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Marsha Linehan vince il James McKeen Award 2014, premio della APS, Association for Psychological Science

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

Marsha Linehan, Direttrice del Behavioral Research and Therapy Clinics dell’università di Washington ha vinto il premio 2014 APS James McKeen Cattell Award assegnato dalla Association for Psychological Science (APS).

 

Linehan’s research focuses on employing behavioral models to study patients who develop suicidal behaviors, substance abuse issues, or borderline personality disorder. She also developed Dialectical Behavior Therapy (DBT), originally used to treat suicidal tendencies and later modified to include the treatment of mental disorders and borderline personality disorder.

Making Mindfulness Work for Patients – Association for Psychological ScienceConsigliato dalla Redazione

APS Fellow Marsha M. Linehan, director of the Behavioral Research and Therapy Clinics at the University of Washington, is the recipient of a 2014 APS James McKeen Cattell Award. Linehan will give an award address at the 27th APS Annual Convention in 2015 in New York City, New York, USA. (…)

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Neuropsychological and Social Cognition deficits in Bipolar Disorder and Schizophrenia: Preliminary Data


SOPSI 2014 

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

La Psicopatologia e le età della vita – Torino 12-15 Febbraio 2014

 

Neuropsychological and Social Cognition deficits

in Bipolar Disorder and Schizophrenia: Preliminary Data

Caldiroli A1, Serati M1, Caletti E1, Zugno E1, Cigliobianco M1, Orsenigo G1, Fiorentini A1, Paoli RA1, Grillo P2, Consonni D2, Zago S3, Altamura AC1. 

1Department of Psychiatry,University of Milan,Fondazione IRCCSCa‘Granda Ospedale Maggiore Policlinico

2 Epidemiology Unit, Department of Preventive Medicine, University of Milan, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico

3 Department of Neurology, University of Milan, Fondazione IRCCSCa’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milan

 

TUTTI I POSTER DEL CONGRESSO SOPSI 2014
I REPORTAGES DAL CONGRESSO SOPSI 2014

Psicopatologia e gravidanza. Trattare o non trattare: questo è il dilemma – SOPSI 2014

 

 

SOPSI 2014

Report del simposio:

Psicopatologia e gravidanza. Trattare o non trattare: questo è il dilemma

 

SOPSI 2014 - Psicopatologia e GravidanzaUna donna depressa non trattata è maggiormente esposta a rischio di suicidio e a sviluppo di depressione post partum che in circa il 40% ha radici nel’antepartum con un rischio di depressione post partum tre volte superiore rispetto alla norma.

Apre il simposio il Prof Cesario Bellantuono, direttore della clinica e della scuola di specializzazione di psichiatria di Ancona e del Centro Degra, con una relazione dal titolo “Ansia e depressione in gravidanza: i rischi del non trattamento” rovesciando la classica prospettiva della sicurezza dell’uso dei farmaci in gravidanza e chiedendosi invece quali siano i rischi per la salute della mamma e del bambino quando non vengono utilizzati trattamenti farmacologici.

Alla provocazione iniziale segue un’attenta e particolareggiata disamina della letteratura disponibile sull’argomento. Se una donna presenta una patologia depressiva o la sviluppa durante la gravidanza i rischi connessi alla salute derivanti da tale diagnosi possono essere anche molto gravi.

Una donna depressa non trattata è maggiormente esposta a rischio di suicidio e a sviluppo di depressione post partum che in circa il 40% ha radici nel’antepartum con un rischio di depressione post partum tre volte superiore rispetto alla norma (Sutter Dallay AL, 2004 e Skouteris, 2009).

Inoltre una psicopatologia non trattata in gravidanza si ripercuote negativamente su adesione ai controlli medici, stile di vita sano (assunzione regolare di vitamine, fumo, alcol, sostanze) e può portare all’utilizzo di farmaci d’abuso.

Le ripercussioni di una depressione non trattata sono simili alle variabili già implicate negli effetti collaterali dei trattamenti farmacologici: maggior presenza di parto pre termine, aborti spontanei, maggior numero di feti nati morti, basso peso alla nascita punteggio apgar inferiore, elevati livelli di cortisolo in relazione a ansia e depressione materna, maggior numero di accessi alle unità di terapia intensiva pediatrica, alterazioni nel processo di attaccamento materno fetale e aumentato rischio di disturbi psicologici in adolescenza (correlato ad alti livelli di cortisolo materno in gravidanza).

Questi dati sono segnalati anche dall’American Association of Obstetrics and Gynaecology a conferma del fatto che l’attenzione alla gravità di queste situazioni psicopatologiche è posta anche in ambienti non prettamente psichiatrici.

In una metànalisi pubblicata su Archives of General Psichiatry viene segnalato un rischio aumentato di parto pre termine e basso peso alla nascita in figli di madri con depressione in gravidanza. Tuttavia questo è un dato che ricorre anche nelle donne che durante la gravidanza assumono farmaci antidepressivi.

E quindi cosa fare???
In un grosso studio USA su 238 donne gravide comprendenti un gruppo di controllo esente da patologia depressiva, un gruppo con diagnosi di depressione non trattata farmacologicamente ed un gruppo con depressione trattata farmacologicamente è stato dimostrato che il rischio di parto pre termine è aumentato del 20 % circa per i due gruppi di donne depresse versus i controlli senza differenze significative tra i due gruppi con o senza farmaci, mentre non si evidenziavano aumenti di teratogenicitá tra il gruppo delle donne trattate e quelle non trattate. Da ciò se ne deriverebbe quindi un segnale favorevole all’utilizzo di farmaci antidepressivi ove necessari.

Infine è utile ricordare le ripercussioni di una depressione materna, e particolarmente una depressione presente durante la gravidanza, sulla salute psicologica dei figli anche a lungo termine. La depressione in gravidanza può generare una compromissione dell’attaccamento materno fetale (valutabile con il “maternal fetus attachment scale score distribution”) e dell’allattamento.

Uno studio nord europeo su 127 donne con follow up a 16 anni delle madri e dei figli ha dimostrato che nei figli di madri con episodio depressivo il rischio di avere un episodio depressivo era aumentato di 20 volte ma questo era ulteriormente più alto se la depressione materna era presente in gravidanza, rispetto ai figli di madri che avevano avuto un episodio depressivo non in gravidanza.

Quindi la depressione antepartum e più grave della depressione in altre fasi della vita con un verosimile pattern di trasmissione trans generazionale della psicopatologia (Pawlby et al, 2009).

In conclusione un trattamento di successo nei genitori può migliorare l’outcome dei figli e il rischio per la coppia materno fetale di donne depresse non trattate sembrerebbe maggiore di quello delle donne trattate.

Dopo questa riflessione, che porta l’attenzione sulle conseguenze di una depressione non trattata, è il momento del Prof Balestrieri, direttore della clinica universitaria di psichiatria di Udine, che si assume l’arduo compito di approfondire il complesso discorso legato alle terapie farmacologiche in gravidanza: opportunità, rischi, eventuali effetti collaterali (ad esclusione di quelli teratogeni), aspetti del processo decisionale. Gli studi e le metanalisi sul tema esaminano le associazioni dei trattamenti antidepressivi in gravidanza con:

• basso peso alla nascita (LBW)

• parto pretermine (PTB)

• ipertensione polmonare persistente (PPHN)

• scarso adattamento del neonato (PNAS)

• autismo

• emorragie post partum

• allungamento del QTc

• enterocolite necrotizzante

In una metanalisi pubblicata nel 2013 su Journal of American Psychiatry (Ross et al, 2013) gli autori segnalano che gli antidepressivi in gravidanza non correlano con aborto spontaneo mentre c’è un’associazione significativa tra antidepressivi in gravidanza e parto pretermine (sia versus tutte le donne non trattate sia verso le sole donne depresse non trattate).

Inoltre i trattamenti antidepressivi in gravidanza risultavano significativamente associati con basso peso alla nascita ma solo nel confronto con madri non depresse, mentre versus madri depresse non trattate si perdeva la significatività statistica. Infine i farmaci antidepressivi in gravidanza risultavano associati significativamente con Apgar minore rispetto al gruppo delle donne non trattate o sane.

In conclusione, nonostante fosse stato possibile individuare delle associazioni statisticamente significative tra l’esposizione a antidepressivi in gravidanza e esiti del parto, le differenze erano piccole e i punteggi nel gruppo delle madri trattate restavano comunque all’interno di un range di oscillazione normale per cui la decisione se iniziare o se proseguire un trattamento antidepressivo secondo gli autori andrebbe presa in relazione alla gravità del quadro clinico materno.

Il Prof Balestrieri ha proseguito con una disamina dei principali e più recenti studi condotti in Italia e all’estero sull’uso degli antidepressivi in gravidanza e i loro effetti collaterali non teratogeni sempre con l’obiettivo di acquisire maggiori informazioni possibili per scegliere se trattare o meno le pazienti e con quale farmaco. I farmaci triciclici parrebbero sovrapponibili per profilo di sicurezza agli SSRI nella prima parte della gravidanza, mentre risulterebbero meno problematici nella seconda metà della gravidanza (ad eccezione della clomipramina) e non correlati a enterocolite, ipertensione polmonare e aumento del QTc.

In realtà anche in questo caso bisognerebbe tenere conto di fattori diversi quali i rischi e gli effetti collaterali propri della classe dei farmaci triciclici e, sottolinea in ultimo il Prof Di Sciascio nel dibattito finale, il fatto che ci sono meno studi sui TCA e che alcune variabili di outcome potrebbero non risultare associate al loro uso in quanto non indagate.

In conclusione Balestrieri evidenzia:

• PPHN (ipertensione polmonare) sembra correlare con uso SSRI utilizzati nell’ultima parte della gravidanza (incidenza < 1%), legato ad un problema di tossicità.

• PNAS (neonatal adaptation): sono stati evidenziati vari effetti di alterazione dell’adattamento neonatale, da tremori a aumentata sudorazione, nasal stifness, maggior incidenza di coliti etc . Questi sintomi paiono correlati ad una problematica di astinenza e correlano maggiormente con l’uso di SSRI a fine gravidanza.

• APGAR a 1 e a 5 minuti più basso associato all’uso di SSRI  nell’ultima parte della gravidanza

• Nella maggior parte dei casi i sintomi sono transitori

• Non è chiaro quanto pesi il fattore confondente dovuto alla depressione stessa e il rischio di svilupparla

• In un grande studio svolto in Danimarca su tutti i bambini nati vivi dal 1996 al 2006 non è stato notato un legame con presenza di autismo.

• Non si è evidenziato un aumento delle emorragie nel post partum

• Per quanto riguarda il rischio aumentato di enterocoliti necrotizzanti viene citato solo un case report legato all’uso di venlafaxina e in un bambino prematuro.

• Il tratto QTc infine risulterebbe aumentato in pazienti trattate con SSRI ma con effetto transitorio a breve termine.

• Sia i sintomi depressivi sia l’uso di farmaci antidepressivi correlano con parto pretermine e basso peso alla nascita ma i vari studi non sono riusciti a estrapolare l’effetto dei soli sintomi depressivi su queste stesse variabili di outcome per un confronto più “pulito”.

Indubbiamente, in una situazione così complessa dove il non trattare comporta dei rischi, e il trattare farmacologicamente comporta altrettanti rischi che, pur essendo dimostrati e correlati all’uso dei farmaci antidepressivi, tuttavia non si discostano molto dai normali range di incidenza dei vari outcome al parto, diventa fondamentale un’informazione il più possibile dettagliata al fine di aiutare le donne nella scelta ponderata del rapporto rischi-benefici con grande specificità caso per caso.

Chiude questo interessante e utilissimo simposio il Prof Di Sciascio, del Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Università di Bari, che affronta il tema dell’uso in gravidanza di farmaci antipsicotici e benzodiazepine.

E importante distinguere tra le pazienti che devono iniziare un trattamento perché sviluppano una patologia in gravidanza e quelle che stanno già seguendo una cura. E’ necessario effettuare un accurato assesment per valutare il rapporto rischio beneficio che tenga conto dei rischi legati a episodi di acuzie o ricadute.

Secondo la classificazione dell’FDA per la sicurezza dei farmaci in gravidanza e i rischi teratogeni, solo la Clozapina, tra gli antipsicotici di seconda generazione, si trova in classe B (Studi sulla riproduzione animale non sono riusciti a dimostrare un rischio per il feto e non si è in possesso di studi adeguati e ben controllati su donne in gravidanza oppure gli studi su animali hanno dimostrato un effetto avverso ma studi adeguati e ben controllati sulle donne in gravidanza non sono riusciti a dimostrate un rischio per il feto in nessun trimestre.)

Per tutti gli altri farmaci non sono ancora disponibili studi sufficienti a escludere possibili effetti teratogeni. Sia gli AP di prima generazione (FGA) sia quelli di seconda generazione (SGA) paiono essere associati a maggiori complicazioni neonatali. Inoltre gli SGA sembrano aumentare il rischio di complicazioni metaboliche gestazionali e neonatali con peso alla nascita aumentato rispetto ai neonati esposti all’uso di FGA.

Nonostante ciò, in una review del 2010 (Gentile S., 2010) pubblicata sullo Schizophrenia Bullettin, si consiglia l’uso di FGA, giustificato dalla minor presenza di effetti collaterali sui neonati, nelle pazienti drug-naive, mentre dovrebbe prevalere il proseguimento della terapia in corso per i pazienti già in cura con SGA per evitare i rischi connessi di uno switch farmacologico in un momento così delicato come la gravidanza. A questi trattamenti andrebbero inoltre associate una sorveglianza ginecologica e endocrinologica (per monitorare gli aspetti dismetabolici già delicati in gravidanza) ed una stretta collaborazione tra i diversi specialisti.

Per quanto riguarda l’allattamento è molto complesso valutare il passaggio del farmaco nel latte che va considerato in rapporto al plasma (si considera alto un rapporto farmaco/plasma >1). Per FGA il rapporto è tendenzialmente < 1. Questo dato pare valere anche per Risperidone e Olanzapina mentre la Clozapina lo supera ed è quindi sconsigliata in allattamento.

Pertanto è necessario tenere presente la gravità della patologia materna, il rischio e il beneficio legato ad una sospensione o prosecuzione delle cure farmacologiche in corso ed infine il tipo di cura da iniziare in pazienti drug-naive.

Infine viene affrontato il capitolo delle benzodiazepine (BDZ), anche in considerazione del fatto che il periodo della gravidanza può di per sé comportare la presenza di una sintomatologia ansiosa anche in donne non affette da un conclamato disturbo d’ansia e che tale sintomatologia spesso viene trattata con questo tipo di farmaci.

Due sono i problemi studiati relativamente all’uso di BDZ in gravidanza:

1. rischi teratogeni

2. rischio di sintomi legati all’astinenza neonatale ( Floppy Infant Syndrome)

Per quanto riguarda gli effetti teratogeni  alcuni studi avevano evidenziato un aumentato rischio di palatoschisi e alcuni casi di malformazioni cardiache nei figli di donne che assumevano BDZ in gravidanza, ma tali studi risulterebbero essere piuttosto datati e non replicati. Secondo una review del 2013 (Bellantuono et al 2013) i dati pubblicati negli ultimi 10 anni non indicavano un’assoluta controindicazione all’uso di BDZ in gravidanza durante il primo trimestre gestazionale ed inoltre gli studi disponibili risultavano gravati da un certo numero di limitazioni metodologiche legate ai molti fattori confondenti etc.

Il Prof Di Sciascio ha indicato come più utilizzati il diazepam e il clordiazepossido nel primo trimestre perché sono i più studiati e per i quali pare non essere stato segnalato un chiaro rischio teratogeno.

Il problema dell’astinenza secondaria a brusca sospensione (floppy infant syndrome), caratterizzata da basso indice di Apgar, tremori, bradicardia, ipertonia, iperreflessia, diarrea, vomito, tachipnea, cianosi, pianto irrefrenabile, può insorgere subito dopo il parto o anche a distanza di alcune settimane ed è generalmente transitoria e risolvibile ma richiede l’intervento del neonatologo. Per evitarla è sempre consigliata la scelta della monoterapia alla “dose minima efficace”, da suddividere in più somministrazioni quotidiane e per il minor tempo possibile.

Inoltre è necessario procedere ad una graduale sospensione del farmaco in previsione del parto tenendo presente che è auspicabile un periodo di sospensione di almeno una settimana.

Con quest’ultimo intervento si è chiuso un simposio molto interessante, ricco di informazioni utili per chi si occupa di clinica e denso di spunti pratici che hanno stimolato la discussione ed il dibattito tra gli uditori molto numerosi che hanno affollato la sala.

TUTTI I REPORTAGES DAL CONVEGNO SOPSI 2014

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DEPRESSIONE ANSIA PSICOPATOLOGIA POST PARTUM – PERINATALE

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Vuoi mangiare meno? Aiutati con i piatti rossi – Psicologia e Alimentazione

Claudia Corsini.

 

 

Piatti rossi. - Immagine: © jalcaraz - Fotolia.comAlimentazione: sulla rivista Appetite è stata recentemente pubblicata una ricerca svolta a Parma che ha dimostrato come gli esseri umani siano propensi a mangiare meno e a testare meno crema idratante sulle mani quando tali prodotti vengono presentati su piatti di plastica di colore rosso.

Risultati analoghi erano già stati ottenuti nel 2012 da Oliver Genschow, ricercatore presso la Facoltà di Psicologia di Basilea. Tuttavia, l’esperimento svizzero non consentiva di definire se la quantità di cibo mangiata in relazione al colore del piatto fosse originata dal contrasto tra piatto e alimento piuttosto che dal colore del piatto di per sé. A questo proposito, un’altra ricerca nel campo dell’alimentazione (van Ittersum e Wansink, 2012) dimostrava, in effetti, come un contrasto abbastanza elevato tra piatto e pietanza (ad esempio pasta condita al pomodoro servita su piatto bianco) potesse indurre le persone a collocare nel piatto quantità più misurate di cibo rispetto a quando il contrasto tra i due era inferiore (ad esempio pasta in bianco su piatto bianco).

Lo studio italiano conferma, invece, come sia effettivamente il colore del piatto e non la variazione di luminanza e contrasto a modificare il comportamento di consumo. Questa ipotesi è stata dimostrata attraverso tre esperimenti che hanno coinvolto un totale di 240 volontari. Nel primo esperimento sono stati serviti popcorns in piatti rossi, blu e bianchi a tre gruppi indipendenti di partecipanti.

Disegno 1

Nel secondo caso i piatti sono stati riempiti con una quantità costante di gocce di cioccolato fondente, cromaticamente quindi opposte al popcorn. Sia nel caso dei popcorns che in quello della cioccolata  i soggetti appartenenti ai gruppi con i piatti rossi hanno consumato in media significativamente meno rispetto a quelli con il piatto bianco e blu. Cosa è avvenuto quando, anziché un alimento, è stata presentata una dose di crema idratante da testare sulle mani?  Anche in questo caso il gruppo con i piatti rossi ha provato sulle proprie mani un quantitativo di prodotto significativamente inferiore rispetto agli altri due. Tutti e tre gli esperimenti prevedevano poi la compilazione di un questionario fittizio riguardante aspetti sensoriali e il livello di gradimento/piacevolezza del prodotto. Curiosamente, dall’analisi delle risposte fornite dai volontari è emerso come la diminuzione di consumo con il piatto rosso non sia correlata ad un’altrettanta riduzione dell’appeal dei cibi e della crema posati su di esso. Le persone pur consumando meno con il piatto rosso esprimono un giudizio di gradimento comunque positivo, non dissimile da quello espresso per gli altri piatti.

Le ragioni all’origine di questo fenomeno non si comprendono ancora, verosimilmente questa tendenza all’evitamento degli stimoli di colore rosso potrebbe essere ricondotta, nell’uomo, sia a fattori biologici che culturali (segnale di divieto e pericolo). Per ora rimangono solo ipotesi.

Non si dispone ancora di conoscenze certe e sufficienti per iniziare a riflettere su di una reale applicabilità di queste scoperte, in ogni modo, questi nuovi dati di ricerca hanno permesso di dimostrare la robustezza dell’effetto del rosso sui consumi in virtù della sua replicabilità e di chiarire che le variazioni rilevate non dipendano dal contrasto bensì dal colore rosso di per sé.

Ancora, l’influenza del colore rosso sembra estendersi similmente al consumo di crema trascinando, in questo modo, anche il sistema sensoriale visuo-tattile all’interno della discussione. Diventa sempre più evidente come possano essere molti e subdoli gli stimoli ambientali e situazionali in grado di modificare  i nostri comportamenti.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Stanford studia gli effetti positivi del Gossip – Psicologia Sociale

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Al di là degli aspetti negativi, l’altro lato della medaglia del gossip sta proprio nell’esclusione di individui inaffidabili che non agiscono in modo cooperativo per il fine comune di un gruppo, fungendo in qualche misura da regolatore sociale.

Secondo la psicologia ingenua il gossip – e i conseguenti rischi di esclusione sociale- sarebbero univocamente negativi minando la fiducia nei gruppi. In realtà condividere qualche forma di informazione sulla reputazione degli altri può presentare anche aspetti funzionali per la collettività.

In un nuovo studio pubblicato su Psychological Science, alcuni studiosi della Stanford University e della University of California–Berkeley hanno studiato la natura del gossip e dell’ostracismo, sottolineandone gli aspetti positivi con funzione normativa rispetto ai bulli, di deterrenza da comportamenti egoistici, e di promozione della cooperazione.

I ricercatori hanno coinvolto 216 soggetti dividendoli in gruppi e chiedendo loro di impegnarsi in un gioco in cui dovevano effettuare scelte economiche per favorire la propria squadra. In questi tipi di gioco è possibile osservare la tendenza ad attuare scelte individualistiche e non cooperative a discapito del benessere del gruppo.

La procedura prevedeva dunque il passaggio a un successivo gioco con un’altra squadra, prima del quale i partecipanti avevano la possibilità di letteralmente spettegolare riguardo i loro precedenti compagni di gioco. Quindi, prima di iniziare un nuovo gioco i partecipanti ricevevano informazioni sul precedente comportamento di altri giocatori, e di conseguenza potevano decidere di escludere- ostracizzare un sospetto partecipante a tutela del fine comune.

I ricercatori hanno scoperto che nel momento in cui le persone apprendono qualcosa riguardo il comportamento di altri attraverso le dinamiche del gossip, utilizzano queste informazioni per allinearsi con coloro che invece hanno una buona reputazione di individui cooperativi. 

In questo modo, i soggetti più cooperativi possono ampiamente investire per il bene comune del gruppo limitando possibili danni di scelte egoistiche e individualistiche. 

D’altro canto il gossip può essere utile anche per gli “emarginati” oggetto di gossip: dai dati emerge che la persona vittima di gossip – una volta a conoscenza del fenomeno, e venendo conseguentemente escluso dal gruppo – tende ad apprendere dall’esperienza e a redimersi dai comportamenti individualistici cooperando in misura maggiore nelle successive partite di gioco. 

Dunque al di là degli aspetti negativi, l’altro lato della medaglia del gossip sta proprio nell’esclusione di individui inaffidabili che non agiscono in modo cooperativo per il fine comune di un gruppo fungendo in qualche misura da regolatore sociale.

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PSICOLOGIA SOCIALE RAPPORTI INTERPERSONALI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

I pugni in tasca di Marco Bellocchio (1965) – Cinema & Psicoterapia nr.19

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #19

I pugni in tasca (1965)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

 

I pugni in tascaI pugni in tasca: la famiglia protagonista di questo film vive un pro­fondo disagio, angoscianti e malsane situazioni, in una simbiosi che porta i personaggi a non esistere senza relazionarsi gli uni agli altri.

Info

Diretto da Marco Bellocchio, con Lou Castel, Paola Pitagora. Drammatico. Italia 1965.

Trama

È la storia di una famiglia composta da una madre cieca, dal fratello minore Leone, affetto da ritardo mentale ed epilessia, da Augusto il fra­tello maggiore cinico e spietato che pur di raggiungere il benessere eco­nomico è disposto a tutto, da Giulia, unica sorella, tanto curiosa nei confronti della vita da vivere un rapporto incestuoso con il fratello Alessandro, protagonista principale del film. La famiglia vive un pro­fondo disagio, angoscianti e malsane situazioni, in una simbiosi che porta i personaggi a non esistere senza relazionarsi gli uni agli altri.

Alessandro cerca di risolvere a suo modo l’insostenibile situazione. Narcisista ed evitante non sa costruirsi un rapporto al di fuori della famiglia e tanto è ossessionato da essa da decidere di uccidere i suoi componenti.

Motivi di interesse

Alessandro, non è uno psicopatico o un folle assassino. Il suo scopo è il bene della sua famiglia, vuole liberarla e liberarsi da un peso. Nel protagonista del film ritroviamo gli stati di vuoto e di evitamento delle relazioni che si riscontrano nel narcisista e nell’evitante, il senso di diversità e l’incapacità di decentrare. Ritiene la madre cieca e il fratello con ritardo mentale un peso per se stessi e per la famiglia. Non riesce a comprendere ciò che sentono, ciò che pensano, ha un atteggiamento tutt’altro che empatico nei loro confronti.

Sono presenti in lui stati di vuoto devitalizzato e difficoltà di coping degli stati mentali dolorosi.

Una scena del film in cui Alessandro partecipa ad una festa dà il senso di non appartenza, l’evitamento delle relazioni, il suo senso d’e­straneità, probabilmente legato ad una sua visione degli altri non dispo­nibili. La mancanza di rimorso, il rifiuto delle regole sociali, l’utilizzo a fini strumentali dei fratelli tratteggiano la sua antisocialità.

È duro, cru­dele, la morte ai suoi occhi perde di drammaticità, diventa un avveni­mento normale, persino igienico, se consente di eliminare la zavorra. La morte del protagonista colpito da un malore mentre ascolta la Traviata sembra la didascalica figurazione del ciclo competitivo del narcisista a seguito della rottura di un ciclo idealizzante.

Giulia, presente alla scena, non muove un dito per soccorrere il fratello, si ribella dopo averlo ammirato, ma naturalmente anche se Alessandro può sentirsi tradito non può diventare rivendicativo e la sua morte è il momento definitivo della disgregazione della famiglia.

Indicazioni per l’utilizzo

La narrazione filmica è un’ottima traccia per potersi confrontare con i pazienti sugli stati mentali e i cicli interpersonali disfunzionali. L’utilizzazione a fini didattici è consigliata.

 

Trailer

 

 

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ARTICOLO CONSIGLIATO: I DANNI FISIOLOGICI DEL NARCISISMO: COLPISCE SOLO GLI UOMINI?

BIBLIOGRAFIA:

 

I disordini del comportamento alimentare nelle diverse età della vita – SOPSI 2014

Roberta Dalena. Studi Cognitivi Milano

 

SOPSI 2014

Report dal corso ECM: 

I disordini del comportamento alimentare nelle diverse età della vita: aspetti psichici e fisici.

Intervento della Dr.ssa F. Brambilla

 

SOPSI 2014 - Disordini del Comportamento AlimentareNei disordini del comportamento alimentare sono compromessi tanto gli aspetti psichici quanto quelli fisici, per avere un miglioramento dal punto di vista psichico è necessario che ci sia un recupero delle alterazioni fisiche.

La Dr.ssa Brambilla illustra in dettaglio quelle che sono le compromissioni nei diversi disturbi del comportamento alimentare. Eccone alcune:

 

ALTERAZIONI DELLA CUTE IN ANORESSIA:

• Cute distrofica, secca, fredda, colorito giallognolo e bruno sporco

• Sottile peluria, capelli fragili e cadenti

• Segno di Russel

• Petecche ed emorragie congiuntivali

• Edema periferico benigno

• Edema severo da abuso di lassativi e perdita di proteine.

 

ALTERAZIONI GASTROENTERICHE IN ANORESSIA:

• Atonia e Atrofia Gastrica

• Ritardo nello svuotamento gastrico

• Stipsi dovuta a drastica restrizione alimentare

• Compromissione della funzionalità epatica

• Alterazioni pancreatiche

 

ALTERAZIONI GASTROENTERICHE IN BULIMIA:

• Disfagia, lesioni infiammatorie dell’esofago

• Rotture esofagee secondarie a ingestione di massive quantità di cibo

• Aumento di capacità gastrica in relazione alla cronicità delle abbuffate

 

ALTERAZIONI CARDIOVASCOLARI IN ANORESSIA:

• Meccanismi adattivi: Bradicardia (ipertono vagale) e ipertensione arteriosa

• Secondari alla malnutrizione: riduzione del volume del cuore senza modificazione della sua forma

• Da alterazioni idroelettrolitiche: aritmie severe

 

ALTERAZIONI DELL’APPARATO RESPIRATORIO IN ANORESSIA E BULIMIA:

• Ipoglicemia con alterata sensibilità all’insulina

• Ipercolesterolemia

• Chetosi

• Iperazotemia

• Riduzioni del livello di zinco

• Ipoproteinemia

 

ALTERAZIONI EMATOLOGICHE IN ANORESSIA:

• Ipoplasia

• Anemia normocitica, macrocitica, microcitica

 

ALTERAZIONI OSSEE IN ANORESSIA:

• Osteopenia

• Osteoporosi

• Fratture e deformazioni ossee

 

ALTERAZIONI MUSCOLARI IN ANORESSIA:

• Ipotrofia muscolare

• Miopatia

• Aumento della creatina

 

ALTERAZIONI MORFOFUZIONALI DEL CERVELLO IN ANORESSIA:

• Ampliamento degli spazi extracorticali e dei ventricoli cerebrali con reversibilità dopo il recupero del peso

 

ALTERAZIONI MORFOFUZIONALI DEL CERVELLO IN BULIMIA:

• Ampliamento dei solchi corticali

 

– Intervento della Dr.ssa C. Segura Garcia –

 

La letteratura internazionale dimostra che i tassi di Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa sono molto bassi negli uomini. Questo dato è in parte spiegato dal ruolo del testosterone che funge da fattore protettivo.

Infatti i risultati di alcuni studi sui gemelli dimostrano che le coppie di gemelli femmina-femmina risultano molto più a rischio rispetto a quelle femmina-maschio e maschio-maschio. Sembrerebbe che il solo fatto di aver convissuto in utero con un maschio aumenti il livello di testosterone nelle donne e che ciò le protegga maggiormente dal rischio di sviluppare in seguito un disturbo alimentare.

Eppure, i maschi con AN esistono! E allora come mai ne arrivano così pochi in terapia e il campione scientifico è così esiguo?

Prima di tutto diventa difficile poter fare diagnosi utilizzando test pensati per le donne, ovvero che indagano criteri validi per loro ma non per gli uomini (ad esempio l’attenzione per la larghezza dei fianchi).

In secondo luogo, gli uomini sono molto più reticenti a chiedere aiuto soprattutto se si tratta di un disturbo che viene riconosciuto socialmente come femminile. Inoltre, spiega Garcia, “i disturbi alimentari sono molto presenti nei maschi con problemi di identità di genere che molte volte tendono a mascherare”.

Così come per le bambine, anche per i bambini il peso e il corpo non rappresentano un problema finchè qualcuno non glielo fa notare. A tal proposito, uno studio sulla stigmatizzazione con metodo costruttivista evidenzia come nelle classi elementari i bambini a cui vengono associati meno termini positivi quali “buono” o “amico” sono proprio i bambini obesi.

Questo risultato fa riflettere da un lato sull’alta probabilità per i bambini obesi di essere vittime di bullismo, dall’altro sul fatto che il bullismo sia considerato un fattore di rischio per lo sviluppo di un disturbo alimentare.

Spesso capita che giovani adolescenti con grave sovrappeso dall’infanzia comincino una dieta e che ci sia un viraggio verso l’anoressia. Nella maggior parte dei casi questi pazienti non vengono considerati come Disturbi Alimentari.

Inoltre, per questi giovani ragazzi dimagrire non basta: è necessario fare molta attività fisica! Ecco come ci si sposta verso la vigoressia che, secondo Garcia, corrisponde all’equivalente maschile dell’anoressia: “se le donne vogliono essere magre, gli uomini vogliono essere muscolosi”.

Infatti sembrerebbe che negli uomini ci sia una doppia tendenza: per alcuni l’obiettivo è diminuire il BMI, per altri è aumentarlo. Dato non riscontrabile nelle donne per le quali l’unico obiettivo è dimagrare.

I Disturbi del Comportamento Alimentare partono da problematiche legate alla bassa autostima che però si sviluppano in modo diverso tra donne e uomini. Questi ultimi infatti “rinforzano il corpo per rinforzare l’autostima!” , conclude Garcia.

 

 

TUTTI I REPORTAGES DAL CONVEGNO SOPSI 2014

ARGOMENTI CORRELATI: DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED

ANORESSIA NERVOSA – AN – BULIMIA NERVOSA – BN

VIGORESSIA – DISMORFIA MUSCOLARE – GENDER STUDIES

 

 

A letto con Lacan: Del buon uso erotico della collera (2013). di Gerard Pommier

A letto con Lacan: una recensione di

“Del buon uso erotico della collera e di qualche sua conseguenza”

di Gerard Pommier

 

 

DEL BUON USO EROTICO DELLA COLLERA. -Immagine: copertinaPommier dimostra in queste storie cliniche la capacità di cogliere la microscopia della sessualità, di esplorare il coito non solo nella meccanica più o meno disfunzionale dimostrata dai vari pazienti, ma nella multiforme fenomenologia del vissuto, conscio ed inconscio.

Lo confesso, il titolo mi ha suscitato un minimo di disagio. Quando, dopo un’attesa un po’ lunga, ho potuto dare un occhio alla copertina, i miei dubbi si sono fatti più consistenti. Una coppia impegnata in un coito sul pavimento. L’uomo, il torace possente nudo, schiaccia la compagna. Ma che libri mi manda la redazione di State of Mind??. Quando ho nascosto il libro nella borsa per l’evidente timore che finisse nelle mani dei miei figli, mi sono reso conto che il disagio nasceva da una sottile eccitazione.

Del resto Pommier è ben consapevole del potere attrattivo della forza esercitata nel contesto delle relazioni sessuali. Con ironia racconta come uno dei suoi libri sulla natura dell’inconscio sia stato pubblicato con una copertina decisamente osé da una casa editrice cattolica.

Nell’immaginario sessuale la violenza, o almeno la forza (bruta) rappresenta un elemento eccitante. La pornografia, ma anche la pratica quotidiana della sessualità, fanno largo uso di metafore o prassi violente od autoritarie. I – troppo frequenti – eventi di cronaca in cui la disponibilità sessuale della donna o di minori viene estorta con la violenza sono causa di un interesse in cui l’indignazione è solo una componente secondaria. Il quesito se la donna desideri essere violata o comunque forzata, l’idealizzazione di una virilità autoritaria, circolano sui giornali, così come nelle conversazioni.

Ma il lettore non si spaventi: l’interesse di questo testo sulla vita sessuale non è certo quello di un facile voyeurismo. Al contrario, Pommier va al nocciolo della questione e cerca, nella sua prospettiva squisitamente Lacaniana, di comprendere fino in fondo l’enigmatica relazione tra aggressività ed erotismo.

Pommier parte da una costatazione che può essere comune. Così spesso nelle coppie uno scontro, un violento litigio, ma anche uno stato di conflittualità più sottile, sono seguiti da un momento di intimità più accesa.

Nella prospettiva Lacaniana i comportamenti umani sono condizionati permanentemente dai residui adulti della configurazione edipica. La sessualità dell’adulto lo mette dunque in inevitabile concorrenza con il padre, immaginato come autoritario, o comunque superiore ed inaccessibile. Ecco quindi il maschio gravato dal senso di colpa o costretto a sedurre le mogli di amici, colleghi, vicini di casa in una coazione senza fine. Ecco la donna che può giungere al godimento solo quando tradisce, o comunque castra il partner ufficiale, “paterno”.

Certo, per chi è abituato a una prospettiva più relazionale, a comprendere le fantasie inconsce nel contesto di una rete relazionale reale, nell’attualità della vita affettiva del paziente, il testo risulta a prima vista riduttivo.

Pommier costruisce una sorta di meccanica edipica implacabile, in cui i partner sono del tutto intercambiabili. Nei racconti clinici le separazioni non si contano, mentre l’autore sembra non percepire la grave immaturità relazionale di alcuni pazienti, l’incapacità di radicarsi affettivamente nel partner, di costruire legami profondi. 

Oggi gli studi sull’attaccamento hanno ampiamente dimostrato come il legame tra umani, inclusi gli adulti, sia giocato solo in parte sulla dinamica pulsionale. Anche nell’amore la componente preedipica, le aree di pura fusionalità così come spazi di più adulta interattività reciproca, giocano un ruolo fondamentale.

Del resto la ricerca antropologica ha dimostrato che la sessualità umana non è solo lo strumento della riproduzione della specie. Anzi è il cemento della famiglia monogamica, predispone il terreno specificamente umano per la crescita  e l’educazione dei figli (Diamond, 2006). Il racconto biblico contiene insomma una verità innegabile: maschio e femmina sono strutturati in maniera tale da avere bisogno l’uno dell’altra.

Se il paradigma edipico della sessualità umana suona oggi un po’ obsoleto, il valore più vero del testo non è – credo – quello teorico. Il tesoro sono i casi clinici, innumerevoli, le storie umane vive e vere che incontriamo pagina dopo pagina.

Pommier dimostra qui una straordinaria capacità narrativa. Molti lettori finiranno per saltare le disquisizioni teoriche, ma resteranno avvinti alle pagine cliniche come ad un romanzo. Soprattutto Pommier dimostra in queste storie cliniche la capacità di cogliere la microscopia della sessualità, di esplorare il coito non solo nella meccanica più o meno disfunzionale dimostrata dai vari pazienti, ma nella multiforme fenomenologia del vissuto, conscio ed inconscio.

In fondo, per la maggior parte degli umani, in almeno qualche fase della vita, la sessualità è un’esperienza importantissima, ma necessariamente taciuta, spesso anche al compagno della vita.

Insomma il lettore non potrà che specchiarsi – o confrontarsi – in questi racconti e finirà inevitabilmente per interrogare la prioria vita sessuale in modo nuovo. Sono convinto che la lettura di Del buon uso erotico della collera lascerà qualche traccia nella vostra vita sessuale quotidiana. O almeno settimanale.

ARGOMENTI CORRELATI:

SESSO – SESSUALITA’AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALILETTERATURARECENSIONI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

LETTURE CONSIGLIATE:

Schema Therapy: efficace per i disturbi di personalità

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La Schema Therapy, rivolgendosi direttamente e in modo più focalizzato alle parti più vulnerabili del paziente (Mode del Bambino), sembra portare a una risposta terapeutica positiva più rapida (confrontata con le terapie più incentrate sulla parte adulta) e, secondo i ricercatori, è proprio questo l’elemento determinante i bassissimi livelli di drop out.

Già in passato, diversi studi avevano dimostrato l’efficacia della Schema Therapy nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità. L’International Socety of Schema Therapy ha recentemente reso pubblici alcuni dati da cui emergerebbe la possibilità di considerare la Schema Therapy come trattamento da preferire anche nella cura dei Disturbi di Personalità Paranoide, Istrionico, Narcisista e del Cluster C.

Ciò che principalmente contraddistingue la Schema Therapy dagli altri approcci, è la focalizzazione sullo Schema mal adattivo precoce (definibile come tema costituito dai ricordi, emozioni e sensazioni del paziente, che viene elaborato nel corso della vita e porta alla generazione dei comportamenti disfunzionali).

Riassumendo brevemente la teoria di Young, è dai qui che si svilupperebbero i diversi Mode del paziente (Young ne individua quattro: Mode del Bambino, Mode di Coping Disfunzionale, Mode dei Genitori Disfunzionali, Mode dell’Adulto Sano). Secondo quanto emerso fino ad ora, la Schema Therapy, rivolgendosi direttamente e in modo più focalizzato alle parti più vulnerabili del paziente (Mode del Bambino), sembra portare a una risposta terapeutica positiva più rapida (confrontata con le terapie più incentrate sulla parte adulta) e, secondo i ricercatori, è proprio questo l’elemento determinante i bassissimi livelli di drop out.

Nel recente studio di Bamelis, Evers, Spinhoven e Arntz, condotto dal 2006 al 2011 in dodici istituti di salute mentale oldandesi, 323 pazienti con disturbi di personalità sono stati assegnati casualmente a tre gruppi terapeutici diversi (Schema Therapy, psicoterapia insight-oriented e psicoterapia clarification-oriented).

Al follow up di tre anni, il maggior numero di pazienti con outcome positivo proveniva dal gruppo Schema Therapy (80% di outcome positivo dei pazienti sottoposti a Schema Therapy vs il 60% dei pazienti insight-oriented e il 50% dei pazienti clarification-oriented), con una significativa diminuzione della sintomatologia depressiva e un elevato miglioramento del funzionamento personale e sociale. Anche i livelli di drop-out sono risultati particolarmente bassi in questo gruppo, suggerendo agli autori una rapida accettazione di questa terapia da parte dei pazienti.

I ricercatori sottolineano anche che nessuno dei terapeuti del gruppo Schema Therapy presentava una consolidata conoscenza di questo approccio e che la maggior parte era stata formata attraverso un corso di  quattro giorni, dimostrando così la possibilità di inserire la Schema Therapy all’interno della metodologia standard da usare in ambito clinico. In rapporto alla formazione dei terapeuti, al follow up è emerso un ulteriore dati interessante, per cui i terapeuti formati attraverso un training più pratico avevano “fatto meglio” dei terapeuti che avevano ricevuto una formazione più teorica.

ARGOMENTI CORRELATI:

SCHEMA THERAPY – DISTURBI DI PERSONALITA’ 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

“Medicina Personalizzata in psichiatria”: un modello di prescrizione individualizzata esteso alle strutture territoriali – SOPSI 2014


SOPSI 2014 

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

La Psicopatologia e le età della vita – Torino 12-15 Febbraio 2014

 

“Medicina Personalizzata in psichiatria”: un modello di

prescrizione individualizzata esteso alle strutture territoriali

Claro A.E.1, Curto M.1, Santamaria F.2, Simmaco M.2, Leccisi D.3, Ferracuti S.1, Girardi P.1 e Fiori Nastro P.4

1 NESMOS (Dipartimento di Neuroscienze, Salute Mentale e Organi di Senso), U.O.C. di Psichiatria, Facoltà di Medicina e Psicologia, “Sapienza” Università di Roma.
2 NESMOS (Dipartimento di Neuroscienze, Salute Mentale e Organi di Senso), Servizio di Diagnostica Molecolare Avanzata, Facoltà di Medicina e Psicologia,“Sapienza” Università di Roma.
3 Dipartimento di Salute Mentale ASL RMH, B.go Garibaldi 12, 00041, Albano Laziale, Roma
4 Dipartimento di Neurologia e Psichiatria, “Sapienza” Università di Roma, Facoltà di Medicina e Odontoiatria, Roma 

TUTTI I POSTER DEL CONGRESSO SOPSI 2014
I REPORTAGES DAL CONGRESSO SOPSI 2014

Il Piccolo Principe, un magico trattato di Psicologia umana – Sulla relazione Pt.2

 

Il Piccolo Principe

Un magico trattato di Psicologia umana

Pt. 2: sulla Relazione

 

 

LEGGI LA PRIMA PARTE: Il Piccolo Principe, un magico trattato di Psicologia umana – I Pensieri dei Grandi

Il Piccolo Principe“Il Piccolo Principe” racconta con parole spiazzanti cosa significa stare in relazione, cosa significa condividere realmente un affetto autentico.

E’ una descrizione capace di arrivare all’ascolto di un bambino libero da sovrastrutture e di penetrare con la stessa forza nella consapevolezza di un adulto persuaso della propria complessità.

La parola all’opera.

Non posso giocare con te“, disse la volpe, “non sono addomesticata

Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?”

E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire ‘creare dei legami’…

Creare dei legami?

Certo“, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo

…”La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…

…”Non si conoscono che le cose che si addomesticano. Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”

…”Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore…Ci vogliono i riti. Anche questa è una cosa da tempo dimenticata

…E quando l’ora della partenza fu vicina:

Ah!“, disse la volpe, “…piangerò

La colpa è tua“, disse il piccolo principe, “io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…

E’ vero“, disse la volpe.

Ma piangerai!“…”Ma allora che ci guadagni?

Ci guadagno“, disse la volpe, “il colore del grano

…”Addio“, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi“.

In poche righe, gli elementi fondamentali di ciò che la relazione rappresenta per l’essere umano. Pardon, di ciò che dovrebbe rappresentare per l’adulto se fosse compresa appieno. E di ciò che rappresenta per un bambino, che appieno la comprende.

 

 

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BAMBINI – RAPPORTI INTERPERSONALI – LETTERATURA

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BIBLIOGRAFIA:

Il Programma Mindfulness di Bob Stahl & Elisha Goldstein – Recensione

 

 

Il Programma Mindfulness (2013)

di Bob Stahl & Elisha Goldstein

Essere Felici Edizioni

 

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Il Programma MindfulnessIl Programma Mindfulness di Stahl & Goldstein è un ottimo volume pratico, concreto e centrato sul quotidiano, per iniziare ad avvicinarsi al mondo scientificamente affascinante della pratica di consapevolezza.

Il volume di Bob Strahl e Elisha Goldstein che ho tra le mani mi colpisce molto. La sensazione che si ha nel momento in cui si sfogliano le pagine è che sia un libro molto “visuale”, molto concreto e pratico.

I due autori, Bob Strahl, instruttore MBSR della Bay Area di San Francisco e Elisha Goldstein, psicologo clinico che svolge la professione a Santa Monica, presentano un volume molto concreto, ricco di schede, tabelle, box informativi e altro, che permettono a chi lo legge di farsi accompagnare passo dopo passo all’interno delle basi della meditazione di consapevolezza.

Il volume, nell’edizione italiana, nonostante a tratti abbia qualche difficoltà di traduzione, sembra una raccolta di pratiche e di meditazione basate sul programma MBSR.

Gli elogi da parte di autori e professionisti di primo rilievo non mancano. Nelle prime pagine leggiamo commenti entusiastici di colleghi del calibro di Daniel Siegel, Marion Solomon, Shauna Shapiro e molti altri.

Il libro è un vero e proprio workbook, in puro stile americano, diretto in prima persona al lettore che non ha come obiettivo quello di fornire informazioni complete e dettagliate sulla mindfulness bensì quello di diventare un “alleato” alla pratica per il lettore.

Lo stesso Jon Kabat-Zinn, autore della premessa, scrive che questo andrebbe considerato “come un “playbook”, un manuale ludico, perché la mindfulness in realtà dovrebbe essere abbracciata sia in spirito ludico che con l’atteggiamento interiore che di solito si riserva al duro lavoro”.  E di lavoro da svolgere in queste pagine se ne trova davvero molto: Schede di riflessione sulla pratica formale, box con Frequently Asked Questions, Schede di esplorazione e di approfondimento delle emozioni, delle sensazioni fisiche, Schede con i disegni delle posizioni delle due sessioni di yoga previste nel protocollo MBSR.

In particolare, una serie di box intitolati “fallo e basta!” è un invito deciso e intenzionale di fermare la lettura e di praticare proprio in quel momento. Gli autori invitano spesso il lettore a non accontentarsi della lettura cognitiva del manuale ma di prenderlo sul serio, così come va fatto con la pratica di meditazione, e di portare le esperienze e i suggerimenti letti nel libro nella propria pratica quotidiana, nell’esatto momento in cui si sta leggendo. Questo riduce, in parte, il rischio di tutti i manuali di mindfulness, che siano una descrizione di cosa sia la pratica di meditazione e non un’esperienza della pratica di meditazione, aspetto centrale e più efficace di tutto il sistema complesso che noi occidentali chiamiamo mindfulness.

I capitoli del libro seguono una strada gradualmente in salita che porta verso aspetti più avanzati della pratica di meditazione. Dopo una breve introduzione su cosa sia la mindfulness, gli autori si addentrano velocemente negli aspetti pratici della mindfulness, cogliendo a pieno il senso della pratica, che poco ha di mistico e tanto si concentra sulla quotidianità, sull’intenzione alla pratica e sulla decisione deliberata di coltivare, giorno dopo giorno, un atteggiamento osservativo e pienamente partecipatorio verso la propria esperienza personale, qualsiasi sia la tonalità emotiva del momento.

Alle brevi indicazioni su come svolgere la pratica, seguono i capitoli dedicati ai vari “oggetti” su cui imparare a focalizzare l’attenzione e su cui pratica: la piena coscienza del corpo, lo yoga, le meditazioni sui pensieri, una breve introduzione alle pratica Metta (sull’amorevolezza) fino ad arrivare a capitoli dedicati ai rapporti interpersonali e a suggerimenti su come mantenere viva e costante la pratica.

Ho apprezzato molto il workbook, meno la traduzione. Ci sono alcuni termini, che hanno una traduzione italiana “ufficiale” che a volte sembra sia stata trascurata, a mio parere. Ad esempio, l’introduzione inizia con “benvenuti ne il programma mindfulness in base alla mindfuless”. Credo sia una traduzione di “Programma per la riduzione dello stress basato sulla mindfulness”. Quest’ultima è la traduzione più diffusa della traduzione italiana di Mindfulness Based Stress Reduction Program.

Inoltre, il titolo inglese del volume di Strahl & Goldstein è “A Mindfulness Based Stress Reduction Workbook”. La traduzione italiana è “Il Programma Mindfulness: un metodo pratico e clinicamente testato per superare stess, ansia, panico, depressione, dolore cronico… e altri problemi di salute“. Trovo che in questo titolo vi sia un grandissimo rischio, quello di “banalizzare”, “sminuire” una pratica di meditazione di consapevolezza millenaria…

Il Programma MSBR è il programma basato sulla mindfulness per il quale, ad oggi, esistono il maggior numero di studi di efficacia. È un programma ideato da Jon Kabat-Zinn nel 1979 e portato nella sua forma originaria e strutturata circa dieci anni dopo, periodo in cui Kabat-Zinn, durante il suo percorso di meditazione, ha ideato un programma che nasce e origina dalla sua pratica personale e dalle sue conoscenze di biologo molecolare (per chi di voi non lo sapesse, Kabat-Zinn è un biologo molecolare, che ha ricevuto il suo Ph.D. in Biologia Molecolare nel 1971 al MIT (Massachussets Institute of Technology) dove studiò con Salvador Luria, Nobel per la Medicina nel 1969.

Questo solo per dire che l’MBSR ha un’origine scientifica, che a sua volta proviene e trae spunto da tradizioni millenarie di meditazione (Buddhismo Theravada, Birmana, Zazen etc…).

Il volume è sicuramente una buona e ricca introduzione alla pratica di consapevolezza solo se è un libro letto durante un arco di tempo di mesi o anni, meditato, sperimentato e lasciando che le pratiche non solo vengano fatte una volta come per “fare un po’ di mindfulness” ma che vengano interiorizzate come “un modo di vivere” (Kabat-Zinn, 2003).

Ciò non toglie che il libro di Stahl & Goldstein sia un ottimo volume pratico, concreto e centrato sul quotidiano, per iniziare ad avvicinarsi al mondo scientificamente affascinante della pratica di consapevolezza.

 

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ARGOMENTI CORRELATI: MINDFULNESSMBSR – MINDFULNESS BASED STRESS REDUCTION – MEDITAZIONE

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Social Behavior, Separation Anxiety and Adult psychopathology – SOPSI 2014

 

 

 

SOPSI 2014

Report dalla sessione plenaria:

Social Behavior, Separation Anxiety and Adult psychopathology

Heinrichs M., Abelli M., Banti S., Troisi A.

SOPSI 2014 - Simposio Social BehaviorAll’interno del Cogresso SOPSI, dove ampio risalto è dato alle età della vita, si inserisce il contributo di questo simposio dedicato al rapporto tra primarie esperienze relazionali, ansia da separazione e psicopatologia nell’adulto.

Heinrichs, prendendo le mosse dalle interazioni sociali positive come fattori protettivi per il benessere dell’individuo, si focalizza sui mediatori definiti “social neuropeptides”, in particolare sul ruolo dell’ossitocina. Quest’ultima, come diversi studi dimostrano, influenza fortemente il comportamento dell’uomo e risulta essere un mediatore del comportamento sociale di attaccamento.

E’ stato osservato che, mentre nelle specie in cui la cura della prole risulta scarsamente importante per la sopravvivenza troviamo bassi livelli di ossitocina, viceversa, in specie dove la sopravvivenza è assicurata dalla presenza di un caregiver troviamo livelli significativamente più alti di ossitocina. Un ruolo importante rivestito da questo peptide (ossitocina) è quello di azione nella risposta autonomica della paura in cui l’amigdala ha un ruolo centrale. Le ricerche in questo ambito evidenziano che l’attivazione dell’amigdala diminuisce per effetto dell’aumento dei livelli di ossitocina. Questo dato ha suggerito vari filoni di ricerca. Una delle ricerche più interessanti, in tal senso, ha confrontato due gruppi di soggetti con diagnosi di Fobia Sociale, ad un gruppo veniva somministrata una dose di ossitocina attraverso uno spray nasale, al gruppo di controllo veniva somministrato un placebo.

Come noto, i soggetti con fobia sociale hanno un’elevata attivazione dell’amigdala come risposta alla paura di esporsi a situazioni temute. Entrambi i gruppi venivano esposti ad una situazione attivante. Dai risultati emerge che i soggetti trattati mostravano livelli di attivazione dell’amigdala significativamente più bassi, all’incirca della metà, dei soggetti ai quali era stato somministrato un placebo. Gli studi in questo campo sono tutt’ora in evoluzione e uno degli sviluppi futuri sarà quello di indagare le differenze di genere nelle risposte dell’ossitocina.

Spostando l’attenzione sull’ambito più prettamente diagnostico, la Dott.ssa Abelli si focalizza sul Disturbo d’Ansia da Separazione nell’Adulto (ASAD) che entra nel DSM V (2013) a pieno titolo nel grande gruppo diagnostico dei Disturbi d’Ansia. Questo disturbo che nella nosografia veniva inscritto solo nei disturbi infantili diventa una diagnosi a tutti gli effetti anche nella popolazione adulta. Nello specifico i criteri diagnostici prevedono:

A. Ansia inappropriata rispetto al livello di sviluppo ed eccessiva che riguarda la separazione da coloro cui il soggetto è attaccato, come evidenziato da almeno tre dei seguenti elementi:

1. malessere eccessivo ricorrente quando avviene la separazione da casa o dai principali personaggi di attaccamento o quando essa è anticipata col pensiero

2. persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo alla perdita dei principali personaggi di attaccamento, o alla possibilità che accada loro qualche cosa di dannoso (come una malattia, un danno, una calamità o la morte)

3. persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo al fatto che un evento spiacevole comporti separazione dai principali personaggi di attaccamento (per es. essere smarrito, essere rapito, avere un incidente, ammalarsi)

4. persistente riluttanza o rifiuto di uscire, per andare lontano da casa, di andare a scuola, al lavoro o altrove per la paura della separazione

5. persistente ed eccessiva paura o riluttanza a stare solo o senza i principali personaggi di attaccamento a casa, oppure di qualsiasi altro posto (situazioni)

6. persistente riluttanza o rifiuto di dormire fuori casa e di andare a dormire senza avere vicino uno dei personaggi principali di attaccamento.

7. ripetuti incubi sul tema della separazione

8. ripetute lamentele di sintomi fisici (es. mal di testa) quando avviene o è anticipata col pensiero la separazione dai principali personaggi di attaccamento

Rispetto al criterio B, relativo alla durata, si può fare diagnosi di Disturbo d’Ansia da Separazione nell’adulto se i suddetti sintomi sono presenti da almeno 6 mesi dall’esordio della sintomatologia.

L’epidemiologia di questo quadro clinico oscilla nella popolazione generale tra 0.9 e 1.9% negli adulti e si attesta intorno al 4% nei bambini (APA, 2013). Secondo uno studio australiano (Silove, 2010) il Disturbo d’Ansia da Separazione nell’adulto ha una prevalenza del 23% nella popolazione normale di riferimento. Nel Disturbo d’Ansia da Separazione nell’adulto troviamo un elevato pattern di comorbilità con gli altri Disturbi d’Ansia (Silove et al., 2010):

– Agorafobia e Disturbo di Panico (20.6%)

PTSD (23.7%)

Disturbo Bipolare (19.4%)

Depressione (40.8%)

L’esordio da ASAD precede quello del disturbo in comorbilità nel 75% dei casi. In merito alla diagnosi differenziale, mentre i soggetti con Disturbo Dipendente di Personalità (a causa della pervasiva tendenza a dipendere dagli altri) sviluppano ansia per paura di non essere in grado di far fronte ad un abbandono, i pazienti con ASAD fanno riferimento ad una serie limitata di preoccupazioni, relative alla sicurezza delle figure di riferimento ed al mantenimento di prossimità con esse.

La diagnosi differenziale con il Disturbo Borderline di Personalità evidenzia che, pur presentando paura dell’abbandono, in questa popolazione di pazienti troviamo una pervasiva instabilità dell’umore, delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé, nei comportamenti, marcata impulsività, sentimenti di rabbia e di vuoto che non si riscontrano nei soggetti con ASAD.

Ad oggi non sono disponibili in letteratura studi relativi al trattamento dell’ASAD, in quanto non abbiamo protocolli di intervento per questo disturbo. Grazie all’introduzione nel DSM V sarà possibile definire specifici interventi terapeutici per questo disturbo. Possiamo, infine, chiederci se esiste una relazione tra Disturbo d’Ansia da Separazione nell’adulto e stili di attaccamento ed, in merito a questo,  Silove e Mamane (2010) affermano che mentre ASAD è una categoria diagnostica, ovvero un costrutto nomotetico basato sulla coesistenza di sintomi operazionali, l’attaccamento ansioso è un costrutto idiografico il cui significato deriva dalla sua funzione esplicativa all’interno della teoria dell’attaccamento

Sull’attaccamento si sono sviluppati vari filoni di indagine come quello promosso dal Prof. Troisi su “Social Attachment and OPRM1 polymorphism: a translation approach”. Nello studio delle variabili che influenzano le risposte individuali agli oppiacei sono emerse evidenze che suggeriscono una interazione tra alcuni geni e diversi stili di attaccamento.

Dall’indagine sulla variabilità di risposta agli oppiacei si è giunti ad identificare degli specifici circuiti legati al piacere/rinforzo e al dolore. Entrambi questi circuiti vedono coinvolti gli oppiacei e si attivano rispettivamente a seguito di piacere o dolore fisico. Ma gli studiosi hanno riscontrato che questi sistemi vengono attivati anche da esperienze relazionali. Nello specifico il circuito del piacere si attiva anche quando avviene un atto di cooperazione sociale e quello del dolore in seguito ad un lutto o ad un rifiuto sociale. Lo studio di questo polimorfismo ha portato ad individuare particolari geni (A118G) che sembrano essere correlati con la predisposizione all’anedonia sociale. I risultati evidenziano che sia le precoci esperienze relazionali che le variabili genetiche giocano un ruolo fondamentale nella sensibilità al rifiuto sociale.

In questo senso Troisi et al. stanno portando avanti ricerche atte a indagare come le precoci cure del caregiver interagiscano sulle variabili genetiche nello sviluppo di tratti di personalità strettamente correlati alla sensibilità al rifiuto.

In conclusione, Troisi sottolinea come l’interazione tra variabili genetiche e ambiente dovrebbe essere intesa più come suscettibilità che come vulnerabilità. La suscettibilità, infatti, prende in considerazione sia la variabilità genetica che le precoci esperienze nella relazione di attaccamento.

A sintesi dei diversi interventi del simposio chiudiamo con la citazione di Thomas R. Insel (Director NIMH, USA): “We are, by nature, a highly affiliative species craving social contact. When social experience becomes a source of anxiety rather than a source of confort, we have lost something fundamental – whatever we call it”.

 

TUTTI I REPORTAGES DAL CONVEGNO SOPSI 2014

ARGOMENTI CORRELATI:

ANSIAATTACCAMENTO

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

AUTORE: 

Maria Sansone. Psicologa Psicoterapeuta – Scuola Cognitiva di Firenze

Identità virtuali influenzano il nostro comportamento nel mondo reale

 

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un nuovo studio pubblicato su Psychological Science ha indagato in che modo le esperienze virtuali – come ad esempio impersonare un eroe o un personaggio maligno – possano influenzare i comportamenti delle persone nelle loro vite reali.

Il modo in cui rappresentiamo noi stessi nel mondo virtuale può influenzare i nostri comportamenti nel mondo reale. 

Gli ambienti virtuali consentono alle persone di assumere identità e in qualche misura fare esperienze – seppur virtuali- di situazioni di cui generalmente non avrebbero opportunità nella vita reale.

Un nuovo studio pubblicato su Psychological Science ha indagato in che modo le esperienze virtuali – quindi per esempio impersonare un eroe o un personaggio maligno – possano influenzare i comportamenti delle persone nelle loro vite reali.

I ricercatori hanno reclutato 194 soggetti che sono stati randomicamente assegnati a fare esperienza di gioco virtuale nei panni di Superman (l’avatar eroico), del mago Voldemort (l’avatar maligno) o di un avatar neutrale (un semplice cerchio).

L’esperienza di gioco identificandosi nell’avatar aveva una durata di cinque minuti in cui dovevano in tutte le condizioni combattere contro i nemici. In seguito, sono stati sottoposti a diverse esperienze gustative, provando salsa chili e cioccolata e chiedendo loro di preparare un piatto di uno  o l’altro ingrediente per un successivo partecipante allo studio.

Ebbene i risultati rivelano che i soggetti che avevano vissuto nei panni di superman per cinque minuti erano portati a elargire il doppio della cioccolata (fattore di rinforzo) rispetto ai soggetti che avevano impersonato Voldemort che invece tendenvano ad esagerare con la salsa chili (fattore punitivo).

Interessante è che questi effetti sarebbero indipendenti dal livello di identificazione con l’avatar percepito durante il gioco, e con scarsa consapevolezza degli effetti comportamentali di tali esperienze virtuali.

ARGOMENTI CONSIGLIATI:

PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA – CYBERPSICOLOGIA

 

BBLIOGRAFIA:

 

Il Disturbo da stress post traumatico (PTSD) al Congresso SOPSI 2014 – Sessione Plenaria con C. Katona

Alice Visintin, Psichiatra Psicoterapeuta

 

 

SOPSI 2014

Report dalla sessione plenaria:

The Complexity of trauma and of responses to trauma

(C. Katona, UK)

18° Congresso SOPSI Torino 2014 - Sessione Plenaria C. Katona - TraumaL’ampio calderone denominato PTSD comprende al suo interno popolazioni di pazienti molto diverse tra loro e per le quali necessitiamo di diversi modelli terapeutici.

La terza giornata del 18o Congresso della SOPSI inizia con un piccolo ritardo per permettere a tutti di fornirsi di cuffie prima dell’intervento del Prof. Katona (non così necessarie, con il senno di poi, ché la chiara dizione ed il ritmo pacato hanno reso la presentazione molto fruibile anche in lingua originale) che ha toccato il tema estremamente interessante ed attuale della complessità del trauma e delle risposte al trauma.

Punto di partenza è l’esperienza clinica e di ricerca della Helen Bamber Foundation, London, UK  che opera nella cura delle vittime di violazioni dei diritti umani, di coloro che sono sopravvissuti a violenze ripetute ed inimmaginabili: vittime di tortura ma anche del traffico di esseri umani, di abusi domestici, di violenze basate sull’orientamento sessuale, e – forse la categoria che ci mette più in difficoltà – coloro che sono stati bambini soldato.

Come professionisti della salute mentale non possiamo ignorare che, nonostante l’abolizione della schiavitù, il traffico di esseri umani, tanto per lo sfruttamento sessuale quanto per nuove forme di lavoro forzato, è un’attualità.

Nel Regno Unito come in Italia giungono vittime di atti perpetrati spesso in altri paesi in cerca di protezione e molti fattori contribuiscono a perpetuarne la condizione di vittime: la separazione dal proprio paese e dalla famiglia, le incertezze dello status di immigrato, la povertà, la mancanza di una rete di supporto, lo scivolamento nell’uso di alcol o sostanze, possibili persecuzioni continue (da parte di agenti del paese di origine), e la difficoltà ad accedere a trattamenti e supporti di cui pure avrebbero diritto.

Nonostante la varietà di cause, sintetizza il prof. Katona, vi sono una serie di elementi comuni nella presentazione clinica dalla presenza in anamnesi di traumi ripetuti e difficili da comprendere per chi li subisce (con una complessità intrinseca che non troviamo nei traumi da incidente o da terremoto, ad esempio), alla vulnerabilità a subire nuovi ulteriori traumi e una sintomatologia che il professore chiama “PTSD +”: difficoltà a fidarsi (per violazioni ripetute della fiducia e/o per perdite ed abbandoni), perdita di agency, incapacità ad immaginare un futuro, condotte a rischio e frequenti sintomi somatici (sia come somatizzazioni sia per sequele di percosse ed altri traumi fisici).

Il modello di lavoro della Helen Bamberg Foundation – condiviso peraltro nelle sue linee essenziali da numerosi centri internazionali ed anche italiani per la cura dei richiedenti asilo, delle vittime di tortura e della tratta – segue un approccio integrato. Questo termine è sicuramente familiare a psichiatri, psicologi ed in genere operatori della salute mentale,  basti pensare alla complessità del trattamento della schizofrenia: psicofarmacoterapia, psicoterapia e psicoeducazione, social skill training e via dicendo.

Trattando delle vittime di traumi complessi il ventaglio di interventi, da individualizzare dopo un’attenta ricognizione dei bisogni della singola persona, presenta alcune particolarità: oltre ad approcci psicoterapici specifici, individuali e di gruppo, un ruolo importante è destinato alla cura del corpo da un lato ed alle attività creative non solo nelle valenze espressive ma come mezzo di riacquisizione di competenze sociali e relazionali e come supporto all’apprendimento linguistico.

Un punto cruciale è quello del supporto legale nelle pratiche di richiesta di protezione internazionale, ove il ruolo dei sanitari non è affatto secondario poiché la cultura del sospetto che permea il sistema dell’asilo si intreccia con la difficoltà delle vittime a raccontare la propria storia in un modo credibile, ostacolato sia da sentimenti di vergogna (in particolare per le vittime di abusi o sfruttamento sessuale) sia dalla stessa natura delle memorie traumatiche e da fenomeni dissociativi.

Purtroppo i limiti di tempo non hanno permesso di approfondire questo tema, di grande interesse tanto in ambito clinico quanto per la ricerca in neuroscienze ma il prof. Katona ha potuto offrirci qualche elemento in più rispetto al ruolo di diverse strutture cerebrali nella formazione delle memorie nelle vittime di traumi ripetuti: è stata rilevata un’attività ridotta a carico della regione ippocampale – coinvolta nell’attribuzione di contesto alle tracce mnesiche – a fronte di un’amigdala molto attiva – che provvede agli aspetti sensoriali, cognitivi, emozionali e fisiologici dei ricordi.

Quando una persona ha subito numerosi episodi traumatici, di cui ricorda in modo vivido ogni dettaglio sensoriale (“c’era una luce”, “mi hanno colpito alla schiena“) ma che non può efficacemente contestualizzare, non ci stupisce che abbia difficoltà nel ricostruire un preciso racconto cronologico.

Dopo una breve carrellata degli elementi correlabili al concetto di traumi complessi ripetuti nel DSM-4 (concetto di DESNOS e di cluster dei sintomi interpersonali) e nel ICD-10 (alterazioni permanenti di personalità nelle vittime di eventi catastrofici), abbiamo potuto sbirciare le novità del DSM-5, che aggiunge ai sintomi del PTSD le alterazioni negative cognitive e dell’umore e specifica un sottotipo “con sintomi dissociativi”, e delle proposte per l’ICD-11, che parla specificamente di Complex PTSD, recependo quindi nella terminologia il riferimento alla complessità, ma non menziona i sintomi dissociativi.

Sempre tra le proposte per l’ICD-11 si nota una maggior specificità nella definizione dei cluster sintomatologici, in particolare con riferimento ai temi della memoria: episodi ri-vissuti nel presente e non solo ricordati, evitamento di stimoli che potrebbero rievocare le memorie legate al trauma.

Per quanto riguarda il trattamento, un buon riferimento, evidence based, sono le Society for Traumatic Stress Studies Consensus Guidelines (2012), che indicano negli approcci combinati outcome migliori e individuano tre fasi comuni ai diversi modelli di intervento: stabilizzazione, rielaborazione del trauma, consolidamento dei risultati e integrazione. Tra i vari modelli di intervento la Narrative Exposure Therapy, applicata alla Helen Bamber Foundation, è stata validata.

Al termine di questa carrellata, sintetica ma molto chiara, il dibattito è stato brevissimo, più che altro per ragioni temporali poiché il tema in sé non avrebbe mancato di stimolare gli uditori. Si è accennato al problema della traumatizzazione vicaria degli operatori esposti ai racconti delle vittime ed alla supervisione e collaborazione in piccoli gruppi come strumenti utili alla prevenzione. Sollecitato sulla possibile applicazione dell’EMDR, il prof. Katona ha segnalato come gli esiti clinici con questa particolare popolazione di utenti siano stati deludenti e la pratica sia stata dismessa, seppur in mancanza di una vera e propria valutazione clinica.

Proprio a partire da quest’ultimo stimolo vorrei sottolineare come l’ampio calderone denominato PTSD comprenda al suo interno popolazioni di pazienti molto diverse tra loro e per le quali necessitiamo di diversi modelli terapeutici.

Il prof. Katona ci ha introdotti agli esiti di traumi ripetuti, intenzionali, perpetrati da esseri umani su altri esseri umani all’interno di contesti di violenza statale, bellica, di sistemi di sfruttamento paramafiosi, di rapporti di potere ineguali. Auspichiamo che questi temi possano essere oggetto di approfondimento nelle prossime edizioni del convegno SOPSI, anche in un’ottica multidisciplinare che permetta ai professionisti della salute mentale di confrontarsi sugli aspetti giuridici, antropologici e sociologici che intrecciano la pratica clinica.

 

TUTTI I REPORTAGES DAL CONVEGNO SOPSI 2014

ARGOMENTI CORRELATI: 

DISTURBO DA STRESS POST TRAUMATICO – PTSD – TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE – ABUSI E MALTRATTAMENTI – VIOLENZA

The European Journal of Psychoanalysis – Presentation

Alvise Sforza Tarabochia 

 

European Journal of PsychoanalysisThe “European Journal of Psychoanalysis – New Series” continues the publication of its first and second editions. It was founded by Sergio Benvenuto in New York in 1995 with the title “Journal of European Psychoanalysis” (JEP).

On 2007 its name was changed in “JEP. European Journal of Psychoanalysis”. In 2013 the journal ‘rebooted’ with a new Editorial Board and a new logo as “EJΨ. European Journal of Psychoanalysis”. It is published both on line (by I.S.A.P.) and on paper (by Alpes).

When its first edition saw light in 1995, its main aim was to make available to an English-speaking audience Continental authors and papers writing in languages other than English. In fact, the privileged link psychoanalysis has to spoken languages does not facilitate communication among analysts and psychotherapists of different mother tongues. The European Journal of Psychoanalysis seeks to overcome these linguistic barriers.  It tries to introduce to the English reader to important European authors, as well as debates and trends within psychoanalysis and within other related fields (especially philosophy, literature, humanities and social sciences).  It will include also authors of, e.g., Latin American countries, whose paradigms are close to European “styles.”

The journal is not the official organ of any particular school. Material is be chosen solely in terms of quality, originality and relevance to international debates in psychotherapeutic and psychoanalytic fields.  Similarly, significant, hard-to-pigeonhole authors and works falling outside any particular trend will also be presented.

The European Journal of Psychoanalysis publishes not only translations, but also papers by English-speaking contributors whose works are close to European currents and “styles”. The European Journal of Psychoanalysis also includes philosophical, anthropological, literary and historical contributions.  Psychoanalysis has practical, ethical, and theoretical implications relevant not only to clinical practice, but also to politics and social policy, philosophy, cultural studies and the social sciences.  The journal provides an international forum for the exploration of the frontiers of psychoanalytic inquiry, giving voice to diverse perspectives, research, and clinical practice which link and transform its many partial understandings.

In the 32 issues of the first edition of our Journal, plus the 2 issues of the new edition of EJP, we have published articles by internationally recognized personalities such as G. Agamben, J. André, C. Bollas, N. Braunstein, C. Castoriadis, J. Cremerius, J. Derrida, F. Dolto, E. Fachinelli, A. Figà-Talmanca, S. Freud, R. Girard, A. Green, B. Grünberger, M. Henry, H. Kächele, O. Kernberg, J. Kristeva, P. Lacoue-Labarthe, J. Laplanche, D. Leader, S. Leclaire, J.-F. Lyotard, R. Major, I. Matte Blanco, V. Mazin, J.-L. Nancy, M. Perniola, T. Pievani, P. Roazen, R. Rorty, E. Roudinesco, J. Searle, M. Solms, F. Varela, G. Vattimo, S. Vegetti Finzi, J.-P. Vernant, P. L. Wachtel, Y. H. Yerushalmi, S. Žižek, etc.

 

ARGOMENTI CORRELATI: PSICOANALISI E TERAPIE PSICODINAMICHE  

VISITA IL SITO DELL’EUROPEAN JOURNAL OF PSYCHOANALYSIS

 

AUTHOR: 

Alvise Sforza Tarabochia Ph.D – Lecturer in Italian, University of Kent

Il Metacognitive Functions Screening Scale – MFSS-30 – Psicologia

Sebastiano Maurizio Alaimo

 

 

UN NUOVO STRUMENTO PER LO SCREENING DEL FUNZIONAMENTO METACOGNITIVO:

IL METACOGNITIVE FUNCTIONS SCREENING SCALE (MFSS-30)

 

 

Il Metacognitive functions screening scale - MFSS-30. -Immagine: © ArchMen - Fotolia.comL’attività diagnostica e clinica mi aveva suggerito l’importanza della costruzione di uno strumento self-report sulla metacognizione che non fosse eccessivamente lungo da somministrare e che fosse relativamente semplice da interpretare, senza comunque scotomizzare la complessità insita nel processo diagnostico.

La relazione è fondamentale. Siamo nodi di una rete, “dovunque c’è vita ci sono reti” (Casati, 1997). Le funzioni metacognitive, nel loro senso più esteso,  giocano un ruolo fondamentale nella vita dell’uomo (Baron-Cohen et al. 1985; Premack e Woodruff 1978; Bateman e Fonagy 2004; Brüne et al. 2007; Alaimo, 2004).

A prescindere dai modelli teorici di riferimento, è opinione condivisa di clinici e ricercatori che a “parità” di deficit o di tipologia di disturbo clinico, la capacità di “pensare il pensiero” e di modulare di conseguenza il comportamento può fare la differenza rispetto alla capacità di relazionarsi funzionalmente con gli altri, ma anche, sotto il versante clinico, nella capacità di accelerare e tesorizzare un “processo terapeutico” (Semerari et al., 2003; Cozolino 2010; Dimaggio e Lysaker 2011; Alaimo, 2012a; Schimmenti, 2012).

L’attività diagnostica e clinica che da diversi anni svolgo presso l’Istituto Scientifico di Psicologia Edgar Morin (ISPEM) di Caltanissetta mi aveva suggerito l’importanza della costruzione di uno strumento self-report sulla metacognizione che non fosse eccessivamente lungo da somministrare e che fosse relativamente semplice da interpretare (Alaimo 2012a, 2012b), senza comunque scotomizzare la complessità insita nel processo diagnostico (Scrimali, Alaimo, Grasso, 2007).

Giunsi intorno al 2006 ad una prima scala con 48 item, già dotata di una buona coerenza interna e definita Metacognitive Functions Screening Scale (MFSS). Dopo alcuni anni di lavoro sullo strumento, e dopo averlo testato più volte clinicamente presso l’ISPEM con esiti incoraggianti, ho proposto un attento studio al collega Adriano Schimmenti il quale ha effettuato ulteriori analisi statistiche sul test, per verificarne distribuzione dei punteggi agli item, consistenza interna, correlazioni tra item, correlazioni item-totale e possibili soluzioni fattoriali, giungendo, dopo circa due anni, alla versione definitiva costituita da 30 item.

La MFSS-30 è stata quindi somministrata, insieme ad altri strumenti self-report, a 335 soggetti non clinici, al fine di valutarne attendibilità e validità in questo gruppo. 

Dopo aver verificato l’adeguata consistenza interna della MFSS-30 (alpha di Cronbach=0,88), si è proceduto a verificare inoltre la presenza dei criteri minimi affinché l’analisi in componenti principali potesse produrre risultati interpretabili: sono stati utilizzati il test KMO di Kaiser-Meyer-Olkin per verificare la misura dell’adeguatezza campionaria, e il test di sfericità di Bartlett per verificare che la matrice di correlazione tra gli item non provenisse da una popolazione di variabili indipendenti.

Desiderabilmente, l’indice KMO è risultato piuttosto elevato (0,86), e il test di sfericità di Bartlett è risultato altamente significativo (chi-quadro=2447,75, gdl=435, p<0,0001). Per valutare il numero delle componenti sottostanti alle variabili osservate empiricamente è stato utilizzato lo scree plot di Cattell (1966).

Sono state quindi estratte 4 componenti. E’ stata successivamente effettuata un’analisi qualitativa degli item che saturavano su più componenti, ed è stato così possibile individuare quattro sottoscale teoricamente coerenti con i quattro macrofattori che la versione originale del test, a 48 item, desiderava esplorare.

Le 4 sottoscale sono state così denominate:

CRE – Capacità di riconoscere le emozioni (6 item) (alpha Cronbach di 0,79).

CRC – Capacità di cogliere relazioni causali (8 item) (alpha Cronbach di 0,71).

CDD – Capacità di decentramento (12 item) (alpha (Cronbach di 0,78).

CDP – Capacità di ponderazione (4 item) (alpha Cronbach di 0,70).

Naturalmente è ottenibile, ed è molto importante, anche un punteggio globale (alpha di Cronbach=0,88) che sintetizza il livello delle funzioni metacognitive esplorate.

È opportuno precisare che esistono già diversi studi condotti con la MFSS-30, sia presso l’ISPEM (ed in particolare all’interno delle attività svolte dall’Unità Clinica e di Ricerca per la Psicoterapia Cognitiva centrata sulla Implementazione delle Funzioni Metacognitive) sia presso altre strutture cliniche e di ricerca; presto verranno presentati i risultati di questi studi.

Studi che nella loro totalità, appaiono promettenti e incoraggianti per un utilizzo diffuso della MFSS-30 in ambito clinico e di ricerca, grazie anche alle sue qualità di rapidità di somministrazione, scoring e interpretazione.

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METACOGNIZIONE

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Report: Giornate Seminariali Siciliane di Psicologia Clinica e Psicoterapia Cognitiva

 

METACOGNITIVE FUNCTIONS SCREENING SCALE – 30 ITEMS (MFSS-30): UN NUOVO

STRUMENTO PER LO SCREENING DEL FUNZIONAMENTO METACOGNITIVO

Sebastiano Maurizio Alaimo, Adriano Schimmenti

Istituto Scientifico di Psicologia “Edgar Morin” (ISPEM), Caltanissetta;

Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva “Aleteia”, Enna.

Facoltà di Scienze Umane e Sociali, UKE – Università degli Sudi di Enna “Kore”;

Società Italiana di Psicodiagnostica Clinica (SIPDC).

Abstract

METACOGNITIVE FUNCTIONS SCREENING SCALE – 30 ITEMS (MFSS-30):

A NEW MEASURE FOR THE SCREENING OF METACOGNITIVE FUNCTIONING

Key words: metacognition, theory of mind, alexithymia, validity, reliability

Metacognitive functions allow individuals to regulate affects and behaviors. These functions include the abilities of representing emotions and mental events, attributing mental states to oneself and to other persons, and predicting behaviors on the basis of mental representations. This article presents the Metacognitive Functions Screening Scale – 30 items (MFSS-30), a new self-report measure for the screening of metacognitive functioning. The MFSS-30 was administered together with other self-report measures investigating specific aspects of metacognitive functioning to 335 non-clinical participants (47.5% males) ages 18 to 60 . The psychometric properties of the scale were analyzed according to classical test theory. The MFSS-30 demostrated good internal consistency (Cronbach’s alpha=.88) and test-retest stability (r=.82), a four-factor structure consistent with the investigated construct, and good characteristics of convergent validity demonstrated by its association with measures assessing specific aspects of metacognitive functioning. Discussion: In several psychiatric disorders, metacognitive functions are more or less damaged. The psychometric characteristics of the MFSS-30 suggest that this measure can be useful as a screening tool for these functions. Cooncusions: The assessment of metacognitive functions through the MFSS-30 can be useful in the diagnostic frame, as well as in the process of planning a psychotherapy capable to take into account specific deficits or problems in the individual’s metacognitive functioning. The MFSS-30 and its scoring criteria are presented in appendix to the article.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Alaimo,SM, Schimmenti,S., METACOGNITIVE FUNCTIONS SCREENING SCALE – 30 ITEMS (MFSS-30): A NEW MEASURE FOR THE SCREENING OF METACOGNITIVE FUNCTIONING(ACQUISTA IL PDF)
  • Alaimo SM (2004). Le storie della mente. Edizioni ISPEM, Caltanissetta.
  • Alaimo SM (2012a). La valutazione dei processi metacognitivi ed attentivi nei disturbi di personalità. Relazione al Convegno Internazionale Volcanic Mind, Acitrezza (CT), 23 giugno 2012 [Audioregistrazione].
  • Alaimo SM (2012b). Disturbi di personalità e psicoterapia: prime evidenze dell’utilizzo di una batteria di test per l’assessment del funzionamento metacognitivo e del deficit attentivo. Relazione al Congresso nazionale SITCC, Roma, 5 ottobre 2012. [Audioregistrazione].
  • Baron-Cohen S, Leslie A, Frith U (1985). Does the autistic child have a Theory of Mind?
  • Cognition 21, 37-46.
  • Bateman AW, Fonagy P (2004). Psychotherapy of Borderline Personality Disorder: mentalisation based treatment. Oxford University Press, Oxford. Tr. it. Il trattamento basato sulla mentalizzazione: psicoterapia con il paziente borderline. Raffaello Cortina, Milano 2006.
  • Brüne M, Abdel-Hamid M, Lehmkämper C, Sontag C (2007). Mental state attribution, neurocognitive functioning, and psychopathology: What predicts poor social competence in schizophrenia best? Schizophrenia Research 92, 151-159.
  • Cattell RB (1966). The scree test for the number of factors. Multivariate Behavioral Research 1, 245-76.
  • Cozolino L (2010). The neuroscience of psychotherapy: Healing the social brain. WW Norton, New York.
  • Dimaggio G, Lysaker PH (2011). Metacognizione e psicopatologia, Valutazione e trattamento. Raffaello Cortina, Milano.
  • Premack D, Woodruff G (1978). Does the chimpanzee have a Theory of mind? Behavioral and Brain Sciences 4, 515-526.
  • Schimmenti A (2012). Unveiling the hidden self: developmental trauma and pathological shame. Psychodynamic Practice 18, 181-194.
  • Scrimali T, Alaimo SM, Grasso F. (2007). Dal sintomo ai processi, l’orientamento costruttivista e complesso in psicodiagnostica. Edizioni Franco Angeli, Milano.
  • Semerari A, Carcione A, Dimaggio G, Falcone M, Nicolò G, Procacci M, Alleva G (2003). How to evaluate metacognitive functioning in psychotherapy? The Metacognition Assessment Scale and its applications. Clinical Psychology and Psychotherapy 10, 238-261.

 

Il materialismo e il benessere soggettivo: cambiamenti correlati

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il benessere delle persone aumenta in misura direttamente proporzionale alla riduzione della rilevanza attribuita a valori e obiettivi materialisti; viceversa, l’orientamento verso obiettivi maggiormente materialistici sarebbe associato a un decremento del benessere nel corso del periodo preso in considerazione. 

Il denaro non fa la felicità. E’ proprio cosi? Il vecchio detto recita di consueto… ma i soldi aiutano a vivere meglio.

Su un piano teorico, con materialismo identifichiamo la credenza per cui rispetto ad altri obiettivi, sia più importante dare la priorità nei propri scopi a guadagnare denaro e beni materiali (Kasser 2002; Richins and Dawson 1992).

Finora ancora pochi studi si sono addentrati nella questione se e come il materialismo possa essere associato al benessere in particolare progettando disegni sperimentali e studi longitudinali.

Il giornale scientifico Motivation and Emotion dedica spazio a un interessante studio che ha preso in considerazione come i cambiamenti nei livelli di materialismo delle persone siano correlati a cambiamenti nel loro benessere soggettivo (Diener 1984) a distanza di 6 mesi, 2 anni e 12 anni.

I risultati dei tre studi sono concordi tra loro nel supportare l’ipotesi che il benessere delle persone aumenta in misura direttamente proporzionale alla riduzione della rilevanza attribuita a valori e obiettivi materialisti; viceversa, l’orientamento verso obiettivi maggiormente materialistici sarebbe associato a un decremento del benessere nel corso del periodo preso in considerazione.

Dal punto di vista sperimentale, una quarta ricerca riportata nel contributo appare di interesse a ulteriore supporto dei dati sopra descritti.

Un gruppo di adolescenti americani con elevati livelli di materialismo è stato sottoposto a un intervento di gruppo finalizzato alla riduzione delle aspirazioni e doverizzazioni materialistiche. In conseguenza dell’intervento si è registrato un aumento nei livelli di autostima mantenutosi nei mesi successivi rispetto a un gruppo di controllo.

La prova empirica che imparare a rispettare le proprie priorità e ristrutturare le proprie doverizzazioni – anche in termini materialistici- può favorire il benessere soggettivo.

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PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

SCOPI ESISTENZIALI – PSICOLOGIA POSITIVA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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