Chi utilizza l’autolesionismo sostiene che farsi del male li riporti in contatto con il loro corpo e con la mente, come se fosse un modo per esprimere emozioni indicibili, tenendole però sotto controllo.
“Cominci a prendere a calci la porta. Butti la roba in giro per la stanza, fuori dalla finestra. Non riesci a calmarti. Non sai neppure che cosa ti abbia ridotto in questo stato. Ti pianti le unghie nella pelle del polso. Non senti niente. É come se stessi guardando un film su qualcun altro, non sei tu. Ti togli la camicia, ti guardi allo specchio. Odio, disgusto, frustrazione, rabbia, rimorso. Quasi come in un rituale, senza nemmeno pensare a quel che fai, prendi la lametta… sangue che gocciola. Ci sfreghi su qualcosa di antisettico, lo rifai, fino a quando sei calmo, soddisfatto. Spalmi sangue in giro. É brutto, ma il sangue è reale, è umano, ti fa sentire bene! Al tempo stesso, provi dolore, te lo meriti. Tagliarsi non è un modo per cercare attenzione. Non è una manipolazione. É un meccanismo per affrontare i problemi, punitivo, gradevole, potenzialmente pericoloso, ma efficace. Mi aiuta a sopportare le forti emozioni che non so come gestire. Non ditemi che sono malato, non ditemi di smettere. Non cercate di farmi sentire in colpa, mi accade già. Ascoltatemi, sostenetemi, aiutatemi.”
Dal libro Un urlo rosso sangue di Marilee Strong.
Chiamato da alcuni autori autolesionismo intenzionale (deliberate self-harm, DSH, Favazza 1996), l’autolesionismo si riferisce a una serie di comportamenti che l’individuo mette in atto intenzionalmente per recare danni o lesioni al proprio corpo o ad alcune parti di esso. Secondo Armando Favazza (Favazza, 1996), che per primo ha identificato tali comportamenti come una sindrome con caratteristiche simili al Disturbo del Controllo degli Impulsi NAS, l’autolesionismo presenta alcune specifiche componenti: pensieri ricorrenti di danneggiare il proprio corpo, incapacità di resistere agli impulsi di danneggiarlo, da cui deriva la distruzione o la alterazione del tessuto corporeo; crescente senso di tensione prima di mettere in atto condotte autolesionistiche, sensazione di gratificazione e di benessere successiva all’atto autolesivo.
Attualmente in Italia viene segnalato un tasso di incidenza che oscilla intorno al 30% degli adolescenti senza alcuna diagnosi psichiatrica, contro il 60% circa tra i malati psichiatrizzati. Ferirsi con tagli e ustioni sono le più comuni forme di autolesionismo tra i giovanissimi, alcuni degli altri metodi includono l’avvelenamento e l’overdose in età più adulta. L’autolesionismo è stato associato a depressione e ansia, a comportamenti antisociali e, soprattutto, all’uso di alcool (il rischio è raddoppiato), all’uso di cannabis e al fumo (Cerutti & Manca, 2009; Cerutti et al, submitted).
Vergogna e stigma nelle condotte autolesive
Una delle maggiori difficoltà connesse a questo disturbo è che i comportamenti autolesivi sono spesso sottostimati poiché vengono messi in atto in condizione di segretezza e sono frequentemente accompagnati da sentimenti di vergogna. Coloro che si autoferiscono, infatti, quasi sempre tendono a isolarsi e a nascondere le proprie ferite soprattutto per il timore di essere giudicati. Ricordo E., 14 anni, che chiusa in bagno con il rasoio in mano si tagliava e guardava il sangue scorrere e cadere sul pavimento e intanto le lacrime le segnavano il viso. Sapeva di avere bisogno di aiuto ma in quella circostanza i suoi unici pensieri erano: “Che cosa penserà la gente di me? Penseranno che sono matta? Che cosa andranno in giro a dire quando lo sapranno? Penseranno che ho qualcosa che non va… Penseranno che lo faccio solo per attirare l’attenzione”.
Le ragioni per cui le persone si feriscono sono molteplici, ma va scardinato lo stereotipo dell’adolescente turbato, emotivamente labile e ribelle che compie gesti estremi come e che quindi può anche autolesionarsi. Questo è, a mio parere, solamente uno stereotipo, uno stigma che serve alle persone a ignorare la malattia mentale, ancora oggi vissuta con grande segreto e forse, come segno di debolezza.
Autolesionismo come meccanismo maladattativo di coping
L’autolesionismo non è un modo per attirare l’attenzione, né un tentativo di suicidio. Prendiamo ancora le parole di chi l’ha vissuto: F. ha 30 anni ora. Nel 1992, quando ha cominciato, non aveva mai sentito parlare di autolesionismo. “Non era la sensazione del dolore stesso, ma la reazione del corpo”, ha detto. “Una sorta di sensazione intorpidita. Quando mi facevo male mi sentivo completamente calma, la mia mente si concentrava sul dolore e la ferita e tutti gli altri pensieri e problemi sconvolgenti abbandonavano la mia mente nel frattempo. C’è un equivoco in base al quale l’autolesionismo sarebbe un tentativo di morire”, dice. “E ‘davvero l’esatto contrario. A volte, quando ho sentito che non volevo più vivere, mi facevo del male e mi sentivo più viva. E’ stato un meccanismo di sopravvivenza”.
Molte persone si fanno del male perché sono invase dalle loro emozioni, come la tristezza o l’ansia o forti stress e recare danno al proprio corpo rappresenta un modo per gestire queste emozioni vissute come intollerabili. Chi utilizza l’autolesionismo in questo modo sostiene che farsi del male li riporta in contatto con il loro corpo e con la mente, come se fosse un modo per esprimere emozioni indicibili, tenendole però sotto controllo.
Ci sono poi tutta una serie di altri motivi connessi a patologie psichiatriche che portano una persona a farsi del male (come purificarsi o tentare di espiare una colpa di un trauma subito), che qui non stiamo ad analizzare. Ciò che forse si può generalmente dire è che l’autolesionismo può essere meglio capito come un meccanismo maladattivo di coping che funziona – almeno al momento (Klonsky, 2007; DiLazzero, 2003).