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L’importanza del tiramisù (o sulle relazioni ai tempi di facebook)

 

Riflessioni dalla lettura di

COSÌ È SE VI “APPARE”

facebook e i social network

di Cinzia Colantuoni e Sofia Stazzi

 

 

COSÌ È SE VI “APPARE”  facebook e i social network  di Cinzia Colantuoni e Sofia Stazzi. -immagine: locandina

Se pubblico la mia sofferenza per un lutto che ho subito, quanto pesano 10 commenti e 7 mi piace? E che fine fa la nostra emozione se nessuno la raccoglie? 

Patrizia si trovava qui – presso Virgin Active Palestra”. E adesso che lo sapete, scommetto che la vostra giornata ha subito una grande svolta. Se anche voi siete tra quelli che sentono il bisogno di documentare ogni attimo della propria vita su Facebook, postando aggiornamenti continui sui propri spostamenti, sui propri pasti, sulle proprie funzioni corporali, sui propri stati d’animo, provate a rispondere a questa domanda: perché?

I social network sono ormai una presenza costante e scontata nella nostra vita, ancor di più oggi grazie alla diffusione degli smartphone che ci permettono di essere collegati con gli altri e con il resto del mondo 24 ore su 24. Ne esistono innumerevoli, alcuni specifici per un dato pubblico: oltre a Facebook, Twitter, Google +, troviamo per esempio Anobii per gli amanti della lettura, Myspace per gli artisti, Linkedin per i professionisti…; ma tutti hanno lo stesso scopo: facilitare le relazioni sociali e la condivisione.

In “Così è se vi appare”, libretto simpaticamente illustrato da Recanatini, due psicoterapeute della Gestalt Psicosociale, Cinzia Colantuoni e Sofia Stazzi, sezionano il fenomeno social network, in particolare Facebook, analizzandone il funzionamento, fornendone le istruzioni per l’uso, riflettendo sui suoi pro e  contro.

Sebbene il libro sia stato pubblicato nel 2011 e quindi in alcune parti sia un po’ datato (a dimostrazione di come questi strumenti si modifichino mostruosamente in fretta), gli interrogativi che pone sono ancora attualissimi: in che modo è cambiato il nostro modo di relazionarci e di comunicare con gli altri?

Facebook è come un enorme Cafè: una volta all’interno ci si tiene aggiornati sulle ultime notizie (attraverso i post delle pagine che seguiamo) e le si commenta o condivide affinché anche altri possano venirne a conoscenza; ma si ha anche la possibilità di osservare le persone attraverso i loro profili, di ascoltare quello che hanno da dire attraverso i loro post e se vogliamo è possibile inserirsi nelle loro conversazioni, anche non in tempo reale, commentando o cliccando mi piace. Condivisione e relazione.

Ma qual è la natura delle relazioni che instauriamo? La parola d’ordine su Facebook sembra essere (o è?) VISIBILITÀ: tutti sanno tutto di tutti, tutti sanno quello che noi vogliamo che sappiano (che spesso è, appunto, tutto). Per esempio, anziché la chat privata molte volte si preferisce scrivere direttamente sulla bacheca degli amici o sulla propria taggando i contatti interessati, in modo che tutti, compresi i non coinvolti nel post, possano leggere quello che scriviamo. Vi siete mai chiesti perché?

E qual è la natura delle nostre condivisioni? Perché sentiamo il bisogno di aggiornare gli altri su quanto accade fuori e dentro di noi?

Oggettivamente, chemefregaame se ieri sera sei andato a cena e ti hanno portato un cazzo di tiramisù?” scrive un mio amico su Facebook. E a me che me ne frega che a te non te ne frega che ieri sera ho mangiato il tiramisù? potrebbe ribattere il diretto interessato!

Da dove nasce questa necessità di far sapere al mondo intero cosa facciamo e cosa pensiamo? È davvero solo una vetrina narcisistica, una gara a “verificare quanto siamo popolari ed interessanti agli occhi degli altri”? E cosa succede se scriviamo qualcosa e non otteniamo neanche un misero mi piace? Come ci sentiamo? Cosa significa per noi? Che fine fa il nostro pensiero se nessuno lo raccoglie? Arriviamo a cancellare il post?

Ha forse ragione chi commenta che “anche il tiramisù è comunque condivisione, seppur di infimo livello. Quando non si hanno idee degne di tal nome o fatti che meritano di esser raccontati, anche un tiramisù può venir bene allo scopo di far interessare qualche cristiano alle proprie “epiche” gesta per una manciata di secondi.” ?

Ma Facebook non raccoglie solo i nostri pensieri, è anche una finestra sulle nostre emozioni: “Fai sapere come ti senti”. Ed ecco che la bacheca si anima di emoticon che dovrebbero comunicare agli altri il nostro stato d’animo. Perché? Cosa ci spinge a pubblicare come ci sentiamo in un dato momento? Cosa ci aspettiamo dagli altri? Che fine ha fatto la dimensione privata di certe emozioni? Se pubblico la mia sofferenza per un lutto che ho subito, quanto pesano 10 commenti e 7 mi piace? E che fine fa la nostra emozione se nessuno la raccoglie? 

Tante domande a cui è impossibile dare un’unica risposta perché le ragioni che ci spingono a relazionarci in un certo modo e condividere determinati pensieri o emozioni non sono univoci, ma sarebbe interessante se per un attimo ci fermassimo a riflettere sul motivo per cui utilizziamo i  social network in un dato modo piuttosto che in un altro.

Poi, qualunque sia la ragione che vi spinge a farlo, l’importante è che clicchiate mi piace su questo articolo e lo condividiate.

 

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BIBLIOGRAFIA:

La bellezza delle cose fragili: Bellezza e fragilità dell’Attaccamento

Anna Angelillo.

La bellezza delle cose fragili

di Selasi Taiye. Enaudi (2013)

LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

La Bellezza delle cosa fragili. (2013). -Immagine: locandinaRimane così un mirabile romanzo sulla famiglia, sull’amore, sulla perdita e sulla bellezza. E anche sui legami di attaccamento, in tutte le sfumature concepibili, declinati mirabilmente da una penna profana. Delle pagine che meritano di essere tenute strette.

“La bellezza delle cose fragili” è il titolo del primo romanzo che Taiye Selasi intesse per il suo esordio da scrittrice. Nata a Londra da padre ghanese e madre nigeriana, e vissuta in Massachusetts, Taiye Selasi racconta la storia di una famiglia africana, partendo dal suo triste epilogo: Kweku Sai muore solo nel giardino della sua casa in Ghana.

Ad apprenderne la scomparsa, dall’altra parte del mondo, i suoi figli e la sua Fola. A riempire la distanza di “chilometri, oceani e fusi orari (e altri tipi di distanze più difficili da coprire, come il cuore spezzato, la rabbia, il dolore calcificato e domande che per troppo tempo nessuno ha fatto)” ci sono le pagine di questo romanzo, nelle quali, riga dopo riga, prende forma la bellezza di questa storia di costruzione e rottura di legami.

Da un punto di vista psicologico, il romanzo colpisce perché sembra, in alcuni tratti, una trattazione sul tema dell’attaccamento, dal suo sviluppo al suo epilogo. Ci sono pagine che ben descrivono i rapporti tra genitori e figli nel loro modellarsi, e che ben tracciano le strade che i protagonisti intraprendono poi nel corso degli eventi che muovono le loro vite.

Il romanzo è la storia, in primis, di una coppia, quella di Kweku e Fola, che scappa dal continente nero alla ricerca di libertà e rivincita. È la storia di un giovane amore, è la voglia di dimostrare che l’Africa non è solo povertà e miseria, ma riuscita e rivalsa. È la storia di un uomo, un marito, un padre. È la storia di una donna, di una moglie, di una madre.

È la storia di una divisione devastante, ma anche di un ricongiungimento commovente.

È la storia di quattro figli, di quattro diversi legami, di quattro differenti vissuti.

È la storia di un figlio maggiore, del ragazzo che segue le orme del padre, per ammirazione, ma anche (o forse soprattutto) per vivere la vita che il padre aveva cominciato, ma da cui poi si è allontanato; è la storia di un uomo che non sa dare un inizio, perché in esso è contenuta inevitabilmente una fine, che ha vissuto una volta e non vuole più.

È la storia di due gemelli, l’incarnazione della bellezza più pulita. È la storia di un legame profondo, un lui e una lei, che sono una cosa sola, che va oltre l’esser nati uniti. È la storia di due ferite che cercano sollievo l’uno nell’altro, nonostante si trovino ad allontanarsi.

È la storia dell’ultima piccola arrivata. È la storia di una vita salvata per un soffio. È la storia di una solitudine inquieta, perché troppo piccola per ricordare i fatti, e cresciuta per questo in una costante sensazione di inadeguatezza.

È la storia di una famiglia di cristallo: è bella, ma fragile (come le cose belle).

È la storia di una famiglia di cristallo che un giorno si rompe, e i cui sei pezzi che ne derivano vanno ognuno in una direzione differente: ciascuno dà agli eventi una propria lettura, attribuisce ad essi un proprio significato, l’unico possibile per ciascuno, alla luce del proprio sentire, delle proprie convinzioni, aspettative e bisogni.

Ciascuno sviluppa una modalità di funzionamento e si muove nel mondo in base ad essa, così da dare un senso alla propria storia e al proprio Sé. È possibile, infatti, seguire come in un gioco-labirinto, i percorsi di ognuno, e rimanere stupiti e commossi di come ognuno a suo modo (e a tratti anche in modalità opposte) ha costruito un senso di sé unico rispetto agli altri, pur nascendo dallo stesso legame (e dalla stessa frattura), di come pezzi dello stesso vaso di cristallo, che si è rotto nello stesso momento e a causa dello stesso evento, si dividano in pezzi unici, nessuno uguale ad un altro.

La bravura della scrittrice sta nel non dare per scontate le conseguenze di un evento, perché unica è la realtà di ciascuno nelle conseguenza che si vivono, nel dare il giusto spazio e il pieno valore a ciascuno degli epiloghi possibili, dando vita a differenti scenari, tutti plausibili e coerenti, dando a ciascuna vita lo spessore che merita.

Rimane così un mirabile romanzo sulla famiglia, sull’amore, sulla perdita e sulla bellezza. E anche sui legami di attaccamento, in tutte le sfumature concepibili, declinati mirabilmente da una penna profana. Delle pagine che meritano di essere tenute strette.

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BIBLIOGRAFIA:

 

AUTORE:

Anna Angelillo – Dottoressa in Psicologia – Master in Psicologia Forense – Attualmente Specializzanda presso Scuola di Formazione in Psicoterapia Cognitiva (Torino)

 

Gli effetti negativi della sculacciata sui bambini – Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La sculacciata è ancora usata in molte famiglie come forma di disciplina nell’educazione dei figli, ma decenni di studi di ricerca ci dicono che può portare a problemi comportamentali a breve e lungo termine nei bambini.

C’è un modo per far cambiare idea ai genitori e farli smettere di sculacciare i figli? Lo psicologo infantile George Holden ha cercato di rispondere a questa domanda e si è chiesto se i genitori a favore della sculacciata come metodo educativo potessero cambiare idea se informati in merito alle possibili conseguenze negative che questa può avere sui loro figli.

Il team di Holden della Southern Methodist University di Dallas ha usato un metodo semplice rapido ed economico, di breve esposizione a riassunti di ricerche che evidenziavano le conseguenze negative della sculacciata. I gruppi osservati erano due, uno di genitori e uno di non genitori e i risultati mostrano che questa breve esposizione ha significativamente modificato l’atteggiamento di entrambi i gruppi in merito alla funzione educativa della sculacciata.

I genitori che sculacciano i figli lo fanno con le migliori intenzioni, spiega Holden, con l’idea che promuoverà comportamenti positivi nei figli: è l’idea che sia un principio educativo efficace a spingerli a farlo e non la rabbia che provano in certi momenti; inoltre questo atteggiamento è sostenuto dalle opinioni positive delle persone di cui si fidano, medici, pediatri, insegnanti, educatori, leader religiosi, i loro stessi genitori; informarli delle conseguenze negative di questa pratica, sostenute da dati di ricerca, ha l’effetto di cambiare rapidamente e radicalmente i loro atteggiamenti in merito.

Lo studio è il primo del suo genere a evidenziare come una breve esposizione alla ricerca sulle sculacciate può alterare il punto di vista della gente.

Questo è un risultato importante se si pensa che studi precedenti si sono affidate a metodi ben più dispendiosi in termini di tempo e risorse economiche per raggiungere gli stessi risultati.

 

 

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I gruppi di auto/mutuo aiuto. Come le difficoltà  diventano risorsa – Edizioni Centro Studi Erickson – Formazione

 

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Neuroscienze: il progetto Brain Computer Interface.

 

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NEUROSCIENZE: Un interessante progetto di interazione uomo-macchina sviluppato e realizzato dal Dipartimento di Scienze Neurologiche e Sensoriali dell’AOU di Siena.

 

“Sarà effettuata – spiega il professor Rossi – una dimostrazione pratica di una un’interfaccia digitale in grado di leggere l’attività elettrica della corteccia cerebrale e che, mediante il computer, è capace di guidare in modo efficace ausili e dispositivi robotici per aiutare i pazienti disabili”.

 

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Prigionieri dello Stress – I significati dell’ Ansia? – Psicologia

Prigionieri dello stress. - Immagini: © Jérôme Rommé - Fotolia.comIl New Yorker ha pubblicato un bellissimo articolo sul libro “My Age of Anxiety” di Scott Stossel, in cui Louis Menand s’interroga su quale sia il significato dell’ansia.

Immaginate che la vostra compagna di vita sia un’ansia feroce che non vi abbandona mai. Immaginate di vivere con la paura costante degli spazi chiusi, dei germi, di parlare in pubblico, di volare, di svenire…insomma, un inferno! Questa è la vita di Scott Stossel, giornalista americano che dopo averle provate tutte senza successo (dai farmaci allo yoga alla psicoterapia), su suggerimento del suo attuale terapeuta ha scritto la storia della sua ansia: “My Age of Anxiety” (2014).

Il New Yorker ha pubblicato un bellissimo articolo su questo libro in cui Louis Menand s’interroga su quale sia il significato dell’ansia. Una domanda solo all’apparenza banale.

Cos’è l’ansia? Tutti abbiamo provato almeno una volta nella vita questa emozione, ma ognuno di noi ne dà un’accezione differente: eccitazione, nervosismo, preoccupazione, panico, apprensione, tensione…diverse sfumature di uno stesso concetto.

E perché proviamo ansia? Anche in questo caso, dare una risposta univoca non è semplice: a seconda dell’approccio con cui si affronta il tema, l’ansia potrà essere definita, per esempio, come l’esito della tendenza umana a preoccuparsi per il futuro (prospettiva esistenzialista), la spia di un conflitto intrapsichico tra l’Io e desideri inconsci repressi (prospettiva psicoanalitica), una componente del riflesso di attacco-fuga che si attiva di fronte ad un pericolo (prospettiva evolutiva), o ancora la risposta all’incertezza e allo stress della vita moderna (prospettiva sociologica).

Tutte definizioni che sono tra loro incompatibili! “Il massimo che possiamo affermare – osserva Louis Demand – è che questo stato d’animo che quasi tutti sperimentiamo è rappresentato in maniera prominente in varie teorie che interessano l’esistenza umana e il mondo in cui viviamo”.

Particolarmente interessante è la “pazza storia” dello sviluppo del concetto di ansia dagli anni 40 ad oggi, partendo da Kierkegaard e la sua idea di ansia come coscienza della finitudine umana e della sua natura peccaminosa, passando da Freud e la sua teoria dell’ansia come sintomo di conflitti interiori e nevrosi, proseguendo con la visione dell’ansia come il prodotto di fattori ambientali esterni, fino ad arrivare ad una visione strettamente medica dell’ansia che ha decretato l’attuale dominio delle case farmaceutiche grazie alla vendita di psicofarmaci.

A questo punto appare doveroso sfatare il mito che l’ansia sia un’emozione negativa. Si prova ansia ogni qualvolta si percepisce una minaccia o un pericolo (alla propria sopravvivenza o al proprio ego, non fa differenza); questo ci permette di prepararci ad agire prontamente. L’ansia ha quindi una funzione protettiva e preventiva, ma diventa patologica nel momento in cui non si è capaci di gestirla (per esempio rimanendo in balia di un rimuginio catastrofico) e l’organismo permane in uno stato di iperattivazione prolungata, con il cervello letteralmente a bagno nel cortisolo, l’ormone dello stress.

Oggi, sposando un’ottica eziopatogenetica multifattoriale secondo cui le cause dei grandi disturbi mentali sono riconducibili ad un’interazione tra geni e ambiente, di fronte a casi resistenti ai trattamenti non si può trascurare l’influenza della componente genetica. Ciò significa che di fronte a questi casi non possiamo fare altro che rassegnarci? Assolutamente no. Come giustamente sottolinea Louis Menand, “Essere umani significa far fronte alla nostra biologia. La selezione naturale ci ha dotato di una mente, liberandoci dalla prigione del determinismo biologico. Possiamo sfruttare al meglio il nostro assetto genetico per raggiungere i nostri scopi se lo vogliamo; a volte dobbiamo provare a fare la stessa cosa anche con i nostri deficit genetici”.

Proprio come ha fatto Scott Stossels e tanti come lui che non hanno sconfitto l’ansia, ma hanno imparato a conviverci e a gestirla con successo.

 

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Leadership negli Sport di Squadra #16 – Il test sociometrico

 

 

Leadership negli Sport di Squadra #16:

Il test sociometrico

LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA – PSICOLOGIA DELLO SPORT – MONOGRAFIA

Leadership sport di squadra nr.16. - Immagine: © kabliczech - Fotolia.comUno strumento utilizzabile, in particolar modo, per analizzare la figura del leader intimo della squadra e la sua relazione con gli altri atleti è il test sociometrico.

Questa metodologia, ideata principalmente per l’analisi delle relazioni intragruppi da Moreno [1934] e applicata al mondo sportivo da Mazzali [1995], si basa sulla costruzione di un organigramma che rappresenti le relazioni positive e negative tra ciascun giocatore della squadra, sia a livello tecnico che socio-affettivo.

Esistono due diverse modalità di costruzione di questo organigramma: il test diretto e il test indiretto. Il primo si basa sulla compilazione di un questionario consegnato a ciascun giocatore dove si chiede di nominare un massimo di 3 compagni di squadra che vorrebbe avere al proprio fianco in momenti critici della partita (livello tecnico) o con cui vorrebbe trascorrere una serata in compagnia (livello socio-affettivo) e fino a 3 compagni con cui non vorrebbe trovarsi in identiche situazioni. Nel test indiretto si invita la persona a redigere la formazione ritenuta ideale. Si presuppone, in questo caso, che le simpatie e le antipatie più o meno conscie influenzino la costruzione di quest’ultima per ciascun atleta.

Con i dati del test, diretto o indiretto, effettuato si è in grado di costruire un sociogramma in cui vengono rappresentate graficamente le scelte positive e negative di ciascun giocatore. Attraverso l’analisi del sociogramma e tirando le somme del numero di scelte positive e negative di cui è stato oggetto ciascun giocatore si è facilmente in grado, per ciascuno dei due livelli, di individuare la presenza di un leader, e, allo stesso tempo, quella di un eventuale soggetto emarginato dal resto del gruppo. Questo rende ancor più evidente come sono le scelte degli atleti, a volte inconsce, ad attribuire al capitano il suo ruolo e ad investirlo della responsabilità di essere ritenuto un punto di riferimento, tecnico o socio-affettivo, da parte dei suoi compagni. 

L’interpretazione del sociogramma ci permette di comprendere la presenza e l’origine sociale di conflitti e condizioni disturbanti il clima e le prestazioni della squadra.

Nel caso, ad esempio della coesistenza di due diversi leader, saremmo in grado di comprendere quali sono i sottogruppi che alimentano questo conflitto e di agire in modo da rafforzare alcuni legami che appaiono deboli riportando equilibrio all’interno della rete di relazioni interpersonali.

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI

 

La relazione di coppia nella transizione alla genitorialita’

Laura Marino

 

LA RELAZIONE DI COPPIA NELLA TRANSIZIONE ALLA GENITORIALITA’:

UNO STUDIO LONGITUDINALE

 

La relazione di coppia nella transizione alla genitorialità. -Immagine: © drubig-photo - Fotolia.com

I risultati ottenuti suggeriscono che diversi fattori (individuali, relazionali e contestuali) hanno costituito una rete protettiva per questi genitori, consentendo loro un passaggio non particolarmente critico dall’essere coppia al divenire famiglia.

ABSTRACT

Introduzione. Durante la transizione alla genitorialità ogni individuo si trova ad affrontare profondi cambiamenti e adattamenti, personali e di coppia, che avranno ripercussioni importanti sulla relazione coniugale, su quella genitore-figlio e sullo sviluppo dell’attaccamento del bambino (McHale, 2010; Velotti, Castellano, Zavattini; 2010).Obiettivo di questa ricerca è l’indagine dell’influenza che variabili individuali, relazionali e contestuali esercitano nella transizione.

Metodo. Il campione è costituito da 18 coppie in attesa del primo figlio (sposati o conviventi, età media 35 anni, livello d’istruzione medio-alto). La ricerca ha previsto due step: T1 (7° mese di gravidanza), in cui è stato somministrato: scheda socio-anagrafica, DAS (adattamento diadico), ECR-R (stile di attaccamento romantico), CPQ (modalità di  comunicazione e gestione del conflitto), MSPSS

(sostegno sociale percepito), SCL-90_R (presenza di disagio psichico), CES-D (livello di sintomatologia depressiva), AAI (modelli di attaccamento infantili); T2 (3° mese post-partum) in cui i partecipanti hanno compilato: tutte le misure del T1, tranne SCL-90_R e AAI, e in aggiunta PSI-SF (livello di stress genitoriale) e SVC 80 (percezione del comportamento del bambino).I dati sono stati analizzati mediante il programma statistico SPSS.

Risultati. Il campione si caratterizza per l’assenza di disagio psichico, alta percezione di sostegno sociale, prevalenza di attaccamento sicuro all’AAI (madri 77,8%; padri 72,2%), prevalenza di attaccamento romantico sicuro all’ECR-R (madri 72,2%; padri 72,2%). Il confronto tra le misure rilevate al T1 e quelle del T2 ha mostrato un complessivo buon adattamento dei neo genitori all’evento “nascita del figlio”.

Discussione. I risultati ottenuti suggeriscono che diversi fattori (individuali, relazionali e contestuali) hanno costituito una rete protettiva per questi genitori, consentendo loro un passaggio non particolarmente critico dall’essere coppia al divenire famiglia. Il prosieguo della ricerca consentirà di continuare a monitorare l’andamento delle variabili studiate e l’eventuale influenza che esse eserciteranno sullo sviluppo di un attaccamento sicuro nel bambino.

Parole chiave: gravidanza, transizione alla genitorialità, attaccamento, adattamento diadico, supporto sociale percepito.

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AUTORE:

Laura Marino. Dipartimento Psicologia Dinamica e Clinica, Sapienza, Università di Roma

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2013 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia.

Impulsività, Craving e Obesità – Psicologia dipendenze e alimentazione

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Obesità: secondo i Centers for Disease Control and Prevention più di un terzo degli adulti americani sono obesi e questo è un fattore di rischio per malattie cardiache, ictus, diabete di tipo 2 e alcuni tipi di cancro.

Il costo medico annuo per l’obesità nel 2008 è stato di 147.000 milioni di dollari; inoltre le persone obese pagano una media di 1,429 dollari in più di spese mediche rispetto a quelle di peso medio.

Secondo una nuova ricerca della University of Georgia, il comportamento impulsivo, che induce alcuni ad abusare di alcol e droghe, può avere un peso anche nello stabilire un rapporto malsano con il cibo.

I ricercatori hanno scoperto che chi ha una personalità impulsiva riferisce livelli più elevati di dipendenza da cibo – un mangiare compulsivo che è simile alla tossicodipendenza – e questo a sua volta è associato con l’obesità.

Lo studio ha utilizzato due diverse scale, la Yale Food Addiction Scale e l’UPPS-P Impulsive Behavior Scale, per determinare i livelli di dipendenza da cibo e impulsività dei 233 partecipanti. I ricercatori hanno poi confrontato questi risultati con l’indice di massa corporea di ciascun soggetto.

I risultati mostrano che il comportamento impulsivo non era necessariamente associato all’obesità, ma che i comportamenti impulsivi possono portare alla dipendenza da cibo e quindi all’aumento del BMI.

L’industria alimentare contemporanea ha creato una vasta gamma di cibi ricchi di grassi, sodio, zucchero e altri additivi che li rendono gustosi e che inducono un craving molto simile a quello prodotto dalle droghe illecite, dice MacKillop, ricercatore a capo dello studio; questi cibi hanno un effetto sui circuiti dopaminergici di ricompensa simile a quello prodotto dalle droghe e questo getta le basi per comportamenti alimentari compulsivi, simili a quelli della dipendenza da droghe.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Catwoman – CIM Nr.02 – Storie dalla Psicoterapia Pubblica

 

– CIM CENTRO DI IGIENE MENTALE – #02

Catwoman

 

– Leggi l’introduzione –

CIM. Catwoman n.2. - Immagine: ©-alexokokok-Fotolia.comLa follia è democratica e colpisce indistintamente tutte le classi sociali. Per arrivare al Cim, però, preferisce farsi accompagnare dalla povertà.

Biagioli “si era fatto persuaso” che i fantasmi che abitano l’animo umano e, soprattutto, quelli relegati nei più profondi scantinati, fossero resi irrequieti dal mutare delle stagioni e che, in certi periodi dell’anno, la gestione dei pazienti e degli operatori si complicasse non poco.

Ciò poteva spiegarsi biologicamente con il mutare delle ore di luce, sociologicamente con la maggiore pesantezza della solitudine e della povertà in periodi come il Natale o le vacanze estive oppure, secondo Gilda, con il gioco dei mutevoli allineamenti  dei pianeti nei segni zodiacali.

Naturalmente, i periodi di maggiore crisi corrispondevano anche alle ferie degli operatori che, forse, erano esse stesse un motivo delle riacutizzazioni.

In quell’autunno del 1999, col cielo indeciso sempre  sul punto di cacciare con la pioggia un’estate che tutti aveva affannato e non si decideva a finire, un ulteriore motivo tormentava nottetempo le menti: il cambio di millennio riaccendeva fantasie apocalittiche o attese di cambiamenti radicali.

Comunque tutto sarebbe stato diverso ed il nuovo, si sa, che sia brutto o bello, un pochino spaventa.

Con il principiare dell’avvento lo scorrere intenso dell’attività del CIM, che vedeva impegnati gli operatori in genere a coppie o in piccole squadre di tre ad attuare i progetti terapeutici messi a punto nelle periodiche riunioni generali ancora tanto simili alle assemblee del ’68 per democraticità e anche confusione inconcludente, si increspava in onde o creava vortici per l’intensificarsi di emergenze accomunate dall’imperativo di far presto, perché la follia e le sue tracce fossero nascoste sotto il tappeto per non turbare il clima natalizio. Poteva essere l’ultimo Natale, forse il prossimo celebrato insieme a tutti nella comunione dei santi nella valle di Giosafatte.

La follia è democratica e colpisce indistintamente tutte le classi sociali. Per arrivare al Cim, però, preferisce farsi accompagnare dalla povertà. Se è da sola non si fida e sceglie gli studi  privati con la musica in sala d’attesa, meglio quelli di Vontano o di Roma che garantiscono maggiore riservatezza, anche se gli operatori sono gli stessi.

Lo studio privato del Dr. Irati  aveva appuntamenti a due mesi, mentre al CIM, lo stesso medico non aveva alcuna lista d’attesa.

Era dunque inaspettato che il sindaco stesso chiedesse un intervento per la signora Cristina Forni, settantaduenne, benestante grazie alla ricca reversibilità del marito, prestigioso medico condotto di Monticelli scomparso da tre anni ed ancora nella memoria riconoscente di tutti. Aveva reagito positivamente alla morte del marito, per quanto si possa dopo la perdita del compagno di quarant’anni di vita.

Biagioli le aveva portato allora le condoglianze di tutto il CIM, che aveva avuto nel dr. Forni un sensibile collaboratore e le aveva sconsigliato di restare da sola nella grande villa alla periferia sud del paese.

Ma il figlio maggiore, sposato, non aveva spazio nella piccola casa di Roma e il più piccolo era partito per l’Andalusia dopo tre mesi della morte del padre, dove si diceva cercasse fortuna come ristoratore.

Cristina era rimasta con i suoi sei gatti cui dedicava la vita. Per accudirli rinunciava a recarsi a Roma dal figlio anche dopo la nascita del nipotino, attirandosi le critiche del vicinato e della nuora. Di affidare i gatti a qualcun altro non se ne parlava proprio, così come di accettare un aiuto per la gestione domestica. Per tirchieria, orgoglio ed un senso esasperato della privacy non voleva che nessuno entrasse in casa. Le stesse amiche avvertivano di non essere gradite e diradarono le visite.

Una coltre pesante di decadenza, degrado e morte scese progressivamente sulla villa Forni e su Cristina. Il giardino, assediato da erbacce e rovi, ospitava randagi di ogni genere, con una predominante colonia di pantegane che mettevano in fuga i gatti di Cristina sempre più smagriti  per l’assenza dell’attività culinaria molto abbondante, al contrario, quando era in vita il dottore.

Le grondaie intasate facevano scolare l’acqua sulle pareti interne della casa ed una grande macchia di umido, con il tanfo di muffa, si espandeva sui soffitti.

Cristina provava tristezza a cucinare solo per sé, il più delle volte non lo faceva e suppliva con un pezzo di pizza.

Non erano i soldi a mancarle ma la voglia di vivere. L’abbigliamento, un tempo curato ed elegante, mostrava una trascuratezza generale che non risparmiava il corpo dimagrito e dall’igiene approssimativa. Cristina, una delle donne più in vista del paese, stava trasformandosi in una barbona.

Biagioli, sempre in nome del rapporto che lo legava al marito, le aveva prescritto degli antidepressivi. Aveva attivato Silvia, l’assistente sociale, per coinvolgerla  in un corso di pittura per i ragazzi del centro diurno in cui lei avrebbe fatto l’insegnante, avendo un passato di professoressa al liceo artistico.

Sembrava importante darle un ruolo di accudimento e cura in considerazione che era ciò che l’aveva mossa tutta la vita,  dedita ai figli, agli allievi ed ai suoi gatti. Per alcuni mesi la faccenda funzionò e Cristina si riprese anche fisicamente perché mangiava con gli altri al centro diurno, incartando per i suoi mici gli abbondanti resti. Quando mostrava qualche tentennamento e si dichiarava stanca la andava a prendere l’infermiera Luisa con la macchina di servizio.

Il dodici settembre fu proprio Luisa, appena tornata da un servizio esterno con Biagioli non esattamente professionale, sebbene giudicato da entrambi urgente,  a ricevere la telefonata del figlio di Roma: il consolato italiano di Siviglia lo aveva chiamato per comunicargli la morte del fratello in un incidente sul lavoro e voleva fosse il CIM a dare la notizia alla madre.

Non esistono parole adatte per queste notizie. Per togliersi dal cuore il peso di questo compito furono quasi precipitosi e già nell’ingresso della gelida casa avevano comunicato, come un telegramma, la fine a 23 anni della vita di Alberto per mano di un camionista ubriaco. Avevano portato con loro la borsa del pronto soccorso immaginando tempeste emotive e  scompensi cardiologici, erano pronti a tutto ma non a ciò che davvero accadde.

Cristina, come non avesse udito, li invitò ad accomodarsi in salone, chiese a Biagioli se volesse essere così gentile da accendere il caminetto ironizzando sulla sua capacità di farlo, poi si  dileguò in cucina a preparare il caffè e Luisa la sentì borbottare tra sé su come comunicare la notizia al marito. Tornata, ebbe a lamentarsi per la nuova gestione del forno del paese e delle ciambelline alle nocciole, non paragonabili a quelle di un tempo. Almeno il marito, che tanto le apprezzava, non avrebbe dovuto sperimentare questa delusione. Parlò diffusamente del figlio romano e delle preoccupazioni di un genitore quando i figli sono fuori di casa tra i pericoli del mondo.

Biagioli, sconcertato, disse a Cristina che la notizia l’avevano avuta da Marco che era stato avvertito a sua volta dal consolato di Siviglia. Cristina divenne sbrigativa, raccogliendo le tazze del caffè ed il piatto con i dolcetti e li congedò lamentando la trascuratezza dei figli verso i genitori se non hanno nulla da chiedere.

In macchina aumentarono il riscaldamento, per togliersi di dosso il gelo di quell’incontro appunto agghiacciante più di qualsiasi scena di disperazione. Sembrava loro di aver sentito distintamente il rumore di qualcosa che si spezzava per sempre dentro Cristina. Da quel giorno non venne più al centro diurno nonostante Luisa suonasse nei giorni stabiliti al citofono della villa. Nessuno in paese la vedeva più dalla fine di settembre, solo i gatti randagi avevano accesso alla villa.

A fine novembre fu il sindaco Pedrazzoli a chiedere l’intervento del CIM per la preoccupazione dei vicini. Convocata con una lettera in ambulatorio non si presentò e si decise per un trattamento sanitario obbligatorio. Cristina non apriva al citofono del grande cancello e fu forzata la porticina sul retro che dava direttamente su strada.

Appena varcata la soglia Biagioli e Luisa furono investiti da un disgustoso odore dolciastro che chiudeva la gola.

Silvia Ciari, l’assistente sociale che li aveva accompagnati, pensò al peggio e vomitò in un angolo.

Alle loro chiamate una voce lontana rispose. Entrati in camera da letto viderò ciò che non avrebbero più dimenticato: al centro del letto stava Cristina vestita con l’abito della festa, un tailleur grigio fumo e, tutto intorno sul letto, per terra, sul comò, sulle sedie e nell’armadio aperto, scatole di scarpe. Su ogni scatola un nome e il disegno di una croce.

Complessivamente erano 77 i gatti morti che circondavano Cristina, in diverso stato di putrefazione.

La donna, tiratasi su, spiegò che quei piccoli indifesi correvano troppi pericoli nel mondo là fuori e che lei li aveva attirati con prelibatezze nel giardino perchè restassero per sempre al sicuro con lei.

I suoi sei gatti originari erano sul letto e ormai rinsecchiti, gli altri via via più distanti e freschi.

Il medico legale dell’ospedale, non celando il malcontento per il compito che gli veniva chiesto ed inveendo contro la sanità mentale degli operatori del CIM, sostenne che erano stati strangolati con un foulard di seta.

Cristina non voleva lasciare i suoi piccoli e fu necessario un TSO con l’intervento della polizia municipale, anch’essa maledicente il CIM.

Persino i vicini di casa mostrarono ostilità per gli operatori che trascinavano sull’ambulanza una minuta vecchietta che non dava fastidio a nessuno. In sua difesa alcuni ricordarono come girava sempre con le tasche piene di caramelle per i ragazzini.

A Biagioli venne in mente che forse, nonostante l’apparenza, erano arrivati in tempo.

Mentre l’ambulanza si dirigeva verso l’SPDC di Vontano, Biagioli convocò una riunione generale per la mattina successiva. Silvia Ciari, l’assistente sociale avrebbe, attraverso il sindaco, organizzato la totale ripulitura e disinfezione della casa durante il periodo di ricovero, con gli operai comunali o una apposita ditta per riparare tutto il degrado che la villa aveva avuto anche prima di diventare una necropoli felina.

La dottoressa Daniela Ficca avrebbe iniziato dei colloqui già durante il ricovero e poi mantenuto un rapporto psicoterapico dopo la dimissione che, secondo gli accordi, sarebbe durato circa un mese.

Le infermiere l’avrebbero subito ricoinvolta nel corso d’arte al centro diurno.

A Giovanni spettava il compito di contattare il figlio Marco per  organizzare una sua maggiore presenza nella vicenda della madre, ora che era rimasto figlio unico.

Il caso di Cristina, ricordata come la serial killer felina, sarebbe stato seguito da Daniela Ficca, Silvia Ciari, Luisa, Gilda, Giovanni e lo stesso Biagioli. Si sarebbero incontrati ogni 15 giorni per fare il punto della situazione e aggiustare il tiro. Avevano però fatto i conti senza l’oste.

Cristina raggiunse gatti e marito alla fine del terzo giorno di ricovero passando per la finestra della sala visite dell’SPDC. Se non fossero intervenuti forse sarebbe ancora viva? Le avevano fatto una violenza indicibile come sostenevano i vicini? A che punto della storia si sarebbe dovuto intervenire perchè questa prendesse un altro corso? Cosa era successo in quei tre giorni di ospedale?

Sensi di colpa e accuse montano sempre intorno agli eventi luttuosi ma straripano nei casi di suicidio. Cosa si poteva fare e non era stato fatto, cosa era stato fatto che era meglio non fare?

L’idea, suggerita dal figlio, che avesse smesso di soffrire era di ben poca consolazione, loro erano pagati per trovare altri modi di smettere di soffrire e non c’erano riusciti.

Tutti insieme andarono al funerale, non previsto dal bel progetto terapeutico.

 

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PSICOLOGIA & PSICHIATRIA PUBBLICHE – CENTRO DI IGIENE MENTALE – CIM

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Terapia metacognitiva interpersonale di Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore

Terapia metacognitiva interpersonale

di Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore

Raffaello Cortina Editore – 2013

 

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Terapia metacognitiva interpersonale . © CLI-263-Dimaggio-SIn questo manuale la Terapia metacognitiva interpersonale è descritta nelle sue procedure passo-dopo-passo, al fine di guidare l’azione del clinico in ogni momento del trattamento, dalla formulazione congiunta del caso alla progettazione e realizzazione del cambiamento.

Mi pare che “Terapia metacognitiva interpersonale dei disturbi di personalità” di Giancarlo Dimaggio, Antonella Montano, Raffaele Popolo e Giampaolo Salvatore, pubblicato da Raffaello Cortina nel 2013, sia quella descrizione definitiva e da lungo tempo attesa di questo forte modello di psicopatologia cognitiva.

Ma è anche un tentativo, già in buona parte riuscito, di formalizzare il modello in un protocollo flessibile di pratica clinica. Insomma buona teoria, secondo la tradizione italiana, ma anche buona pratica, come ci insegnano i colleghi anglo-sassoni.

Leggere Dimaggio e i suoi collaboratori mi concede il divertente gioco di riflettere sulle differenze con gli altri modelli metacognitivi: il modello del Terzo Centro di Semerari, Carcione, Nicolò e Procacci, alla cui edificazione aveva collaborato lo stesso Dimaggio (Dimaggio e Semerari, 2007); il modello di Adrian Wells (Wells, 2009); e il modello di Fonagy (Bateman e Fonagy, 2010).

La Terapia Metacognitiva Interpersonale (ovvero la TMI) condivide con Semerari l’attenzione per i cicli interpersonali, ma insiste di più sugli interventi di tipo espressivo e metacognitivo. Per Dimaggio e i suoi collaboratori il paziente con disturbo di personalità (che è il paziente bersaglio della TMI) ha un difetto di riflessione e di contatto con i propri stati mentali.

Egli compensa questa carenza usando un linguaggio intellettualistico e sostanzialmente evitante. Cosicché in terapia egli finisce spesso per abbandonarsi a considerazioni pessimistiche sul mondo, la politica, la decadenza dei tempi e dei costumi. In questi discorsi generici traspare il malessere interpersonale del paziente (che soffre di dolorosi sentimenti di esclusione ed emarginazione) ma emerge anche la sua mancanza di consapevolezza interiore.

A questa carenza gli autori TMI (come da questo momento chiamerò Dimaggio, Montano, Popolo e Salvatore) suppliscono incoraggiando continuamente il paziente a tornare sulla terra, a portare esempi concreti di questo malessere generale, ad andare oltre il vago rammaricarsi sulla decadenza dei tempi e a descrivere episodi di vita vissuta in cui iniziare a ricollegarsi con ciò che si è davvero sentito in quel momento, sia nel campo interiore metacognitivo che in quello relazionale e interpersonale.

Qual è la differenza tra gli autori della TMI e Semerari e i suoi collaboratori del Terzo Centro? Essi condividono poco questo lavoro esplicito sugli stati mentali e invece teorizzano che il processo terapeutico avvenga completamente attraverso il canale non verbale, ma relazionale. Per Semerari e i suoi collaboratori, la fuoriuscita dai cicli patologici avviene esclusivamente attraverso il diverso modello relazionale che avviene in seduta, attraverso la famosa disciplina interiore che permette al terapeuta di non cascare nelle provocazioni attivanti del paziente.

Per Semerari “un ciclo interpersonale è un processo relazionale in cui i due partecipanti sono spinti ad agire in modo da rinforzare la patologia di uno dei due. In quanto processo relazionale, quindi, cessa quando uno dei due non ha più questa tendenza d’azione. Non c’entra niente con quello che si dice al paziente. Il terapeuta esce dal ciclo con operazioni di disciplina interiore e passa da una posizione relazionale problematica ad una empatica”. Questo è vero anche per gli autori della TMI. Questo però non significa che il canale cognitivo esplicito consapevole sia del tutto ininfluente.

In un certo senso, Wells e il gruppo TMI sono separati da una simile differenza. Anche per Wells il difetto metacognitivo è non verbale, e consiste in disfunzioni del processo attentivo. E anche per Wells la terapia è non verbale, consistendo un riaddestramento attentivo. Tuttavia, ci sono differenze anche tra Semerari e Wells: per l’uno il problema è interpersonale, per il secondo attentivo. E in questo Semerari e il gruppo TMI sono più vicini tra loro.

Sembrerebbe che il modello TMI goda della massima vicinanza con il modello di Fonagy. Il modo in cui Bateman e Fonagy descrivono la carenza di mentalizzazione è prossimo alla concezione che si ha, nel modello TMI, delle carenze di metacognizione nei pazienti con disturbo di personalità. Una difficoltà nel comprendere gli stati mentali come eventi interiori, e un rifugiarsi in intellettualizzazioni sterili (che Fonagy chiama pseudo-mentalizzazioni).

Però, nel modello TMI c’è maggiore attenzione per la precisione concettuale. Come sappiamo, in Fonagy la liquidità della definizione di mentalizzazione è quasi una scelta consapevole. La mentalizzazione è un concetto pratico che non è necessario definire con esattezza. Non è questa la scelta degli autori del modello TMI, che invece definiscono con chiarezza i contorni concettuali del loro pensiero.

La parte protocollare del libro descrive un modello applicabile a tutti i disturbi di personalità, in maniera quasi indifferenziata: disturbo di personalità narcisistico, evitante, ossessivo-compulsivo, dipendente, paranoide, passivo-aggressivo e depressivo possono essere tutti trattati dalla TMI con piccoli aggiustamenti. Devo dire che questa scelta mi ha un po’ meno soddisfatto, perché la capacità di non trasformare i disturbi di personalità in una pappa indifferenziata era sempre, stata, a mio parere, un punto di forza del vecchio modello metacognitivo condiviso, quando Dimaggio e Semerari ancora collaboravano.

In questo manuale la TMI è descritta nelle sue procedure passo-dopo-passo, al fine di guidare l’azione del clinico in ogni momento del trattamento, dalla formulazione congiunta del caso alla progettazione e realizzazione del cambiamento.

Il manuale è scritto in un linguaggio accessibile e non gergale, descrive con accuratezza i problemi principali che questi pazienti pongono al terapeuta e offre un ampio ventaglio di soluzioni per risolverli.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Gaslighting, una forma di violenza psicologica – Rapporti interpersonali

Il presente articolo vuole fornire una panoramica generale sugli aspetti psicologici del fenomeno del gaslighting. Il Gaslighting è una tecnica di crudele ed infida manipolazione mentale.

Ndr: il gaslighting è un fenomeno trasversale che può interessare sia uomini che donne. 

 

Esiste una violenza che non è fatta di rabbia espressa, al contrario, è insidiosa, fatta di silenzi ostili alternati a parole pungenti. E’ una forma d’abuso antica, perpetrata in modo particolare tra le “sicure” mura domestiche, che lascia profonde ferite psicologiche.

Il presente articolo vuole fornire una panoramica generale sugli aspetti psicologici del fenomeno del gaslighting.

 

Che cos’è il Gaslighting: una tecnica di manipolazione mentale.

Il termine deriva da un’opera teatrale del 1938 Gas light (Luci a gas, inizialmente nota come Angel Street negli Stati Uniti), e dagli adattamenti cinematografici di Alfred Hitchcock “Rebecca – la prima moglie” del 1940 e “Angoscia” film italiano del 1944. La trama tratta di un marito che cerca di portare la moglie alla pazzia manipolando piccoli elementi dell’ambiente, e insistendo che la moglie si sbaglia o si ricorda male quando nota questi cambiamenti. Il titolo origina dal subdolo affievolimento delle luci a gas da parte del marito, cosa che la moglie accuratamente nota ma che il marito insiste essere solo frutto dell’immaginazione di lei.

Da qui, il termine gaslighting è utilizzato per definire un crudele comportamento manipolatorio messo in atto da una persona per far si che l’altra dubiti di se stessa e dei suoi giudizi di realtà fino a sentirsi confusa, sbagliata.

 

Il gaslighter

Gaslighter, viene definito colui che mette in atto tale manipolazione mentale, minando alla base ogni certezza e sicurezza del partner, agendo come un vero e proprio lavaggio del cervello, che mette la vittima in condizione di pensare di meritare quella punizione e di avere colpa per aver sbagliato.

Questo tipo di violenza psicologica è insidiosa, sottile, a volte giustificata dalla stessa vittima. E’ una violenza gratuita e persistente, somministrata a dosi quotidiane, ed ha la capacità di “annullare” la capacità di giudizio e autonomia valutativa la persona che ne è bersaglio.

La ricerca dimostra che nella stragrande maggioranza dei casi la vittima e il gaslighter sono quasi sempre partner o parenti stretti.

In numerosi casi il comportamento di gaslighting è adottato dal coniuge abusante per punire o allontanare l’altro quando si vivono rapporti coniugali conflittuali, insoddisfazioni personali e relazioni extraconiugali.

Il gaslighting è una forma di violenza che nasce anche all’interno di rapporti precedentemente costruiti sull’amore. Poi, accade che una frustrazione alla quale non si sa adeguatamente reagire, mette in crisi la sicurezza e la fiducia che ripone in sé il manipolatore e tutto crolla: l’amore è sostituito dalla cattiveria gratuita e dalle molestie.

 

Esempi di cattiveria:

“ Sei grassa! (magra, brutta, ecc..)”

“ Scusatela, mia moglie è una deficiente!”

“ Sbagli sempre tutto! Non ne fai una giusta!”

“ Ma come non ti ricordi! Me l’hai detto proprio tu!”

“ Non me l’hai mai detto! Te lo sarai immaginato!”

“ Le tue amiche sono insignificanti, proprio come te!”

“ Se ti lascio rimarrai sola per tutta la vita!”

“ Tu non sei nessuno!”

Messaggi dunque di svalutazione, ingiunzioni che feriscono emotivamente e l’anima, ancor di più se pronunciati alla presenza di altre persone come fosse una pubblica umiliazione. Il gaslighter sa come ferire, e prova godimento dagli effetti del suo comportamento.

 

Gaslighting: i manipolatori

Esistono tre categorie di manipolatori:

a) l’affascinante. E’ probabilmente il più insidioso, sottopone la sua vittima ad una continua doccia scozzese. Alterna silenzi ostili e tremende pungolature a momenti d’alluvione d’amore e lusinghe. Si può solo immaginare l’atmosfera di disorientamento che pervade la vittima.

b) Il bravo ragazzo. Che sembra avere a cuore solo il bene della vittima ma in realtà è un egoista camuffato da persona altruista. E’ sempre attento ad anteporre i propri bisogni, il proprio tornaconto personale a quello della vittima, anche se riesce a dare un’impressione opposta.

c) L’intimidatore. E’ il contrario dei manipolatori precedenti e, sicuramente, il più diretto. Non si preoccupa di nascondersi dietro false facciate. Rimprovera apertamente la vittima, fa battute sarcastiche su di lei, l’aggredisce esplicitamente.

Lo scopo del comportamento di gaslighting, comune alle tre categorie di manipolatori, è ridurre la vittima a un totale livello di dipendenza fisica e psicologica, annullando la sua capacità di autonomia e responsabilità. La persona vittima si troverà imprigionata da questo comportamento e, lentamente, le sue resistenze si affievoliranno sino a scomparire del tutto, diventando inconsapevole complice del suo aguzzino.

 

Le fasi della manipolazione del Gaslighting

In questo sprofondamento nell’abisso la vittima attraverserà tre fasi successive:

a) La prima fase sarà caratterizzata da una distorsione della comunicazione. Il perseguitato non riuscirà più a capire il persecutore. I “dialoghi” saranno caratterizzati da silenzi ostili, alternati da piccature destabilizzanti. La vittima si troverà così disorientata, confusa nella nebbia.

b) La seconda fase sarà caratterizzata da un tentativo di difesa. La vittima cercherà di convincere il suo abusante che quello che dice non corrisponde alla verità; proverà ad instaurare un dialogo, ostinato, con la speranza che ciò serva a far cambiare il comportamento del gaslighter. La vittima si sentirà come investita da un compito basilare: le sue capacità d’ascolto e di dialogo riusciranno a far cambiare l’abusante.

c) La terza fase è la discesa nella depressione. La vittima si convincerà che ciò che l’abusante dice nei suoi confronti corrisponde a verità, si rassegna, diventa insicura ed estremamente vulnerabile e dipendente. In questa fase la perversione relazionale raggiunge l’apice: la violenza si cronicizza e la vittima si convince della ragione e anche della bontà del manipolatore che, spesso, viene anche idealizzato.

 

RIferimenti clinici e popolari sul gaslighting

La psicologa Martha Stout (2005) sostiene che i sociopatici usano frequentemente tattiche di gaslighting. I sociopatici trasgrediscono coerentemente leggi e convenzioni sociali, e sfruttano gli altri, ma sono anche tipicamente bugiardi credibili che negano coerentemente ogni misfatto. Così, alcune vittime di sociopatici possono dubitare della propria percezione.

Jacobson e Gottman (1998) riferiscono che alcuni mariti violenti potrebbero usare il gaslighting sulle proprie mogli, anche negando fermamente di aver mai commesso alcun atto di violenza.

Gli psicologi Gass e Nichols (1988) usano il termine gaslighting per descrivere una dinamica osservata fra coniugi in alcuni casi di adulterio. I terapeuti di sesso maschile possono contribuire al disagio delle pazienti femminili mal interpretando i loro comportamenti. I comportamenti di gaslighting del marito forniscono una ricetta per il così detto crollo psicologico per alcune donne e il suicidio in alcune delle peggior situazioni.

I componenti della Famiglia Manson nei crimini compiuti durante la fine degli anni sessanta entravano nelle case senza rubare nulla, ma spostavano i mobili per turbare i residenti.

 


Il Disturbo Dipendente di Personalità
DISTURBO DIPENDENTE DI PERSONALITA'

Antonino Ferro: Alle origini dell’esperienza psichicha

 

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

 

A pochi giorni dal 17esimo Congresso della SPI, Società Psicoanalitica Italiana, Antonino Ferro risponde a 3 domande sullo stato attuale della Psicoanalisi e le direzioni future.

La psicoanalisi a mio avviso si trova a un bivio: o diventare sempre più di nicchia con i limitati casi di applicabilità classicamente descritti e di cui il “paziente nevrotico” era il fulcro oppure fare un salto di modello ed aprirsi verso tutte le forme di sofferenza mentale (pazienti borderline, psicotici, psicosomatici e soprattutto andando verso l’infantile, la psicoanalisi della coppia, della famiglia, dei gruppi istituzionali). Al tempo stesso ritengo fondamentale l’aprirsi  a nuovi setting, come quello delle consultazioni  prolungate, ad esempio le consultazioni con i bambini di 0-2 anni: l’apertura a fasce di età prima non pensabili sarà il nostro futuro.

Io posso aggiungere dove la psicoanalisi potrebbe auspicabilmente andare secondo me: potrebbe smettere di essere caratterizzata da ortodossie  o da supposte élites  capaci di pronunciarsi su tutto e qualificarsi invece come il più efficace –a tuttora conosciuto- strumento di terapia e di alleviamento della sofferenza psichica…

 

Alle origini dell’esperienza psichichaConsigliato dalla Redazione

Società Psicoanalitica Italiana - Rivista Online -SPIWEB - logo
XVII Congresso Nazionale della SPI – Tre domande per il Congresso: risponde il Presidente della SPI Antonino Ferro  (…)

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


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Il nostro cervello è specializzato nel categorizzare i gruppi sociali

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I gruppi sociali costituiscono una categoria specifica nel nostro cervello: siamo dotati di meccanismi cognitivi specializzati nel riconoscimento dei gruppi sociali perché la capacità di riconoscere, per esempio, il “criminale” o il “poliziotto”, ci permette di salvarci la vita”, spiegano i ricercatori.

Per il nostro cervello oggetti animati e inanimati appartengono a diverse categorie e sono elaborati da reti diverse. Uno studio, appena pubblicato sulla rivista scientifica Cognitive Neuroscience  condotto da Raffaella Rumiati dalla SISSA e Andrea Carnaghi dell’Università di Trieste, dimostra anche che c’è una terza categoria funzionalmente distinta dalle altre due: la categoria dei “gruppi sociali“.

E ‘stata la ricerca nel campo della neuropsicologia a rivelare una distinzione funzionale tra alcune macro-categorie. “In neuropsicologia cerchiamo la doppia dissociazione“, spiega Rumiati,  “ad esempio possiamo trovare alcuni pazienti che hanno un deficit cognitivo nel riconoscimento di oggetti animati, ma hanno conservato la capacità di riconoscere oggetti inanimati. Tuttavia, per poter dire che le due funzioni sono separate, abbiamo bisogno di trovare anche pazienti che presentano il problema inverso, cioè che hanno difficoltà a riconoscere oggetti inanimati ma che hanno ancora buone capacità cognitive per quanto riguarda gli oggetti animati.”

Rumiati e collaboratori hanno applicato questo metodo al riconoscimento dei “gruppi sociali” . “Il concetto di categoria sociale è di cruciale importanza per gli esseri umani in termini evolutivi e per questo motivo è ragionevole pensare che esistono circuiti cerebrali specifici che ne assicurano l’efficienza e la velocità di riconoscimento.

I ricercatori hanno selezionato pazienti con demenza e li hanno testati  per valutare la selettività delle menomazioni: esclusiva cioè per una delle tre categorie, oggetti animati, inanimati e gruppi sociali.

Il risultato principale è stato trovare una doppia dissociazione tra gruppi sociali e entrambe le altre due categorie.

Questo significa che i gruppi sociali costituiscono una categoria specifica nel nostro cervello: siamo dotati di meccanismi cognitivi specializzati nel riconoscimento dei gruppi sociali perché la capacità di riconoscere, per esempio, il “criminale” o il “poliziotto”, ci permette di salvarci la vita”, spiegano i ricercatori.

Questo studio ha un’implicazione importante, mostra che ha senso applicare i metodi quantitativi utilizzati nelle neuroscienze anche alle scienze sociali e, in particolare, agli studi su come si formano stereotipi e pregiudizi. Grazie a questo studio ora sappiamo che uno stereotipo sociale viene elaborato dal cervello in modo diverso da uno stereotipo su un oggetto inanimato o quello su un animale.

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CBT, Terza Ondata e il rifiuto del Comportamentismo: una lettera aperta

 

 

Terza Ondata - CBT IMMAGINE: - © bluedarkat - Fotolia.com A seguito di una controversa questione tra Recalcati e Galiberti da una parte e le terapie cognitivo-comportamentali dall’ altro, ho scritto questa lettera, che più che una risposta alla questione di “statuto speciale” della psicoanalisi ha generato in me diverse domande rispetto alla nostra Terapia Cognitivo Comportamentale. La lettera è stata postata nella mailing-list della Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC) e ora la proponiamo ai lettori di State of Mind, per sapere che cosa ne pensate:

 

E’ bellissima questa risposta compatta e unita  rispetto alle affermazioni di Recalcati e Galimberti, ma leggendo le risposte di tutti, mi sono venute delle domande a cui, secondo me, dovremmo cercare di darci delle risposte prima di rispondere ai nostri esimi colleghi.

-Esiste una terza ondata?

-Esistono le terapie di terza generazione?

-Perchè dobbiamo far risalire la nascita del nostro orientamento a Beck?

-Perchè il comportamentismo dovrebbe essere fraintendente, svilente e riducente?

-Che cos’è il cognitivismo?

 

Mi spiego meglio: leggendo e facendo una “summa “del tutto quello che si è detto, mi è sembrato di cogliere delle “credenze di base” che creano in me una dissonanza di tipo “festingeriana”/cognitiva rispetto alle mie conoscenze e alle mie credenze di base.

Esiste la terza ondata? Esistono le terapie di terza generazione? A mio avviso sì, ma se per tutti la risposta è sì mi viene da porre un’altra domanda: “qual’ è la prima ondata delle terapie C.C.?  ”Tutte le ricerche riconducono la prima ondata di terapie basate su evidenze scientifiche a Terapie che hanno avuto sviluppo intorno agli anni ’50 ’60 e  che attualmente vengono definite: ”terapie comportamentali radicali”.

Da ciò si evince che, sempre che la logica non sia un opinione e si voglia parlare un linguaggio comune, le prime terapie cognitive comportamentali nascono come terapie comportamentali. E proprio ad essere pignoli, la prima forma di evoluzione di questo trattamento si fa risalire  ad un tale, un certo Burrhus Skinner, che con l’uscita del suo libro nel 1957: “Verbal Behavior”, poneva l’accento sull’importanza di trattare i pensieri in termini di comportamenti e non che i pensieri  alla fine non fossero ,poi, così importanti. Verissimo il primo comportamentismo non considerava i pensieri, ma non perché non li ritenesse importanti, ma più perché “epistologicamente” derivava direttamente dalla Psicologia sperimentale che aveva come assioma base: ”l’osservabilità” di un fenomeno.

Come si può osservare un pensiero? Risposta: Comportamento Verbale.

 

Perchè dobbiamo far risalire la nascita del nostro orientamento a Beck?

Prima risposta: “Epistemologica Cronologica”.

Molti ritengono che il termine terapia Cognitivo Comportamentale derivi da Beck ed ad onor del vero anche io, nella prima stesura di questa lettera ne ero convinto, ma ho scoperto che il primo a definire il termine di terapia Cognitivo Comportamentale sia stato tale Donald Meichenbaum e lo fece  nell’ articolo “Cognitive behavior  modification”.Morristown, NJ: General Learning Press, 1974.

Pur sorvolando su questa nota storica ed ammettendo che sia stato Beck ad aver  formulato il termine terapia Cognitivo Comportamentale, lo ha fatto dagli anni ’70 in poi, dunque, se cerchiamo una linea di continuità  e una “casa comune”, definendo  le terapie di terza generazione o terza ondata, come terapie di terza ondata o terza generazione dobbiamo ammettere che esista una continuità epistemologica ed una cronologica.

Terza vuol dire che c’è una Prima e c’è una Seconda ondata.

In termini cronologici, questa, dovrebbe essere quella del Behovarismo o dell’ “odiato” e “diniegato”(per rimanere in termini psicoanalistici), da molti,  comportamentismo. Ma se un padre c’è come può essere nato dopo dei figli?

Seconda risposta “Epistemologica “

Beck ed Ellis hanno sicuramente dato origine ad una rivoluzione, ma sicuramente questa rivoluzione è stata quella, a mio avviso, di far avvicinare modelli psicoanalitici e medico-organicistici a modelli psicologici-clinici, creando una rottura con la psicoanalisi e la psichiatria classica.

Mi spiego meglio, i presupposti di una terapia “evidence-based” e le tecniche comportamentali esistevano già: si fa risalire, appunto, l’approccio che deve basarsi sulle scoperte scientifiche e la psicologia sperimentale già a Watson negli anni ’30 e ’20.

L’attenzione, poi, verso i pensieri coscienti è già presente nell’  opera del ’57 di Skinner e presente nel già citato Verbal Behavior.

 

Perchè il comportamentismo dovrebbe essere fraintendente, svilente e riducente?

Io qui non ho una risposta, perchè è un giudizio di molti, ma non il mio: per me non è così.

Come Psicologo e come Psicoterapeuta non “diniego” le mie radici nel comportamentismo, ma ho notato che molti, all’interno del “cognitivismo radicale”(mi permetto di definirlo così) tendono a farlo, sentendosi vilipesi ad essere associati ad un genio (giudizio personale) come Skinner.

Senza poi mancare di affrettarsi a sostenere le terapie di terza ondata.

A dirla tutta, alcuni e solo alcune.

Se però osserviamo cosa sono queste terapie di terza ondata ci rendiamo conto che molte, nel loro statuto epistemologico, fanno direttamente riferimento al  “comportamentismo radicale” vedi ACT (Acceptance and Commitment Terapy), FAP ( Functional Analytic Psycoterapy) e DBT (Dialetic Behavior Terapy ) e a quel libro nero “VERBAL BEHAVIOR”.

Altre, invece, Mindfulness Based Cognitive Therapy hanno sì la CBT come origine epistemologica , ma poi  a ben leggere si riferiscono strettamente a meditazione Vipassana e Joga scivaistico.

A tal guisa mi permetto di dire che pratico Joga da prima di essere psicologo, ed ultimamente mi è capitato di vedere che le scuole di Mindfulness Italiane propongono addirittura dei workshop di “pranayama”, una tecnica di respirazione che i maestri indiani non insegnano a meno che non si sia vegetariani e non si faccia meditazione almeno da 4 anni.

Al di la della scorrettezza tecnica, entrando nella questione fisiologica, il “pranayama”, è una tecnica di iperventilazione e come tutti noi cognitivo-comportamentali  sappiamo, l’iperventilazione genera “attacchi di panico”.

La terapia meta-cognitiva, poi, di Wells, più che a Beck sembra essere la migliore applicazione clinica del modello teorico dell’ HIP (Human Information Processing) americano e sembra trarre il nome da tutto il “filotto” post-piagetiano svizzero.

 

Che cos’è il cognitivismo?

Qui devo essere onesto: non l’ho ancora ben capito, in termini epistemologici più che altro.

Per cognitivismo intendiamo ciò che Beck ha definito cognitivo o intendiamo le scienze cognitive e dunque anche le neuroscienze cognitive?

Qui la questione è un po’ particolare e molto particolare, perché all’università i miei libri di storia della psicologia facevano risalire il cognitivismo agli anni ’50 e ’60, ma non citavano Beck, bensì Bruner e la nozione di rappresentazione mentale.

Bruner aveva teorizzato questo modello riprendendo Piaget e la sua epistemologia genetica  arrichendo il tutto con gli scritti di Vygotskij, padre del funzionalismo.

Piccola nota storica: Vygotskij  rischiava di non essere conosciuto in occidente a causa del “diniego” del comunismo, fu proprio Bruner, a farlo conoscere in occidente.

Altro autore padre del cognitivismo, sempre dai miei libri, veniva ritenuto Chomsky, che con i suoi studi sulla grammatica trasformazionale dimostrò come non fosse plausibile che l’apprendimento del linguaggio fosse possibile tramite rinforzi, a causa del fenomeno, da lui stesso definito  “povertà degli stimoli”.

In buona sostanza Chomsky sostiene che il linguaggio sia innato e che più che un’ apprendimento  sia un’ emergenza cognitiva determinata dal maching con lo stimolo acustico-verbale della lingua presente nell’ ambiente in cui il soggetto vive.

Ecco è forse qui che si fa risalire la prima vera rottura tra cognitivismo e comportamentismo, dagli studi Chomsky, studi che però erano specifici per l’acquisizione del linguaggio in termini grammaticali, fonetici-fonologici e lessicali,  mai in termini di apprendimento di regole, comportamenti e comunicazione, tant’è che la deissi è un fattore di velocità dell’apprendimento tutto contestuale, come dimostrato dagli studi sui sordi.

Inoltre è importante ricordare che il concetto di operante  è uno dei più fraintesi sia all’ interno sia all’ esterno dell’ analisi Sperimentale del Comportamento e che soprattutto in Italia giunse prima la critica di Chomsky che il libro di Skinner e non giunse mai, sempre in Italia, la smentita di MacCorquodale che smentì empiricamente tutte le accezioni di Chomsky.

Fatto sta che un filone della psicologia comportamentale-cognitiva ha continuato quelle ricerche e ha dato lo sviluppo a quelle che sono oggi la RFT (Relectional Frame Theory), Irap (Implicit Relational Assessment Procedure (IRAP), che sono alla baase come detto prima di tutte le terapie e i modelli Comportamentli Cognitivi di terza onda.

Altro importante contributo, sempre prima degli anni ’70, poi, è stato dato da Bruner e dall’ enorme contributo di Atikinson e Schifrin da cui sono nate le prime scienze cognitive propriamente dette e definite come HIP : Human Information Processing.

All’ HIP, formato da tutti psicologi sperimentali, dobbiamo le nozioni di  schema cognitivo, da loro è derivata la nozione di rappresentazione, di attenzione selettiva, memoria a magazzini e non monista e quant’altro.

Non cito Fodor e la Teoria modulare button-up e top down, solo per non tediarvi troppo o forse perché, da vero cognitivista e scienziato qual è, nel 2003, ha scritto un bellissimo saggio: “ La mente non funziona così”, criticando tutto il suo approccio teorico-modularista….un’ grande, a mio modesto parere.

 

 

Conclusioni  Chiedo scusa per una lettera così lunga, ma troppo spesso sento delle divergenze anche tra noi che diciamo di voler difendere la CBT dall’attacco degli psicoanalisti, ma la vera domanda è quale CBT vogliamo difendere? Quella basata su evidenze scientifiche non l’ha creata Beck, nasce prima con la psicologia sperimentale.

Quella che si chiama CBT, il nome “forse” lo ha dato Beck è vero, ma è solo della terapia manualizzata di Beck che stiamo parlando?, di una terapia che non ha un passato (il behovarismo, l’ Hip, la psicoanalisi) e che adesso combatte un futuro (la terza ondata)?

Che senso ha il diniego del comportamentismo?

Che senso ne hanno i distinguo?

Ignorare le tecniche, significa ignorare la CBT stessa, perché sono le tecniche, la manualizzazione e la replicabilità a dare  la scientificità a quella che vuole essere chiamata scienza.

Ignorare poi il comportamentismo e il cognitivismo come scienza, significa relegare la psicologia a una scienza di serie B, alla sorella bruttina, quella che si vuole dimenticare, significa non dare la stessa dignità di padri a personaggi come  grandiosi come Skinner, Atikinson, Shiffrin, Bruner, Vygotskij , Piaget  e  a tutti gli altri Psicologi che hanno dato dignità alla nostra scienza.

Vorrei concludere con questa nota presa da Wikipedia:

Il termine “psicologia” divenne popolare nel Settecento, grazie al tedesco Christian Wolff che lo utilizzò per intitolare due sue opere: Psychologia empirica (1732) e Psychologia rationalis (1734). Con queste opere Wolff inaugurò la distinzione fra psicologia empirica e psicologia filosofica: la prima cercava di individuare dei princìpi che potessero spiegare il comportamento dell’anima umana, mentre la seconda indagava sulle facoltà dell’anima stessa. Successivamente, Kant criticò la distinzione di Wolff, negando la possibilità che potesse esistere una psicologia razionale. Kant, comunque, accettò la validità della psicologia empirica, anche se non la considerava scienza esatta, per il fatto che era impossibile applicare la matematica ai fenomeni psichici, mancando ad essi la forma a priori dello spazio. Grazie a Kant si posero le prime basi di una psicologia non più puramente filosofica, ma costruita con criteri empirici.

 

 ARGOMENTO CORRELATO: PSICOTERAPIA COGNITIVA

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Hayes, S.C., B Hayes, Barnes-Holmes e B. Roche (Eds.). Relectional Frame Theory: A post Skinnerian account of Human Language and Cognition (pp. 3-20). New York: Kluwer.
  • Hayes, S. C., Hayes, L. J. (1989). The verbal action of listener as a basis of rule-governance. In S.C. Hayes(ed.), Rule governed behaviour: Cognition, contingencies and instructional control (pp. 153-190. New York: Plenum Press.
  • Giovambattista Presti, Philip N. Chase Paolo Moderato(2002) Pensieri, parole e comportamento. Un’analisi funzionale delle relazioni linguistiche, McGraw-Hill
  • Mosticoni, R. (1979). Terapia del Comportamento. Roma: Bulzoni editore.
  • Donald Meichenbaum e lo fece  nell’ articolo “Cognitive behavior  modification”.Morristown, NJ: General Learning Press, 1974.
  • Skinner, B.F. (1957). Verbal behavior. Cambridge: Prentice-Hall, Inc. Trad. it. Il Comportamento Verbale. Roma: Arnaldo Editore, 2008.
  • Luigia Camaioni (1993)  Manuale di Psicologia dello Sviluppo, il Mulino 1994(Seconda Edizione)
  • FonJohn M. Darley (1981)  Fondamenti di Psicologia, Il Mulino, 1991
  • Russ Harrys (2011) Fare ACT, Franco Angeli, 2011

Curare giocando, giocare curando. La famiglia, i bambini, i terapeuti.

Curare giocando,  giocare curando.

La famiglia, i bambini, i terapeuti.

Sergio Lupoi, Antonella Corsello, Serena Pedi.

Franco Angeli ed. (2013)

 LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Curare giocando, giocare curando. -Immagine: locandinaIl gioco è la prima forma di apprendimento dell’uomo, presenta aspetti cognitivi, emotivi e relazionali su cui si basa anche la funzione curativa del gioco nella prospettiva sistemica.

Vi sono due modi diversi di utilizzare il gioco: il “GIOCO IN TERAPIA” atto a ridefinire e ristrutturare; la “PSICOTERAPIA DI GIOCO” in cui il gioco è lo strumento su cui si basa l’intervento.

Il libro è introdotto da una dedica: “A tutti i bambini che ci hanno insegnato come parlare alle loro famiglie”.

Questo testo ci permette di esplorare come il gioco e la terapia siano in sinergia; l’uso della play therapy ha trovato applicazione nelle esperienze traumatiche, nel disadattamento sociale e comportamentale, nelle condotte aggressive, nelle malattie terminali, nel bullismo e nel caso di bambini esposti a violenza.

In particolare il volume propone una applicazione del gioco nella terapia familiare come linguaggio idoneo alle espressioni delle emozioni del bambino e come fenomeno naturale nel contesto familiare che permette quindi l’esplorazione delle aree più delicate di questa.

Il gioco ha la capacità di adattarsi alle più svariate situazioni e gli autori credono dunque che questo testo possa infondere nel lettore la capacità di credere nel gioco per curare.

Si rivolge in particolare a coloro che operano nel settore, allievi e terapeuti, con lo scopo di promuovere l’utilizzo del gioco in terapia.

Si parte dall’introduzione dell’idea della psicoterapia di gioco con tutta la famiglia per giungere ad una teorizzazione di questa in un approccio sistemico-relazionale, basato su uno sviluppo competente dell’essere umano, su aspetti neurobiologici della vita di relazione, sul sé, la coscienza e la conoscenza, sulle emozioni, sulla memoria, sullo sviluppo del mondo psichico, sulla famiglia dell’individuo e sui livelli di patologia.

Si prosegue con una definizione di “gioco” differenziandone tre tipi diversi: game, gamble, play.

Con play si intende un comportamento di gioco finalizzato al puro divertimento con un numero non limitato di giocatori, senza regole e vincitori.

Con game ci si riferisce ad un gioco specifico con proprie regole.

Gamble invece è il gioco d’azzardo con regole precise e dove l’obiettivo è guadagnare e sono prevedibili comportamenti di imbroglio.

Il gioco è la prima forma di apprendimento dell’uomo, presenta aspetti cognitivi, emotivi e relazionali su cui si basa anche la funzione curativa del gioco nella prospettiva sistemica. Vi sono due modi diversi di utilizzare il gioco: il “GIOCO IN TERAPIA” atto a ridefinire e ristrutturare; la “PSICOTERAPIA DI GIOCO” in cui il gioco è lo strumento su cui si basa l’intervento.

La prassi terapeutica prevede varie tipologie di gioco:  il gioco di ruolo, il gioco con obiettivi da raggiungere, il gioco di azione con “oggetti” metaforici e racconti con personaggi giocattolo o con storie o fiabe.

Le fasi della terapia si definiscono in tre sedute di valutazione del sistema familiare, ponendo attenzione all’attaccamento e all’espressione delle emozioni. Segue la fase dell’interazione tra i membri e la definizione del contratto terapeutico. La fase centrale della terapia è incentrata sul raggiungimento degli obiettivi identificati nel contratto.

Il gioco permetterà alla famiglia di acquisire capacità di gioco, autoregolazione emotiva, modalità di attaccamento ed esplorazione più funzionale, ed essere più flessibili nei ruoli. La fase conclusiva prevede una remissione dei sintomi ed una riorganizzazione del sistema familiare.

Infine all’interno del testo troviamo alcuni casi clinici commentati.

La psicoterapia è gioco. Qualora il terapeuta non renda possibile il gioco, allora il lavoro del terapeuta deve essere rivolto a portare se stesso da uno stato di incapacità ad una capacità di giocare.”  Lupoi, Corsello, Pedi.

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BAMBINI – TERAPIA SISTEMICO RELAZIONALERECENSIONI

 

BIBLIOGRAFIA:

Pietà di Kim Ki-Duk (2012) – Cinema & Psicoterapia nr.18

Antonio Scarinci, Antonio Ciocci 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #18

Pietà (2012)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

 

Pietà (2012). -Immagine: locandinaMettersi nei panni del colpevole, avere empatia con chi ci ha offeso per capirne le motivazioni e ricondurre l’atto a una comune condizione umana in cui il male e il bene coesistono è l’elemento preminente di questo processo che si muove lungo il film, come convitato di pietra, senza esprimersi fino in fondo nei comportamenti dei protagonisti. 

Info:

Pietà. Un film di Kim Ki-Duk. Con Lee Jung-Jin, JoMin-Su. Drammatico. Corea del Sud 2012. Vincitore del Leone d’oro alla 69° Mostra Internazionale d’Arte Cinematografica di Venezia.

Trama:

Kang-do, solitario e anaffettivo tirapiedi di uno strozzino, quotidianamente gira nello slum della sua città per ottenere il pagamento dei debiti contratti con tassi d’interesse usurai.

Si comporta in modo spietato, storpiando le sue vittime e seminando la morte con indifferenza.

Madri, mogli e fidanzate si disperano per le sorti di mariti, figli e compagni. Alcuni preferiscono persino darsi la morte piuttosto che restare invalidi a vita.

Un giorno una donna dopo averlo seguito per la strada si intrufola a casa sua. Dice di essere sua madre, lo ha abbandonato alla nascita e si sente responsabile di averlo fatto crescere senza amore. Ogni colpa per i crimini compiuti dal figlio è sua e vuole riparare.

Kang-do è riottoso a crederle, pensa sia pazza, ma di fronte alle insistenze della donna la sottopone ad una serie di prove umilianti e terribili, ma alla lunga le ripetute offerte di amore della donna fanno breccia nel suo animo.  Accetta finalmente la donna e questo lo pone in una posizione di vulnerabilità come quella delle sue vittime: potrebbe perderla, qualcuno potrebbe vendicarsi.

E’ proprio la madre, però, che cerca vendetta per l’uccisione del suo vero figlio, una delle tante vittime di Kang-do. Finge di essere assassinata dandosi la morte.

La perdita del legame materno, finalmente ritrovato, è insopportabile per Kang-do, convinto che la sua vita non abbia più senso.  La moglie di uno dei suoi clienti aveva minacciato di investirlo con la macchina per vendicarsi e lui decide di portare a compimento la vendetta di questa donna. Si lega sotto il suo furgone facendosi trascinare. Il suo corpo lascia una lunga scia di sangue sulla strada.

Motivi d’interesse:

La sequenza narrativa del film appare fin troppo meccanica e forzata, anche se funzionale al ritmo e all’emotività da tragedia greca.

Aleggia un’aria d’inganno, di maligno presagio, un’arcaica sete di vendetta che si contrappone alla pietà della falsa madre nei confronti del falso figlio. La consapevolezza del dolore che provocherà la perdita di un legame ritrovato e la sete di giustizia come espiazione del colpevole si alternano nei sentimenti della madre.

I protagonisti, Kang-do e sua madre, si alternano nel triangolo drammatico, vittima/ carnefice/ salvatore, provano in fondo empatia l’uno per l’altro, senza accedere però alla pietà che fa nascere il perdono. La madre lo chiede insistentemente al falso figlio, che sembrerebbe concederglielo.

Ma è vero perdono?

Non attraversa tutto il film l’incapacità di comprendere le debolezze o le difficoltà altrui, di tenere da parte il risentimento, di smorzare il rancore, di rinunciare appunto a forme di rivalsa e vendetta?

Il perdono è un atto di cui beneficia chi ha offeso perché non escluso e disprezzato.

Come sostengono Barcaccia e Mancini ( 2013) “il perdono non è oblio, non è negazione del torto, non è giustificazione, non è rassegnazione a subire, …ma il perdono fa bene a chi perdona”.

Mettersi nei panni del colpevole, avere empatia con chi ci ha offeso per capirne le motivazioni e ricondurre l’atto a una comune condizione umana in cui il male e il bene coesistono è l’elemento preminente di questo processo che si muove lungo il film, come convitato di pietra, senza esprimersi fino in fondo nei comportamenti dei protagonisti. 

Tra vendetta e perdono prevale la vendetta.

Eppure il ritrovato legame materno – viene in mente la teoria dell’attaccamento di Bolwby – rende Kang-do da freddo e spietato macellaio di uomini una persona che prova emozioni e sentimenti.

La partecipazione empatica al dolore del falso figlio fa tentennare la madre dall’eseguire l’estremo gesto di suicidarsi, anche se la sete di vendetta è più forte e la spinge a gettarsi dal terzo piano di un edificio. 

Una strada è forse indicata, ma non percorsa fino in fondo.

Kang-do, stesso, non riesce a perdonarsi e si toglie la vita legandosi sotto il furgone della moglie di una delle sue vittime. La scia di sangue della vendetta rimane impressa simbolicamente sulla strada e genera il sentimento di pietà per un’umanità, rappresentata nella locandina del film dalla scultura di Michelangelo con gli attori nei panni di Maria e del Cristo, che avviluppata al potere del denaro e all’avidità, non riesce a perdonare.

Forse è proprio la pietà la sorgente del perdono.

La pietas è il sentimento che induce a rispettare l’altro con amorevole gentilezza e premura. Enea come figura simbolica si fa carico sia del figlio che dell’anziano genitore Anchise portandolo sulle sue spalle e mettendo in secondo piano le sue vicende personali. E’ la dignità umana e il comune destino che può farci percepire e costruire il Noi, da cui può nascere una visione trascendente capace di inoltrarci in una dimensione empatica di compassione (patire insieme) per le ineludibili sofferenze della vita.

Indicazioni per l’utilizzo:

Il film può essere molto utile per aprire una confrontazione sui temi trattati, e in particolare sulla pietà, il perdono, la vendetta, emozioni che spesso sono sperimentate e presentate in terapia dai pazienti.

Trailer:

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

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 BIBLIOGRAFIA:

Il Linguaggio e il Cervello! – Infografica su Neuropsicologia & Linguistica

Fonte: VoxyBlog del 5 Aprile 2011.

INFOGRAFICA

Il Linguaggio e il Cervello

NEUROSCIENZE

 

Language and Brain - Infographics - Immagine: www.voxyblog.com

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