore (M), pertanto esso testa la significatività della relazione tra c e c’. Ciò che è emerso è che dopo aver sottratto l’effetto del mediatore si è ridotta in modo significativo l’associazione tra ADHD e competenze scolastiche. Infatti, il grado di attenuazione del coefficiente di regressione dal path c al path c’ è pari al 14.3%. Il Test di Sobel ha quindi permesso di dimostrare la significatività dell’effetto indiretto e la presenza di una mediazione parziale. L’effetto di mediazione è parziale in quanto l’effetto diretto di x su y dopo aver controllato per M, nonostante risulti ridotto, rimane significativamente diverso da 0.
Si deduce dunque che lo SCT è un mediatore della relazione esistente tra ADHD e compromissione delle competenze scolastiche.
Analisi genetica quantitativa
Correlazioni cross-twin within-trait e correlazioni cross-twin cross-trait
In tabella1 sono state riportate le correlazioni tra coppie gemellari all’interno dello stesso tratto (cross-twin within-trait, nella tabella sulla diagonale in grassetto) e le correlazioni tra coppie gemellari nei diversi tratti in esame (cross-twin cross-trait, nella tabella sopra e sotto la diagonale), queste ultime sono correlazioni tra il primo fenotipo nel primo gemello e il secondo fenotipo nel secondo gemello e viceversa.
Dalle correlazioni tra gemelli all’interno dello stesso tratto si può dedurre come la varianza di tutti i tre fenotipi sotto studio sia influenzata anche dalla componente genetica. Le correlazioni, infatti, risultano essere maggiori nei MZ rispetto ai DZ. Il valore delle correlazioni tra gemelli all’interno dello stesso tratto, sia per lo SCT che per l’ADHD e le competenze scolastiche è risultato essere nei MZ più del doppio rispetto a quello calcolato nei DZ, indicando il possibile ruolo di effetti genetici di dominanza, oltre agli effetti genetici additivi.
Le correlazioni tra gemelli tra tratti risultano essere maggiori nei MZ rispetto ai DZ per tutti i fenotipi in esame, suggerendo che la cause della covariazione tra gli stessi siano in parte dovute ad una comune suscettibilità genetica.
Analisi genetica univariata
Le analisi genetiche univariate sono state condotte mediante le tecniche di model fitting precedentemente illustrate. I fenotipi analizzati sono: “ADHD”, “Sluggish Cognitive Tempo”, “Competenze scolastiche”.
Per tutti i tre fenotipi analizzati il best fitting model, ovvero il modello che spiega in modo più appropriato i dati, è risultato essere un modello AE, dove la C è stata azzerata in quanto ininfluente. Tutti gli altri modelli testati, ovvero quelli in cui si tentava di azzerare la componente genetica addittiva e dell’ambiente idiosincratico, hanno evidenziato un significativo deterioramento del fit, test del X²<0.05. Questi risultati sono coerenti con i valori delle correlazioni, che risultano essere più alti nei MZ che nei DZ.
Per ciò che concerne lo SCT, le analisi genetiche hanno evidenziato come i fattori genetici spieghino il 31% della varianza, mentre la restante parte viene spiegata da E (ambiente unico + errore di misurazione). La componente genetica è risultata essere più cospicua per la scala “problemi di ADHD” e per la scala relativa alle competenze scolastiche, rispettivamente 56% e 62% della varianza.
Analisi genetica multivariata
Gli indici di fit calcolati evidenziano che il modello saturato di Cholesky (Figura2) presenta un migliore adattamento rispetto agli altri modelli messi a confronto, ovvero rispetto all’Independent Pathway Model ed al Common Pathway Model (Cholesky: AIC=-3342.64; Independent: AIC=-3319.91; Common: AIC=-3323.82).
Appurato che il modello multivariato di Cholesky è il modello che spiega meglio i dati, il modello completo è stato confrontato con una serie di sottomodelli alternativi ottenuti azzerando, di volta in volta, ciascuno dei parametri. In particolare sono stati testati tre modelli in cui sono stati azzerati, uno alla volta, solo i contributi comuni (ac, cc, ec). E’ stato infine testato un quarto modello dal quale è stato forzato a zero l’intero effetto di C, sia quello specifico per ciascun fenotipo, sia quello comune ai tre fenotipi (cs, cc).
Dal confronto tra gli indici di fit è emerso che all’interno del Modello di Cholesky, il modello che presenta una migliore bontà di adattamento ai dati è il quarto modello descritto. Si tratta di un modello AE con Cc=0 e Cs=0 (Figura2).
Da ciò si deduce che ciascuno dei tre fenotipi è influenzato da due fattori, l’uno genetico (A), l’altro ambientale unico (E), che attraverso path di regressione specifici ne influenzano la varianza, d’altra parte ciascuna delle variabili latenti relative ad un fenotipo presenta dei path di regressione anche sugli altri fenotipi, spiegando in tal modo la covariazione. La covariazione tra i fenotipi sotto studio è largamente mediata da fattori genetici ed ambientali unici, laddove l’effetto dell’ambiente condiviso è risultato trascurabile.
Infine, l’analisi delle componenti di covarianza standardizzata, mostrano come la covariazione tra i tre fenotipi sia largamente mediata da fattori genetici comuni, infatti per tutti i tre fenotipi le stime relative ai fattori genetici additivi risultano essere maggiori rispetto a quelle relative ai fattori ambientali idiosincrasici.
DISCUSSIONE
Lo scopo principale dello studio era quello di indagare la relazione esistente tra l’ADHD, lo SCT e la compromissione delle competenze scolastiche. L’ipotesi di fondo, che è stata sottoposta a verifica empirica, era che l’indebolimento cognitivo caratteristico dello SCT rappresentasse un mediatore causale della relazione osservata tra l’ADHD e la compromissione delle competenze scolastiche.
Dopo aver confermato la presenza dell’effetto di mediazione mediante il test di Sobel, il secondo scopo dello studio era quello di chiarire quali fossero le cause – genetiche ed ambientali – sottostanti la covariazione tra i tre fenotipi.
Nel nostro campione non sono state rilevate differenze significative tra maschi e femmine per quanto riguarda lo SCT. Coerentemente ad uno studio recente (Garner et al., 2010) in cui non sono emerse differenze significative tra i due sessi per questo fenotipo, quando questo veniva valutato dai genitori. D’altra parte, quando le valutazioni erano condotte dagli insegnanti, i maschi mostravano punteggi significativamente più elevati rispetto a quelli delle femmine. Nel nostro studio la misurazione dei fenotipi è avvenuta mediante un questionario compilato dai genitori, pertanto, i nostri risultati confermano quanto emerso dallo studio di Garner. Non possediamo dati relativi a valutazioni condotte da parte degli insegnanti che ci permettano di commentare il secondo risultato riportato dall’autore.
I punteggi dei maschi sono risultati significativamente maggiori rispetto a quelli delle femmine per la scala “problemi di ADHD”, questo dato replica quanto già rilevato in altri studi che hanno utilizzato la CBCL (Frigerio et al., 2004; Liu et al., 2001; Derks et al., 2004; Vierikko et al., 2003). I punteggi delle femmine, relativamente alle competenze scolastiche, sono risultati significativamente maggiori rispetto a quelli dei maschi. Questo dato risulta congruo con i risultati di un recente studio condotto da Yousefi e colleghi (2010) su un campione di 400 studenti di età compresa tra i 15 e i 19 anni, in cui le competenze scolastiche erano valutate attraverso i range delle abilità scolastiche (GPA) raccomandati dal Ministero dell’Istruzione Iraniana, ma non con quanto emerso da alcuni studi precedenti (Bartels et al., 2002; Kovas et al., 2007).
Sebbene la letteratura riporti la diminuzione dei sintomi dell’ADHD all’aumentare dell’età (Frigerio et al.,2004; Liu et al., 2001; Costello et al., 1996), questo dato non è stato replicato nel nostro campione, pertanto l’età non sembra essere predittiva di differenze relativamente all’ADHD.
Infine, la media relativa alle competenze scolastiche è risultata essere maggiore nella fascia di età dei bambini più piccoli (8-11 anni), rispetto alla fascia di età di ragazzini più grandi (12-18); questo dato è in controtendenza rispetto a quanto emerso da un recente studio (Yousefi et al., 2010), secondo il quale le abilità scolastiche migliorerebbero all’aumentare dell’età. D’altra parte, questi risultati contrastanti potrebbero essere attribuibili al fatto che i due studi valutino due diverse fasce d’età (nello studio di Yousefi: 15-16; 17-18; 19).
Nonostante negli ultimi anni siano stati pubblicati diversi studi circa la relazione tra lo SCT e l’ADHD (Hartman et., 2004; Garner et al., 2010; Harrington & Waldman, 2010; Todd et al., 2004), così come sono molteplici i dati di letteratura che confermano l’associazione tra l’ADHD e i problemi scolastici (Barry et al., 2002; Loe & Feldman, 2007; Pesenti-Gritti et al., 2010; Polderman et al., 2010), nessuno studio aveva indagato la relazione esistente tra i tre fenotipi.
Soltanto Rapport e colleghi (1999) avevano ipotizzato che la relazione tra l’ADHD e i problemi scolastici potesse essere almeno in parte spiegata dall’indebolimento cognitivo caratteristico del disturbo. Essi avevano concluso che la relazione osservata tra i due fenotipi potesse essere mediata dalle ridotte capacità di vigilanza e di memoria osservate nei bambini ADHD. D’altra parte nessuno studio aveva mai indagato in modo specifico lo SCT come possibile mediatore.
Le analisi hanno permesso di confermare la presenza di un effetto di mediazione, è emerso quindi che, nel nostro campione, lo SCT rappresenta un mediatore della relazione esistente tra l’ADHD e le competenze scolastiche. L’effetto di mediazione è risultato significativo ma parziale, in quanto l’effetto diretto dell’ADHD sulle competenze scolastiche dopo aver controllato per lo SCT, nonostante risulti ridotto, rimane significativamente diverso da 0.
Dalle analisi genetiche univariate è emerso che la varianza relativa allo SCT è spiegata al 31% da fattori genetici, laddove la restante quota della varianza è spiegata da fattori ambientali idiosincrasici (Best fitting model: AE). Questi dati non sono confrontabili con altri presenti in letteratura, in quanto non risulta che siano state condotte analisi di genetica quantitativa su questo fenotipo prima d’ora.
Le analisi genetiche univariate relative al fenotipo dell’ADHD hanno mostrato dati consistenti con la letteratura. E’emerso infatti che nel nostro campione la varianza relativa all’ADHD è spiegata dai fattori genetici per il 56% e per il restante 44% dai fattori ambientali idiosincrasici (Best fitting model: AE), laddove studi condotti in passato hanno dimostrato che le influenze genetiche spiegano tra il 55 e l’89% della varianza nella diagnosi di ADHD (Faraone et al., 2001; Martin et al.,2006; Spatola et al., 2007).
Sono pochi gli studi di genetica quantitativa relativi alle competenze scolastiche, Bartels e colleghi (2002a) hanno riportato un’ereditabilità del 60% per le abilità scolastiche in un campione di gemelli olandesi di 12 anni, mentre è stata stimata una ereditabilità del 70% in un campione australiano di gemelli di età compresa tra i 15 e i 18 anni (Wainwright et al., 2005). Quest’ultimo dato riflette i risultati del nostro studio, infatti abbiamo stimato un’ereditabilità del 68% per le competenze scolastiche, laddove la restante parte della varianza è spiegata da fattori ambientali unici (Best fitting model: AE). Altri studi hanno stimato una ereditabilità che va dal 19% al 65% in campioni di bambini in età scolare (Kovas et al., 2007a; Kovas et al., 2007b; Wadsworth et al., 2001; Davis et al., 2008; Hart et al. 2010). E’ stata stimata, infine, una ereditabilità del 90% in un campione di gemelli adolescenti (Markowitz et al., 2005).
E’ plausibile ritenere che queste differenze nelle stime di ereditabilità siano riconducibili alle differenze di età nei diversi campioni presi in esame, oltre che all’uso di strumenti di misura diversi, quali test sul web (Davis et al., 2008), valutazioni da parte degli insegnanti (Kovas et al., 2007a), valutazioni da parte della madre (Markowitz et al., 2005) e valutazione dei risultati scolastici (Hart et al. 2010).
Dopo aver valutato quali fossero le sorgenti causali sottostanti ciascun fenotipo, abbiamo applicato modelli gemellari multivariati per poter comprendere le cause della covariazione tra i tre fenotipi. Gli indici di fit calcolati evidenziano che il modello saturato di Cholesky presenta una migliore bontà di adattamento (misurata tramite l’AIC che nel Cholesky è il più basso) rispetto agli altri modelli messi a confronto, ovvero rispetto all’Independent Pathway Model ed al Common Pathway Model. Non essendo disponibili studi multivariati sui tre fenotipi in esame, i risultati ottenuti non sono confrontabili con altri dati pubblicati in letteratura. Lo studio delle cause della covariazione è interessante, soprattutto per approfondire le conoscenze applicabili in ambito clinico. Le analisi genetiche multivariate hanno evidenziato che la covariazione tra i tre fenotipi può essere spiegata da una comune suscettibilità di natura in parte genetica, in parte ambientale unica (Best fitting model: AE), il contributo dell’ambiente condiviso, risultato trascurabile in tutte le uni variate, lo è ovviamente anche per quelle multivariate.
Concludendo, i risultati del presente studio offrono interessanti spunti per la ricerca futura. In modo particolare, sarebbe interessante comprendere in maniera più approfondita quali siano le caratteristiche cliniche dell’indebolimento cognitivo dello SCT, soprattutto per le implicazioni che ciò potrebbe avere in ambito di intervento clinico. E’ inoltre opportuno che l’ipotesi di mediazione, testata nel presente studio, venga sottoposta ad ulteriori verifiche empiriche.
Dal nostro studio è emerso che lo SCT rappresenta un mediatore della relazione osservata tra ADHD e competenze scolastiche. In particolare, è stato rilevato un effetto di mediazione parziale. Da quanto riportato in letteratura, lo SCT correla in modo specifico con il sottotipo inattentivo, ma non con quello iperattivo dell’ADHD (Hartman et., 2004; Garner et al., 2010; Harrington & Waldman, 2010; Todd et al., 2004). Tuttavia, nel nostro studio l’ADHD è stato trattato come un fenotipo unitario, non è stato scomposto nei suoi diversi sottotipi. Sarebbe quindi interessante testare il medesimo effetto di mediazione utilizzando una scala che misuri in modo specifico i sintomi di inattenzione ed escluda quelli di iperattività/impulsività. Infatti, è possibile ipotizzare che, dopo aver escluso i sintomi di iperattività/impulsività, emerga un effetto di mediazione dello SCT più cospicuo di quello stimato nel presente studio.
BIBLIOGRAFIA:
Tabella 1: Correlazioni cross-twin within-trait e cross-twin cross-trait
Le correlazioni cross-twin within-trait e cross-twin cross-trait sono state calcolate nel campione suddiviso per coppie
Correlazioni significative al livello 0.05 (2 code).
SCT: Sluggish Cognitive Tempo; Comp_scol: competenze scolastiche; ADHD: problemi di ADHD
Figura 1: Test di Sobel
(Path a: xM; Path b: My; Path c: effetto totale (diretto+indiretto) di xy; Path c’: effetto diretto di xy dopo aver controllato per M).
Figura 2: Best fitting model, multivariato di Cholesky:
Ciascuno dei tre fenotipi è influenzato da due fattori, l’uno genetico (A), l’altro ambientale unico (E), che attraverso path di regressione specifici ne influenzano la varianza, ciascuna delle variabili latenti relative ad un fenotipo presenta dei path di regressione anche sugli altri fenotipi, spiegando in tal modo la covariazion.
Giuseppina Ferrer. PhD student presso Università degli studi di Milano-Bicocca, Milano
Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2013 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia
L’“effetto passante” è la tendenza a non agire in situazioni pericolose quando altre persone sono presenti e si basa sul fenomeno psicologico di “diffusione della responsabilità” considerato una forma di attribuzione per cui una persona ha minori possibilità di assumersi una responsabilità per un’azione quando altri sono presenti.
Kris Leppien-Christensen, docente di Psicologia nel college di Saddleback in Mission Viejo (California) è stato protagonista di un episodio che si riallaccia a questo fenomeno, nel momento in cui si è imbattuto in un ciclista steso sul ciglio di una strada in una zona losca della città, in piena notte.
Quale sarebbe la prima reazione di fronte a questa situazione? Probabilmente di continuare sul proprio cammino essendo troppo diffidente per fermarsi a prestare soccorso. Invece Leppien-Christensen ha deciso di fermare la propria auto e chiedere al ciclista se fosse tutto ok. L’uomo in questione, non a caso, è docente di un innovativo programma educativo (Heroic Imagination Project – HIP) volto ad offrire agli studenti strumenti da poter utilizzare nella vita di tutti i giorni per trasformare situazioni negative ed incoraggiare un comportamento efficace e coraggioso in situazioni difficili.
Il progetto, ideato da Philip G. Zimbardo, professore di Psicologia presso l’università di Stanford ed attualmente all’università di Palo Alto, si basa su ricerche in psicologia sociale su temi di conformità, obbedienza ed altre potenziali influenze sociali negative e si focalizza sulla comprensione delle forme di eroismo di tutti i giorni e a come utilizzarle nella pratica quotidiana.
L’obiettivo? Quello di “creare” quelli che Zimbardo definisce gli “eroi di tutti i giorni”, cioè coloro che si offrono ad aiutare gli altri o a difendere cause morali nonostante i possibili rischi. “Se le brave persone possono essere indotte a comportarsi male, le persone comuni possono essere addestrate a gesti eroici?”: è questa la sfida che propone Zimbardo.
La missione è quella di insegnare ai giovani a comportarsi in modo coraggioso in situazioni difficili, superando la tendenza al dislocamento della responsabilità in grado di bloccare gli interventi di soccorso. Il progetto è costituito da 8 lezioni principali e combina un contenuto didattico proveniente dalle basi della psicologia sociale e lezioni interattive e pratiche. Le aree considerate si rifanno a temi di pressione sociale, pregiudizio, conflitto nel gruppo, dialogo interiore positivo nelle situazioni difficili ed è indirizzato a studenti del liceo, del college e a giovani professionisti.
Inizialmente gli allievi si interrogano sul loro comportamento abituale di fronte a situazioni difficili o rischiose, successivamente osservano video o immagini in cui vengono presentati i processi psicologici che promuovono od ostacolano comportamenti di aiuto con l’obiettivo di migliorare le proprie abilità comportamentali.Infine i partecipanti sviluppano un modello caratterizzato da una serie di strategie d’azione da mettere in pratica in situazioni pericolose.
Il team sottolinea l’elemento innovativo del programma: le persone sono addestrate a sviluppare la propria consapevolezza nelle circostanze quotidiane e a rendersi conto di quali situazioni ci aiutano e quali invece sono contrarie ai nostri interessi.
Il programma è stato proposto anche in un college della California (Irvin Valley College) e si sta sviluppando largamente tra gli studenti. È interessante il dato per cui il progetto si sta diffondendo tra gli studenti tanto da poter diventare un fenomeno sociale su cui interrogarsi.
Secondo Zimbardo, l’obiettivo è quello di spingere il programma oltre i confini americani, promuovendo work-shop, ad esempio, ad Hong Kong, in Svezia ed in Polonia, e magari nel nostro Paese. “Ognuno è un potenziale eroe attraverso il coinvolgimento in abitudini quotidiane tese a promuovere il bene comune”, afferma infine Zimbardo.
La tendenza umana a fidarsi degli altri per interpretare una situazione e la ricerca dell’accettazione sociale può indurre le persone a fermarsi di fronte ad un problema anziché risolverlo. Questo programma educativo offre così un valido strumento per lo sviluppo di adeguate abilità comportamentali utilizzabili nel nostro quotidiano.
ARGOMENTI CORRELATI:
BIBLIOGRAFIA:
“Avete scommesso sulla rovina di questo paese e avete vinto”
LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND
Tra polemiche e malcontenti brianzoli, il nuovo film di Virzì vince la complessa sfida di rappresentare la società attuale, dove tutto è regolato dal profitto e nulla ha più valore del denaro.
Ma se da un lato vi sono rappresentati uomini scaltri e sfrontati, disposti a tutto pur di avanzare nell’ascesa sociale; dall’altro emerge un’immagine femminile, che seppur ingenua, è portatrice di quei valori che gli uomini sembrano aver ormai dimenticato.
La famiglia, le relazioni, l’amore: valori intrinsecamente femminili che addolciscono la pillola amara che, vedendo il suo film, il regista ci costringe ad inghiottire.
Roberta, psicologa appassionata, che accoglie con calore Luca, giovane paziente dai trascorsi tumultuosi, che finirà col mettersi ancora una volta nei guai. Roberta è una donna semplice ma allo stesso tempo forte e determinata, svolge il suo lavoro con passione, cerca di essere mamma – e non matrigna – di un’adolescente che la respinge, e si prodiga per lei, proteggendola dal dolore che sta per provare nel vedere Luca, suo amato, in una pozza di sangue. Roberta si emoziona alla scoperta di una gravidanza attesa e inaspettata e, ingenuamente, spera che anche il suo uomo possa condividere quelle stesse emozioni. Sembra quasi non accorgersi di essere completamente sola, nel vivere uno dei momenti più importanti della sua vita.
Diversamente Carla della sua solitudine è ben consapevole, la vive ogni giorno nella maestosità di una casa tanto grande quanto fredda. Compagna di un uomo di potere, avvenente e scaltro, trascorre la sua vita in compagnia di sé stessa. E’ di tanto in tanto compagna di letto di un marito con il quale la relazione è finita da anni, o forse non è mai esistita.
In cotanta decadenza morale e relazionale, il tradimento appare quasi come un tentativo maldestro e disperato di vivere una vita altrimenti priva di colori.
Carla vive aggrappata ad un sogno forse irrealizzabile: ridare luce allo storico teatro cittadino, prima che venga trasformato in un supermercato. Un sogno che suo marito manderà in frantumi, perché la logica del profitto non può e non vuole tener conto dell’arte e degli “stupidi” sogni di una donna.
Infine c’è Serena, riduttivo definirla un’adolescente; Serena è una donna che, scoperto il vero amore ama, sogna e si dispera. Insegue un amore scomodo, che chiunque disapproverebbe.
Serena sfugge all’opulenza della relazione “perfetta” con il ragazzo “perfetto”, rampollo di una famiglia vincente. Serena rinuncia alla ricchezza per seguire Luca, un perdente. E per lui si renderà complice di un delitto.
Ecco che in un ritratto a tinte fosche, Virzì riscopre i valori femminili: i sogni, le passioni, i desideri, le relazioni, sono questi i motori delle donne. E forse con essi l’autore ha voluto dare un barlume di speranza ad una società altrimenti destinata a perire nelle mani di uomini-burattinai, che sembrano aver perduto ogni senno. Perché forse l’uomo e la donna sono ben più di un capitale.