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La rivincita dell’autocontrollo

L’impulsività non è solo una questione di genetica: a regolare l’impazienza si impara, sia da bambini che da adulti. L'autocontrollo si impara.

Di Giancarlo Dimaggio

Pubblicato il 29 Mag. 2019

Le nuvole non hanno sapore. Possono diventare conigli ed elefanti, golfi e dinosauri ma stesi sul prato occhi all’aria, le guardate quanto vi pare e non vi viene fame.

Articolo pubblicato su il Corriere della Sera il 14 aprile 2019

 

Mettete un bambino di fronte a dei dolci. Gli dite: puoi averne uno adesso o se mi chiami col campanello dopo che esco, ma se aspetti che io torni nella stanza, senza suonare, ne avrai due. Per il bambino lasciato nella stanza il compito può essere o impossibile: uno e subito, o una piacevole tortura, oppure la scoperta del potere della fantasia. Se i bambini, negli esperimenti dello psicologo Walter Mischel, si figuravano i dolci come soffici nuvolette, inodori, insapori, le desideravano meno e resistevano di più. Aumentava il loro autocontrollo.

Si chiama Test del Marshmallow. L’avessero sviluppato in Italia avrebbe avuto un altro nome, i nostri bambini non trovano desiderabili quelle palle gommose e morbosamente dolci. Al di là dei gusti americani, è un esperimento fondamentale. Misura l’autocontrollo, la capacità di aspettare, di frenare la dannata impulsività, l’antecedente di quella che il mio maestro Antonio Semerari chiama mastery metacognitiva.

È molto più che lo sfizio di uno psicologo giocherellone. Un gruppo di bambini di 4 anni fu testato a partire dal 1968 e seguito per 25 anni. Quelli che resistevano di più alla tentazione della gratificazione immediata hanno incontrato un futuro migliore: sono stati più capaci di raggiungere obiettivi a lungo termine, hanno assunto meno droghe e sono stati meno aggressivi. La capacità di controllarsi e ritardare la gratificazione li ha anche protetti da una tossina: la sensibilità al rifiuto. A fronte del timore di essere respinti hanno retto meglio.

L’ambiente ha un ruolo enorme nell’influenzare la capacità del bambino di rinunciare a un dolcetto subito per averne due dopo. Figli di madri ipercontrollanti – “Amore, fai questo e quello, ascolta mammina” – resistevano meno. Figli di madri che favorivano l’autonomia arrivavano più facilmente al secondo biscotto. È anche una questione culturale? Forse no. Mischel studiò due comunità in un villaggio di Trinidad. Convivevano pacificamente sui due lati della strada di un villaggio: indiani e africani. Un gruppo aveva visioni stereotipate dell’altro. Agli occhi degli indiani gli africani vivevano solo nel godimento del presente: cicale. Agli occhi degli africani gli indiani gioivano poco, troppo impegnati a lavorare in attesa di un piacere in un futuro lontano: formiche.

Mischel testò i loro bambini. I primi risultati sembravano coerenti con lo stereotipo. I bimbi indiani aspettavano meglio. Poi però scoprì che il problema era l’assenza dei padri. Nella comunità africana molti padri erano andati via. Il problema era lì: i ragazzi che sceglievano il premio subito erano quelli che avevano perso la fiducia nel futuro, un padre scomparso, una promessa di ritorno che nessuno manterrà. Non dipendeva dall’etnia.

È chiaro che l’impulsività non è solo una questione di genetica? E a regolare l’impazienza si impara. Con l’esercizio. Se i vostri bambini non resistono all’odore del primo biscotto, niente paura, potete insegnarglielo. E negli adulti? Coi miei colleghi diamo una mano a quelli che non hanno avuto le istruzioni corrette per capire che la gallina domani è meglio dell’uovo oggi. Il mio collega Paolo Ottavi fa così: chiede alla ragazza che è stata lasciata da poco di focalizzare sul momento in cui ha controllato il profilo Facebook dell’ex, cercando tracce della sua presunta relazione con la nuova protagonista. La ragazza evoca l’immagine: una serata in birreria, le sale una gelosia che neanche Otello, e insieme vengono struggimento, tristezza e brama di riaverlo lì subito. Come nota Mischel, bisogna lavorare sulle immagini calde. A quel punto Paolo la invita a dedicare una parte dell’attenzione ai rumori ambientali. Poi di riportare la mente alla scena del crimine. Poi ancora ai rumori. Le emozioni calano di intensità. Ancora una volta in birreria, risale la gelosia. Ora porta l’attenzione alle sensazioni fisiche e poi ancora ai rumori ambientali. L’esercizio non è risolutivo, ma la ragazza scopre di avere una dote stupenda: potere sulla propria mente, dominio sull’arroganza del desiderio.

Un giorno di giugno al paese i miei mi mandarono da zia Esterina: “Ti deve dare lu ‘ntartieni”. Chiesi cosa fosse, risposero che me lo avrebbe spiegato zia. Andai a casa sua. Sorrise, mi disse di aspettare. Dopo un po’ mi rimandò dai miei: “Ce l’hanno loro adesso”. Tornai fiducioso: “Zia Esterina mi ha detto che lu ‘ntartieni oggi è qui”. Mia madre e mia nonna deviarono il discorso. A fine giornata non avevo ricevuto né lu ‘ntartieni né spiegazioni sulla sua forma, contenuto e scopo. Non so come, me ne fu svelata la natura solo tempo dopo. Un maledetto trucco per sviare i bambini che cercano attenzione. Lo presi come un tradimento ma tenni la reazione per me in silenzio. Capii anni dopo. Era una strategia per insegnare l’attesa e, per quanto truffaldina, aveva funzionato. Quando mi sono dato alla scienza ho capito che la pazienza nel ricercare un concetto indefinito, sopportare il tempo che serve finché non si chiarisca, nasceva da quel gioco senza soluzione. Trattenersi dall’afferrare subito. Coltivare la fantasia nel doloroso tempo dell’astinenza. È il motivo per cui tra una nota e l’altra dei brani di Ludovico Einaudi passa tantissimo tempo?

Scrivo a Borges, gli suggerisco di includere lu ‘ntartieni nella prossima edizione della sua zoologia fantastica. Per oggi ho dilazionato a sufficienza la gratificazione. Stasera pizza e birra, Walter Mischel approverebbe.

 

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Giancarlo Dimaggio
Giancarlo Dimaggio

Psichiatra e Psicoterapeuta - Socio Fondatore del Centro di Terapia Metacognitiva-Interpersonale

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