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Il pensiero desiderante come predittore del gioco d’azzardo patologico – Gambling

 

 

Il problema non sono i desideri. Il problema è come reagiamo mentalmente quando i desideri balzano alla nostra coscienza. Alcuni discriminano rapidamente i desideri su cui vogliono soffermarsi da quelli che in realtà non vogliono perseguire. Altri si soffermano a elaborare mentalmente questi desideri, il ché significa:

(1) immaginare le sensazioni che si provano ad esaudirli, (2) pianificare mentalmente (come fosse un film) le azioni da compiere per raggiungerli, (3) identificare le ragioni valide che ci possono “concedere” o “permettere” di sceglierli.

Questo processo di pensiero talvolta è tanto automatico che le persone non si rendono conto di esservi immerse. Sono fuse dentro questo canale di elaborazione. Questo processo cognitivo ha un impatto forte sulla sensazione di desiderio o di ‘fame’ per un oggetto o per un’attività. Molti studi recenti del gruppo di ricerca di Studi Cognitivi (es. Caselli & Spada, 2011), hanno evidenziato il ruolo di questo processo nel sostenere il desiderio di tornare a bere in pazienti con problemi da uso di alcool.

Ora un recente studio mostra che questo impatto si estende anche oltre le sostanze psicoattive verso attività come il gioco d’azzardo che possono generare una dipendenza di rilievo clinico. Questo primo passo lascia presagire che la dipendenza dai propri desideri non dipende esclusivamente dall’effetto fisiologico di sostanze psicoattive, ma soprattutto che potrebbe nascondere lo stesso meccanismo, alla base del pensiero desiderante, indipendentemente dall’oggetto del desiderio.


Desire Thinking as a Predictor of Gambling

Bruce A. Fernieab, Gabriele Casellic, Lucia Giustinad, Gilda Donatoc, Antonella Marcotriggianic, Marcantonio M. Spadae,

a King’s College London, Institute of Psychiatry, Department of Psychology, London, UK
b CASCAID, South London & Maudsley NHS Foundation Trust, UK
c Studi Cognitivi, Italy
d Servizio Tossicodipendendenze, AUSL, Parma, Italy
e London South Bank University, UK

Abstract

Desire thinking is a voluntary cognitive process involving verbal and imaginal elaboration of a desired target. A desired target can relate to an object, an internal state or an activity, such as gambling. This study investigated the role of desire thinking in gambling in a cohort of participants recruited from community and clinical settings. Ninety five individuals completed a battery of self-report measures consisting of the Hospital Anxiety and Depression Scale (HADS), the Gambling Craving Scale (GCS), the Desire Thinking Questionnaire (DTQ) and the South Oaks Gambling Screen (SOGS). Correlation analyses revealed that gender, educational level, recruitment source, anxiety and depression, craving and desire thinking were correlated with gambling. A hierarchical multiple regression analysis revealed that both recruitment source and desire thinking were the only independent predictors of gambling when controlling for all other study variables, including craving. These findings are discussed in the light of Metacognitive Therapy (MCT).

 

Desire Thinking as a Predictor of GamblingConsigliato dalla Redazione

BANDO SELEZIONE PSICOLOGI
Desire thinking is a voluntary cognitive process involving verbal and imaginal elaboration of a desired target. (…)

 

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Alcool: potrebbe modificare il nostro DNA
Una ricerca avrebbe individuato come cambia il DNA di chi fa un uso smodato di alcol. Esisterebbero quindi dei predittori genetici dell'alcolismo
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Studi scientifici hanno evidenziato la natura eterogenea del craving descrivendo tre tipologie, distinte sulla base di differenti disregolazioni dei sistemi neurotrasmettitoriali e considerando inoltre come discriminanti le componenti psicologiche e la familiarità per l'abuso di alcol.
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L’ effetto del pensiero desiderante sul craving e sull’intenzione al bere – Riccione, 2017
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Craving e sostanza cos'è il craving e i possibili approcci terapeutici
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Per la prima volta la realtà virtuale viene utlizzata all’interno della fase di assessment con pazienti con dipendenza da alcool.
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Segreti e bugie (1996) di Mike Leigh – Recensione – Cinema & psicologia

 

 

 

Segreti e bugie

 di Mike Leigh (1996)

 

 

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Segreti e bugie di Mike LeighSegreti e bugie ha il grande pregio di saper mostrare, in modo asciutto e partecipe al tempo stesso, il dolore e la difficoltà, insita negli esseri umani, di viverlo e di comunicarlo agli altri, anche alle persone più vicine; ognuno dei personaggi si rinchiude in una bolla di isolamento e di ipocrisia nel tentativo disperato di evitare di fare i conti con gli aspetti più problematici della propria esistenza.

Hortense, una giovane donna di colore, è stata data in adozione subito dopo la nascita. Dopo la morte dei genitori adottivi decide di cercare la madre naturale. Riesce a rintracciarla e, con sua grande sorpresa, scopre che si tratta di una donna bianca, Cynthia, che vive in un quartiere alla periferia di Londra. Le due donne si incontrano e, superato un iniziale momento di reciproco imbarazzo e smarrimento, cominciano conoscersi e a frequentarsi, ponendo le premesse per costruire un legame affettivo.

Hortense è stata allevata da una famiglia benestante, che le ha dato la possibilità di studiare, e lavora come optometrista. Cynthia, invece, versa in condizioni economiche disagiate ed è una persona vulnerabile, dalla vita complicata; ha avuto da una relazione occasionale un’altra figlia, Roxanne, una ragazza ventenne irruente ed arrabbiata con la vita. Cynthia ha anche un fratello, Maurice, che lavora come fotografo; i due si vedono raramente, anche perché Cynthia non è in buoni rapporti con Monica, la moglie di Maurice.

In occasione del ventunesimo compleanno di Roxanne, Maurice decide di organizzare una festa, per cercare di recuperare il rapporto con la nipote e con la sorella; Cynthia decide di invitare anche Hortense, la figlia ritrovata, presentandola ai familiari come una collega di lavoro. Nel corso della festa il clima, apparentemente sereno, si fa via via sempre più teso; il nervosismo serpeggia, le questioni irrisolte ritornano a galla, fino ad arrivare, quando la tensione raggiunge il culmine, all’esplosione di una serie di rivelazioni shock che riguardano tutti i membri della famiglia.

Il film ha il grande pregio di saper mostrare, in modo asciutto e partecipe al tempo stesso, il dolore e la difficoltà, insita negli esseri umani, di viverlo e di comunicarlo agli altri, anche alle persone più vicine; ognuno dei personaggi si rinchiude in una bolla di isolamento e di ipocrisia (da qui il titolo del film “Segreti e bugie”) nel tentativo disperato di evitare di fare i conti con gli aspetti più problematici della propria esistenza.

In questo senso, la scena della festa rappresenta, pur nella sua estrema drammaticità, un momento catartico, in cui tutti possono spogliarsi della propria corazza di difese, esprimere liberamente i pesi che hanno nel cuore e ricevere dagli altri il riconoscimento e il conforto di cui hanno profondamente bisogno.

Il finale del film rappresenta un invito alla speranza e alla possibilità di potersi mostrare agli altri con maggiore autenticità; questo permette di convivere più serenamente con i “lati oscuri” della propria esistenza, riappacificandosi con la propria vulnerabilità e dando alle ferite che la vita infligge la possibilità di cicatrizzare, in modo da poter andare incontro al futuro con maggiore leggerezza, un po’ più liberi dalle zavorre del passato.

 

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CINEMA – GRAVIDANZA E GENITORIALITA’

RAPPORTI INTERPERSONALI – FAMIGLIA

ARTICOLO CONSIGLIATO:

I GIORNI DELL’ABBANDONO (2005) CINEMA & PSICOTERAPIA NR. 16

 

 

Psicoanalisi, Identità e Internet di A. Marzi (2013)- Recensione

 

 

Psicoanalisi, Identità e Internet

Esplorazioni nel Cyberspace

A. Marzi (2013) – Franco Angeli

 

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Psicoanalisi Identita e internet. Esplorazioni nel cyberspace. Franco Angeli (2013)Le fantasie e i sogni che fanno tutti gli esseri umani e che spesso sono materia di sedute terapeutiche possono essere considerati in parte una realtà virtuale.

La realtà virtuale è, infatti, una simulazione della realtà oggettiva e riguarda ogni genere di realtà simulata.

Che cosa avrà mai a che fare la psicoanalisi con la realtà virtuale e con le Nuove Tecnologie? Apparentemente potrebbe sembrare nulla e, invece, anche grazie a questo bel testo che raccoglie contributi da voci ed angolature differenti, la risposta potrebbe stupirci. Potremmo, infatti, scoprire che la psicoanalisi non è (e non è mai stata) semplicemente racchiusa nella stanza di analisi, con un lettino, un taccuino e una matita, ma che raccoglie – come ha sempre fatto – spunti e modalità che afferiscono al clima storico, sociale e culturale del momento. 

Ed è quindi capace di adattarsi, naturalmente con i propri limiti, anche alla modernità. Modernità caratterizzata, come lo stesso Zygmunt Bauman (2000) ci ricorda, da una liquidità di rapporti e di identità, in cui lo spazio per pensare ed essere sembra molto risicato, dando adito così a modalità comunicative nuove, ma anche a patologie o disturbi nuovi. Non si può, naturalmente, pensare che i cambiamenti, anche in analisi, avvengano dall’oggi al domani e che quindi un intero metodo o un’intera teoria modifichi il proprio“assetto” in un batter d’occhio (o, per meglio dire, in un batter di tweet).

Ciò che però trovo interessante di questo testo è la possibilità e la capacità di mettersi in gioco e di riflettere davvero sull’opportunità di aprire un metodo, una teoria e uno strumento di cura anche al nuovo.

Aprirsi significa riflettere nuovamente e mettere a punto strumenti migliori che forse, in fondo, non sono poi così lontani da quelli sinora utilizzati. Sono solo diversi.

Mi viene infatti da pensare al concetto di terapeuta e di setting, e alla fatidica domanda: cosa rende efficace e quindi utile ai fini terapeutici un setting? Forse, più che quello esterno (formato da elementi concreti come il luogo in cui si svolge la seduta, l’orario – tendenzialmente stabile e ripetitivo, quanto meno nel classico setting analitico – etc), conta l’assetto terapeutico, il famoso setting interno, ossia l’assetto mentale e la capacità del terapeuta o di essere con il paziente, di sentire e utilizzare gli strumenti a disposizione per il meglio, di essere in grado di entrare in relazione empatica con le angosce, sentimenti e fantasie della persona che ha davanti.

Le fantasie e i sogni che fanno tutti gli esseri umani e che spesso sono materia di sedute terapeutiche possono essere considerati in parte una realtà virtuale. Ecco perché tale concetto non sembra, a Marzi, il curatore del libro, così lontano all’approccio analitico. La realtà virtuale è, infatti, una simulazione della realtà oggettiva e riguarda ogni genere di realtà simulata.

Ciò significa che anche le immagini mentali o i sogni possono essere considerati in qualche modo realtà virtuale. Potremmo dunque azzardarci ad ipotizzare che in fondo la psicoanalisi (e gli approcci psicoterapeutici più in generale) da sempre ha a che vedere con una realtà virtuale, quella cioè che il paziente porta nella seduta, e che difficilmente corrisponde o può essere ridotta ad una realtà “oggettiva”.

Mi piace molto il paragone tra il cyberspace (luogo nel quale vengono ospitati siti internet, per dirne una) e la mente. Entrambi, infatti, sono luoghi-non luoghi: sono realtà che pur avendo una base fisica e materiale (l’hardware per il cyberspace e il cervello per la mente), risultano in realtà smaterializzati.

Non hanno poi confini, o per meglio dire: la loro esistenza supera i confini materiali. E’ un luogo-metafora che continua ad essere definito comunque da coordinate quali lo spazio e il tempo, ma in realtà non può essere ridotto a nessuna delle due. Allo stesso modo la seduta analitica è scandita dalle variabili di spazio e di tempo, ma non può essere ridotta ad una chiacchierata in una stanza. Stati d’animo, fantasie, angosce, sentimenti si scambiano all’interno della seduta, si intrecciano e possono dare vita a qualcosa di nuovo, ad un germoglio che impiegherà chissà quanto tempo a sbocciare (i risultati di un’analisi o di una terapia, la risoluzione di un sintomo etc.).

Un ulteriore punto di contatto e paragone tra la mente e il cyberspace è la possibilità di utilizzare in entrambi giochi di  proiezioni e di poter mettere alla prova aspetti di sé che altrimenti potrebbero non vedere mai la luce nella realtà “concreta” che, a differenza di quella virtuale, è legata alle due variabili spazio tempo. E’ possibile, infatti, fantasticare e sognare ad occhi aperti di essere come non siamo o ciò che non saremo mai; nel mondo virtuale questa fantasia può assumere la forma di un avatar, di un gioco di ruolo, di un gioco di finzione.

E’ quindi anche concreto e reale il rischio per determinati soggetti (forse in particolar modo gli adolescenti, o i più giovani) di perdersi all’interno di questa voragine virtuale, in cui i confini – lo ripetiamo – non sono poi così netti né definiti e dove quasi risulta un imperativo e non una scelta esserci. Risulta anche difficile, forse, difendersi da un bombardamento sensoriale continuo, da un non poter mai scollegarsi, che può spingere la persona ad essere letteralmente consumata dallo strumento e dal mezzo e non essere più un consumatore o un fruitore del mezzo.

E’ facile perdere il senso della misura e il senso dei confini. Come fanno notare Ardovino e Ferraris (2012): “E’ tutto lì dentro, il mondo è in mano a noi. Quello che però non ti viene detto è che anche tu sei in mano al mondo”.

Ed è altrettanto semplice considerare il computer o lo spazio virtuale come un’estensione della propria mente, uno spazio che riflette gusti, atteggiamenti e modi di essere. Se ci riferiamo a Jeammet (1980) e alla considerazione che l’adolescente sviluppa il proprio Sé anche grazie allo spazio psichico allargato (il mondo della scuola, dei pari, della famiglia), capiamo come il web e le nuove tecnologie possano rappresentare un banco di prova altrettanto importante.

Per i giovani, soprattutto, il web sembra rappresentare una fonte infinita di stimoli, che li raggiungono senza interruzione, rischiando così di creare dei “bulimici sensoriali” che non sono in grado di scollegarsi, pena la perdita della propria identità.

La socialità sembra essersi spostata sulle nuove tecnologie: un po’ forse questo può rappresentare, come gli autori del libro sottolineano, una difesa fobica dal contatto reale, ma anche – semplicemente – un cambiamento nella modalità di fruire le relazioni.

Gli autori sottolineano anche come la dimensione del web metta in risalto soprattutto la dimensione gruppale, del network, della platea e del pubblico, nel quale alcuni soggetti, forse più fragili di altri, potrebbero perdere i propri confini identitari. Questo sembra essere il contraltare della perdita dei così detti garanti meta psichici e meta sociali (Kaes, 2010), le grandi istituzioni (partiti, chiesa, famiglia) che hanno costituito i binari sui quali si sono fondate le identità delle generazioni precedenti.

In mancanza quindi di una socialità articolata, il web potrebbe rappresentare un sostituto nel quale è più semplice mascherare e annullare e non sentire il dolore psichico. Poterlo sopportare e gestire rappresenta, secondo gli autori, l’ingresso nella vita adulta.

Al di là delle possibili ricadute psicopatologiche che la Rete (come qualunque altro mezzo, mi verrebbe da dire) nasconde, a mio avviso il valore di questo testo completo e ben argomentato è il fatto di aver avvicinato la psicoanalisi al mondo del web 2.0, spiegando – forse con un linguaggio un po’ troppo artificioso e tecnico, che potrebbe risultare ostico e noioso ai non addetti ai lavori – come in realtà la fantasia, l’inconscio, e il mondo immaginato e sognato nella stanza d’analisi abbiano molti più punti in comune con il cyberspace di quanto potessimo mai immaginare.

 

ARGOMENTI CORRELATI:

PSICOANALISI RECENSIONIPSICOLOGIA DEI NEW MEDIA PSICOLOGIA & TECNOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Amici di diverse culture accrescono il nostro benessere psicologico!

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Avere amici di diverse culture, appartenenti a diversi gruppi etnici è di beneficio, oltre che salutare secondo il British Journal of Developmental Psychology.

In uno studio da poco pubblicato su questa rivista gli studiosi hanno voluto indagare l’effetto di amicizie multiculturali sulla percezione di discriminazione etnica (perceived ethnic discrimination – PED)  e sul benessere in individui biculturali anglo-asiatici.

Nella ricerca sono stati coinvolti e sottoposti a interviste semi-strutturate e questionari circa 200 ragazzini anglo-asiatici dell’età di 11 anni.

Dai risultati è emerso che la qualità dei legami amicali- e non la quantità- con ragazzi di altre etnie sarebbe correlata positivamente con un maggior benessere psicologico e maggiori livelli di resilienza; invece proprio la quantità delle amicizie cross-culturali sarebbe un fattore moderatore degli effetti negativi del PED sul benessere psicologico e sulla resilienza.

Quindi, qui ne abbiamo la prova scientifica, l’amicizia cross-culturale può svolgere da fattore protettivo in relazione al benessere psicologico dei ragazzi biculturali. E perché no, ma ancora da dimostrare, anche dei ragazzi monoculturali.

ARGOMENTI CORRELATI:

RAPPORTI INTERPERSONALI PSICOLOGIA CROSSCULTURALE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Giovani VS Adulti: come l’età influenza il giudizio sui comportamenti antisociali – Psicologia

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

Uno studio dell’Università di Cambridge da poco pubblicato sulla rivista Crime Prevention and Community Safety, ha messo in luce come l’età sia una discriminante riguardo a quali comportamenti vengono percepiti come antisociali o “inappropriati” e quali no.
Omicidio, aggressione, furto e taccheggio erano tra i pochissimi comportamenti che sia il campione dei giovani (185 adolescenti) che quello degli adulti (200 ) identificava come antisociale.
Per il resto, sono emerse forti differenze…

More than 80% of adults thought swearing in a public place was ASB compared with less than 43% of young people, and more than 60% of adults listed cycling or skateboarding on the street compared with less than 8% of young people.

40% of adults saw young people hanging around as ASB compared with 9% of teenagers.

Lead researcher Dr Susie Hulley, from Cambridge’s Institute of Criminology, compared views of teenagers at a secondary school with those of adult residents in the same part of Greater London, and believes that perceptions of risk may influence adults’ views of young people.

 

Generation blame: how age affects our views of anti-social behaviour | University of CambridgeConsigliato dalla Redazione

Research reveals disconnect between what adults and young people interpret as anti-social behaviour (ASB), as 40% of adults see young people gathering in public as ASB. Study is the first to directly compare teenage perceptions of ASB with those of adults. (…)

 

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ABSTRACT DEL PAPER ORIGINALE: What is anti-social behaviour? An empirical study of the impact of age on interpretations


Articoli di State of Mind su Disturbo Antisociale di Personalità
Psicopatia e disturbo antisociale di personalità: un’analisi clinica e cinematografica dei disturbi
Discriminare tra la psicopatia e il disturbo antisociale di personalità tramite il supporto di parallelismi cinematografici
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Un recente studio ha indagato le differenze nei livelli di alessitimia, empatia e teoria della mente tra pazienti con disturbo antisociale e controlli
Jeffrey Dahmer: l’omicidio come dipendenza comportamentale
L’ipotesi della dipendenza comportamentale nell’analisi del caso Jeffrey Dahmer
Lankford e Hayes nel loro studio del 2022 hanno raccolto informazioni per esplorare l’ipotesi di dipendenza comportamentale come spiegazione del caso Dahmer
Disturbo antisociale di personalita caratteristiche e trattamento - VIDEO
Il paziente con disturbo di personalità antisociale – Video dal Webinar tenuto da Psicoterapia Cognitiva e Ricerca di Mestre
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Disturbo Narcisistico di Personalità: Il caso Schepp - Psicocronaca
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Disturbo Antisociale di Personalita
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Il libro è la testimonianza di M. E: Thomas, una donna con diagnosi di disturbo antisociale di personalità che tende a manipolare gli altri per i suoi scopi
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Un programma di prevenzione, in una fase precoce dello sviluppo attuato da parte dei genitori, potrebbe essere più efficace di un provvedimento punitivo
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Orientamento politico e il senso di disgusto: una singolare correlazione

 

 

Lo Psicologo e Ricercatore David Pizarro racconta come esista una correlazione tra la sensibilità a stimoli “disgustosi” (come ad esempio fotografie di feci o l’esposizione a odori spiacevoli) e posizioni di conservatorismo morale e politico.

VIDEO E TESTI RIPRODOTTI SU LICENZA CREATIVE COMMONS 3.0 – TED.COM – AUTORE: DAVID PIZARRO

ARTICOLI CONSIGLIATI:

Dimmi se ti disgusta e ti dirò chi voti – Il giudizio morale: una Questione di Stomaco.

TRASCRIZIONE DEL TESTO

Traduzione di Sabrina Palumbo · Revisione di Anna Cristiana Minoli

Nel diciassettesimo secolo, una donna di nome Giulia Tofana gestiva una profumeria che aveva molto successo. La gestì per più di cinquant’anni. Ma chiuse all’improvviso quando fu giustiziata — (Risate) — per aver assassinato 600 uomini. Sapete, il profumo non era così buono. In effetti, era completamente inodore, insapore e incolore, ma come veleno, non c’erano soldi meglio spesi, perciò le donne si affollavano da lei per uccidere i loro mariti.

0:40 Pare che gli avvelenatori fossero un gruppo stimato e temuto, perché avvelenare un essere umano è una cosa davvero difficile. La ragione è che abbiamo una specie di rilevatore di veleno incorporato. Si può vedere addirittura già nei neonati. Se volete provare, potete prendere un paio di gocce di qualche sostanza amara o aspra, e vedrete questa faccia, la lingua fuoriesce, il naso si arriccia, come se provassero a liberarsi di ciò che hanno in bocca. La reazione aumenta negli adulti e diventa una specie di reazione totale di disgusto, non più soltanto nel caso in cui stiamo per essere avvelenati, ma ogni volta che c’è un pericolo di contaminazione fisica per una qualunque causa. Ma il viso rimane incredibilmente simile. Si è sviluppata di più, tuttavia, dal solo tenerci lontano da agenti contaminanti fisici e c’è un crescente numero di prove che suggeriscono che, in effetti, questo sentimento di disgusto influenza anche le nostre convinzioni morali e persino le nostre profonde intuizioni politiche.

1:40 Perché? Possiamo comprendere il processo conoscendo un po’ meglio le emozioni in generale. Le emozioni umane di base, quel tipo di emozioni che condividiamo con tutti gli altri esseri umani, esistono perché ci spingono a fare cose buone e ci tengono lontani dal commettere cattive azioni. Perciò in generale, sono buone per la nostra sopravvivenza. Prendiamo il sentimento della paura, ad esempio. Ci tiene lontani dal compiere azioni molto, molto rischiose. Questa foto è stata scattata appena prima che morisse — (Risate) — in realtà è — No, uno dei motivi per cui questa foto è interessante è che la maggior parte delle persone non farebbero questa cosa, o se la facessero, non vivrebbero per raccontarlo, perché la paura si sarebbe manifestata da molto tempo di fronte a un predatore. Così come la paura ci offre vantaggi protettivi, il disgusto fa la stessa cosa, tranne per il fatto che il disgusto non ci tiene alla larga da cose che potrebbero divorarci, o dalle altezze, ma dalle cose che potrebbero avvelenarci, o farci venire la nausea e farci stare male. Dunque una delle caratteristiche del disgusto che lo rendono un’emozione così interessante è che è davvero facilissimo da suscitare, in effetti lo è ancor più che probabilmente qualunque altra emozione di base, e vi dimostrerò con un paio di immagini che forse posso farvi provare disgusto. Giratevi. Vi dirò io quando voltarvi di nuovo. (Risate)

2:56 La vedete ogni giorno, giusto? Dai, su. (Risate)

3:01 (Pubblico: Bleah.)

3:02 Okay, giratevi, se non avete guardato.

3:05 Queste immagini probabilmente hanno fatto sentire molti di voi tra il pubblico molto, molto disgustati, ma se non avete guardato, vi posso raccontare di altre cose che sono state mostrate in tutto il mondo per far provare disgusto, cose tipo feci, urina, sangue, carne putrefatta. Queste sono cose dalle quali ha senso stare alla larga, perché potrebbero davvero contaminarci. In effetti, anche solo avere un aspetto malato o compiere strani atti sessuali, anche queste cose ci provocano molto disgusto.

3:33 Darwin è stato probabilmente uno dei primi scienziati ad esaminare in modo sistematico le emozioni umane, e ha sottolineato la natura universale e la forza della reazione di disgusto. Questo è un aneddoto tratto dai suoi viaggi in Sud America.

3:46 “Nella Terra del Fuoco un nativo ha toccato con il dito della carne secca fredda mentre mangiavo … e ha mostrato chiaramente disgusto rispetto alla sua morbidezza, mentre io provavo assoluto disgusto al veder toccare il mio cibo da un selvaggio nudo — (Risate) — benché le sue mani non sembrassero sporche.” In seguito scrisse, “Va bene, alcuni dei miei migliori amici sono selvaggi nudi.” (Risate)

4:04 Beh, pare che non solo gli scienziati britannici dei tempi andati siano così schizzinosi. Di recente ho avuto l’occasione di parlare con Richard Dawkins per un documentario, e sono stato capace di disgustarlo un bel po’ di volte. Ecco la mia preferita.

4:15 Richard Dawkins: “Ci siamo evoluti attorno al corteggiamento e al sesso, siamo legati a emozioni profondamente radicate e a reazioni di cui è difficile sbarazzarsi in una notte.”

4:25 La mia parte preferita di questo video è che il Professor Dawkins aveva davvero conati di vomito. Ѐ balzato indietro, ed ha avuto dei conati, e abbiamo dovuto rifarlo tre volte, e tutte e tre le volte ha avuto dei conati. (Risate) E stava davvero per vomitare. Pensavo che potesse vomitarmi addosso, a dire il vero.

4:42 Tuttavia, una delle caratteristiche del disgusto, non è soltanto la sua universalità e la sua forza, ma il modo in cui lavora attraverso delle associazioni. Perciò quando qualcosa di disgustoso viene a contatto con una cosa pulita, quella cosa pulita diventa disgustosa, non il contrario. Questa è una strategia molto utile se volete convincere qualcuno che un oggetto o un individuo o un intero gruppo sociale sia disgustoso e debba essere evitato. La filosofa Martha Nussbaum lo indica in questa citazione: “Così attraverso la storia, alcune proprietà del disgusto — la repulsione, il cattivo odore, l’essere appiccicoso, la decomposizione, la sporcizia — sono state associate ripetutamente e in maniera monotona a… ebrei, donne, omosessuali, intoccabili, persone appartenenti alle classi basse — tutti immaginati macchiati dalla sporcizia del corpo.” Lasciate che vi faccia degli esempi di come, alcuni esempi efficaci di come questo sia stato sfruttato nella storia. Questo è tratto da un libro nazista per bambini pubblicato nel 1938: “Ma guardateli! Quelle barbe infestate dai parassiti, le sudicie orecchie a sventola, quei vestiti larghi e macchiati… gli ebrei spesso hanno uno sgradevole odore dolciastro. Se avete un buon naso, potete identificare gli ebrei dall’odore.” Un esempio più moderno ci viene da chi cerca di convincerci che l’omosessualità sia immorale. Questo è tratto da un sito web anti-gay, dove hanno detto che i gay sono “meritevoli di morte per le loro vili … pratiche sessuali.” Sono come “cani che mangiano il loro stesso vomito e scrofe che si rotolano nelle loro stesse feci.” Queste sono proprietà del disgusto che cercano di essere collegate direttamente al gruppo sociale che non dovrebbe piacervi.

6:07 Quando stavamo studiando per la prima volta il ruolo del disgusto nel giudizio morale, una delle cose che ci interessò fu se questo tipo di richiami funzioni di più con individui che provano più facilmente disgusto. Dunque mentre il disgusto, insieme alle altre emozioni elementari, sono fenomeni universali, è anche vero che alcune persone sono più facili da disgustare di altre. Probabilmente l’avete notato nel pubblico quando ho mostrato quelle immagini disgustose. L’abbiamo misurato tramite una scala elaborata da altri psicologi che chiedeva semplicemente alle persone in varie situazioni quanto fosse probabile che fossero disgustate. Perciò ecco un paio di esempi. “Anche se fossi affamato, non berrei una ciotola della mia zuppa preferita se fosse stata mescolata con uno schiacciamosche usato ma lavato con cura.” “Ѐ d’accordo o no?” (Risate) “Mentre camminate in un tunnel sotto dei binari, sentite odore di urine. Sarebbe molto disgustato o non disgustato per niente?” Se fate abbastanza domande come queste, potrete avere un punteggio generale della sensibilità al disgusto. Pare che questo punteggio sia davvero significativo. Quando portate la gente in laboratorio e chiedete loro se vorrebbero partecipare ad attività sicure ma disgustose come mangiare cioccolato cotto a forma di cacca di cane, o come in questo caso mangiare larve del cibo che sono perfettamente sane ma abbastanza schifose, il punteggio sulla scala predice davvero se prendereste parte a tali attività o meno.

7:26 La prima volta che abbiamo iniziato a raccogliere i dati e ad associarli a comportamenti politici o morali, abbiamo trovato uno schema generale — con gli psicologi Yoel Inbar e Paul Bloom — che in effetti, in tre ricerche abbiamo sempre scoperto che le persone che sostenevano che erano facilmente disgustate sostenevano anche che erano più conservatrici politicamente. Un’altra maniera di dire questo è che le persone che sono molto liberali sono anche difficili da disgustare. (Risate)

7:54 In uno studio successivo più recente, abbiamo potuto osservare un campione ancora maggiore, più grande. In questo caso, hanno risposto quasi 30.000 statunitensi, e abbiamo trovato lo stesso schema. Come vedete, le persone che hanno risposto di essere molto conservatrici nell’orientamento politico sono anche più propense a sostenere che sono disgustate facilmente. Questi dati ci permettono anche di controllare statisticamente un numero di cose che sapevamo legate all’orientamento politico e alla sensibilità al disgusto. Abbiamo potuto controllare per genere, età, reddito, istruzione, anche variabili elementari della personalità, e il risultato è stato lo stesso.

8:30 Quando abbiamo osservato non solo l’orientamento politico dichiarato, ma il comportamento al voto, abbiamo potuto osservare geograficamente la nazione. Abbiamo scoperto che in Stati in cui le persone hanno affermato di avere livelli alti di sensibilità al disgusto, McCain ha avuto più voti. Dunque non solo è stato previsto l’orientamento politico dichiarato, ma il reale comportamento politico. Con questo campione abbiamo anche potuto osservare il mondo, abbiamo fatto le stesse domande in 121 diversi Paesi, come potete vedere, questi sono 121 paesi ridotti a 10 diverse regioni geografiche. Non importa dove guardiate, quello che rileva è la misura della relazione tra la sensibilità al disgusto e l’orientamento politico, e non importa dove abbiamo guardato, abbiamo osservato un effetto molto simile. Anche altri laboratori ci hanno dato un’occhiata usando diverse misure per la sensibilità al disgusto, perciò piuttosto che chiedere alla gente quanto facilmente sia disgustata, hanno collegato dei parametri fisiologici, in questo caso la conduttanza della pelle. E hanno dimostrato che le persone che dichiarano di essere più conservatrici politicamente sono anche più stimolate fisiologicamente quando vengono loro mostrate immagini disgustose come quelle che vi ho fatto vedere io. Curiosamente, hanno anche mostrato in una scoperta che continuavamo a ritrovare anche in studi precedenti che una delle influenze più forti è che gli individui che sono molto sensibili al disgusto non solo è più probabile che affermino di essere politicamente conservatori, ma si oppongono anche di più ai matrimoni gay e all’omosessualità e a un bel po’ di questioni riguardanti la sfera sessuale. Dunque in questo studio, la stimolazione fisiologica ha previsto l’atteggiamento verso i matrimoni gay.

10:03 Ma anche con tutti questi dati che collegano la sensibilità al disgusto all’orientamento politico, una delle domande che rimane senza risposta è: cos’è che causa il collegamento? Ѐ davvero il disgusto che determina le convinzioni politiche e morali? Dobbiamo ricorrere a metodi sperimentali per rispondere, e perciò quello che possiamo fare è portare veramente le persone in laboratorio, disgustarle e confrontarle con un gruppo di controllo che non è stato disgustato. Pare che negli ultimi cinque anni l’abbiano fatto vari ricercatori, e in generale i risultati sono stati tutti gli stessi, ossia, quando le persone si sentono disgustate, il loro atteggiamento si sposta verso la destra dello spettro politico, e anche verso un maggior conservatorismo politico. Dunque se usate un cattivo odore, un cattivo sapore, tratti da spezzoni di film, suggestioni post-ipnotiche di disgusto, immagini come quelle che vi ho mostrato, anche solo per ricordare alle persone che il disagio è predominante e dovrebbero diffidarne e lavarsi, mantenere tutto pulito, hanno tutti effetti simili sul giudizio.

10:58 Lasciate che vi faccia un esempio tratto da uno studio che abbiamo condotto di recente. Abbiamo chiesto ai partecipanti di darci semplicemente la loro opinioni su vari gruppi sociali, e abbiamo invaso la stanza con cattivi odori o meno. Quando la stanza puzzava, abbiamo visto che gli individui hanno riportato atteggiamenti più negativi verso gli omosessuali. Il disgusto non ha influenzato gli atteggiamenti nei confronti degli altri gruppi sociali di cui abbiamo chiesto, incluso gli afroamericani e gli anziani. Riguardava tutto gli atteggiamenti verso gli omosessuali. In un’altra serie di studi abbiamo semplicemente ricordato alle persone — era al tempo dell’influenza suina — abbiamo ricordato alle persone che per prevenire la difusione dell’influenza avrebbero dovuto lavarsi le mani. Ad alcuni partecipanti abbiamo fatto rispondere a questionari accanto ad un cartello che ricordava di lavarsi le mani. E abbiamo scoperto che il solo fatto di svolgere il questionario vicino al promemoria di lavarsi le mani ha fatto sì che gli individui affermassero di essere più conservatori politicamente. E quando abbiamo posto delle domande sull’adeguatezza o la scorrettezza di alcuni atti, abbiamo anche scoperto che il solo fatto che fosse loro ricordato di doversi lavare le mani li rendeva moralmente più conservatori. In particolare, quando abbiamo posto domande su pratiche sessuali tabù ma piuttosto innocue, il solo fatto che fosse ricordato loro di lavarsi le mani li faceva pensare che fossero moralmente sbagliate. Lasciate che vi faccia un esempio di cosa intendo per pratiche sessuali innocue ma tabù. Gli abbiamo fornito uno scenario. Uno diceva che un uomo custodisce la casa della nonna. Quando la nonna è via, fa sesso con la sua ragazza sul letto della nonna. In un altro, abbiamo detto che a una donna piace masturbarsi con il suo orsacchiotto preferito vicino a lei. (Risate) Le persone li trovano moralmente ripugnanti se è stato ricordato loro di lavarsi le mani. (Risate) (Risate)

12:50 Okay. Il fatto che le emozioni influenzino il nostro giudizio non dovrebbe sorprenderci. Cioè, è parte di come funzionano le emozioni. Non solo ci spingono a comportarci in un certo modo, ma cambiano il nostro modo di pensare. Nel caso del disgusto, quello che sorprende un po’ di più è l’ampiezza di questa influenza. Ha perfettamente senso, e per noi è una emozione positiva, che il disgusto mi faccia cambiare il modo in cui percepisco il mondo fisico quando c’è una possibile contaminazione. Ha meno senso che un’emozione costruita per evitare che ingerisca del veleno dovrebbe prevedere chi voterò alle prossime elezioni presidenziali.

13:24 La domanda se il disgusto dovrebbe influenzare i nostri giudizi morali e politici deve essere certamente complessa, e potrebbe dipendere esattamente da quali tipi di giudizi stiamo parlando e, in quanto scienziato, a volte dobbiamo concludere che il metodo scientifico è mal equipaggiato per rispondere a questo tipo di domande. Ma una cosa di cui sono piuttosto sicuro è quantomeno che quello che possiamo fare con queste ricerche è indicare quali domande dovremmo porre prima di tutto. Grazie. (Applausi)

 

ARGOMENTI CORRELATI: PSICOLOGIA POLITICA

Verso la neuroestetica: le premesse filosofico-psicologiche

Barbara Missana.

 

 

Verso la neuroestetica- le premesse filosofico-psicologiche. -Immagine:© shotsstudio - Fotolia.com

Neuroestetica –  “I segnali sensoriali non sono adatti a ottenere percezioni immediate e certe; cosicché per vedere gli oggetti si rende necessario che sia l’intelletto a formulare una serie di congetture”.

DEFINIZIONE DI NEUROESTETICA SU PSICOPEDIA

Sin dal passato l’uomo ha tentato di afferrare l’intima essenza di un’esperienza estetica ricercando una definizione il più possibile oggettiva di “opera d’arte” e del concetto di bellezza. Platone esaltava la bellezza e condannava l’arte in quanto copia del mondo sensibile, a sua volta copia dell’Iperuranio e quindi allontanatrice della verità. Il corpo è sede di piacere e bellezza ineffabili superabili salendo le scale di Eros e giungendo per gradini all’amore vero per la giustizia, le leggi, la conoscenza, all’intellezione della bellezza in se stessa.

Tuttavia l’affermazione di un gradino percettivo e corporeo nella conoscenza e formazione del fatto artistico sfiorava già l’intuizione di una mediazione fisica e biologica dell’intelletto umano. Kant ed Hegel invece avevano esaltato il compito dell’arte dando nella loro dottrina una maggiore importanza a quanto compie il cervello: per entrambi l’arte è capace di rappresentare la realtà meglio delle sensazioni effimere e particolari soggette a continui mutamenti. Hegel nella sua Estetica del 1842 diceva che l’idea derivante dal concetto ha la peculiarità di elevarsi al di sopra di ogni dato sensibile. In un’ottica neurologica tale superiorità deriva dalle innumerevoli registrazioni visive immagazzinate nel cervello: si tratta di immagini mnemoniche selezionate in modo da poter estrarre le caratteristiche essenziali degli oggetti, le loro costanti.

In un quadro, allo stesso modo, l’artista può mostrare ciò che è visibile, ma anche ciò che al momento sussiste solo nella sua memoria per accumulazione; cosi l’arte rappresenta la cosa in sé, traendola dall’interno della mente.

Arthur Schopenhauer nel Mondo come volontà e rappresentazione del 1819 esaltava il primato dell’immaginazione sulla conoscenza promuovendo la sua idea di un mondo visivo complesso ed elaborato dal cervello: a suo dire la pittura deve sforzarsi di ottenere la conoscenza di un oggetto non come cosa particolare ma come forma permanente di quella sfera di affetti.

Tuttavia, queste importanti figure del pensiero occidentale non hanno mai avuto l’opportunità di vedere direttamente cosa avviene nel nostro cervello, per esempio, quando siamo di fronte ad un’opera d’arte. Oggi invece lo sviluppo delle tecniche di brain imaging, come la PET, la SPECT e la risonanza magnetica funzionale, hanno infatti consentito la rilevazione in vivo della funzioni cerebrali permettendo l’identificazione in parte anche di quei circuiti coinvolti a livello neurale nell’apprezzamento estetico.

E tali circuiti sono costanti e invarianti da uomo a uomo: quando il cervello giudica un’opera bella, si attivano le stesse aree ben identificabili in base all’apporto maggiorato di ossigeno e glucosio e di conseguenza i parametri per la valutazione di un’opera sono da ricercare nell’attività del nostro cervello piuttosto che nelle parole e definizioni.

In realtà già i primi testi sulla ricerca estetica erano ricchi di spunti a riguardo questa compenetrazione tra arte-cervello: Jean Baptiste Dubos nel 1719 nelle sue Riflessioni critiche sulla poesia e sulla pittura affermava che “le caratteristiche della nostra mente e le nostre inclinazioni dipendono molto dalla qualità del nostro sangue”, a loro volta dipendenti dal contesto ambientale in cui l’uomo vive; oppure ancora Burke parlava dell’organo vista nella sua Inchiesta sul Bello e il Sublime del 1759 sostenendo che tra le cause del bello e del sublime vi fosse la successione di elementi tra loro uguali per taglio, colore e dimensione come in una teoria di colonne uniformi, che inviano impulsi all’occhio.

Sicuramente le prime ricerche che hanno costituito una base solida ai fini dell’approccio neuroestetico sono state quelle della psicologia sperimentale. Primo fra tutti a porre una traccia per lo studio dell’artista e della sua personalità è stato Freud e con la sua psicoanalisi dell’arte.

La psicoanalisi infatti, seppur nata come trattamento per i disturbi della personalità tramite la pratica medico-psichiatrica e neurologica, ha avviato lo studio della psicoanalisi dell’arte – avendo perfino ripercussioni su correnti quali il surrealismo.

Freud con il suo saggio su Leonardo da Vinci del 1910 si è occupato di arte utilizzando gli stessi strumenti della sua pratica clinica e quindi lapsus, sogni, libere associazioni, per indagare in profondità la personalità artistica di Leonardo. Freud è stato il primo che dalla patologia è passato ad occuparsi di una psicologia della creatività.

Secondo la sua tesi, senza che io entri troppo nello specifico, il dipinto di Sant’Anna, la Vergine e il Bambino avrebbe a che fare con la storia infantile dell’autore, il quale ebbe appunto due madri e una nonna: l’interpretazione è che gli eventi della vita che segnano un uomo traspaiono nelle sue creazioni. Freud per primo punta l’attenzione non sulle caratteristiche formali, ma sul contenuto psicologico dell’opera, convinto che l’arte serva a liberare l’uomo dalle tensioni del suo inconscio.

Gli psicologi della Gestalt invece hanno puntato la loro analisi non sul contenuto ma sulla percezione indagando le qualità formali delle immagini.

Fondata negli anni Venti da un gruppo di scienziati tedeschi capeggiato da Rudolph Arnheim, questa “psicologia della forma” si è occupata proprio della composizione analitica dell’attività di percezione visiva convinti del ruolo fondamentale della intuizione. Chiarificante è il famoso esperimento dello scimpanzé Sultan che per prendere una banana posta troppo in alto utilizzò una serie di bastoncini molto corti che gli erano stati mostrati congiungendoli per recuperarla in seguito alla sua improvvisa intuizione. Le percezioni visive per i gestaltisti derivano da stimoli organizzati secondo delle leggi derivate da un resoconto soggettivo sul modo in cui una certa disposizione di punti crea una forma.

Queste leggi dell’organizzazione visiva della Gestalt – tra cui cito la “chiusura”, quella tendenza a vedere un’unica forma definita  in un insieme di punti disposti su di una scia circolare, “il destino comune”, la tendenza a ricondurre ad un’unica forma più elementi e punti moventi verso una stessa direzione e “la contiguità di particolari ravvicinati” e la preferenza delle curve, delle forme cioè senza spigoli – individuano le caratteristiche comuni di un oggetto e sono pertanto possedute da tutti gli uomini che appuntano rivelano avere una identica struttura visiva.

I gestaltisti hanno quindi capito che un mosaico di stimoli esterni stimolano la retina creando però una percezione visiva che è netta, definita e questo fatto è frutto di una serie di regole; c’è quindi dietro all’organo occhio una ferrea organizzazione comune che trasforma immagini dai bordi indefiniti in oggetti concreti e chiaramente definibili.

Questa tendenza del nostro sistema visivo- percettivo a raggruppare singoli e frammentari stimoli luminosi in unità fu studiata prendendo in considerazione degli elementi puntiformi e conducendo una serie di esperimenti che consentirono la codifica di tali regole biologiche – tra l’altro tali intuizioni sono state fruttuose per la creazione dei moderni calcolatori artificiali.

Il processo di “raggruppamento dinamico”, per usare un termine coniato da Richard Gregory, è evidente se prendo una matrice puntiforme.

Sam Tasty’s art
Sam Tasty’s art

Gli occhi percepiscono i punti ma sin da subito tendono a collegarli in linee e colonne a organizzarli, a ordinarli secondo un nesso logico, a raggrupparli aumentandone la complessità dell’immagine e della forma.

E questo perché nel processo percettivo interviene la logica e cioè il cervello che continuamente organizza i dati registrati dall’occhio. Questo è quanto accade anche con i disegni dei cartoni animati un insieme spezzettato di linee e colori che col loro movimento porta la memoria cerebrale all’identificazione di precise forme.

Questa capacità del nostro sistema occhio-cervello ha di certo una sua funzione: è chiaro che laddove i fasci di luce che si imprimono sulla retina sono inadeguati a ottenere una netta e precisa visione, interviene la elaborazione della corteccia che tramuta quelle illusioni in forme concrete. Per la Gestalt quindi le percezioni sono delle azioni attive che avvengono a livello cerebrale, contrastando con quanti credevano nella loro passività, nel loro ruolo di registrazione realistica.

La percezione è quindi un processo attivo e intellettivo, basato su dati sensibili non completamente soddisfacenti la visione: secondo la tesi di Herman von Helmholtz, fisiologo e psicologo, “i segnali sensoriali non sono adatti a ottenere percezioni immediate e certe; cosicché per vedere gli oggetti si rende necessario che sia l’intelletto a formulare una serie di congetture”.

È proprio questo il trampolino di lancio per gli studi della neuroestetica, la scoperta del presupposto che è l’intelligenza attiva nel cervello a costruire il mondo.

In Arte e Percezione Visiva del 1954 Rudolph Arnheim distingue poi una “buona forma” intendendo per essa quella più regolare, ordinata, equilibrata, armonica che il campo percettivo preferisce interpretare.

Il nostro occhio, seppur percepisca una miriade di informazioni, sceglie sempre quella più semplice figuralmente economizzando gli sforzi interpretativi.

Secondo poi la teoria della espressione, la percezione non è appresa e né è soggetta a modificazioni, bensì sono gli oggetti che tramite le loro caratteristiche formali trasmettono un corrispettivo psicologico.

L’esempio migliore è quello del salice piangente che ricorda una persona triste perché la sua forma impone un tipo di configurazione simile a quella della tristezza nell’uomo.

L’espressione è cioè basata sull’isomorfismo: la percezione di una forma trova corrispondenze nei processi del cervello; c’è una relazione tra forma e attivazione di aree cerebrali.

I

l primo filone di ricerca estetica che ha però utilizzato come strumenti quelli tipici delle discipline scientifiche è stato l’estetica sperimentale, sempre nell’ottica di stabilire quali forme esteriori fossero le più accreditate dal cervello dell’uomo.

Secondo Gustav Fechner, il padre di questo tipo di studi, le proprietà fisiche dell’oggetto ossia le proporzioni, la forma etc. determinano la reazione di preferenza nell’uomo. L’esempio più noto è quello sui rettangoli in cui la preferenza della maggior parte degli uomini ricadde su quello avente una proporzione aurea e quindi sul “più proporzionato”.

Secondo lo psicologo Daniel Berlyne ci sono alcune proprietà in particolare che stimolano la preferenza e tra queste di sicuro vi sono la novità, la incertezza, la ambiguità e la complessità che aumentano l’attivazione del cervello eccitandolo, risvegliandolo, motivandolo, da cui scaturirebbe il piacere estetico.

Ogni immagine che giunge alla retina è infatti ambigua e incerta, ossia potrebbe rappresentare e significare una miriade di possibili forme, eppure noi siamo in grado di vedere in essa un sola configurazione che potrebbe anche non corrispondere alla realtà. Questo è certamente uno dei grandi misteri ancora della mente umana e infatti le cosiddette “figure ambigue” oggi mettono proprio in luce il dinamismo della percezione svelando come anche essa non sia mai netta.

Il più noto è certamente l’esperimento del cubo del cristallografo Albert Necker del 1832 che non consente di capire né il verso, né la direzione, né la proiezione della figura lasciando alla libera interpretazione capire quale delle due facce sia quella frontale e quale quella posteriore.

Il nostro cervello nel momento in cui osserva tale figura è indeciso e prende in considerazione tutte le possibili interpretazioni che sono tuttavia equamente possibili.

 

Cubo di Necker e le sue due possibili interpretazioni
Cubo di Necker e le sue due possibili interpretazioni

Questo ci dimostra che le percezioni sono mutevoli anche quando gli stimoli visivi non lo sono e che il processo percettivo è un processo creativo e intelligente.

Un intero movimento artistico, quello della Op Art, si è sviluppato servendosi di questa ambiguità di fondo: i suoi esponenti hanno creato immagini complesse che proprio sfruttano le incertezze nella decodificazione cerebrale della visione di modo che le loro figure appaiano dinamiche; basti osservare Fall di Bridget Riley, un dipinto del 1963 oggi conservato nella Tate Gallery di Londra, influenzato dai dipinti monocromatici e lineari di Victor Vasarely, che proprio sfida la mente del fruitore illudendolo.

 

Fall, Bridget Riley 1963, Tare Gallery, London
Fall, Bridget Riley 1963, Tate Gallery, London

Questo sta a significare che la percezione è un’ipotesi, un passaggio da generale al particolare senza che noi abbiamo alcuna conferma sensoriale: la nostra supposizione si basa essenzialmente sulla intuizione, sulla nostra esperienza visiva passata che deriva dalle impressioni che il nostro cervello ha per istinto memorizzato.

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Buonsenso – Tribolazioni Nr. 23 – Rubrica di Psicologia

 

 

Dolore cronico e senso di giustizia: quale relazione?

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I ricercatori hanno cercato di approfondire la relazione tra le cognizioni relative al senso di giustizia e il dolore cronico, analizzando diversi studi pubblicati negli ultimi anni.

In un articolo da poco pubblicato su Current Directions in Psychological Science alcuni autori hanno studiato il senso di giustizia in alcune condizioni particolari, come ad esempio di dolore cronico, in cui l’esperire cronicamente e lungamente dolore fisico può facilmente portare a percepire un senso di ingiustizia – a tratti fluttuante lungo tutto il percorso della condizione di sofferenza (da suo inizio, al fallimento dei trattamenti e cosi via).

Cosi i pazienti possono percepire ingiustizia in relazione a ciò che hanno perduto – magari in termini di mobilità o di capacità lavorative, cosi come possono vedere ingiustizia anche a livello sociale per la stigmatizzazione delle loro condizione.

I ricercatori hanno dunque cercato di approfondire la relazione tra le cognizioni relative al senso di giustizia e il dolore cronico, analizzando diversi studi pubblicati negli ultimi anni.

Diverse ricerche dimostrano che la percezione di ingiustizia sarebbe correlata a peggiori condizioni in coloro che soffrono di dolore cronico, cioè a dire che coloro che vivono un maggiore senso di ingiustizia sono coloro che riportano livelli più gravi di sofferenza e dolore, con anche una maggiore presenza di sintomi depressivi e di minore accettazione del dolore; viceversa dunque una credenza riguardante un mondo tutto sommato equo e giusto sarebbe associata a migliori esiti nei pazienti con dolore cronico.

Il punto chiave e limite chiaramente identificabile in questa meta-analisi è che non si è stabilita una relazione causale tra credenze di ingiustizia e gravità della sintomotalogia di dolore cronico. Gli autori – riconoscono solo formalmente questo limite, mentre proseguono il loro contributo sorvolandolo e sottolineando  che specifiche credenze di ingiustizia subita non favoriscano il processo di accettazione del dolore cronico bloccando strategie di regolazione emotiva efficace in tali situazioni di difficoltà (punto peraltro su cui non possiamo non essere d’accordo).

Innegabile, quale che sia la relazione causale delle due variabili, che strategie di re-appraisal e interventi volti a promuovere l’accettazione sono altamente consigliabili nel momento in cui il dolore cronico si interseca anche con una sofferenza di natura emotiva.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

La Rational Emotive Behavior Therapy in Italia – REBT – Paper

 

Albert Ellis Institute - Day 1 - Cronache da New York. - State of MindIl Journal of Rational-Emotive & Cognitive-Behavior Therapy ha pubblicato oggi in versione online un articolo che racconta un pezzo importante della diffusione della terapia cognitiva in Italia. Si tratta appunto della rational emotive behavior therapy (REBT) la forma di psicoterapia cognitiva ideata da Albert Ellis.

Storicamente essa fu la prima forma di terapia cognitiva, precedente al modello di Beck. In Italia essa approdò alla fine degli anni ’70 per merito Cesare De Silvestri e Carola Schimmelpfennig, e poi si diffuse grazie agli sforzi successivi di Franco Baldini e Mario Di Pietro. Non basta. La REBT in Italia si integrò con i modelli costruttivisti di Gianni Liotti e Vittorio Guidano e poi di Sandra Sassaroli e Roberto Lorenzini. Per questo oggi i terapeuti cognitivi italiani usano massicciamente il modello ABC per esplorare gli stati interni del paziente, anche quando essi non sono di formazione ortodossa REBT. All’estero, dove invece l’influenza di Ellis è oscurata dal modello di Beck, l’uso dell’ABC è meno diffuso. Questo, e molto altro, è raccontato nell’articolo pubblicato dal Journal of Rational-Emotive & Cognitive-Behavior Therapy.

 

ABSTRACT

REBT_Milano_Studi Cognitivi
NOVITA’: Corso Base REBT a Milano con i docenti dell’ Albert Ellis Institute di New York

This paper describes and critically discusses how rational emotive behavior therapy (REBT) spread among Italian cognitive psychotherapists. In the 1980s Cesare De Silvestri, with the help of Carola Schimmelpfennig, Franco Baldini, and Mario Di Pietro, brought REBT to Italy and eagerly disseminated it. In addition, De Silvestri cooperated with the two leading figures in the Italian clinical cognitive movement, Vittorio Guidano and Gianni Liotti. Guidano and Liotti applied the ABC framework to their constructivist version of cognitive therapy. Given that the large majority of Italian cognitive therapists adopted Guidano and Liotti’s approach, they all started applying the ABC framework and are still applying it today. However, Italian therapists adapted the ABC framework to their constructivist training. For example, Guidano and Liotti interpreted the ABC framework as aimed at promoting cognitive and emotional awareness in clients, while they considered the ‘disputing’ phase to be not compatible with the constructivist principles they held. They also encouraged the application of John Bowlby’s ideas to REBT and the use of life experience report techniques in the ABC. Sandra Sassaroli and Roberto Lorenzini applied George Kelly’s “laddering” technique to the ABC framework, a technique more focused on dilemmatic structures than on REBTian dysfunctional thought. Caselli investigated REBT’s influence on Adrian Wells’ metacognitive version of the ABC. Finally, Ruggiero and Ammendola have made a strong call for “back to Ellis”. This implies that any innovation should involve a more stringent and faithful application of REBT principles.

(Per un reprint dell’articolo scrivere all’autore)

 

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BIBLIOGRAFIA:

Black Dog – Ho un cane che si chiama Depressione

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

L’ Organizzazione Mondiale della Sanità ha promosso questo video per la prevenzione della depressione,  per aiutare chi soffre di depressione o chi sta scivolando in questa patologia, a riconoscerne i sintomi e chiedere aiuto.

Il video è molto chiaro, tutti i sintomi sono spiegati approfonditamente attraverso la metafora del Black Dog.

All’ inizio è la depressione che si insinua e “comanda” ma nel momento in cui si chiede aiuto le cose cambiano, allora si tratterà di “educare” quel cane, imparare a conviverci e piano piano allontanarlo. Il passaggio fondamentale è proprio “puoi smetterla di aver paura di quel cane”, e si può attraverso la psicoterapia, una terapia farmacologica e attraverso uno stile di vita sano… ovvero prendendosi cura di sè!

 

When others seem to be enjoying life, the black dog stands in the way for a lot of people

 

At its worst, depression can be a frightening, debilitating condition. Millions of people around the world live with depression. Many of these individuals and their families are afraid to talk about their struggles, and don’t know where to turn for help. However, depression is largely preventable and treatable. Recognizing depression and seeking help is the first and most critical towards recovery.

In collaboration with WHO to mark World Mental Health Day, writer and illustrator Matthew Johnstone tells the story of overcoming the “black dog of depression”.

What Is Depression? Let This Animation With A Dog Shed Light On It.

Consigliato dalla Redazione

Things that matter. Pass \’em on. (…)

Tratto da: Upworthy

 

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Leadership negli Sport di Squadra #15: Coaching Behavior Assessment System (CBAS)

 

Leadership negli Sport di Squadra #15:

Coaching Behavior Assessment System (CBAS)

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

 

Leadership sport squadra#15 . - Immagine: © Coloures-Pic - Fotolia.comIl CBAS (Coaching Behavior Assessment System) è uno strumento costruito da Smith e Smoll e colleghi [Smith e Smoll, 1990; Smith, Smoll e Curtis, 1978; Smith e al, 1983] allo scopo di raccogliere dati da cui dedurre come poter formare gli allenatori ad entrare in relazione in modo efficace con i giovani praticanti di sport.

Questa necessità è emersa dalla constatazione della frequente assenza di consapevolezza, da parte dei leader istituzionali, delle conseguenze del proprio comportamento sul rapporto con ogni atleta. Il CBAS è fondamentalmente costituito da un sistema di decodifica del comportamento dell’allenatore e della reazione, a questo, dell’atleta. Questa decodifica dei comportamenti del leader, che vengono analizzati sia durante le partite che durante l’allenamento, viene raggiunta attraverso la semplice osservazione e la registrazione con carta e penna.

Il metodo, quindi, è stato sviluppato a partire dall’osservazione diretta e continua delle azioni di allenatori appartenenti a diversi sport di squadra (quali calcio, baseball e pallacanestro) e suddivisi in 12 categorie comportamentali raccolte, a loro volta, in due sottoclassi: i comportamenti reattivi e i comportamenti spontanei. I primi rappresentano risposte comportamentali a particolari azioni dell’atleta, i secondi sono comportamenti naturali e non dipendenti dal modo di agire dei giocatori [Smith, Smoll e Hunt, 1976]. I comportamenti reattivi vengono divisi, nella classificazione del CBAS in tre diverse categorie che sono: 1) reazioni a prestazioni corrette e positive degli atleti (che possono generare un premio o riconoscimento oppure semplice indifferenza), 2) reazioni ad errori degli atleti (che possono portare a un incoraggiamento dell’allenatore, a una correzione, a una punizione oppure a semplice indifferenza), 3) reazioni comportamentali a distrazione o al non rispetto delle regole (solitamente mirate a ripristinare l’ordine e l’attenzione dei giocatori).

I comportamenti spontanei, invece, sono stati divisi in due categorie: correlati al gioco e non correlati al gioco. I primi solitamente rappresentano incoraggiamenti, istruzioni, insegnamenti e suggerimenti correlati al gioco in generale o alla prestazione specifica. Quelli non correlati al gioco riguardano comunicazioni generali sulla vita sociale, privata o pubblica, dell’atleta.

Come per l’LSS anche la nascita dell’CBAS è stata seguita da una serie di ricerche finalizzate a verificarne la validità. In particolare Smith, Smoll e Curtis [1978] hanno utilizzato questo sistema per studiare il comportamento di 51 allenatori della lega giovanile di baseball. I risultati ottenuti hanno dimostrato che la maggior parte degli oltre 1000 comportamenti registrati siano riconducibili a: rinforzi positivi (17,1%), istruzioni tecniche generali (27,3%) e incoraggiamento generale (21,4%), mentre i comportamenti punitivi come la semplice sanzione, sola (1,8%) o associata ad un istruzione tecnica (1,0%), appaiono poco frequenti.

Gli allenatori preferiti, dedotti dal comportamento e da ricerche sulle opinioni degli atleti, erano quelli che tendevano ad avere più comportamenti di incoraggiamento che punitivi. Un altro risultato importante ottenuto attraverso questa ricerca riguarda la preoccupante tendenza all’inconsapevolezza delle conseguenze dei propri comportamenti da parte degli allenatori stessi, che spesso non erano in grado di rendersi conto di come le proprie reazioni potevano influenzare il loro rapporto con gli alteti.

La considerazione positiva, negli atleti, del proprio ruolo, dell’allenatore e dello sport praticato in generale, aumentava all’aumentare del supporto e dell’incoraggiamento fornito dal leader e sembrerebbe in contrasto con altri risultati, precedentemente esposti, secondo i quali lo sport professionistico porterebbe i giocatori a ritenere più idoneo un allenatore più centrato sul compito che sulle relazioni, per ottenere successo.

Probabilmente questa trasformazione è una conseguenza sia delle priorità sia della mentalità diversa che guida il giovane sportivo e l’atleta professionista. 

Come già descritto, questi risultati sono stati la base da cui gli autori sono partiti per costruire un programma di formazione, centrato sugli allenatori del settore giovanile, che avesse come obiettivo quello di formare persone in grado di mantenere alto il livello di soddisfazione personale e di considerazione dello sport nei giovani atleti, insegnando ai leader a conoscere il proprio comportamento, le sue conseguenze, e gli atteggiamenti che possono favorire il raggiungimento di questo obiettivo.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

Psiconcologia – Uno studio sulle malattie del Trofoblasto in gravidanza

 

 

La prospettiva psiconcologica nelle malattie del trofoblasto di origine gestazionale

 

Psiconcologia - Uno studio sulle malattie del Trofoblasto in gravidanza. - Immagine: © CLIPAREA.com - Fotolia.com Il presente progetto di ricerca nasce con l’obiettivo di indagare e approfondire i vissuti psicologici relativi alla diagnosi e al trattamento di tale patologia e, in generale, al periodo di malattia sia in fase attiva sia in fase di remissione.

Le malattie del trofoblasto di origine gestazionale rappresentano una complicanza rara della gravidanza e sono causate dalla degenerazione del tessuto placentare.

Sebbene da un punto di vista medico tale patologia sia stata ampiamente studiata, le ricerche che in passato si sono interessate allo studio degli aspetti psicologico-clinici della malattia trofoblastica gestazionale sono state relativamente poche. La motivazione di questo dato è da ricercarsi nella rarità della patologia e nell’alto tasso di curabilità.

Il presente progetto di ricerca nasce con l’obiettivo di indagare e approfondire i vissuti psicologici relativi alla diagnosi e al trattamento di tale patologia e, in generale, al periodo di malattia sia in fase attiva sia in fase di remissione.

Il campione dello studio si compone di 18 pazienti affette da malattia del trofoblasto di origine gestazionale. Le pazienti sono state reclutate all’interno dell’Ospedale San Raffaele di Milano, presso gli ambulatori e il reparto di Ostetricia e Ginecologia.

Le variabili su cui si è scelto di focalizzare l’attenzione sono state: stili di attribuzione, aspetti psicologico-clinici relativi al problema di fertilità e presenza di sintomatologia ansiosa e depressiva. Lo studio si è avvalso di una batteria testale composta da quattro questionari in forma autosomministrata: Multidimensional Health Locus Of Control (MHCL) – Forma C, Fertility Problem Inventory (FPI), Beck Depression Inventory (BDI) – Short Form e State and Trait Anxiety Inventory (STAI) – Forma Y.

I risultati ai test hanno mostrato una discreta coincidenza con i dati normativi a disposizione. I punteggi relativi alle scale MHLC, FPI e STAI e le correlazioni effettuate non hanno fornito informazioni rilevanti.

In accordo con quanto riportato in letteratura, i risultati al Beck Depression Inventory hanno evidenziato un dato interessante: il 39% dei soggetti del campione (n = 7) ha ottenuto un punteggio clinicamente significativo (cut-off ≥ 7).

In considerazione di tali risultati è opportuno porre attenzione ai limiti dello studio: ridotta numerosità campionaria, assenza di un gruppo di controllo e utilizzo di strumenti non adeguati alle caratteristiche di questa particolare popolazione di pazienti.

I dati provenienti da studi precedenti e le considerazioni tratte dal presente progetto di ricerca sembrano invitare a un approccio multidisciplinare alla cura, che consideri aspetti emotivi, fisici e sociali.

ARGOMENTI CORRELATI:

GRAVIDANZA & GENITORIALITA’ – ONCOLOGIA

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Abstract:

GTD represents a rare complication of pregnancy, due to placentar tissue degeneration.

Whilst the medical outcomes of the disease have been well explored, limited data have evaluated the impact on psychological symptomatology, sexual function, and quality of life. Reasons comprise disease rarity and its favourable prognosis.

The principal aim of this work is to explore the psychological consequences of these pathologies related to diagnosis and treatment.

18 adult subjects affected by GTD were enrolled in this study. All patients were selected in Obstetrics and Gynecology Clinic of San Raffaele Scientific Institute. Variables analysed were: attribution styles, psychological impact of cancer-related infertility (with particular interest on reproductive desire, couple relationship and sexual function) and mood symptoms (anxiety or depression). Every subject was administered with a set of test composed by four questionnaires: Multidimensional Health Locus Of Control (MHCL) – Form C, Fertility Problem Inventory (FPI), Beck Depression Inventory (BDI) – Short Form e State and Trait Anxiety Inventory (STAI) – Form Y.

Results obtained from the study were comparable to the normative data. MHLC, FPI e STAI scores and correlations did not show any considerable results.

Beck Depression Inventory results, according to data in scientific literature, interestingly showed that 39% of subjects (n=7) obtained clinically significant score (cut-off ≥ 7).

Regarding these results it’s important to consider the limits of the present study: low sample dimension, absence of a control group, administration of inappropriate tests for this particular group of patients.

Gathering data from similar previous studies and the conclusions from the present research, we may suggest that women with molar pregnancy may benefit from a multidisciplinary approach to management that addresses their psychological and social needs in addition to medical aspects.

Keywords: malattie del trofoblasto, psiconcologia, locus of control, impatto psicologico, fertilità

 

Introduzione:

Una malattia come il cancro costituisce un evento gravissimo all’interno della vita di una persona: mette a rischio la sicurezza fisica, l’integrità psichica, l’adattamento sociale e, quindi, il senso di identità complessivo e la visione del futuro. La persona deve improvvisamente confrontarsi con la propria vulnerabilità, si sente alienata dalla propria vita e teme di perderne il controllo; teme, inoltre, le mutilazioni derivanti dagli interventi chirurgici, ha paura di essere abbandonata e di dover abbandonare gli altri.

La malattia oncologica ginecologica determina ricadute intrapsichiche e comportamentali in parte comuni a tutte le altre neoplasie e in parte peculiari, in quanto legate alla natura e alla funzione degli organi coinvolti.

Gli organi sessuali sono ciò che struttura l’identità di genere, nella misura in cui costituiscono i caratteri sessuali primari e determinano quelli secondari. Rappresentano ciò che la donna vede di sé e ciò che gli altri vedono della donna e hanno in sé le potenzialità per creare relazione: si pensi alla relazione uomo-donna e alla funzione sessuale implicata, realmente o potenzialmente, nel coinvolgimento con un partner, oppure alla funzione riproduttiva, premessa fondamentale alla creazione dei legami umani più importanti e profondi, quali quelli tra genitore e figlio. Il cancro ginecologico può, quindi, essere particolarmente destabilizzante dal punto di vista emotivo, proprio per il rapporto che unisce gli organi potenzialmente coinvolti dalla malattia alla sfera della femminilità, della sessualità e della maternità.

Per questi motivi, la patologia oncologica ginecologica determina un grande sconvolgimento, che va oltre la sfera della sessualità intuitivamente coinvolta e suscita domande e paure molto specifiche.

Le malattie del trofoblasto di origine gestazionale sono patologie ginecologiche rare e per lo più sconosciute, che possiedono tuttavia caratteriste tali da renderle un interessante oggetto di studio psicoloncologico. Diversamente da qualunque altro tumore ginecologico infatti, queste patologie si manifestano subdolamente, nascoste dietro l’illusione di una lieta notizia, la gravidanza. Solo in un secondo momento la donna viene a conoscenza della vera natura della propria condizione. La paziente e il suo partner devono rapidamente passare dalla speranza e dalla gioia legate all’attesa di un figlio, alla consapevolezza di una patologia pericolosa e potenzialmente mortale.

Le malattie del trofoblasto di origine gestazionale rappresentano una complicanza rara della gravidanza e sono causate dalla degenerazione del tessuto placentare (Bombelli & Castiglioni, 2001). Comprendono una varietà di patologie per le quali, ad eccezione della mola idatiforme, definibile come tumore benigno, è stato coniato il nome di tumori maligni del trofoblasto di origine gestazionale (mola invasiva, coriocarcinoma e tumore trofoblastico del sito placentare) (Lurain, 2010).  Si tratta, quindi, di neoplasie dotate di aggressività biologica differente, che includono sia forme ad andamento benigno (la mola vescicolare, parziale e completa) che tumori altamente invasivi (il coriocarcinoma) (Bombelli & Castiglioni, 2001).  Differentemente da ciò che accade per una normale gravidanza, nella gravidanza molare il trofoblasto placentare (il tessuto embrionale commissionato alla crescita e allo sviluppo dell’embrioblasto, cioè al gruppo di cellule che si svilupperanno in feto) prolifera e degenera in patologia molare (Kajii & Ohama, 1977; Yamashita et al., 1981; Fisher & Newlands, 1998). Il prodotto del concepimento possiede un corredo genetico anomalo e non si svilupperà mai in feto, pur manifestandosi a tutti gli effetti come una gravidanza (sospensione del ciclo mestruale, test di gravidanza positivo per l’innalzamento dei valori di β-hCG nel sangue, iperemesi…) (Szulman & Surti, 1978; Lawler, Fisher, & Dent, 1991; Lage & al., 1992; Genest et al., 2002).

Nel 90% dei casi, tra la 6° e la 16° settimana di gravidanza, le pazienti presentano un quadro di minaccia d’aborto o di aborto in atto, che spesso si accompagna alla diagnosi di malattia, effettuata attraverso esame ecografico (Fine et al, 1989) e dosaggio dei valori di β-hCG nel sangue (Lurain, 2010). I valori di β-hCG, responsabili in un primo momento della positività al test di gravidanza, diventano ora un marker sensibile e specifico di malattia, fondamentale nel permettere la valutazione dell’andamento della stessa e la sua risposta ai trattamenti (Szulman & Surti, 1978; Lawler, Fisher & Dent, 1991; Lage & al., 1992; Genest et al., 2002) (Figura 1).

Le malattie del trofoblasto di origine gestazionale sono state storicamente associate ad un alto tasso di mortalità. Il coriocarcinoma si avvicinava addirittura al 100% di esiti infausti in presenza di metastasi (Lurain, 2010). Negli anni ‘70, con lo sviluppo di tecniche di diagnosi e di evacuazione uterina precoce, il tasso di mortalità di queste patologie ha subito un crollo: lo sviluppo e il miglioramento di protocolli di trattamento e di follow-up permette, allo stato attuale, di assicurare la guarigione, con mantenimento della fertilità da parte della paziente, nel 98% dei casi (Szulman & Surti, 1978; Lawler, Fisher & Dent, 1991; Lage & al., 1992; Genest et al., 2002). Una volta confermata la diagnosi infatti, lo svuotamento della cavità uterina è spesso sufficiente a determinare la guarigione (Bombelli & Castiglioni, 2001). Solo in una percentuale ristretta la gravidanza molare degenera in tumore maligno, rendendo necessario il trattamento chemioterapico (Kashimura et al., 1986; Kim et al., 1986; Limpongsanurak, 2001) (Tabella 1).

A partire da questi elementi è possibile estrapolare una serie di informazioni che ci permettono, da una parte di avvicinare queste patologie al mondo della psicologia della salute e della psiconcologia, dall’altra di capire come mai, ad oggi, questa “unione” sia stata così scarsamente studiata. La perdita di un bambino, la diagnosi di malattia, il trattamento chirurgico e chemioterapico e, infine, la necessità di rimandare future gravidanze rappresentano le maggiori motivazioni allo studio degli aspetti psicologico-clinici legati alla malattia trofoblastica gestazionale. Tuttavia, è possibile ritenere che la rarità della patologia, l’alto tasso di curabilità e la possibilità di conservare la fertilità della paziente, siano i responsabili del ridotto interesse che tali aspetti hanno suscitato in letteratura. Nonostante questo, i dati, seppur esigui, a nostra disposizione, ci permettono di affermare che le malattie del trofoblasto di origine gestazionale possono risultare, nel breve e lungo periodo, in problematiche di tipo psicologico, sociale e sessuale, sia per le pazienti stesse che per i loro partner (Wenzel et al., 1992; Ferreira et al., 2009; Wenzel et al., 2002; Petersen et al., 2005; Flam et al., 1993; Stafford & Judd, 2011; Wenzel et al., 2004).

Questo studio nasce dunque nell’ambito di tali riflessioni ed è volto alla possibilità di dare un contributo nell’individuazione delle aree maggiormente colpite dalla patologia trofoblastica gestazionale, comprendere le dinamiche di adattamento/disadattamento alla patologia, nonchè individuare i fattori maggiormente implicati in tale processo.

 

Metodo:

Nel tentativo di raggiungere un buon equilibrio tra tradizione e innovazione si è scelto di porre attenzione sia alle aree finora poco studiate sia a quelle evidenziate in letteratura come maggiormente problematiche. I costrutti studiati sono: gli stili di attribuzione (Locus of Control), che si riferiscono alle modalità con cui un individuo ritiene che gli eventi della propria vita siano conseguenza dei propri comportamenti o siano indipendenti dalla propria volontà, gli aspetti psicologico-clinici relativi al problema di fertilità, con particolare riferimento al desiderio riproduttivo, alla relazione di coppia e alla componente sessuale, e la presenza/assenza di sintomatologia ansiosa e depressiva clinicamente significativa.

Il Comitato Etico ha approvato contenuti e modalità di realizzazione di questo progetto e ne ha autorizzato la realizzazione.

Il campione risulta costituito da 18 pazienti affette da malattia del trofoblasto di origine gestazionale. Le pazienti sono state reclutate all’interno dell’Ospedale San Raffaele di Milano, presso gli ambulatori e il reparto di Ostetricia e Ginecologia. L’esiguità del campione rispecchia il basso tasso di incidenza della malattia.

In considerazione di alcuni aspetti etici e metodologici si è scelto di seguire alcune linee guida nella composizione del campione, che prevedono che tutte le pazienti abbiano almeno 18 anni, abbiano firmato il consenso informato, abbiano conseguito la licenza elementare e siano di madrelingua italiana.

Ogni paziente è stata invitata a partecipare allo studio da parte del personale autorizzato (la ginecologa di riferimento) nel corso delle normali visite di routine condotte in ambulatorio (visite di follow-up). Sono stati descritti gli obiettivi scientifici della ricerca e gli strumenti di valutazione, lasciando piena libertà decisionale in merito alla propria adesione e alla possibilità di risposta agli item dei questionari.

Lo studio si è avvalso di una batteria testale composta di quattro questionari in forma autosomministrata: Multidimensional Health Locus Of Control – Forma C (MHCL) (Wallston, Wallston, & DeVellis, 1978), Fertility Problem Inventory (FPI) (Newton, Sherrard, & Glavac, 1999), Beck Depression Inventory – Short Form (BDI) (Davison & Neale, 1998) e State and Trait Anxiety Inventory (STAI) (Spielberger, Gorsuch, & Lushene, 1970).

Si tratta di una batteria testale composta da strumenti standardizzati, per i quali esiste un campione normativo di riferimento nella popolazione italiana.

I questionari scelti sono stati integrati da una scheda per la rilevazione di informazioni socio-anagrafiche: età, città di residenza, stato civile, professione, presenza/assenza di figli precedenti e/o successivi alla malattia. Si è scelto inoltre di rilevare alcune informazioni di natura medica, attinenti in particolare alla patologia trofoblastica gestazionale: il tempo trascorso dalla diagnosi, il tipo di diagnosi, il tipo di trattamento (chemioterapia e/o isterectomia) e il tempo trascorso dall’ultimo trattamento.

 

Risultati:

I risultati descritti derivano dall’elaborazione statistica dei dati ottenuti a partire dalle risposte ai questionari pervenuti e in seguito inseriti in un foglio di calcolo. Si è proceduto in seguito all’analisi statistica mediante l’utilizzo del programma SPSS versione .17.

Le medie dei punteggi ottenuti ai questionari autosomministrati sono state messe a confronto con i dati normativi relativi ad ogni test. Da tale confronto è stato possibile evidenziare che esiste una buona coincidenza tra dato del campione e dato normativo. Questo può far assumere come realistica l’ipotesi che il campione sia rappresentativo della popolazione presa in esame rispetto alle risposte date alla batteria testale.

Per quanto riguarda i risultati ottenuti al Multidimensional Health Locus of Control (MHLC) la scala Doctors (media = 12,94) risulta essere quella alla quale sono stati ottenuti i punteggi più alti rispetto al possibile range di risposta, mentre la scala Internal presenta i punteggi più bassi (media = 16,33). Sembra dunque che il campione adotti uno stile di attribuzione prevalentemente esterno, affidandosi alla figura del medico e alle sue prescrizioni.

I punteggi ottenuti dalle pazienti alle sottoscale del Fertility Problem Inventory non risultano essere di rilevanza clinica. Nonostante questo, i punteggi più alti sono stati ottenuti alle scale “need for parenthood” e “rejection of childfree lifestyle” maggiormente rappresentativi del vissuto di infertilità: ovvero rifiuto di pensare ad un futuro senza figli e bisogno di genitorialità come obiettivo primario della propria vita. La media dei punteggi ottenuti alla scala Global Stress (il cui range di rilevanza clinica è compreso tra 27 e 30) è risultata essere di 15,62. Questo dato non stupisce, ed è una conferma del fatto che l’alta percentuale di mantenimento della fertilità (98%) sia fondamentale nel preservare il vissuto psicologico delle pazienti. Dal momento che non esiste uno strumento che rilevi i vissuti psicologici di infertilità in questa particolare popolazione di pazienti non si è potuto procedere all’indagine di costrutti più specificatamente legati a questa patologia e possiamo solo ipotizzare che item più specifici avrebbero ottenuto risultati differenti.

I risultati ottenuti dal campione allo State and Trait Anxiety Inventory sembrano avere una buona coincidenza con il dato normativo. Le pazienti non hanno mostrato livelli d’ansia di rilevanza clinica ma presentano una leggera elevazione alla scala ansia di stato (media = 41,89) rispetto al punteggio ottenuto alla scala ansia di tratto (media = 39,22). Tale differenza, seppure non statisticamente significativa, potrebbe essere spiegata dalla situazione testale e dagli esami medici di follow-up, eseguiti subito prima della somministrazione dei questionari. L’ansia di stato infatti si riferisce ad una sensazione soggettiva di tensione e preoccupazione relativa ad una situazione stimolo, quindi transitoria e di intensità variabile. Una conferma di questa ipotesi sembra provenire da un recente studio condotto da Lok et al. (2011), secondo il quale il 51% delle pazienti dichiara di sentirsi teso e ansioso prima di sottoporsi al controllo settimanale.

Il dato più interessante emerge al Beck Depression Inventory: quasi la metà (39%) del campione (n = 7) ha ottenuto un punteggio definibile come clinicamente significativo, in accordo con quanto riportato in precedenti ricerche (Ferreira et al., 2009; Petersen et al., 2005; Flam et al., 1993).

Sulla base dei dati presenti in letteratura è stato deciso di eseguire una serie di correlazioni (coefficiente di Correlazione di Pearson) tra i punteggi ottenuti alle diverse sottoscale dei questionari. I dati emersi, seppure influenzati dai limiti dello studio, sembrerebbero suggerire che non vi sia correlazione tra stili attribuzionali e vissuti di ansia e depressione, nonché tra stili attribuzionali e vissuto di stress globale relativo alla malattia (sottoscala del FPI). Anche l’ipotesi di un legame tra la percezione dello stress relativo alla malattia e i livelli di ansia e depressione non sembra essere avvalorata. Si è scelto inoltre di indagare il ruolo della variabile “tipo di trattamento” (chemioterapia si vs chemioterapia no) nell’influenzare i punteggi ottenuti al Beck Depression Inventory. L’ipotesi di partenza riguardava la possibilità che il sottoporsi ad un trattamento di tipo chemioterapico, e non alla sola evacuazione uterina, avesse un impatto negativo sul presentarsi di manifestazioni depressive. Delle 7 pazienti i cui risultati suggerivano una sintomatologia depressiva clinicamente significativa, 4 sono rientrate nel gruppo “chemioterapia si” e 3 nel gruppo “chemioterapia no”. Nonostante questo dato non assuma grande rilievo, è importante notare che le quattro pazienti facenti parte del gruppo “chemioterapia si” sono le stesse che hanno ottenuto i punteggi più alti in assoluto al BDI. Tale dato sembra essere in accordo con gli studi presenti in letteratura: Berkowitz et al. (1980) hanno trovato che le donne sottoposte a chemioterapia sono più propense a sentirsi tristi, Ngan e Tang (1986) riferiscono che il 22% di donne curate per coriocarcinoma presenta sentimenti di sconforto e insicurezza, contro il 10% di donne curate per mola idatiforme (quindi non con chemioterapia). Infine, anche Wenzel et al. (1992) riportano che il 74% delle pazienti sottoposte a chemioterapia ritiene il periodo di cura estremamente stressante.

 

Discussione:

Alla luce dei risultati ottenuti è necessario porre attenzione a quelli che sono i limiti dello studio: la ridotta numerosità campionaria dovuta, principalmente, alla rarità della patologia e alla ristrettezza dei tempi per la racconta dati, e la mancanza di un gruppo di controllo, per il quale non è stato possibile ottenere l’approvazione del comitato etico. L’impossibilità di costruire un test ad hoc per la misurazione degli aspetti psicologico-clinici relativi a questa patologia ed in particolare al problema di fertilità è stato sicuramente un limite. Le pazienti si trovano infatti ad affrontare una situazione a carattere temporaneo per la quale la somministrazione del Fertility Problem Inventory non risulta adeguata; sarebbe stato interessante dunque creare un test ad hoc, al  fine di indagare costrutti più specifici, quali ad esempio: il timore che una futura gravidanza risulti in un’ulteriore gravidanza molare, il timore che la malattia possa ripresentarsi e i vissuti di sconforto e preoccupazione relativi alla sensazione di non poter concepire figli sani. Studi precedenti hanno scelto di includere nello studio una valutazione dei partner; sicuramente è possibile ipotizzare che, non solo il partner subisca in prima persona le conseguenze della malattia, ma abbia anche un ruolo fondamentale nel mediare l’impatto della malattia sulla compagna e nella gestione della patologia stessa. Purtroppo, diversi problemi hanno ostacolato questa possibilità: l’assenza frequente dei partner alle visite di controllo, la mancata disponibilità da parte di questi a partecipare allo studio e la mancanza di tempo e di risorse necessarie a questo scopo.

Ulteriori spiegazioni ai risultati ottenuti potrebbero essere ricercate nell’ottimo lavoro di informazione e comunicazione svolto dai medici ginecologi specialisti di tali patologie. Possiamo ipotizzare infatti che l’interiorizzazione da parte delle pazienti dei dati relativi all’alto tasso di sopravvivenza e di mantenimento della fertilità abbia svolto un ruolo fondamentale nel mediare l’impatto della patologia sul vissuto psicologico delle donne affette. Da questo punto di vista, uno sguardo potrebbe essere dato anche alla relativa tollerabilità delle cure.

Rivolgendo lo sguardo al futuro, possiamo augurarci che il crescente interesse psicologico nei confronti di queste patologie inviti a un approccio multidisciplinare alla cura, che consideri aspetti emotivi, fisici e sociali e che garantisca un miglioramento della qualità di vita delle donne affette. Sembra inoltre auspicabile una generale educazione al disturbo e alle sue conseguenze, in particolare quelle legate alla fertilità. È importante che le pazienti con disturbo in fase metastatica possano ricevere un supporto psicologico, che le accompagni sia nella fase del trattamento sia durante i controlli di follow-up, e che le aiuti a sviluppare abilità di coping necessarie ad affrontare i cambiamenti portati dalla patologia e dal suo trattamento.

BOCCALARI GRAFICO 1

 BOCCALARI GRAFICO 2

 

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AUTORE: 

Francesca Adriana Boccalari, Psicologa. Università Vita-Salute San Raffaele, Milano

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L’effetto paradossale dei complimenti sui Bambini con bassa Autostima

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Complimenti estremi ed esagerati possono creare un eccesso di tensione e di pressione – in termini alte aspettative da soddisfare- proprio in coloro che hanno scarsa autostima.

Come e quanto lodare i propri figli, tema  rilevante e delicato su cui pone l’attenzione una nuova ricerca che a  breve verrà pubblicata su Psychological Science. Punto primo sembra che i genitori e altri adulti significativi ricoprano di lodi proprio quei bimbi che sono più sensibili alle lodi e ai complimenti, e cioè a coloro che hanno una bassa autostima.

Mentre i bambini con elevati livelli di autostima sembrano beneficiare di queste lodi in un’ottica di aumento di self-confidence, i piccoli con bassa autostima nel momento in cui si ritrovano investiti di lodi battono in ritirata come se volessero sfuggire da nuove sfide e alte aspettative implicitamente veicolate dai complimenti dell’adulto. Proprio come se, per un effetto paradosso, l’esagerazione delle lodi andasse a colpire criticamente chi –secondo l’agire comune – ne avrebbe più bisogno. 

Ma cosa si intende esattamente per “una mole di lodi e complimenti esagerata”? Non immaginatevi grandi sviolinate, basta poco nelle interazioni quotidiane tra adulto e bambino per rendere un complimento eccessivo. Spesso basta una sola parola, ad esempio un avverbio come “incredibilmente” oppure il fantomatico aggettivo “perfetto”.

Dunque gli studiosi hanno anzitutto identificato un dato di frequenza: gli adulti esprimevano il doppio di lodi e complimenti esagerati ai bimbi con bassi livelli di autostima rispetto ai bimbi con elevati livelli di autostima.

In un altro studio – parte della stessa ricerca- circa un centinaio di famiglie sono state reclutate e videoregistrate nelle loro case, durante una sessione sperimentale in cui ai genitori è stato chiesto di presenziare durante alcuni esercizi di matematica effettuati dai loro figli, e in seguito di fornire un feedback rispetto all’esecuzione dell’esercizio.

I risultati hanno dimostrato che circa il 25% delle lodi erano di fatto classificabili nella categoria di eccessive, nuovamente i genitori erano portati a rivolgere tali lodi eccessivi in misura maggiore nei confronti dei bambini con bassi livelli di autostima.

Una possibile credenza naif dei genitori– magari neppure tanto consapevole- che supporta tale fenomeno è che “i bambini che credono meno in sé stessi necessitano di extra complimenti per sentirsi meglio”.

Il punto è che tali dosi extra di lodi e complimenti possono essere addirittura controproducenti. In un altro esperimento ai bambini veniva richiesto di creare una copia di un famoso dipinto, a seguito del quale gli sperimentatori consegnavano dei feedback sotto forma di un complimento esagerato oppure un feedback positivo adeguato. Dopo questi step ai bambini veniva nuovamente richiesto di applicarsi nella copia di un dipinto lasciando però loro liberi di scegliere tra un range di figure esplicitamente definite come più semplici o più difficili.

Dai dati è emerso che i bambini con bassa autostima erano più facilmente portati a scegliere di eseguire le figure definite come più semplici se avevano ricevuto una lode eccessiva, al contrario dei soggetti con elevata autostima che  – aseguito della lode esagerata – decidevano di riprodurre proprio i disegni più difficili. 

In conclusione complimenti estremi ed esagerati possono creare un eccesso di tensione e di pressione – in termini alte aspettative da soddisfare- proprio in coloro che hanno scarsa autostima. 

LEGGI:

BAMBINIGRAVIDANZA & GENITORIALITA’

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

CIM. La nascita del Centro di Igiene Mentale. Rubrica di Psicoterapia Pubblica – nr. 01

 

– CIM – #01

 La nascita del Centro di Igiene Mentale, CIM

In questa seconda serie di “storie di terapie” si narra di pazienti presi in carico dal Servizio Sanitario Pubblico, nel nostro specifico dal Dipartimento di Salute Mentale…

– Leggi l’introduzione –

CIM n.1. -Immagine: © Kakigori Studio - Fotolia.com

Una rapida successione di suicidi e di comportamenti sconvenienti, per una cittadina pacificata e gestita da decenni dal Partito, avevano spinto l’amministrazione ad una sanatoria. 

Un gruppo di cosiddetti operatori psichiatrici, nome generico e democratico per indicare medici, psicologi, assistenti sociali e infermieri, era stato convenzionato e poi assunto per ridare vita al fatiscente Centro di Igiene Mentale previsto dalla legge Basaglia in sostituzione dei manicomi.

LEGGI ANCHE: STORIE DI TERAPIE, RUBRICA DI PSICOTERAPIA A CURA DI ROBERTO LORENZINI

A Monticelli per significare che uno era  un po’ strano si diceva  “è del CIM” oppure “viene da Via Carducci” storica sede del suddetto ambulatorio. Trattandosi del luogo diretto erede, dopo la legge Basaglia, del manicomio, sarà opportuno fare ordine per non confondersi finendo per essere scambiati per utenti/clienti dello stesso.

Monticelli era un paesotto con ambizioni da cittadina, tanto da accogliere i passanti con cartelli stradali  con la scritta “Benvenuti nella città di Monticelli, comune d’Europa denuclearizzato, OGM free, ecc. ecc. ecc.”.

Se gli automobilisti avessero cercato  di leggere tutte le ulteriori specificazioni circa gli ideali di pace, giustizia e fratellanza universale riportate nel cartello, che riassumono i concetti fondamentali della dichiarazione universale dei diritti dell’uomo e del rispetto dell’ambiente, sarebbe stato  un guaio, ci sarebbero state file e tamponamenti.

Per fortuna bastava il logo pacifista della bandiera arcobaleno per capire che si stava entrando  in un oasi di pace e amore,  mantenuta incontaminata dall’amministrazione di centro sinistra che non l’aveva  mai persa dal ’48 ad oggi,  facendo impallidire persino Bologna ed il collegio elettorale del Mugello dove gli ex comunisti riuscivano a far eleggere anche un tacchino sbronzo.

La forza del Partito (con la maiuscola e senza nome) era radicata nella ex base operaia  che, nel dopoguerra, aveva lasciato il lavoro nei campi per entrare come forza lavoro e poi come socio, con contratti da cottimisti vietatissimi a livello nazionale ma tollerati nel distretto manifatturiero di Monticelli, nelle fabbriche di ceramiche che avevano riempito il mondo dei sanitari (intesi come cessi) e delle stoviglie che gli scossoni della guerra avevano rotto. Poi la lunga pace dell’occidente, quegli stramaledetti copioni dei cinesi che lavoravano sodo come noi quando eravamo poveri e le fabbriche avevano iniziato a chiudere e delocalizzare. Il tenore di vita era precipitato e, disattento alle ammonizioni dei sacerdoti che ricordavano dai pulpiti che non sono i soldi a dare la felicità, il disagio mentale era vorticosamente aumentato. 

Non tutto il male viene per nuocere.

In effetti, una rapida successione di suicidi e di comportamenti sconvenienti, per una cittadina pacificata e gestita da decenni dal Partito, avevano spinto l’amministrazione ad una sanatoria. 

Un gruppo di cosiddetti operatori psichiatrici, nome generico e democratico per indicare medici, psicologi, assistenti sociali e infermieri, era stato convenzionato e poi assunto per ridare vita al fatiscente Centro di Igiene Mentale previsto dalla legge Basaglia in sostituzione dei manicomi e mai realizzato al di sotto della linea gotica.

Persino il reperimento della sede non era stato facile: i compagni sono ben disposti verso tutti i diversi e le minoranze oppresse ma i matti sono imprevedibili, pericolosi e soprattutto brutti. Certo devono essere assistiti e tenuti bene (allevati a terra e non in batteria) ma “perché proprio vicino al nostro condominio che oltretutto ci stanno un sacco di bambini e con quello che succede…

 C’era voluto l’intervento del sindaco Paoletti, ex partigiano cui non garbava essere contraddetto, per affittare dei locali a piano terra in zona periferica, sette stanze con saracinesche alle finestre sottratte alla loro vocazione di negozi e garage e piccolo cortiletto di ghiaia dove sostavano le quattro auto dei primi ad arrivare che sarebbero stati tutto il giorno impegnati nel gioco “che me la sposti che devo uscire?”.

I condomini, contrariati dall’imposizione del sindaco,  utilizzavano esclusivamente l’entrata secondaria per non passare vicino al CIM e, per provocare incidenti di frontiera come tra le due Coree, stendevano continuamente grondanti bucati sulle auto nel cortiletto e portavano  i cani a pisciare sulle pianticelle che gli operatori avevano piantato per ingentilire l’ambiente.

Gli operatori, appunto,  sono la risorsa principale in qualsiasi struttura sanitaria ed ancora di più in psichiatria dove il rapporto umano è decisivo.

Andiamo dunque a farne la conoscenza,  frugando nelle stanze.

I nomi fuori non c’erano per una scelta ideologica collettivista che sottolinea l’importanza della squadra piuttosto che del singolo. Persino le professionalità  erano  mal definite e tutti facevano un po’ di tutto con un continuo travaso di competenze e una discreta confusione.

La stanza dinnanzi all’ingresso ospitava il più delle volte il Dr. Giuseppe Irati, aiuto primario proveniente dal servizio per i tossicodipendenti, dai quali non doveva essere facilmente distinguibile. 53 anni, capelli neri alla Little Tony che arginano con prodotti naturali, ci teneva sempre a sottolinearlo, l’avanzata tempiare del primo bianco, l’altezza non certo straordinaria (non raggiungeva il metro e ottanta) era esaltata da una magrezza inquietante che, unita all’incarnato giallognolo, lasciava il dubbio tra un disturbo alimentare grave e un cancro in stato avanzato. Occhi piccoli saettanti e neri cercavano di tenere sotto controllo un ambiente percepito come  minaccioso. 

La provenienza da una famiglia ricchissima di proprietari terrieri gli conferiva un’ aria  quasi nobile normalmente scambiata per freddezza e distacco. La squadra lo utilizzava quando c’era da mettere qualcuno in soggezione con sfoggio di cultura e superiorità. Considerato anche che era l’unico a indossare sempre un completo nero, grigio o blu con regolamentare cravatta abbinata, la sua appartenenza alla famiglia Adams era stata spesso ipotizzata.

In verità, il dottor Irati di famiglie ne aveva avute tre, anzi quattro, se si considera anche quella di origine. Sarà per questo che la sua specializzazione era, appunto, la terapia familiare, sembrava ostinarsi a volerci capire qualcosa.

Si era sposato la prima volta a vent’anni, per evitare il servizio militare di leva, conseguenza di una partenza fallimentare al primo anno di medicina. All’inganno si prestò, ben ricompensata, la cugina Argenta di cinque anni più grande. Per non dare nell’occhio andarono a sposarsi a Roma in Campidoglio il giorno dell’Immacolata. Non vissero mai insieme ma, forse proprio a motivo del giorno scelto, o per ragioni molto più prosaiche, all’approssimarsi della Pasqua, Argenta mostrava le inconfondibili stimmate della gravidanza. Il divorzio, uno dei primi in Italia, sistemò rapidamente tutto e fu poi corroborato dall’annullamento della Sacra Rota grazie ad uno zio paterno, avvocato rotale. Ciò che non fu possibile sanare fu la mente di Elena, attualmente diciottenne che, vuoi per la parentela genetica tra i genitori, vuoi per essere cresciuta nella enorme e isolata fattoria dei nonni nascosta al mondo, ha accumulato un ritardo mentale rispetto ai suoi coetanei ogni anno più evidente.

Giuseppe il suo primo matrimonio non lo considerava neppure tale: un escamotage per non fare il militare, finito male.

Quella che considerava la sua prima moglie era Nadia, collega e figlia del professor Tanca, con cui aveva peparato la tesi in psichiatria.

Donna intelligente e votata alla carriera universitaria era unita a Giuseppe soprattutto intellettualmente e  non voleva l’intralcio dei figli almeno fino a quando non avesse ottenuto l’associatura all’ Università.

Giusto un mese prima dell’ambizioso traguardo, raggiunto  giovanissima ad appena 35 anni, Giuseppe le mostra le foto di Carla: non proprio di foto si trattava, ma il profilo era nettamente visibile nell’ecografia e risultato di una relazione extra coniugale.

Come si può immaginare il secondo divorzio fu meno consensuale. Provato da questa esperienza Giuseppe riconobbe la figlia Carla di cui è tuttora teneramente innamorato ed iniziò la convivenza con sua madre,  Marta,  ma non volle nuovamente sposarsi e alla luce degli attuali movimenti possiamo dire che abbia fatto bene.

Marta era indubbiamente una bella donna ma con un tocco inestinguibile di volgarità che la rendeva da un lato inadatta e dall’altro compensante, al fianco dell’aristocratico, colto e distaccato dr. Irati.

Galeotto per loro era stato il lettino psicoanalitico: Giuseppe ci teneva a precisare che tutto era iniziato dopo la fine della terapia, ma soprattutto per timore della vendetta dell’ ex suocero che minacciava di farlo radiare dall’ordine dei medici.

Gli amici lo prendevano in giro dicendogli “si, dopo la fine della terapia e prima del paziente successivo”. A loro avviso nulla poteva giustificare quella bizzarra  accoppiata se non la cieca forza della sessualità.

Detto questo il Dr. Giuseppe Irati era un ottimo psichiatra, se non fosse stato distratto dal servizio pubblico a vantaggio dello studio privato per il continuo bisogno di soldi, anche a causa dei numerosi alimenti che doveva sborsare.

Nella stessa stanza stava anche il tavolino e, soprattutto, l’archivio di Silvia Ciari, 59 anni, assistente sociale di lungo corso. 

Con esperienze pregresse al comune di Monticelli e nell’amministrazione provinciale di Vontano e tanto volontariato con tutti i disgraziati del mondo alle spalle era accorsa all’apertura del CIM come un topino affascinato da un pifferaio magico. Sempre curata ma asettica, sembrava vestirsi per scomparire nell’anonimato quasi a significare  che lei non era importante e solo gli altri, i bisognosi, lo erano. 

Immaginatela un po’ così: suora laica, militante di Partito, intransigente con sé e gli altri a rappresentare la coscienza morale del servizio. Nubile e senza figli,   girava la voce che le sue esperienze sessuali, in gioventù,  fossero state a beneficio di utenti svantaggiati (anziani e disabili) della casa del “Buon Respiro” dove aveva svolto il tirocinio post laurea.

Per Irati era una sorta di sorella maggiore che lo rimproverava  apertamente quando si accorgeva che gli occhi neri e guizzanti del dottore si attardavano su qualche giovane tirocinante. “Ancora?” sembrava dirgli, guardandolo di traverso.

Silvia conosceva tutti in paese ed era la memoria storica e l’archivio del servizio, sembrava  impossibile farne a meno o pensare al momento della sua pensione, ma nessuno credeva che ciò  potesse  realmente accadere.

Lei avrebbe comunque continuato come volontaria, voleva morire in servizio … e fu accontentata da un diciannovenne ubriaco spidermunito, durante una visita domiciliare, un mese prima dell’ultima timbratura, ma questa è un’altra storia.

La frenata brusca nel cortiletto, con schizzare di ghiaia dappertutto, denotava l’inconfondibile arrivo di Maria, detta Gilda per la somiglianza con il famoso personaggio interpretato da Rita Haiworth nel 1945. Infermiera 43enne, Gilda era una forza della natura. Occhi e capelli nerissimi scendevano  ondulati oltre le spalle, alta quasi un metro e ottanta con i muscoli torniti che denotavano familiarità con moltissimi sport, aveva nel fondo schiena la sua attrazione irresistibile, forse per una esagerata lordosi lombare che lo faceva emergere dritto e verso l’alto sul profilo della schiena. Nessun maschio in sua presenza poteva indirizzare altrove l’attenzione. Gilda era il centro di tutti i desideri maschili d’ogni età e di tutte le invidie femminili, che si traducevano in velenose calunnie sui motivi del suo successo.

In verità Maria era anche molto brava nel suo lavoro, scelto per una complicata situazione familiare che l’aveva chiamata, molti anni prima, a farsi carico del fratello Dante, deviante a tempo pieno e paziente tra i più gravi del CIM. Proveniente da una famiglia di compagni, segretaria di sezione  con simpatie extraparlamentari vicine all’eversione, poi accantonate col passare degli anni e il crescere dei figli, a favore  del pacifismo e dell’ambientalismo.

Martino di 15 anni e Sergio di 9 avevano scelto di vivere con il padre Mirko che gestiva un maneggio sul lago. Maria e Mirko andavano d’accordo, lui  in fondo sapeva che una donna del genere era troppo per uno solo e si considerava fortunato ad averla avuta per sei anni nel suo letto. Accettava di buon grado la vita “senza orario e senza bandiera” che Maria aveva scelto, favoriva  i suoi incontri saltuari con i figli ai quali parlava della madre  con parole da innamorato e la descriveva  come un’ eroina sempre  in giro a combattere le ingiustizie , in difesa dei deboli che  fossero persone, animali o piante.

Per i figli, ma anche per molti dei suoi assistiti del CIM, Gilda era una specie di supereroe. Più ammirevole degli altri, i vari Superman,  Hulk, Spiderman ecc. perché lei non aveva alcun superpotere ma solo intelligenza, prestanza fisica ed una ferrea determinazione verso il bene. 

A meno di non considerare un superpotere la sua abbagliante bellezza di cui comunque non faceva uso: la serietà intransigente da comunista sovietica quale diceva di essere, che traspariva da ogni suo comportamento, teneva  a distanza i numerosissimi corteggiatori. Del resto non aveva alcuna intenzione di riformare una coppia stabile.

Ma lasciamo Maria, appena arrivata, ai saluti mattutini con i colleghi… che non si pensi ad un particolare interesse nei suoi confronti.

Un CIM, per garantire un intervento multidisciplinare, vede convivere al suo interno  medici, infermieri,  psicologi e assistenti sociali. Linguaggi, sensibilità e prospettive diverse di vedere la realtà, in aggiunta alle diversità individuali generano una Babele che talvolta genera ricchezza e complessità, più spesso confusione e incomprensioni. 

Maestra nel complicare i rapporti cogliendo dietro ogni comunicazione un significato nascosto certamente ostile e possibilmente complottista era Daniela Ficca, psicologa. 

Raccontava di aver abbandonato  la carriera universitaria di ricercatrice in neuroscienze per l’ostilità e le invidie dei colleghi che, spaventati della sua inarrestabile ascesa, facevano di tutto per ostacolarla. All’inizio i nuovi colleghi del CIM avevano creduto a questa versione, anche influenzati dal suo aspetto mite e bucolico, rotondetto e pacioso che la faceva immaginare come una casalinga anni ’60 tutta preoccupata dell’alimentazione familiare, piuttosto che una donna in carriera. Poi, conoscendola, avevano capito che Daniela, dentro di sé, era sempre in guerra con tutti, una guerra difensiva che sentiva come l’indispensabile risposta agli attacchi che subiva. Aveva il bisogno di identificare i nemici e preferiva eccedere piuttosto che non avvistarne qualcuno, cosa che avrebbe potuto dimostrarsi fatale. 

Cercava alleanze e complicità ma solo per combattere le sue battaglie, gli altri erano armi da utilizzare. Avvolta in una nuvola di sospettosità era l’unica a parlar male dei colleghi al di fuori del CIM.

A 43 anni aveva di fatto rinunciato all’idea di un figlio del quale scherzando, ma solo in parte,  diceva “ti metti in casa un estraneo senza prima averlo potuto conoscere. Conviveva con Riccardo un ingegnere coetaneo che per lavoro e non solo, dicevano i maligni, era sempre in giro per il mondo.

Per fortuna la categoria degli psicologi era ampiamente riscattata da Maria Filata, più grande e punto di riferimento psicologico anche per gli altri CIM della ASL. 

La Dottoressa  Filata aveva 53 anni, impegnati in una vita che aveva scelto e costruito giorno per giorno, al centro della quale c’era il suo matrimonio con Roberto, medico di medicina generale e i due figli Arturo di 21 e Lino di 19 anni.

Amante della lettura e della musica di ogni genere, investiva tutto la sua intelligenza ed il suo enorme cuore nel lavoro nel servizio pubblico di cui era ideologicamente grande sostenitrice. Non aveva mai voluto  lavorare  privatamente. Il paziente per lei era sacro e veniva prima di ogni altra cosa. Proponeva e realizzava continue iniziative per migliorare l’offerta terapeutica e riabilitativa.

Non sentendosi mai adeguata alle situazioni per un perfezionismo che la assillava sin da bambina, era continuamente impegnata nella formazione e per questo rappresentava per tutti gli psicologi un punto di riferimento: i casi difficili si affidavano a lei o le si chiedeva supervisione, cercando di superare la sua ritrosia ad esporsi. La grande stima e simpatia di cui godeva tra gli operatori la rendevano confidente di molti e la grande pacificatrice nei momenti di tensione. 

Di appena un paio di anni più grande, ma senza figli e convivente con un vedovo coetaneo, Lina Mattiacci avrebbe voluto essere in ambito medico ciò che la Filata era per gli psicologi. Giunta ormai avanti nell’età non aveva grandi aspettative di carriera ufficiale, cui al contrario della Filata teneva,  dunque mirava ad un prestigio ed autorevolezza riconosciuti da colleghi e pazienti seppure no dall’ufficio del personale, con riverbero sulla busta paga. Per questo, nonostante sostenitrice e dedicata al servizio pubblico, coltivava una piccola attività privata di cui avrebbe volentieri fatto a meno.

Appariva molto più giovane dei suoi 55 anni ma non sopportava che la si definisse “giovanile”. Apprezzatissima da Carlo Biagioli, medico psichiatra responsabile  del CIM che, per la sua affidabilità, la considerava il braccio destro e le scaricava molto lavoro, anche gestionale. Per questo lei lo rimproverava di non essersi battuto a sufficienza per aiutarla nella carriera, si sentiva un po’ sfruttata da lui, ma troppe erano le battaglie combattute insieme perché  il legame si incrinasse.

Un’altra che aveva qualcosa da recriminare con Biagioli era  Luisa Tigli, infermiera 43enne sposata  con due figli, Anna di 10 anni e Andrea di 8. Luisa per la sua bravura e disponibilità era per Biagioli la caposala in pectore, però riconoscimenti ufficiali non erano mai arrivati, come  per Lina. Lui pensava che le persone che più apprezzava non avessero bisogno di altri riconoscimenti che non la sua stima e il suo affetto e finiva per trattarle come delle mogli di lungo corso di cui non si potrebbe fare a meno, sono un elemento scontato dell’esistenza e ci si dimentica di riconoscerne l’importanza fino a che non si rischia di perderle. 

Luisa aveva un aspetto sbarazzino: capelli castani a caschetto, occhi da cerbiatto che le davano un aria da bambino spaventato, altezza  modesta e  modi sciatti  che la assomigliavano ad un maschietto. La femminilità, per tutto il resto negata, si esprimeva in un seno prorompente che camuffava con camicione e maglioni extra large soprattutto dopo le due gravidanze.

Luisa e Carlo avevano avuto una appassionata relazione poco dopo l’inizio del lavoro comune. Costruita sul reciproco accudimento, nonostante la differenza di età, li aveva assorbiti in quel mondo psicotico dell’innamoramento che ignora l’esistenza degli altri. Più volte erano stati colti dai colleghi in situazioni imbarazzanti e inequivoche, ma il pettegolezzo non era mai diventato malevolo sia per l’affetto e la stima di cui entrambi godevano, sia per  la benevolenza che la passione suscita in chi l’ha provata almeno una volta quando si presenta così forte ed ingenua: gli innamorati, nella loro infinita stupidità, finiscono per far tenerezza.

La storia era impegnativa per entrambi e Carlo aveva più volte promesso di chiudere il suo barcollante matrimonio. Quando poi l’aveva effettivamente fatto si era però prontamente invaghito di Ornella, una collega pediatra, e troncato rapidamente la storia con Luisa che non aveva affatto apprezzato. Meno male che non aveva detto tutto al marito come Carlo le chiedeva. Era riuscita a recuperare la situazione matrimoniale mettendo al mondo Andrea, ma non tutto era stato digerito.

I gesti di collaborazione fattiva sul lavoro ripresero. Un gelo distaccato ma non ostentato teneva a bada un nucleo ancora tiepido se non più rovente che Carlo conservava come una nascosta consolazione da recuperare nei momenti dell’umore autunnale.

Biagioli con i suoi 53 anni era tra i soci fondatori del CIM e attuale responsabile. Da sempre convinto di non valere nulla e nulla meritarsi  per motivi che davano del filo da torcere al suo analista, aveva elaborato una serie di strategie per campare ed essere accettato dal consorzio umano.

Tra queste la più importante era il servilismo e l’accondiscendere continuamente gli altri, al punto da aver perso di vista i propri desideri e persino i propri bisogni. Apprezzato da tutti per essere l’ideale “specchio, specchio delle mie brame”  che rimanda ad ognuno l’immagine desiderata era totalmente incapace di dire di no. Ottimo gregario ed esecutore, come leader era popolarissimo ma assolutamente disastroso, guidato com’era dai sondaggi. La migliore descrizione della sua mente  l’aveva vista al cinema in “Tutto su mia madre” di Almodovar nel personaggio del trans “Agrado” quando dice di essere nato per far contenti gli altri.

 Non tutto il male vien per nuocere. Infatti per soddisfare i desideri degli altri  occorre percepirli e Carlo aveva imparato a sintonizzarsi immediatamente sui bisogni dell’altro, sapeva mettersi perfettamente nei panni altrui e spesso smarriva i suoi. Ciò lo rendeva un ottimo clinico. Il guaio era quando i bisogni degli altri da soddisfare erano contrastanti, esperienza frequente per un capo che deve scegliere. 

Anche nella vita privata riusciva a cacciarsi nei guai, non sceglieva ed era etero diretto. Così, quando  stava per lasciare Maria, sua storica compagna fin dall’università e moglie, a motivo della recente passione per Luisa, era passata Ornella rovesciando il suo universo.

Con i due figli, Luca di 14 anni e Antonio di 12, aveva trovato la pace e quella fedeltà che non conosceva. Il suo vissuto era quello di essere un impostore e viveva nella costante paura che, da un momento all’altro, il suo bluff venisse smascherato. Basso e fisicamente malmesso sin da ragazzo aveva il suo punto di forza negli occhi azzurri che apparivano vispi, intelligenti e capaci di penetrare l’animo altrui.

Trascurato nel vestire con uno stile post sessantottino, rigorosamente alternativo, si mostrava umile e desideroso che fossero gli altri a valorizzarlo.

Quasi coetaneo e suo fratello elettivo Giovanni Brugnoli detto Giò assistente sociale  e psicologo condivideva con lui tutti i casi più importanti e tutto il tempo libero fuori dal lavoro. I colleghi finivano per trattarli come fossero la stessa persona.

Giò era al terzo matrimonio, dando un contributo rilevante, pari a quello del dr. Irati, al cumulo di fallimenti matrimoniali (modesto sottoinsieme dei fallimenti affettivi) che gli operatori della salute mentale del CIM di  Monticelli potevano vantare.

Fin qui coloro che ogni mattina gareggiavano per parcheggiare la macchina all’interno del cortiletto ghiaioso ed entrando per accaparrarsi una delle scrivanie democraticamente comuni, annunciavano “le chiavi stanno nel quadro” o “dietro il parasole che non si sa mai” oppure, i più precisi “chiamatemi che ci penso io” arricchiti da lagnanze sulla necessità di una sede migliore.

Tali lamentazioni infinite per la mancanza di risorse di tutti i generi erano rivolte a personaggi da cui dipendeva il funzionamento del CIM ma che occupavano scrivanie e poltrone ben più comode in stanze contraddistinte da titolo e nome nella sede centrale della ASL a Vontano 40 km. a nord di Monticello.

Il CIM di Monticello faceva parte, insieme ad altri quattro CIM, del Dipartimento di Salute Mentale di Vontano.

Il direttore, Dr. Rodolfo Torre, aveva appena compiuto 62 anni e aspettava serenamente la pensione, ormai relegato ad un ruolo prevalentemente burocratico. Circondato da una bella famiglia con due figli già alle soglie della laurea in medicina e agli agi di una opulenza tramandata da generazioni, con difficoltà faceva i conti con il passare del tempo e il ricambio generazionale.

Tenuto a distanza dai responsabili dei CIM, che non volevano intromissioni nella gestione e non contento di limitarsi all’inaugurazione di convegni e nuove strutture, aveva accettato insegnamenti nella scuola infermieristica.

Recentemente era piuttosto distratto sul lavoro, impegnato com’era a risolvere una delicata faccenda personale.

Nel tentativo di risolvere nel modo più tradizionale la sensazione di trovarsi al crepuscolo dell’esistenza e di non avere più futuro, aveva fatto male i conti. La bella allieva Viola, nome da opera lirica ottocentesca, traboccante erotismo ed arroganza nello splendore dei suoi 23 anni, non aveva nessuna intenzione di abortire come il cattolicissimo Rodolfo suggeriva.

Torre, preso dall’ansia per un possibile scandalo, trascorreva le giornate rimuginando sulla sua stupidità ed in tale chiave rivisitava l’intera sua esistenza. Possibile che il motore fondamentale fosse stata la ricerca di riconoscimenti?

In gran segreto aveva iniziato a prendere psicofarmaci per attraversare  notti angosciose, ma ciò non impediva che la silouette di Viola cambiasse di settimana in settimana. Provava vergogna per alcune delle soluzioni che gli passavano per  la mente.

Le visite al suo confessore e padre spirituale Don Martino del santuario di Monte Beccai si fecero quasi quotidiane ed il Dipartimento era di fatto acefalo. In famiglia la sua inquietudine era palpabile quanto inspiegabile, il figlio ipotizzò che il padre avesse scoperto una grave malattia ma il medico curante, tradendo tra colleghi il segreto professionale, lo rassicurò.

Doveva dunque essere qualcosa di altrettanto grave se non peggiore, altrimenti come giustificare l’anoressia del padre che era sempre stato un’ ottima forchetta o il suo disinteresse per i primi passi dei figli nella professione per i quali si era sempre impegnato con tutto se stesso? Con la scusa di non disturbare la moglie si era spostato nella camera degli ospiti. La inconsueta magrezza lo faceva sembrare, con  il completo di velluto marrone a coste larghe da signorotto di campagna, uno spaventapasseri in libera uscita. La gobba si era accentuata e l’aria spavalda e orgogliosa era velata da ombre di sconfitta e fallimento. In pochi mesi era invecchiato di dieci anni.

Il direttore generale delle ASL è nominato dalla giunta regionale e svolge un ruolo politico.

E’ auspicato sia un buon manager e raramente si tratta di un medico. In quel periodo la situazione avrebbe dovuto essere particolarmente favorevole per la psichiatria poiché anche il direttore generale era uno psichiatra il sessantaseienne Dr. Francesco Altamura. 

Questi aveva sempre lavorato in provincia di Vontano, sia nel Dipartimento di salute mentale, sia privatamente, sia come consulente di case di cura private, accusato per ciò di conflitto di interessi. Quando era stato chiamato al ruolo politico di direttore generale  aveva cessato ogni attività clinica dopo la disgrazia che lo aveva colpito e aveva occupato le prime pagine dei giornali locali. La moglie Armida, una collega di sei anni più giovane,  si era impiccata nella cantina della loro villetta la notte di Natale, non appena amici e parenti avevano lasciato soli Armida e Francesco.

Come accade spesso in provincia erano girate mille voci, rinforzate dalla velocità con cui venne effettuata la cremazione rendendo impossibile l’autopsia e l’accertamento del presunto tumore inoperabile di cui nessuno sapeva e che,  secondo Altamura, poteva aver spinto la moglie al gesto estremo. Che fosse stata la depressione per la perdita o l’enorme eredità che rendeva superfluo l’impegno lavorativo, sta di fatto che Altamura, ancora uomo attivo e piacente, si era ritirato nella villa di campagna fino alla chiamata al vertice della ASL.

L’esercizio del potere era la cosa che da sempre più lo attirava.

Suo fiero, malsopportato controllore e oppositore era Vitale Eusebi, 72 anni, ex gesuita che aveva lasciato l’abito per amore di Livia quando aveva 40 anni e con la giovane  aveva messo al mondo tre figli. Aveva continuato a servire il signore cercando di rendere il mondo migliore soprattutto per i più deboli. Da oltre quindici anni aveva scelto i pazienti psichiatrici e le loro famiglie come i più deboli tra i deboli e da allora era a capo dell’APMM (Associazione Provinciale dei Malati Mentali). 

Uomo solido di origini contadine badava ai fatti e non si lasciava confondere dalle parole. Condannato per lesioni personali ai danni proprio di Altamura cui aveva tolto due incisivi a seguito di una promessa non mantenuta, non faceva mistero dell’intenzione di riprovarci se fosse stato necessario. Naturalmente tra i due non correva buon sangue e davano un buon contributo all’attività degli avvocati di Vontano.

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Le tre anime del suono. La voce tra mente e corpo – Recensione

 

 

Le tre anime del suono. La voce tra mente e corpo.

di Stefano Anselmi e Cristina Pietrantonio

(2013) Armando Editore

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Le Tre Anime Del Suono. Le tre anime del suono: non è così frequente soffermarsi a riflettere sull’importanza della voce umana come strumento di comunicazione e di messa in relazione con l’altro. In ambito clinico l’attenzione sulla voce si concentra soprattutto nel caso delle disfunzionalità vocali che si trovano nei disturbi da conversione (la vecchia isteria) o in altre condizioni psicosomatiche.

Tutte le voci però andrebbero ascoltate con più attenzione perché possono rivelare tante informazioni su chi le emette. Questo bel libro, scritto a quattro mani da una cantante e da un regista provenienti dal mondo della musica lirica, presenta in modo esaustivo tanti concetti interessanti sulla voce e sul suo funzionamento.

Viene privilegiata chiaramente l’esperienza del canto, sicuramente il modo di usare la voce più complesso e interessante, che ci accomuna ad alcune specie animali (in particolare gli uccelli). Risulta molto interessante la parte sull’evoluzione vocale che distingue: una voce animale (pulsionale, orientata alla sopravvivenza, che si manifesta nella segnalazione territoriale, nel richiamo sessuale e nella manifestazione del dolore), una voce emotiva (che smuove nello spazio affettivo e di relazione con l’altro) e una voce culturale (che compare con la rappresentazione simbolica e con lo sviluppo del linguaggio verbale).

Anche il modo di cantare e di parlare seguono l’evoluzione della società e gli autori evidenziano come in una dimensione fortemente regolamentata come quella in cui viviamo spesso “la voce si fa incolore, priva di energia, di timbro, di anima. La carenza degli ultimi anni di grandi voci per la lirica ne è la prova. D’altra parte  gli autori sottolineano anche come il cantare è una complessa attività di coordinamento psicomotorio, ove una disposizione aperta e intuitiva di natura prevalentemente inconscia è più importante dello studio della tecnica.

Un abbandono temporaneo delle strutture di controllo dell’Io, che può avere delle ben note ripercussioni sul piano terapeutico e della salute mentale. Imparare a cantare con un bravo insegnate, per il ritmo che si instaura tra docente e discente, può assomigliare più a un percorso psicoterapico che a una lezione di musica.

I riferimenti a tanti studiosi che sono partiti dalla voce per arrivare alla psiche (Alfred Tomatis, Alexander Lowen) rendono quest’opera interessante anche per gli psichiatri e gli psicoterapeuti. La frase più bella del libro è una citazione del cantante Giacomo Lauri-Volpi che diceva “il segreto del canto sta nella gioia di cantare”.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Depressione: la Vulnerabilità Cognitiva è contagiosa? – Psicopatologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

E’ stato ipotizzato un effetto contagio e cioè di trasferibilità delle modalità depressive di pensiero e di elaborazione dell’informazione da un compagno all’altro.

La vulnerabilità cognitiva alla depressione è contagiosa. Questo quanto rilevato da un recente studio pubblicato su Clinical Psychological Science in cui gli autori hanno proprio dimostrato un effetto contagio tra pari.

La vulnerabilità cognitiva alla depressione consiste nella presenza di bias associativi negativi nel momento in cui si costruisce la propria idea di sé nei diversi contesti (Beevers, 2005); ad esempio, se posta di fronte a una nuova situazione, un individuo cognitivamente vulnerabile alla depressione penserà per prima cosa fallirà con un’autovalutazione negativa di sé.

Tale vulnerabilità cognitiva è considerata un fattore di rischio per lo sviluppo di un disturbo dell’umore e anche se tendenzialmente stabile non è immutabile essendo costituita da elementi squisitamente psicologici e cognitivo-emotivi. In particolare gli studiosi hanno ipotizzato un possibile effetto contagio tra pari focalizzando l’attenzione sulla popolazione dei ragazzi frequentanti il college.

Mettendo a punto uno studio longitudinale prospettico hanno coinvolto circa 100 coppie di studenti roommates – che cioè si trovavano a condividevano la stanza nel college. Ingegnosamente gli sperimentatori hanno avuto la possibilità di accoppiare a priori alcuni studenti con elevati livelli di vulnerabilità cognitiva alla depressione con altri studenti che non presentavano tale caratteristica.

E’ stato dunque ipotizzato un effetto contagio e cioè di trasferibilità delle modalità depressive di pensiero e di elaborazione dell’informazione da un compagno all’altro.

Ebbene i dati hanno confermato l’ipotesi: gli studenti che furono assegnati al roommate con un elevato livello di vulnerabilità cognitiva depressiva avevano una elevata probabilità di appropriarsi – in modo probabilmente automatico e metacognitivamente inconsapevole- dello stile cognitivo depressivo del loro coinquilino. 

Inoltre, come ci si poteva attendere coloro che presentavano accresciuti livelli di vulnerabilità cognitiva alla depressione riportavano anche maggiori livelli di sintomi depressivi rispetto ai soggetti di controllo. Ahimè dunque appare molto potente il virus dello stile cognitivo depressivo che contagia addirittura i compagni di stanza, peccato che non sia accaduto l’inverso, la conversione verso una modalità di pensiero più positiva e non depressiva nella coppia di amici.

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BIBLIOGRAFIA: 

 

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