“Il Disegno Della Figura Umana In Ambito Clinico E Giuridico Peritale. Guida Pratica All’interpretazione” (ediz. FrancoAngeli) è un libro pensato per tutti i professionisti che vogliono affinare il loro utilizzo del test del Disegno della Figura Umana (DFU), estendendolo magari in altri ambiti di indagine quale quello giuridico.
La somministrazione e la valutazione dei test psicologici è parte integrante della nostra pratica professionale, in qualsiasi campo si operi. Tra i test utilizzati, di quanti, però, possiamo affermare di conoscerne effettivamente i vari aspetti di attendibilità e validità? E, se lo stesso test venisse usato in campi diversi da quello clinico, potremmo dirci davvero in grado di conoscerne il corretto utilizzo?
“Il Disegno Della Figura Umana In Ambito Clinico E Giuridico Peritale. Guida Pratica All’interpretazione” (ediz. FrancoAngeli) è un libro pensato per tutti i professionisti che vogliono affinare il loro utilizzo del test del Disegno della Figura Umana (DFU), estendendolo magari in altri ambiti di indagine quale quello giuridico, o per i tanti interessati al test ma non ancora pronti per una corretta somministrazione e interpretazione.
L’esperienza dell’autore Leonardo Roberti (psicologo, psicoterapeuta, esperto in Psicodiagnostica Clinica e Forense) emerge sin dalle prime righe e viene così offerta ai lettori, i quali saranno sorpresi dal taglio assolutamente pratico del libro.
All’autore si deve anche l’introduzione di alcune novità tra cui una revisione degli indici interpretativi, in accordo anche con una visione olistica e non classificatoria della persona e la presentazione di una metodologia di somministrazione e valutazione applicabile nei vari contesti di azione dello psicologo.
Nei primi capitoli si legge del grafismo infantile, della storia del test e del suo oggetto d’ indagine, nonché degli ambiti applicativi e delle validità e attendibilità del DFU. A partire dal quarto capitolo, l’impostazione diventa totalmente pratica, offrendo al lettore una guida alla somministrazione e all’ interpretazione. Trattando del test del DFU non soltanto in ambito clinico e dell’età evolutiva ma anche in campo giuridico peritale, i primi due appendici si mostrano di grande utilità, in quanto riguardanti il testing e le linee guida per la psicodiagnosi in tale campo. Segue poi la presentazione di alcuni casi clinici, con annesse relazioni diagnostiche, ed alcuni esempi clinici di disegni.
“Il Disegno Della Figura Umana In Ambito Clinico E Giuridico Peritale. Guida Pratica All’interpretazione” è un libro di piacevole lettura, da conservare assolutamente nella propria libreria. Oltre ai professionisti, consiglio la lettura anche agli studenti e non soltanto per la praticità del libro, ma soprattutto perché, leggendo della storia di un test, delle sue qualità psicometriche, di come dalla teoria sia possibile risalire ad una efficace applicabilità, aiuta davvero a riflettere meglio su ciò che si studia, rendendo il tutto più interessante e piacevole.
Psicologia del Benessere: esercizi di Mindfulness e Binge Eating
Mangiare “Mindfulness” significa innanzitutto sviluppare un buon rapporto con il cibo, cercare di non sentirsi in colpa per avere o non avere cibo, e apprendere la capacità di perdonarsi ed essere compassionevoli verso sé stessi.
Può capitare a tutti di ritrovarsi a mangiare più del dovuto, specialmente a cena, senza sapere cosa fare per evitare di eccedere con il cibo. Di fronte al proprio piatto preferito, si può arrivare a trovare anche 100 motivi che giustifichino anche la seconda, terza porzione, o il perché per un altro spuntino, e poi quasi sempre pentirsene, chiedendosi perché non ci si è fermati prima.
Molte persone potrebbero ritrovarsi in comportamenti simili a quello descritto, e di parlarne con i propri amici o familiari: anche qui, è frequente sentirsi dire che è superfluo stare troppo a soppesare il cibo, che ci si dovrebbe divertire lasciando perdere la dieta.
Frustantemente, ci si potrebbe trovare nella situazione in cui si mangia in maniera sana, si fa regolare esercizio fisico, non si contano le calorie, si è del peso e della taglia giusta, si ha un BMI regolare. Eppure, anche in questo caso, spesso ci si ritrova regolarmente gonfi di cibo e rammarico, con il bisogno di riesaminare il perché si attuano tali comportamenti, di trovare i trigger che li attivano, di avere un miglior rapporto con il proprio corpo e con la dieta.
A Londra la clinica Willbraham Prace Practice, collabora alla realizzazione del progetto “The Mindfulness Project”, il primo del suo genere nella Capitale del Regno Unito: attraverso percorsi di gruppo o individuali di mindfulness, gli psicologi aiutano i pazienti a raggiungere lo stato di benessere desiderato. E’ lì che ho incontrato la Dott.ssa Cinzia Pezzolesi (Psicologa e Terapista Mindfulness, formatasi presso l’Università di Bangor-North Wales-UK, specializzata in Mindful Eating a Boston con la Dott.ssa Kristeller, e docente di “Salute Mentale e Benessere” presso l’Università di Hertfordshire) italianissima e terapeuta della clinica, che gentilmente mi spiega come fare a mangiare consapevolmente con la mindfulness, invitandomi ad una prova pratica.
Secondo la Dott.ssa Pezzolesi, mangiare “Mindfulness” significa innanzitutto sviluppare un buon rapporto con il cibo, cercare di non sentirsi in colpa per avere o non avere cibo, e apprendere la capacità di perdonarsi ed essere compassionevoli verso sé stessi. Per arrivare a ciò, è necessario mettere insieme diversi componenti: il primo viene chiamato Saggezza Interiore, si sviluppa aiutando le persone a prendere coscienza dei segnali che il corpo c’invia. A volte, quando si mangia troppo a lungo, ci si dimentica che il corpo sa quello che vuole. Quindi la prima parte del mangiare consapevole è imparare ad autoregolarsi.
Un altro elemento è diventare consapevoli dei pensieri e delle emozioni che sono legati al nostro comportamento alimentare. Ad esempio, dovremmo mangiare quando abbiamo fame, ma questo non accade regolarmente. A volte si mangia per festeggiare, o perché si è tristi, o stressati. Inoltre le persone imparano a distinguere tra ciò che è la fame e quali sono i fattori scatenanti.
Dopo le prime sedute, si inizia a sviluppare qualcosa chiamata Saggezza Esterna. Questo, mi spiega la Dott.ssa Pezzolesi, è imparare a fare il miglior uso della vostra conoscenza sul cibo. Significa diventare consapevoli di calorie e attività fisica, anche se non ogni regola è rilevante per tutti allo stesso modo. Si ha bisogno di adeguare le proprie abitudini alimentari in piccoli passi in modo che le modifiche siano permanenti. “Perché il problema che abbiamo con le diete è che devi limitare te stesso, ma non possiamo continuare a farlo per sempre in modo da tornare frequentemente al punto di partenza“. Altro elemento mindfulness è la compassione: la Dott.ssa Pezzolesi mi dice che questo è necessario quando abbiamo rimproverato noi stessi perché ci siamo allontanati dalle nostre intenzioni alimentari sane. Si è mangiato qualcosa di proibito, e mentre si sta mangiando, ci si inizia a sentire davvero in colpa. Questa sensazione potrebbe andare avanti per ore, addirittura giorni. La Mindfulness aiuta a quanto pare con questo, aiutando a nutrire compassione per i nostri eccessi saltuari.
Abbiamo quindi ordinato antipasti in un elegante ristorante di Queensway per testare la pratica: ordino del pollo, che arriva in due terrine su un delicato letto di foglie di insalata e un pennello di salsa scura.
In un tono calmo – simile a un insegnante di yoga che m’istruisce sulla respirazione – la Dott.ssa Pezzolesi mi chiede di prendere un paio di respiri profondi per centrare me stesso. Poi mi chiede di guardare il piatto, concentrandomi su ogni dettaglio. Questo può sembrare super-semplicistico – ma quando è stata l’ultima volta che si è veramente guardato il proprio cibo? Quando faccio questo, ho notato le linee minuscoli sulle foglie di insalata, il buio della salsa e i tagli del pollo. Mi sembrava abbastanza surreale.
Poi la Dott.ssa Pezzolesi mi chiede molto lentamente, di prendere una piccola porzione, di guardare il cibo sulla nostra forchetta e poi di sentirne l’odore. Non ho mai mangiato così lentamente – mi è quasi insopportabile. La mia famiglia ed io abbiamo un modo di mangiare vorace e rapido.
Annusare il cibo, però, mi getta in conflitto. Scopro che in realtà non mi piace l’odore di pollo, anche se nella mia mente, ne amo il gusto; non cucino molto a casa, ma quando lo vedo in un menu lo ordino senza troppe riflessioni. Rallentando ogni processo però, sono spinto a pensare: in realtà non volevo questo, quello che volevo era un antipasto semplice.
Vengo poi invitato a sentirne la consistenza dapprima con le labbra, e poi a metterlo in bocca e a masticare molto, molto lentamente. Ho poi ingoiato, e quando ciò accade, senza pensare, si inizia ad essere consapevoli di questo cammino lungo l’esofago.
Dopo un paio di morsi – approssimativamente quando siamo a metà del pasto – la Dott.ssa Pezzolesi mi chiede di fare un ‘check-in‘ con il livello di fame del mio stomaco. Per me, questa è la lezione più rivelatrice dalla sessione. Normalmente, avrei continuato a mangiare: le dimensioni della porzione non sono grandi, e di solito trovo difficile lasciare del cibo nel piatto, mi fa sentire in colpa. Ma la verità è che controllando lo stato di fame del mio stomaco, mi sono protetto dall’eccesso di cibo. Guardo il cibo rimanente sentendomi un po’ confuso da tutto questo, ma quando il piatto viene portato via, non mi ritrovo a pensarci.
Questo metodo di autoregolazione potrebbe cambiare il nostro modo di mangiare; ma è facile da mettere in pratica quando si è con gli altri nella vita di tutti i giorni? La Dott.ssa Pezzolesi risponde suggerendo che è necessario del tempo e della pratica, e che ci sono parti di mindful eating che si possono utilizzare senza che sia troppo evidente . Per esempio, si può sentire che è troppo “Mindful” odorare ogni forchettata; ma si può comunque mangiare più lentamente .
Trovo che il check-in con la mia pancia sia l’approccio migliore per non prendere più di quanto ho bisogno, e per evitare di sprecare il cibo, prendo meno piuttosto che di più per iniziare.
Quello che ho imparato mi sembra prezioso e fragile , e mi fa temere che dovrò ritornare alla mie vecchie abitudini. Ma ho avuto la netta percezione di come la mia mente e il corpo stavano avendo una vera e propria conversazione, e riuscivo a guardare il cibo in un modo nuovo. Continuerò ad abbuffarmi di tanto in tanto? Probabilmente. Ma imparare a non mangiare troppo la maggior parte del tempo è incredibilmente potente, e sembra una strategia più duratura e sana di qualsiasi dieta restrittiva.
I monociti potrebbero essere il bersaglio di farmaci per il trattamento di disturbi dell’umore, tra cui l’ansia da stress che è una caratteristica del PTSD.
Nei topi, l‘ansiae l’infiammazione prodotte dallo stress cronico inducono il sistema immunitario a combattere per un periodo prolungato: nonostante un lungo intervallo di riposo, a settimane di distanza, questo sovraccarico di lavoro è causa nell’animale di reazioni biologiche e comportamentali eccessive in risposta a fattori di stress isolati e acuti. È quanto emerge da una ricerca pubblicata su Biological Psychiatry, secondo la quale una comunicazione bidirezionale tra il sistema nervoso centrale e il resto del corpo sottende i meccanismi cellulari alla base della risposta allo stress.
In questo modello di stress, topi maschi vivono insieme per il tempo necessario a stabilire una gerarchia, poi un maschio aggressivo viene aggiunto al gruppo per due ore alla volta. Lo stress attiva il sistema nervoso simpatico, cioè la risposta di lotta-o-fuga (fight-or-flight response). Se una risposta pronta è importante per la sopravvivenza, l’attivazione prolungata del sistema simpatico può invece provocare effetti negativi sulla salute: i topi residenti vengono ripetutamente sconfitti e in sei giorni la sconfitta sociale porta a una risposta immunitaria infiammatoria e sintomi d’ansia comportamentali.
Dopo aver sottoposto i topi a questo stress cronico, i ricercatori hanno analizzato le caratteristiche biologiche e comportamentali della risposta allo stress in due diversi momenti, 14 ore e otto giorni dopo la fine del periodo di sensibilizzazione. In entrambi i momenti, i topi stressati mostravano livelli più elevati di proteine infiammatorie nel sangue e di accumulo di monociti nel cervello, rispetto al gruppo di controllo. Gli scienziati avevano inoltre precedentemente scoperto che nei topi con stress cronico le cellule del sistema immunitario, i monociti, si accumulavano nel cervello scatenando sintomi ansiosi.
Dato che un tipo di cellula immunitaria persisteva nella milza , i ricercatori hanno rimosso la milza dei topi dopo la sensibilizzazione alla sconfitta sociale: dopo la rimozione della milza i topi sensibilizzati allo stress non erano più sensibili al fattore di stress acuto e alla riacutizzazione dell’ansia. Questo risultato indica la milza come fonte di cellule immunitarie che rispondono alla stress acuto.
Gli scienziati stanno ora testando i campioni di sangue per i biomarcatori di pazienti con PTSD: le cellule immunitarie o le proteine infiammatorie potrebbero indicare che i pazienti sono in uno stato di sensibilizzazione allo stress.
Il passo successivo sarà confrontare i profili di cellule immunitarie che migrano al cervello con quelle della milza durante la risposta allo stress.
I monociti potrebbero essere il bersaglio di farmaci per il trattamento di disturbi dell’umore, tra cui l’ansia da stress che è una caratteristica del PTSD.
Fernandez-Aranda sdogana le nuove tecnologie nel trattamento dei Disturbi Alimentari
L’idea non è certo di ridurre la terapia ad una sorta di comportamentismo tecnologico, ma di supportare il paziente di fronte a tematiche specifiche che non si riescano ad affrontare efficacemente con le metodiche tradizionali.
Le nuove tecnologie stanno avendo un ruolo sempre più ampio nella vita quotidiana ma stentano a prendere piede nel trattamento psicoterapico.
Le obiezioni più frequenti al loro utilizzo si basano sul fatto che in fondo, come recitava Montale, l’animo dell’uomo non cambia e per arrivare al suo cuore le parole di Catullo o di Dante sono efficaci oggi come secoli fa. Questo è senz’altro vero ma nessuno si sognerebbe di fare serenate notturne davanti al grattacielo dell’amata (specialmente se abita al 30° piano) ed anche “Odi et Amo” o i versi di Paolo e Francesca vengono postati su Facebook.
Un’altra obiezione è che il paziente ne può restare sconcertato, non attendendosi un così profondo cambiamento nel setting terapeutico. Anche qui non si capisce come faccia lo stesso soggetto a tollerare il fatto di dover usare il telefono cellulare e non un messo a cavallo, per contattare il terapeuta, o come possa sopportare di doversi sottoporre ad una risonanza magnetica per il mal di schiena anziché ad un rito sciamanico, ma tant’è!
Quando si entra nello studio dello psicoterapeuta si suppone che il paziente abbia una regressione e si attenda modelli archetipici di terapia per cui possa tollerare unicamente terapeuti in marsina su una sedia Thonet e l’uso di carta, (a mano), penne d’oca o almeno in bachelite con pennino ottocentesco, per annotare le sue parole.
La ricerca non ha ancora stabilito a quanti anni debba ammontare questa regressione per non intaccare la relazione, o se il setting debba adattarsi alle competenze tecnologiche del paziente per cui parte considerevole dell’assesment dovrebbe essrere dedicata alla valutazione delle sue competenze in ambito tecologico. Chi avesse la sfortuna di avere pazienti a basso indice di tecnologizzazione ed uno studio al terzo piano per essere efficace dovrebbe munirsi di servitori in portantina che accompagnino i pazienti fino alla porta del suo studio.
A questo proposito recenti studi indicano però che l’inizio della regressione coincide con l’inizio della seduta e termina con la stessa salvo ripresentarsi la settimana successiva alla stessa ora. Per il pagamento possono essere usati senza rischio i moderni mezzi tecnologici e non è richiesto l’uso dei dobloni. Si narra di soggetti che avendo dovuto rinunciare ad una seduta in quell’ora abbiano dimostrato una totale incapacità di usare il pc il telefonino e qualsiasi altro mezzo tecnologico, configurando così i primi casi di una grave sindrome da carenza d deprivazione tecnologica. Stranamente anche il computer utilizzato dal terapeuta all’interno del setting è visto da qualcuno come una possibile causa di vulnus alla relazione, senza chiedersi come possano nascere storie d’amore o di sesso basate proprio sull’utilizzo del PC e di quello strumento così poco empatico che è Internet.
In barba a tutte queste considerazioni ed ignorando i gravi rischi cui si potrebbero esporre i pazienti, a margine di un intervento, sulle politiche a sostegno della prevenzione e la cura dei disturbi alimentari, il Prof. Fernandez-Aranda dell’Università di Barcellona ha sdoganato l’utilizzo delle nuove tecnologie nella prevenzione e nella terapia dei disturbi alimentari. Ha illustrato una metodica basata sull’utilizzo di un video game collegato ad un sistema di bio feed back per aiutare i pazienti a modificare il proprio rapporto con il cibo.
Attraverso dei sensori che misurano la variazione della conduttanza cutanea si valuta la variazione dello stato emotivo del soggetto alla visione del cibo, in questo modo egli può iniziare ad essere più consapevole delle sue emozioni.
L’idea non è certo di ridurre la terapia ad una sorta di comportamentismo tecnologico, ma di supportare il paziente di fronte a tematiche specifiche che non si riescano ad affrontare efficacemente con le metodiche tradizionali.
Questa tecnologia ha il vantaggio di essere a basso costo e di poter essere usata dai pazienti anche al di fuori del setting offrendo un supporto alla terapia nell’intervallo tra le sedute.
L’importanza delle emozioni positive – Psicologia Positiva
Le emozioni positive non solo incrementano le risorse fisiche, intellettive e sociali, ma sono anche implicate nel migliorare lo stato di benessere della persona.
Per esempio, se le esperienze emotive positive ampliano gli scopi del sistema cognitivo e favoriscono un modello di pensiero più creativo e flessibile, allo stesso tempo facilitano la capacità di far fronte agli stress e alle avversità della vita quotidiana.
La psicologia ingenua talvolta scambia, erroneamente, alcune forme di piacere sensorio come la soddisfazione sessuale o la sazietà della fame, per emozioni positive, poiché con queste hanno in comune la sensazione di un piacere soggettivo e perché spesso emozioni e piaceri co-occorrono. Ad esempio la gratificazione sessuale è spesso racchiusa in una relazione d’amore. Tuttavia, le emozioni differiscono dai piaceri in quanto le prime richiedono una valutazione cognitiva del significato attribuito agli eventi perché possano avere inizio.
Ma a che cosa servono le emozioni positive?
La funzione principale di tutte le emozioni positive è stata identificata nel facilitare i comportamenti di avvicinamento (Cacioppo, Priester & Berntson, 1993; Davidson, 1993; Frijda, 1994) e nel aumentare il livello di motivazione a portare a termine un’azione (Carver & Scheier, 1990; Clore, 1994). L’esperienza emotiva positiva è dunque utile, in quanto sprona a impegnarsi e a prendere parte a delle attività, la maggior parte delle quali sono evolutivamente adattive per l’individuo, per la sua specie o per entrambi.
Secondo Fredrickson (1998; 2001), invece, le emozioni positive possiedono una duplice funzione: a breve termine contribuirebbero ad ampliare il repertorio del pensiero finalizzato all’azione, aumentando l’elenco delle possibili azioni o dei possibili pensieri e, a lungo termine, costruirebbero e rafforzerebbero le proprie risorse personali. La gioia, ad esempio, è un’emozione che crea il bisogno di ridurre i limiti, di ‘giocare’ e di essere creativi, esigenze che non riguardano solo i comportamenti sociali o fisici, ma anche quelli intellettuali e artistici. L’emozione positiva dell’interesse, invece, crea la spinta a esplorare, a raccogliere informazioni e a fare nuove esperienze. La contentezza, a sua volta, crea l’esigenza di rilassarsi e di gustarsi le circostanze della propria vita, integrandole con una nuova visione del sé e del mondo (Fredrickson, 2002).
In contrasto con le emozioni negative, che portano immediati e diretti benefici all’adattamento alle diverse situazioni che minacciano la sopravvivenza, l’ampliamento nel repertorio dei pensieri e delle azioni attivato dalle emozioni positive produce benefici in altre modalità. In particolare il nuovo repertorio allargato avvia dei benefici indirettamente e a lungo termine, poiché è in grado di costruire delle risorse personali durature.
Ad esempio, il gioco, a cui si è spinti dall’emozione della gioia, permette innanzitutto la costruzione di risorse fisiche durature (Boulton & Smith, 1992; Caro, 1988), rende inoltre possibile l’ampliamento delle risorse sociali e della propria rete di sostegno (Lee, 1983; Simons, McCluskey-Fawcett & Papini, 1986) e costruisce infine anche risorse intellettive, incrementando i livelli di creatività e alimentando lo sviluppo cerebrale (Sherrod & Singer, 1989; Panksepp, 1998).
Quel che ne risulta è che le risorse personali che insorgono grazie agli stati emotivi positivi, sono durevoli e, di conseguenza, anche gli effetti incidentali delle emozioni positive contribuiscono a incrementare le risorse personali di chi le prova. Dunque, attraverso le esperienze emotive positive, le persone trasformano sé stesse, divenendo più creative, maggiormente informate, resilienti, socialmente integrate e in buona salute (Fredrickson, 2002).
Da alcune ricerche (Basso, Schefft, Ris & Dember, 1996) condotte in laboratorio, poi, è emerso che i tratti legati alle emozioni negative, come ansia e depressione, predicono una tendenza locale coerente con un fuoco attentivo ristretto, mentre i tratti emotivi positivi, come il benessere soggettivo e l’ottimismo predicono una tendenza globale connessa con un fuoco attentivo allargato.
Testando gli effetti degli stati positivi sugli aspetti di natura cognitiva, è emerso che le emozioni positive producono modelli di pensiero che sono flessibili (Isen & Daubman, 1984), non usuali (Isen, Johnson, Mertz & Robbinson, 1985), creativi (Isen, Daubman & Nowicki, 1987) e ricettivi (Estrada, Isen & Young, 1997), comportamenti maggiormente creativi (Isen et al., 1987) e azioni più varie (Kahn & Isen, 1993).
Inoltre, le emozioni positive non solo incrementano le risorse fisiche, intellettive e sociali, ma sono anche implicate nel migliorare lo stato di benessere della persona. Per esempio, se le esperienze emotive positive ampliano gli scopi del sistema cognitivo e favoriscono un modello di pensiero più creativo e flessibile, allo stesso tempo facilitano la capacità di far fronte agli stress e alle avversità della vita quotidiana.
Infatti, si è riscontrato che le persone che hanno provato emozioni positive durante un lutto sono riuscite più facilmente a sviluppare programmi e obiettivi da raggiungere a lungo termine, che per di più prevedevano un benessere psicologico maggiore un anno dopo il lutto (Stein, Folkman, Trabasso & Richards, 1997). Questi riscontri hanno confermato, ancora una volta, che le emozioni positive non solo fanno stare bene le persone nel momento contingente, ma incrementano anche la probabilità che le persone stiano bene in futuro.
Infine, occorre concludere che gli effetti delle emozioni positive consisterebbero non solo nella creazione di una condizione di benessere, di sicurezza e di adattamento, ma servirebbero anche ad inibire gli effetti nefasti prodotti dalle emozioni negative.
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A proposito di Davis (2013) di Joel & Ethan Coen – Recensione
“A proposito di Davis” è il ritratto errabondo di un perdente, un loser per usare un pessimo gergo discriminatorio, che cercando la propria identità finisce per trovare sempre qualcos’altro.
Il ritorno dei fratelli Coen è un gioiello luccicante, la storia di un cantante folk nel Greenwich Village del ’61 alle prese con divani di amici e sconosciuti da occupare per non trascorrere la notte nel freddo newyorkese, una giacca di velluto malinconicamente elegante come unico baluardo ai rigori del clima e della precarietà esistenziale, e insieme la ricerca di una dimensione artistica che elevi lo spirito a ciò che chiede per sé.
“A proposito di Davis” è un’odissea alla Joyce lungo iperboli gentili e potenti autenticamente vere ancorché surreali, con richiami discreti alla letteratura americana di Kerouac e Capote, lo sfondo del viaggio inteso alla maniera beat come percorso ineludibile di emancipazione solitaria attraverso euforia e frustrazione, silenzi e scoperte improvvide.
Musica folk immarcescibile per gli amanti del genere – “se non l’avete mai sentita e non è mai stata nuova, è una canzone folk” esordisce Llewyn Davis -, umorismo ruvido nella miglior vena dei Coen che si irrora su personaggi e conflitti ora infantili ora disperati ma sempre apparentemente insanabili, “A proposito di Davis” è il ritratto errabondo di un perdente, un loser per usare un pessimo gergo discriminatorio, che cercando la propria identità finisce per trovare sempre qualcos’altro, un gatto da riportare al padrone, un secondo gatto sosia del primo, una ragazza da mettere incinta che accidentalmente è anche la donna del suo miglior amico, un’altra lasciata all’oblìo che disobbedendo a un aborto già concordato lo rende padre a sua insaputa.
Ogni sveglia è un duello privato per pochi dollari e una cena rimediata interpretando le smorfie del dannato di passaggio, ogni speranza di un destino comprensivo entra con lui nell’auto che salpa direzione Chicago con due improbabili manifestazioni dell’umanità kafkiana mirabilmente animata dai Coen; l’approdo è un produttore discografico che al nostro menestrello dirà “non ci vedo molti soldi” e indica la sua musica, l’aspirazione autarchica a proteggere l’intimità delle note affusolate nella chitarra, nella voce.
In una galleria di immagini ispirate al flusso cinico e tormentato dei due cineasti di Minneapolis trovano spazio versi di cinema che si espandono nei più sottili riflessi, negli occhi della giovane amante che mentre umilia il perdente, o si prova a farlo con le parole più dure che possano colpire un’arte senza scopo e senza premio, non sa estinguere la delicata indulgenza con cui si preoccupa per lui, la tenerezza complice prima che rassegnata con cui guarda l’uomo dell’impossibile condivisione.
“A proposito di Davis” riporta i Coen alle loro pennellate primigenie e coinvolge il pubblico nella ricerca introspettiva di un senso ai margini, per i figli di un cammino diverso, come la musica folk permette di fare sussurrando accordi lontani, storie di povera gente alle prese con la frontiera spoglia della lotta e della sopravvivenza. Eroi comuni liberi dalla condanna del lieto fine la cui vita è il racconto della vita.
Gli sforzi di Llewyn Davis non sono vani per la sua epopea incastonata nel reale, solo inutili per l’universo che lo respinge; nel movimento ininterrotto di un microcosmo dalla poetica universale che di lì a poco sarà abbagliato dall’irruzione di Dylan – e fra le ultime scene la chioma del giovane Bob si affaccia sul suo primo palco -, nelle strade del Village popolate di fermenti che come l’architettura newyorkese non si rassegnano alle definizioni del tempo e dello spazio, “A proposito di Davis” esplora un’America crepuscolare in cui il sogno ha il colore della pioggia, l’odore del fumo nei locali, dei vicoli sul retro. Se ne sentiva il bisogno.
I risultati mostrano che quando i partecipanti si sentono più bassi accresce il loro senso di inferiorità, debolezza ed incompetenza e ciò comporta una serie di sensazioni di maggiore vulnerabilità e idee di diffidenza e sospetto nei confronti degli altri.
Quanto influisce l’altezza sulla nostra visione del mondo, l’autostima, lo stile di vita? A quanto pare parecchio. Se chiedessimo a qualcuno alto 177,8 cm quale sia la sua altezza, questo qualcuno ci risponderebbe: 180 cm! Il motivo è comprensibile: la nostra cultura tende a valorizzare le persone alte, per cui c’è la tendenza ad essere, o perlomeno a voler apparire, più alti di quel che si è.
Le persone alte sembrano possedere una serie di vantaggi: una buona altezza sembra, infatti, essere associata sia al successo sul piano lavorativo che a gratificazioni sul versante sentimentale.
Alcuni studi anglosassoni, ad esempio, hanno trovato che una persona alta circa 180 cm ha maggiori probabilità di guadagnare 100,000 dollari in più, nel corso di 30 anni di attività lavorativa, rispetto al collega che si aggira intorno ai 164 cm. Come se non bastasse, l’altezza aiuta anche negli affari di cuori sia per quanto riguarda la frequenza degli appuntamenti amorosi, sia nella durata delle relazioni sentimentali.
Numerose ricerche hanno poi cercato di approfondire il legame tra altezza e fattori psicologici: questi studi mostrano che l’altezza può comportare maggiore felicità e livelli più elevati di autostima, oltre a ridurre il rischio di atti suicidari, nonostante l’effetto risulti modesto.
Questi vantaggi psicologici originano dalla tendenza ad associare l’altezza con il potere, il che comporta anche una maggiore spinta verso l’abilità alla leadership, ad esempio in ambito politico e maggiori successi personali in questo settore, nonostante il legame tra altezza e potere non sia lineare.
All’interno di questo panorama Daniel Freeman (Dipartimento di Psichiatria-Università di Oxford) ha tentato di indagare il legame tra la bassa statura e l’autostima, e gli effetti sul senso di vulnerabilità personale e la paranoia: in che modo l’altezza, o la bassezza, può cambiare il modo in cui interpretiamo le intenzioni degli altri nei nostri confronti? L’esperimento prevedeva che i partecipanti fossero i protagonisti di un viaggio in metropolitana in una realtà virtuale. Vengono perciò muniti di cuffie per sentire i normali rumori presenti in questa situazione, come il rumore del treno e le voci dei passeggeri, e sono circondati da avatar, in modo da essere completamente immersi nella realtà simulata. Il loro corpo, infatti, risponde allo scenario come se fosse reale. Il campione sperimentale è rappresentato da 60 donne reclutate dalla popolazione generale, le quali hanno precedentemente sperimentato dei pensieri paranoici in assenza però di una storia di disturbo mentale.
Aspetto fondamentale è rappresentato dal fatto che gli avatar, essendo neutrali, non posso influenzare in nessun modo l’esordio di pensieri paranoici nei soggetti, per cui, qualunque forma di diffidenza origina dal partecipante stesso. Il disegno sperimentale prevede che ogni soggetto entri nella realtà virtuale due volte: la prima con la propria altezza, la seconda come se stesse osservando l’ambiente da un’altezza inferiore. I partecipanti non vengono informati di questa differenza tra le due situazioni.
I risultati mostrano che quando i partecipanti si sentono più bassi accresce il loro senso di inferiorità, debolezza ed incompetenza e ciò comporta una serie di sensazioni di maggiore vulnerabilità e idee di diffidenza e sospetto nei confronti degli altri. “Mi sono sentita in modo diverso nelle due situazioni, ma non so perché! Nella seconda situazione mi sono sentita più vulnerabile e le gambe dell’uomo a lato del corridoio erano posizionate in modo ostile verso di me, rispetto alla prima volta, anche se la posizione era la stessa”, riferisce una partecipante.
Sentimenti di incompetenza ed inferiorità, quindi, risultano in stretta relazione con dubbi paranoici, dal momento che più ci sentiamo vulnerabili più abbiamo probabilità di interpretare come pericolosi e malevoli gli atteggiamenti degli altri. Se la bassa statura si lega a bassi livelli di autostima e dubbi paranoici, anche l’opposto può essere vero.
La procedura basata sulla realtà virtuale può aiutare a trattare pensieri paranoici attraverso la simulazione di una realtà in cui la nostra altezza appare maggiore. Se non possiamo essere realmente più alti, infatti, possiamo fare qualcosa per sentirci più grandi.
L’attaccamento come organizzatore di psicopatologia nel corso della vita
All’interno della relazione terapeutica, attraverso un lavoro profondo, il paziente può riuscire sicuramente a prendere consapevolezza del proprio funzionamento ed a comprendere che ci sono modalità che si porta dentro da sempre e che applica alle proprie relazioni attuali.
Simposio moderato dalla Prof.Marazziti, che da anni presso la Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa conduce ricerche sull’attaccamento e sulla neurobiologia dello stesso, in particolare sull’attaccamento romantico.
Apre il simposio il Dott. Francesco Albanese, Psicologo Clinico e Psicoterapeuta dell’Università di Firenze, con l’intervento “I modelli operativi nelle relazioni di attaccamento”: l’attaccamento è una dimensione psicologica la cui prima definizione risale a Bowlby (1968) che integrò il modello psicoanalitico classico con osservazioni comportamentali di stampo etologico, con particolare attenzione alla relazione madre-cucciolo.
Lo stile di attaccamento di un individuo dipende dal modo in cui viene trattato dal caregiver (Bowlby, 1988) e su queste interazioni si struttura uno dei quattro stili attualmente riconosciuti: sicuro, insicuro ansioso resistente, insicuro evitante, disorientato disorganizzato.
Nella specie umana il punto essenziale dell’attaccamento è che tale sistema ci spinge ad una sorta di relazione: è un processo sociale che parte dalla relazione emozionale, ossia entra in campo quando siamo in una sfera emotiva e ci fa cercare “protezione-aiuto” quando siamo in difficoltà, condizione essenziale e strategica per la sopravvivenza e lo sviluppo della vita.
Liotti inserisce poi l’attaccamento tra i Sistemi Motivazionali Interpersonali (MOI) di base (2001): il sistema dell’attaccamento, con il complementare sistema dell’accudimento entra in attivazione per assicurare il recupero della vicinanza della figura di attaccamento (FdA).
Bowlby scriveva che “il comportamento di attaccamento caratterizza l’essere umano dalla culla alla tomba” (1979), ovvero tende a rimanere stabile nel tempo; diversi autori, nella letteratura più recente, hanno cercato di utilizzare i modelli teorici per applicare il legame madre-bambino a tutte le relazioni affettive dell’esperienza.
Il relatore sottolinea come lo stile dei primi rapporti di attaccamento possa influenzare l’organizzazione precoce della personalità: si tratta di una “rappresentazione di sé-con l’altro”, ci parla dunque di una relazione, e si organizza all’interno dei MOI, ossia di vere e proprie “griglie di lettura del mondo”.
“Comportamenti differenti sono all’origine dei diversi modelli operativi interni (Bowlby, 1988), strutture mentali che includono configurazioni spaziali, temporali e causali e che contribuiscono ad anticipare il comportamento e le risposte dell’altro. I MOI relativi al sé e all’altro, strutturati come relazioni a carattere prevalentemente emozionale, sono riattivati in età adulta nelle relazioni a contenuto altamente emozionale” (Albanese,2009).
Secondo il modello delle R.I.G. ossia Rappresentazioni di Interazioni che sono state Generalizzate (Sterne, 1985) le singole esperienze, derivanti dalla memoria episodica e semantica, vengono poi combinate in rete e si viene a costituire precocemente una “neuroanatomia” dei MOI.
Nei primi mesi di vita si assiste ad una crescita dei dendriti della corteccia orbito-frontale (Schore, 1994) e si stabiliscono connessioni con l’area limbica (emotiva); le ripetute esperienze emotive connesse alla relazione di attaccamento determinano la costituzione di una nuova struttura anatomica orbito-frontale (sede dei MOI). Il Dott. Albanese richiama poi l’attenzione dei presenti sui quattro stili di attaccamento del Modello di Bartholomew & Horowitz (1991) derivanti dalla combinazione del Modello di sé (Dipendenza) e del Modello dell’altro (Evitamento).
Possiamo classificare tre relazioni fondamentali di Attaccamento:
1. La Relazione Parentale: è una relazione complementare nella quale la figura di attaccamento (FdA) è generalmente la madre;
2. La Relazione tra Partners: è una relazione di tipo simmetrico nella quale entrambe le figure cercano attaccamento e danno accudimento (FdA: partner). In tale relazione si riattivano i MOI.
3. La Relazione Terapeutica: è una relazione di tipo complementare in cui la FdA è il terapeuta; anche in tale relazione si riattivano i MOI. Il quesito importante è: “i Modelli Operativi Interni possono cambiare in età adulta?” Ed in particolare all’interno di un lavoro di psicoterapia?
Il dott. Albanese conclude il suo intervento sottolineando che all’interno della relazione terapeutica, attraverso un lavoro profondo, il paziente può riuscire sicuramente a prendere consapevolezza del proprio funzionamento ed a comprendere che ci sono modalità che si porta dentro da sempre e che applica alle proprie relazioni attuali.
Prosegue il simposio la prof. Marazziti presentando la relazione “Stile di Attaccamento e Psicopatologia”.
L’attaccamento romantico è un legame sociale, indica lo stabilirsi della relazione emozionale tra due partners che nasce in relazione alla necessità di tenere unita la coppia genitoriale finchè i cuccioli non sono in grado di sopravvivere da soli.
“Il partner è implicitamente investito del ruolo di figura di attaccamento, ma allo stesso tempo risulta essere un partner sessuale, verso il quale la richiesta di disponibilità equivale ad una richiesta di esclusività. La paura della perdita di questa esclusività è all’origine della gelosia romantica. Il sistema-gelosia ed il sistema attaccamento si possono dunque considerare come finalizzati al mantenimento del legame” (Albanese, 2009). La diversa combinazione di due componenti continue chiamate “ansietà” ed “evitamento”, dà origine ai quattro stili di attaccamento romantico adulto: sicuro, preoccupato, distanziante, timoroso-evitante (Brennan et al., 1998).
La Prof. Marazziti illustra lo studio che indaga, in un campione di pazienti ambulatoriali in cura presso la clinica di Pisa, le possibili relazioni tra dimensione categoriale psicopatologica (diagnosticata con la SCID-IV, First et al., 1997) e l’attaccamento romantico, rilevato con la versione italiana dell’ ECR (Brennan et al., 1998). Le correlazioni emergenti confermano che ogni categoria diagnostica è caratterizzata da uno stile romantico; in particolare lo stile preoccupato era più frequente nei disturbi bipolari.
Mantenendo il filo conduttore dell’attaccamento romantico arriviamo all’intervento del Prof. Volterra “Attaccamento e stalking” tema purtroppo di notevole interesse attuale sia psicopatologico che sociale che giudiziario. Lo stalking si colloca nell’ambito della dimensione umana e psicologica dell’attaccamento in una prospettiva però di maladattamento e disadattamento. Il relatore descrive le caratteristiche e le conseguenze dello stalking, i fattori di rischio e l’escalation dissociale della gelosia; in particolare viene illustrata la recente legge sullo stalking (Legge del 15 ottobre 2013 n.119).
Conclude la sessione il Dott. Mario Campanella, giornalista, con l’intervento “Dall’abuso alla psicopatologia nel bambino-adolescente” proiettando alla platea i dati inquietanti raccolti dalle Associazioni Arcobaleno, Telefono Azzurro e Mater Onlus:
Ogni anno circa 50.000 minori infraquattordicenni vengono molestati o violentati in Italia.
Il 90% subisce molestie di vario tipo (comprese le molestie attraverso il cyberweb).
Il 60% delle molestie si svolgono all’interno delle famiglie; l’estrazione sociale del fenomeno è prevalentemente medio-bassa con una percentuale stimata di quasi 1/5 relativa a ceti socio-culturali alti.
A fronte di tali proprorzioni del fenomeno nel 2011 le denunce presentate negli uffici giudiziari sono state 550 e nel 2012 circa 580 (solo l’1%)!!
L’ amore paziente di Anne Tyler (2003) – Recensione
L’ amore paziente di Anne Tyler
Guanda 2003
Amare è proprio una parola sconosciuta per i personaggi di questo libro: per i due protagonisti Jeremy, narcisista mascherato da agorafobico e Mary, “madre per sempre“, così accudente e così pronta alla fuga per sfinimento.
Questa volta vorrei cominciare dal titolo in inglese – Celestial navigation – tradotto, chissà perchè, in italiano con – L’amore paziente.
Ecco, questo libro racconta di altro non di amore, direi piuttosto che racconta, in modo davvero esauriente, di dipendenza, di necessità dell’altro dettata da ostinati e antichi bisogni che nulla hanno a che fare con la realtà, di legami, insomma e non di relazioni.
Amare è proprio una parola sconosciuta per i personaggi di questo libro: per i due protagonisti Jeremy, narcisista mascherato da agorafobico e Mary, “madre per sempre“, così accudente e così pronta alla fuga per sfinimento.
E anche per i personaggi secondari, gli ospiti della casa di Jeremy trasformata in pensione, tante solitudini e tanti fragili rapporti con la realtà, chi per vecchiaia, chi per abitudine, chi per paura di vivere.
Siamo a Baltimora, Jeremy ha trentotto anni quando muore la madre, con cui ha vissuto fino a quel momento in una relazione simbiotica esclusiva ed escludente.
Lui è un’artista di discreto successo, che vive chiuso nella propria casa-pensione a creare sculture in totale solitudine, sommerso e governato da numerosi e più o meno inconsapevoli sintomi di varia entità: agorafobia, paura della gente, del contatto, paura di uscire di casa e altro.
Domina su tutto l’estraneità a ciò che gli capita intorno, come se la realtà fosse rarefatta e incomprensibile, in modo particolare il rapporto con gli altri; privo delle minime competenze sociali e con una theory of mind piuttosto povera Jeremy si guarda appena intorno, stupito e rattrappito nel suo mondo interiore che è soprattutto silenzio.
Chi legge, a questo punto, si chiede come farà a sopravvivere uno così senza la madre a fargli da baluardo.
Ed ecco che arriva Mary, scappata dal marito e con una figlia piccola, alla ricerca di una camera da affittare.
Molto rapidamente tra i due inizia una relazione, pare quasi che Jeremy possa finalmente curare il suo autistico mondo interiore con l’innamoramento per questa giovane donna.
Non si sposano, fanno finta di essere marito e moglie e mettono al mondo, in rapida successione, cinque figli.
Mary l’accudente trova finalmente la sua ragione d’essere, nell’occuparsi dei piccoli, della gestione pratica della casa e di questo strano marito che si dimentica di finire le frasi mentre sta parlando perchè si perde nei suoi pensieri e nei suoi silenzi.
Mary ha bisogno che altri siano dipendenti da lei, è “dipendente dalle dipendenze“, desidera che i suoi comportamenti siano regolatori ed equilibranti per gli altri più che per se stessa, in fondo lei cos’ altro è se non una in grado di prendersi cura?
Ma la corda è troppo tirata, piccole delusioni scalfiscono la certezza di Mary di essere il centro della casa, in fondo Jeremy non è uno che vuol farsi accudire, vuole solo essere lasciato in pace nella sua solitudine colorata di fantasie e ossessioni, dove gli altri proprio non esistono, nemmeno i figli (che lo chiamano per nome proprio e non con la parola papà o padre); Mary l’accudente diventa fuggitiva, prende figli e bagagli e se ne va.
Non è questa la fine della storia, ci sarà altro: bellissimo uno dei capitoli finali dove Jeremy, affronta una miriade di preoccupazioni ansiose che lo collocano almeno in tre o quattro quadri psicopatologici differenti ( utile per noi clinici per confermare, se mai ce ne fosse bisogno, quanto è difficile fare diagnosi). Sovraccarico di paure, debolezza e sensazione di estraneità, per la prima volta nella vita attraversa tutta la città per andare a trovare Mary e i bambini, con esiti davvero originali e inaspettati.
La copertina del TIME del 3 febbraio è, come molti già sanno, stata dedicata alla mindfulness. Ad essere più precisi, alla Mindfulness Revolution che sta ormai da anni “colpendo” gli USA.
L’autrice, Kate Pickert, racconta in primis la sua esperienza come partecipante ad un gruppo MBSR svolto a Chelsea (Manhattan) a New York.
Un aspetto che viene sottolineato molto bene dalla giornalista è che intendere la mindfulness solo come una “moda del momento” per acquietare la mente non sia il modo migliore per approcciarsi a questa forma di meditazione, che trae le proprie origini nelle antiche tradizioni del Buddhismo Theravada. Riprendendo le parole della Pickert: “If distraction is the pre-eminent condition of our age, then mindfulness, in the eyes of its enthusiasts, is the most logical response”.
Tanto logico, a quanto pare, che un report del 2007 della NIH (National Institutes of Health), dichiara che gli americani hanno speso circa 4$ bilioni in medicine alternative legate alla meditazione e alla mindfulness. Questo è un dato molto interessante per almeno due motivi, a mio parere.
Il primo, riguarda il fatto che la mindfulness sta veramente portando una “rivoluzione” che chiederà ai clinici della nostra generazione di fare i conti con la nostra “scienza” e a “allargare la prospettiva”, recuperando anche ciò che di prezioso esiste all’interno delle tradizioni orientali (Gunaratana, 1995).
Il secondo, invece, è un aspetto legato ai lati oscuri delle moda. La pratica di mindfulness è “una cosa seria”, non ha molto di mistico, richiede grande pazienza, costanza, autodisciplina e disponibilità a mantenere una pratica costante, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Chi propone questo tipo di “intervento” dovrebbe avere alle spalle una grande esperienza personale di pratica, poiché, come viene scritto nei libri “tecnici” di mindfulness, “le abilità di conduzione di un gruppo mindfulness provengono e vengono sviluppate e affinate dalla pratica personale”. La mindfulness non è una tecnica che si può imparare facendo shopping di libri e avendo sottomano le istruzioni delle varie pratiche previste all’interno del protocollo MBSR.
E’ vero che questo tipo di controllo su “chi offre cosa” è davvero impensabile.
L’articolo del TIME continua con una breve rassegna dell’impatto che la pratica di mindfulness sta avendo nella cultura e nell’ambito lavorativo statunitense. Riprendo solo alcuni dei dati forniti dalla giornalista del TIME.
Il gigante bancario Chase, propone ai suoi clienti pacchetti per “spend mindfully”, Negli USA, il Institute of Mindful Leadership “(…) explores mindful leadership training as a way to strengthen and cultivate four hallmarks of leadership excellence-focus, clarity, creativity and compassion”. Libri di self-help come il recente “Finding the Space to Lead: A Practical Guide to Mindful Leadership” non si riescono più a contare.
Negli ultimi anni, la Silicon Valley è diventato uno dei luoghi più affollati di training mindfulness. Come alcuni di voi sapranno, dal 2007 in quella zona high-tech del mondo viene organizzata una tappa della famosa conferenza per leader della tecnologia Wisdom 2.0 che ha come tagline “living with awareness, wisdom and compassion”. Nel 2007 ha accolto 235 partecipanti, nel 2014 ne aspettano circa 2000. Per citare solo alcuni dei grandi leader partecipanti a questa assemblea: Facebook, Twitter e Instagram.
Nel frattempo, un ingegnere di Google ha creato il programma Search Inside Yourself, un corso di sette settimane che viene offerto ai dipendenti di Moutain View quattro volte l’anno.
Per ultimo, Tim Ryan, membro della Camera dei Rappresentanti per lo Stato dell’Ohio è diventato una star all’interno dei sostenitori della mindfulness, da quando ha riservato $1 milione di grant federale per insegnare la mindfulness nelle scuole del suo Distretto.
Insomma, ormai la mindfulness in USA è entrata a far parte del mainstream. Resta ancora da comprendere quanto questa impressionante diffusione della mindfulness sia la moda del momento o se sia davvero portata avanti da persone preparate, qualificate e soprattutto che stabiliscono ogni giorno l’intenzione di praticare e di procedere nel proprio percorso personale di pratica di meditazione.
A quanto pare, questo è un vicolo da cui non possiamo uscire se non con l’onestà professionale e la preparazione.
Gli effetti benefici dovuti alla pratica di mindfulness si fanno vedere da soli alle persone che decidono di prendere la pratica di meditazione con valore, rispetto e disponibilità e costanza.
Concludo con le ultime righe dell’articolo del TIME.
“In the months since, I haven’t meditated much, yet the course has had a small–but profound–impact on my life. I’ve started wearing a watch, which has cut in half the number of times a day I look at my iPhone and risk getting sucked into checking email or the web. When I’m at a restaurant and a dining companion gets up to take a call or use the bathroom, I now resist the urge to read the news or check Facebook on my phone. Instead, I usually just sit and watch the people around me. And when I walk outside, I find myself smelling the air and listening to the soundtrack of the city. The notes and rhythms were always there, of course. But these days they seem richer and more important”.
(traduzione: nei mesi successivi (alla mia partecipazione al training MBSR, ndT), non ho praticato molto, ma il corso ha avuto un piccolo – ma profondo – impatto sulla mia vita. Ho iniziato a mettermi l’orologio, che ha dimezzato il tempo di ogni giornata che passo a guardare il mio iPhone e rischiando di rimanere incastrata nel controllare le email e il web. (…) quando sono al ristorante e il mio commensale di alza per rispondere al telefono o per andare in bagno, adesso resisto all’impulso di leggere le news o di guardare Facebook sul mio telefono. Invece, rimango seduta e noto le persone intorno a me. E quando cammino, I ritrovo a annusare l’aria e ad ascoltare la “colonna sonora” della città. Le annotazioni, le cose da fare e i ritmi giornalieri, sono sempre là, ovviamente, ma queste giornate a me sembrano più ricche e importanti. )
Questa tesi di Dottorato ha vinto la IX Edizione del Premio “Maria Baiocchi”, promosso, in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione dell’Università di Roma “Sapienza”, dall’associazione Di’Gay Project, dedicato alle migliori tesi di laurea e di dottorato di ricerca sui temi dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere.
SOPSI 2014 – Lo Stigma percepito sui disturbi mentali gravi – Poster Session
Impulsività e procrastinazione fanno parte della stessa famiglia? – Psicologia
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Impulsività e procrastinazione fanno parte della stessa famiglia?
Il gruppo di ricercatori del dott Daniel Gustavson del’università del Colorado hanno approfondito l’argomento.
Per quel che riguarda l’impulsività la spiegazione del perché la si possiede è semplice, gli uomini primitivi ne avevano bisogno per fronteggiare situazioni difficili in poco tempo, quindi è funzionale alla specie.
Ma la procrastinazione invece? Quella capacità del “rimandare a domani quello che potresti fare oggi”, non è funzionale alla specie come mai si è tramandata fino ad oggi? Secondo gli autori probabilmente questi due fattori sono collegati anche alla mancanza di previsione, o all’incapacità di mettere delle priorità.
Ma come mai si posseggono capacità cosi opposte e come mai si tramandano di generazione in generazione capacità disfunzionali?
Gli autori hanno quindi approfondito l’argomento, andando appunto ad analizzare la parte ereditaria e genetica di queste capacità, e hanno pubblicato la loro risposta su Psychological Science.
In the modern world, long-term goals are far more important than immediate survival needs, yet our impulsive tendencies remain firmly ingrained. We keep getting distracted by immediate temptations, with the result that we fail to attend to other, more meaningful goals. In short, we procrastinate, and not only that, we evolved to be procrastinators.
Why would those who intentionally but irrationally put things off, who don\’t seem pressured by time — why would these same people also tend to make rash decisions, without thought or planning? Procrastination and impulsivity are the odd couple of th… (…)
Uzun et al. (2020) hanno indagato la relazione tra autocontrollo e procrastinazione in ambito accademico, considerando l’autostima come possibile mediatrice
La qualità del sonno potrebbe essere una variabile che influenza la procrastinazione dei lavoratori. Tale relazione risulta però mediata dall'autocontrollo
A differenza della procrastinazione, la precrastinazione consiste nel completare le attività il prima possibile anche se questo richiede uno sforzo maggiore
Un nuovo studio si è posto l’obiettivo di comprendere perché alcuni di noi cedono alla procrastinazione rispetto ad altri: vi è una componente genetica?
Una persona che procrastina mette in atto una forma di evitamento che gli permette di non entrare in contatto con le proprie insicurezze, paure e limiti
Nuove ricerche suggeriscono che procrastinare è un modo per gestire stress e ansia: l'intervento terapeutico va focalizzato sulle emozioni del paziente.
Lo studio mostra che abbiamo più possibilità di rimandare un compito se questo ci sembra parte del futuro rispetto a quando lo percepiamo parte del presente
Impulsività e Procrastinazione sono due tratti che convivono nel nostro percorso evolutivo, da cosa dipendono le capacità di scelta e previsione? Psicologia
Lo spessore della sostanza grigia nelle regioni temporali e prefrontali, strutture cerebrali in cui sono localizzate le funzioni linguistiche e altre funzioni di ordine superiore come il self-control e il problem-solving, sarebbe il candidato più promettente per il mappaggio genetico, sulla base sia delle forti basi genetiche che dell’associazione con il disturbo.
Il disturbo bipolareha una diffusione dell’1-2% ed è caratterizzato da variazioni importanti e inusuali sia dell’umore che delle energie che interferiscono con la vita quotidiana e sono altamente invalidanti. Coloro che hanno questo disturbo esperiscono infatti livelli estremamente elevati, caratterizzati da iperattività, insonnia, condotte pericolose, che si alternano a livelli estremamente bassi, in cui non hanno le energie per uscire dal letto.
La ricerca delle basi genetiche del disturbo bipolare ha portato alla scoperta del coinvolgimento di svariati geni, che interagiscono tra loro in modo complesso, ma non è ancora stato compreso quali siano i geni direttamente responsabili e con quale meccanismo portino alla patologia.
A questo scopo i ricercatori dell’UCLA hanno tentato un nuovo approccio: invece di utilizzare soltanto le interviste cliniche standardizzate per verificare se i pazienti raggiungano i criteri per la diagnosi clinica del disturbo bipolare, hanno combinato i risultati di neuroimaging, valutazione cognitiva e una serie di misure del temperamento e del comportamento. Mediante questo metodo hanno identificato circa 50 cervelli e misure comportamentali che sono controllate geneticamente e si associano al disturbo bipolare.
Per questo studio sono stati reclutati 738 soggetti adulti appartenenti a famiglie numerose della Colombia, provenienti da una popolazione fondata circa 400 anni fa dagli europei e dai nativi indiani d’America, che fino ad allora era stata isolata e quindi rappresenta una campione “ideale” da sottoporre a studi genetici rispetto alla popolazione generale. Questa popolazione è inoltre caratterizzata da un’alta incidenza del disturbo bipolare e sono stati reclutati sia individui diagnosticati come bipolari che i loro familiari, non affetti dal disturbo. Tra i pazienti bipolari inoltre, 181 erano caratterizzati da un disturbo bipolare grave.
I ricercatori hanno utilizzato delle immagini in 3D ad alta definizione, questionari di valutazione del temperamento e dei tratti di personalità e un’estensiva batteria di test neuropsicologici indaganti la memoria a lungo termine, l’attenzione, il controllo inibitorio e altra funzioni cognitive. Approssimativamente 50 di queste misure hanno dimostrato di avere un’influenza genetica. In particolare questi ricercatori hanno scoperto che lo spessore della sostanza grigia nelle regioni temporali e prefrontali, strutture cerebrali in cui sono localizzate le funzioni linguistiche e altre funzioni di ordine superiore come il self-control e il problem-solving, sarebbe il candidato più promettente per il mappaggio genetico, sulla base sia delle forti basi genetiche che dell’associazione con il disturbo.
Il fatto che queste scoperte siano in linea con quelle precedenti, provenienti da studi minori, effettuati su popolazioni differenti, è stata una sorpresa anche per i ricercatori coinvolti in questo studio, visto il background genetico unico e l’ambiente dei soggetti da loro reclutati.
Il prossimo passo di questi ricercatori sarà utilizzare il genoma raccolto da queste famiglie per iniziare a identificare i geni specifici responsabili del rischio di sviluppare il disturbo bipolare, ed estendere il reclutamento anche ai bambini e agli adolescenti di questa popolazione, poiché ipotizzano che la maggior parte delle differenze cerebrali e comportamentali riscontrate negli adulti bipolari abbia origine nei processi di neurosviluppo in adolescenza.
S. C. Fears, S. K. Service, B. Kremeyer, C. Araya, X. Araya, J. Bejarano, M. Ramirez, G. Castrillón, J. Gomez-Franco, M. C. Lopez, G. Montoya, P. Montoya, I. Aldana, T. M. Teshiba, Z. Abaryan, N. B. Al-Sharif, M. Ericson, M. Jalbrzikowski, J. J. Luykx, L. Navarro, T. A. Tishler, L. Altshuler, G. Bartzokis, J. Escobar, D. C. Glahn, J. Ospina-Duque, N. Risch, A. Ruiz-Linares, P. M. Thompson, R. M. Cantor, C. Lopez-Jaramillo, G. Macaya, J. Molina, V. I. Reus, C. Sabatti, N. B. Freimer, C. E. Bearden. Multisystem Component Phenotypes of Bipolar Disorder for Genetic Investigations of Extended Pedigrees. JAMA Psychiatry, 2014; DOI: 10.1001/jamapsychiatry.2013.4100
Rubber Hand Illusion ed esperienza soggettiva: quale rapporto tra Body Ownership ed Agency?
Rubber Hand Illusion ed esperienza soggettiva: quale rapporto tra Body Ownership ed Agency?
In questo articolo viene presentato un lavoro di Rubber Hand Illusion svolto su soggetti sani per indagare la relazione tra questi due sensi legati alla rappresentazione corporea basandosi sull’esperienza soggettiva diretta dei soggetti grazie all’utilizzo di due questionari.
ABSTRACT
Il senso di Body Ownership, l’autoconsapevolezza del proprio corpo, ed il senso di Agency, la consapevolezza di compiere dei movimenti legati al proprio corpo, sono legati tra loro? Quale relazione c’è tra i due? In questo articolo viene presentato un lavoro di Rubber Hand Illusion svolto su soggetti sani per indagare la relazione tra questi due sensi legati alla rappresentazione corporea basandosi sull’esperienza soggettiva diretta dei soggetti grazie all’utilizzo di due questionari.
Body Ownership, self-awareness of own body, and sense of Agency, awareness to make the movements related to own body, are related? What kind of relationship is there? In this article we present a work of Rubber Hand Illusion done on healthy subjects to investigate the relationship between these two senses related to the body representation based on the subjective experience thanks to the use of two questionnaires.
PAROLE CHIAVE: Body Ownership, Agency, Rubber Hand Illusion, Mano altrui, Questionari
La rappresentazione corporea è composta da due elementi fondamentali: il senso di Body Ownership e il senso di Agency.
Il senso di Ownership è la sensazione di appartenenza del nostro corpo che è sempre presente e che è indipendente dal fatto che le azioni compiute siano volontarie o involontarie. Il senso di Agency, invece, è la sensazione di aver causato o generato un’azione.
Nelle azioni volontarie il senso di Ownership e di Agency coincidono, quindi io riconosco che è stato il mio corpo a muoversi e che ho voluto io quel movimento.
In caso di azioni involontarie è quasi sempre possibile distinguere il senso di Ownership da quello di Agency, un esempio potrebbe essere quando ad una visita medica il dottore muove il mio braccio, in questo caso il senso di Ownership è presente perché sono consapevole che il braccio mosso è il mio, ma il senso di Agency non esiste perché non sento di essere stato io a causare quel movimento o quell’azione (Gallagher, 2000).
Il presente lavoro è nato dalla volontà di indagare quale rapporto lega il Body Ownership e il senso di Agency ed eventualmente studiare questa relazione.
Per fare ciò abbiamo utilizzato come protocollo sperimentale la Rubber Hand Illusion (RHI) che è una procedura sperimentale, solitamente usata per indagare il senso di Ownership, tramite cui una mano di gomma può entrare a far parte o meno del nostro schema corporeo.
La RHI è stata utilizzata per la prima volta da Botvinick e Cohen nel 1998 e consiste nell’attribuzione errata di sensazioni tattili ad una mano di gomma o aliena posta davanti al soggetto.
Nell’esperimento di Botvinick e Cohen sono stati testati 10 soggetti, ognuno di loro sedeva davanti ad una scrivania sulla quale in corrispondenza del braccio sinistro si trovava una mano di gomma di dimensioni reali e molto simile a quella vera mentre la mano vera veniva nascosta dietro ad un pannello.
Gli sperimentatori toccavano con due pennelli identici la mano vera e quella di gomma nel modo più sincrono possibile, durante la stimolazione al soggetto veniva chiesto di tenere lo sguardo fisso sulla mano di gomma.
Dopo dieci minuti ai partecipanti veniva fatto compilare un questionario, composto da 9 item, volto ad indagare l’esperienza diretta dei soggetti (Botvinick & Cohen, 1998).
Le risposte rilevarono che durante la stimolazione i soggetti riportavano di sentire il pennello sulla mano di gomma.
Botvinick e Cohen avanzarono l’ipotesi secondo cui l’illusione creava un conflitto multisensoriale che veniva risolto dal nostro cervello attraverso “l’embodiment” della mano di gomma.
Per invalidare ulteriormente i loro risultati, Botvinick e Cohen fecero un altro esperimento in cui ai soggetti, dopo aver indotto l’illusione, veniva chiesto di far scorrere il proprio dito destro sul bordo della scatola nel punto dove percepivano il loro dito sinistro, ciò veniva fatto con gli occhi chiusi.
In questo secondo caso però i soggetti erano divisi in gruppo sperimentale e di controllo, nel primo gruppo la stimolazione col pennello era sincrona mentre in quello di controllo la stimolazione veniva fatto in modo asincrono.
I risultati mostrarono che effettivamente i soggetti sperimentali dopo l’illusione riportavano un errato posizionamento della mano sinistra spostata verso la mano di gomma; questo bias non era presente nel soggetti del gruppo di controllo.
La spiegazione dei dati appena descritti è che l’illusione crea un conflitto multisensoriale tra sistema propriocettivo e visivo, ed è quest’ultimo che vince sul primo ed induce la “ricalibrazione” del braccio.
La RHI è una metodica utilizzata per studiare oltre all’integrazione sensoriale tra tatto, vista e propriocezione anche il nostro modo di percepire il corpo.
Sappiamo che alla base ci sono due principali componenti:
1. Un processo bottom-up di integrazione sincronizzata degli oggetti percepiti con il tatto e con la vista per produrre la RHI
2. Il cambiamento fenomenologico della rappresentazione del corpo che scaturisce da questo processo che è persistente.
Questi due concetti hanno indotto Tsakiris e Haggard (2005) a pensare che la RHI coinvolgesse un’ interazione generale tra le rappresentazioni dello schema corporeo e le integrazioni visuo-tattili degli stimoli.
Questi motivi li spinsero a condurre una serie di esperimenti volti ad indagare le situazioni in cui la RHI non era presente; qui di seguito ne riporterò solo uno per non dilungarmi troppo sull’argomento.
I soggetti erano tenuti a discriminare degli stimoli vibro-tattili dati sul dito indice oppure sul pollice della loro vera mano mentre guardavano la rubber hand che si poteva trovare in tre modi differenti: in posizione congrua, posizione non congrua (ruotata di -90°) oppure al posto di essa poteva esserci un ramo.
I risultati mostrarono che la RHI era presente nelle situazioni in cui la stimolazione era sincrona, ma soprattutto quando era posizionata in modo congruo con la posizione del soggetto (Tsakiris & Haggard, 2005).
Nei casi in cui la mano di gomma era posizionata in modo non congruo oppure era un ramo la RHI non avveniva, ciò dimostra che il fatto di vedere e sentire uno stimolo nello stesso posto non basta per causare l’illusione.
Tsakiris e Haggard suggerirono che a livello in cui viene costruita l’illusione il processo bottom-up non è sufficiente bisogna aggiungere ad esso i processi top-down che influenzano la rappresentazione del proprio corpo (Tsakiris & Haggard, The Rubber Hand Illusion: Visuotactile Integration and Self-Attribution, 2005).
Riassumendo per indurre la RHI è necessario che:
1. L’oggetto utilizzato per l’illusione sia una mano e non un oggetto neutrale
2. La mano di gomma deve essere messa in modo plausibile rispetto alla postura del corpo
3. Deve essere il più simile possibile alla mano vera del soggetto
Il nostro disegno sperimentale è nato a partire da alcuni studi condotti da Garbarini et al. nel 2012 sull’effetto di accoppiamento bimanuale in alcuni pazienti.
il loro studio è nato a partire da uno lavoro di Franz e collaboratori i cui risultati mostravano che nei soggetti normali esiste un effetto di accoppiamento bimanuale quando le due mani compiono movimenti diversi (Franz, Zelaznik, & Mccabe, 1991).
Quando la mano sinistra deve disegnare dei cerchi e la mano destra delle righe, la traiettoria della mano che disegna righe tende ad ovalizzarsi mentre l’altra mano disegna dei cerchi, ciò significa che il programma motorio della mano che disegna cerchi influenza quello dell’altra mano e produce l’effetto di accoppiamento bimanuale.
A partire da questi risultati Garbarini et al. applicarono tale paradigma ai pazienti con Anosogonsia per l’Emiplegia per verificare se anche in loro fosse presente questo effetto, dato che sono in grado di sviluppare un programma motorio per la mano plegica (Garbarini & al., 2012).
I partecipanti all’esperimento erano pazienti anosognosici, pazienti emiplegici, pazienti con motor neglect e soggetti sani.
I partecipanti dovevano compiere tre compiti:
1 Linee-Unimanuale: i soggetti dovevano disegnare delle righe con la mano destra
2 Cerchi-Righe Bimanuale: i soggetti dovevano disegnare cerchi e righe simultaneamente con le due mani
3 Cerchi-Righe Immaginarie: i soggetti dovevano tracciare delle righe con la mano destra ed immagianare di fare dei cerchi con la mano sinistra
Per determinare se effettivamente era presente l’effetto di accopiamento bimanuale veniva calcolato l’Indice di Ovalizzazione per la traiettoria della mano destra, un valore che indica quanto essa era deviata rispetto a quella originale.
Le previsioni erano che l’effetto di accoppiamento bimanuale fosse presente nei soggetti sani e nei pazienti anosognosici, mentre fosse assente nei pazienti emiplegici senza Anosognosia e Motor Neglect.
I risultati confermarono le previsioni; le performance dei pazienti anosognosici erano simili a quelle dei soggetti normali, mentre nei pazienti emiplegici e motor neglect l’effetto era assente.
Successivo a questo lavoro Garbarini et al. ne svolsero un altro simile, esso riguarda l’applicazione del paradigma Cerchi-Righe ad una particolare categoria di pazienti, denominati E+.
I pazienti E+ sono emiplegici ed affetti da una specie di Emisomatoagnosia, per cui non riconoscono come appartenenti a loro il braccio plegico (un chiaro disturbo di Ownership); allo stesso tempo riconoscono come loro però la mano dello sperimentatore ed i movimenti che essa compie, alla condizione che essa sia messa in coordinate egocentriche affianco alla loro vera mano (Garbarini & al., 2013).
La situazione appena descritta è molto simile alla RHI, con l’unica differenza che in questi pazienti non c’è bisogno di nessun tipo di stimolazione per indurre l’embodiment della mano dello speriementatore, detta anche mano aliena.
In questo esperimento veniva chiesto ai pazienti, il gruppo sperimentale di E+ ed un gruppo di controllo E-, di tracciare delle linee con la mano destra e dei cerchi con la mano sinistra in tre condizioni: in assenza della mano aliena, in concomitanza con la mano aliena sinistra che faceva dei cerchi in prospettiva egocentrica oppure con la mano aliena in prospettiva allocentrica.
L’effetto di accopiamento bimanuale era presente nei pazienti E+ nella condizione in cui la mano aliena disegna i cerchi, ciò dimostra che questi pazienti mostrano anche un disturbo del senso di Agency. Garbarini et al. hanno ipotizzato che questi pazienti assimilino completamente il movimento della mano aliena nella loro rappresentazione motoria, per questo motivo credono di aver realizzato il movimento e mostrano l’effetto di accoppiamento bimanuale. (Garbarini & al., 2013).
I risultati appena descritti hanno portato a pensare che probabilmente oltre alla mano aliena viene embodizzato anche il movimento che questa mano compie, per il momento però ciò è stato dimostrato solo per i pazienti definiti E+, cioè pazienti emiplegici anosognosici che riconoscono come propria la mano dello sperimentatore quando questa è collocata in una posizione coerente.
La nostra ipotesi di ricerca è partita proprio da questi risultati, abbiamo voluto indagare se è possibile riscontrare anche in soggetti normali l’embodiment di una mano altrui e del suo movimento.
Precedentemente ho parlato di “mano aliena” per indicare la mano dello sperimentatore che viene embodizzata, questo termine è al centro di una diatriba lessicale in quanto tende a categorizzare a priori la mano.
Per questo motivo per la parte che riguarda la ricerca svolta parlerò di “mano altrui” o “mano di qualcun altro” perché mi sembra un termine neutro ed adatto alla situazione.
PARTECIPANTI
Il campione sperimentali era formato da 32 soggetti sani, 16 femmine e 16 maschi, con età compresa tra i 18 e 30 anni (età media 25,1 anni).
Tutti i soggetti al test di manualità Edimburgh Handedness Inventory sono risultati destrorsi (media= 91,82), il grado di scolarità media era di 16,5 anni.
Abbiamo scelto tutti soggetti destrorsi e li abbiamo sottoposti alla stimolazione di una sola mano dato che in letteratura non sono presenti studi che dimostrino differenze significative tra mano sinistra e mano destra (Ocklenburg & al., 2011); inoltre abbiamo deciso di stimolare solo una mano per volta per ogni soggetto sperimentale anche per ridurre i tempi degli esperimenti che altrimenti si sarebbero dilungati troppo.
Per quest’ultima scelta il disegno sperimentale è stato bilanciato in modo da ottenere un disegno within subject, inoltre tutti i soggetti riportarono di non aver avuto nessun disturbo neurologico, neuropsicologico o comportamentale.
METODI
Per gli esperimenti non abbiamo utilizzato la classica scatola utilizzata negli esperimenti di RHI, ma abbiamo ideato una struttura idonea alle nostre esigenze sperimentali (Figura 1)
Questa struttura permette il libero movimento sia della mano del soggetto che quella altrui e soprattutto è stato possibile adattarla a qualsiasi soggetto grazie alla sua flessibilità.
Prima della stimolazione ai partecipanti veniva fatto indossare un telo che copriva gli avambracci, ciò serviva per non far riconoscere la propria mano al soggetto distinguendone avambracci e polsi.
La mano di qualcun altro veniva posto in modo congruo rispetto alla posizione del soggetto ed in linea con la sua spalla affinché potesse realizzarsi l’illusione, come sostenuto da Tsakiris e Haggard (Tsakiris & Haggard, 2005).
L’esperimento prevedeva due tipi di stimolazione:
1 STIMOLAZIONE SINCRONA: in cui il dito indice del soggetto e quello della mano altrui venivano stimolati simultaneamente
2 STIMOLAZIONE ASINCRONA: in cui il dito indice del soggetto e quello della mano altrui venivano stimolati alternatamente.
Entrambi le stimolazione, per ogni condizione sperimentale duravano 120 secondi; abbiamo scelto questo tempo di stimolazione a differenza di altre ricerche di RHI (Ehrsson & al., 2005) perché in letteratura è il tempo indicato affinché si instauri l’illusione (Botvinick & Cohen, 1998).
Per la nostra ricerca abbiamo utilizzato come strumento per compiere il movimento i Pinprick.
I Pinprick sono degli stimolatori tattili dotati di una punta retrattile in modo da esercitare sempre la stessa forza su di una superficie indipendentemente dalla potenza con cui vengono usati; ne abbiamo usati di diverse intensità per evitare che i soggetti si adattassero e non si creassero delle aspettative sul tipo di risposta da dare.
Dopo ogni stimolazione la mano del soggetto o la mano altrui pungeva la mano non stimolata del soggetto con il Pinprick; al seguito di ogni stimolazione il partecipante doveva fornire un rating soggettivo per indicare l’intensità dello stimolo da 1 a 5, dove 1 indicava la minima intensità e 5 massima intensità.
Non abbiamo preso in considerazione i dati relativi ai rating soggettivi delle stimolazioni con i Pinprick perché sono ancora in fase di elaborazione, per questo studio abbiamo utilizzato i Pinprick solo per dare un senso al movimento che veniva fatto.
Nella prima parte degli esperimenti abbiamo dovuto valutare quanto era forte la RHI nei soggetti sperimentali, per fare ciò abbiamo selezionato e tradotto quattro affermazioni del questionario elaborato da Kalckert ed Ehrsson (Kalckert & Ehrsson, 2012):
1. Mi sembrava di guardare la mia stessa mano
2. Sentivo la mano altrui come fosse parte del mio corpo
3. Sentivo come se avessi più di una mano destra/sinistra
4. Sembrava che la mano altrui si stesse spostando verso la mia vera mano.
I partecipanti a queste frasi dovevano rispondere con una Scala Likert che variava da -3 a +3: dove -3 indica completo disaccordo, 0 non so e +3 completo accordo.
Abbiamo deciso di utilizzare come metro di giudizio solo le risposte date alle affermazioni sopra elencate tralasciando il drift propriocettivo perché ci interessava indagare solo l’esperienza diretta e soggettiva.
Successivamente abbiamo dovuto indagare il senso di Agency legato al movimento fatto in seguito alla stimolazione, per fare ciò abbiamo selezionato e tradotto altre quattro affermazioni del questionarrio elaborato da Kalckert e Ehrsson (Kalckert & Ehrsson, 2012):
1. Sentivo come se stessi controllando i movimenti della mano altrui
2. Sentivo come se stessi causando il movimento che ho visto
3. Sembrava che la mano altrui avesse una propria volontà
4. Sentivo come se la mano altrui stesse controllando i miei movimenti.
Come nel caso precedente anche a queste affermazioni i soggetti dovevano rispondere con una Scala Likert che variava da -3 a +3.
Sia le domande relative al questionario dell’Ownership che quelle dell’Agency erano suddivise in due gruppi:
– Le domande 1 e 2 erano domande reali
– Le domande 3 e 4 erano domande di controllo, che servivano per mantenere sotto controllo la conformità, la suggestionabilità e l’effetto del compito. Queste domande sono state create per essere simili a quelle reali, ma che differiscono per il fatto che non catturano l’esperienza fenomenologica dell’Ownership e dell’Agency (Kalckert & Ehrsson, 2012).
Abbiamo scelto queste domande anziché quelle proposte da Botvinich e Cohen, che vengono solitamente utilizzate nei paradigmi di RHI, perché secondo noi sono più immediate e specifiche.
L’utilizzo di domande più dirette si è reso necessario soprattutto nel caso del questionario sul movimento, che forse era più difficile da valutare rispetto al Body Ownership.
Alla fine dell’esperimento ad ogni soggetto abbiamo fatto compilare il test di manualità Edimburgh Handedness Inventory.
PROCEDURE
Il soggetto veniva fatto sedere ad una scrivania di fronte allo sperimentatore, veniva fatto sedere il più vicino possibile alla scrivania con i gomiti appoggiati ad essa.
Gli veniva fatto indossare il telo per nascondere gli avambracci, a seconda del bilanciamento la sua mano destra/sinistra veniva sistemata sotto alla struttura precedentemente illustrata in modo tale che se il soggetto teneva fisso lo sguardo sul dito indice della mano altrui non vedessa la propria mano.
Dopo la condizione baseline, durante la quale a caso la mano altrui o quella del soggetto andava a stimolare l’altra mano del soggetto con il Pinprick; questa fase ci è servita per far si che i soggetti sperimentali prendessero confidenza con i Pinprick e per avere a disposizione una situazione pre-stimolazione, eseguivamo la fase di Rubber Hand Illusion in cui i soggetti dovevano tenere lo sguardo fisso sul dito indice della mano altrui per 2 minuti senza muoversi.
Per due minuti lo sperimentatore procedeva con la stimolazione, sincrona o asincrona, tramite i pennelli; al termine di ogni stimolazione veniva sottoposto il questionario precedentemente presentato:
1. Mi sembrava di guardare la mia stessa mano
2. Sentivo la mano altrui come fosse parte del mio corpo
3. Sentivo come se avessi più di una mano destra/sinistra
4. Sembrava che la mano altrui si stesse spostando verso la mia vera mano.
Alla fase di RHI seguiva quella sperimentale vera e proprio, in cui dopo la stimolazione con i pennelli veniva fatta quella con i Pinprick.
Questa condizione era composta da 5 trials, abbiamo scelto questo numero di prove in modo da ottenere un’illusione più forte ed in più utilizzare i diversi Pinprick.
Dopo ogni stimolazione il soggetto dava il rating sensoriale e alla fine di tutte le prove veniva sottoposto il questionario relativo all’Agency:
5. Sentivo come se stessi controllando i movimenti della mano altrui
6. Sentivo come se stessi causando il movimento che ho visto
7. Sembrava che la mano altrui avesse una propria volontà
8. Sentivo come se la mano altrui stesse controllando i miei movimenti.
Per concludere la nostra previsione era che dopo aver embodizzato la mano altrui i soggetti sperimentali embodizzassero anche il movimento fatto da essa, per indagare ciò abbiamo preso in considerazioni solo le risposte date al questionario relativo al senso di Agency.
RISULTATI
Per l’analisi dei dati sono state calcolate le medie delle risposte dei soggetti alle domande del questionari sia di Body Ownership che di Agency.
Per ogni questionario sono stati divisi i dati in base alla mano stimolata, alle domande(reali o di controllo) ed al tipo di stimolazione(sicrona/asincrona).
ANALISI STATISTICA QUESTIONARIO DEL BODY OWNERSHIP
È stata fatta un ANOVA a misure ripetute con 2 fattori:
1. STIMOLAZIONE a due livelli: sincrona e asincrona
2. DOMANDA a due livelli: reali e di controllo.
Il fattore MANO non è stato preso in considerazione in quanto non sono stati trovati dati in letteratura che potessero confermare l’ipotesi di una differenza significativa tra mano destra e mano sinistra (Ocklenburg & al., 2011).
Il fattore principale STIMOLAZIONE è risultato significativo [F(1, 30)=18,819, p=,00015] in quanto c’è differenza significativa tra stimolazione sincrona e asincrona come confermato ai confronti post hoc con la correzione di Duncan: la stimolazione sincrona determina una risposta ai questionari leggermente positiva (mean=0,15625); all’interno di questo dato bisogna tenere presente la distinzione tra domande reali (ossia quelle che valutavano realmente la riuscita della RHI) e di controllo (quelle che servivano per mantenere sotto controllo la conformità, la suggestionabilità e l’effetto del compito).
È importante notare che il solo effetto della stimolazione abbiamo un effetto significativo, ciò è stato fondamentale per la riuscita della RHI e di conseguenza dell’embodiment della mano altrui. Il solo fattore DOMANDA ha un effetto significativo [F(1, 30)=49,287, p=,00000], quindi alle domande reali (1 e 2) i soggetti hanno dato risposte significativamente positive rispetto a quelle di controllo (3 e 4).
L’effetto del confronto tra STIMOLAZIONE x DOMANDA è risultato significativo [F(1, 30)=27,995, p=,00001] (Figura 2), questo indica che le domande reali con la stimolazione sincrona sono significativamente positive (media: 1,67) rispetto alle domande di controllo nella stessa condizione (media= -1,36).
Anche nella condizione della stimolazione asincrona è così: le domande reali durante la stimolazione asincrona sono più positive (media= -0,68) rispetto a quelle di controllo (media= -1,53).
La differenza tra stimolazione sincrona e asincrona è molto maggiore nelle domande reali rispetto a quelle di controllo, nelle quali la differenza non è significativa.
ANALISI STATISTICA QUESTIONARIO DELL’AGENCY
Anche in questo caso è stata fatta un ANOVA a misure ripetute con 2 fattori:
1. STIMOLAZIONE a due livelli: sincrona e asincrona
2. DOMANDA a due livelli: reali e di controllo.
L’effetto STIMOLAZIONE x DOMANDA è risultato significativo anche in questo caso [F(1, 30)=11,959, p=,00165] (Figura 3).
In questo caso, a differenza del questionario sul body Ownership, le domande reali (1 e 2) determinano una riduzione dell’effetto nella stimolazione asincrona addirittura inferiore alle domande di controllo (3 e 4).
Rispetto al questionario del Body Ownership le domande reali (1 e 2) nella condizione di stimolazione sincrona risultano essere vicino allo 0, ma comunque diventano estremamente negative nella condizione di stimolazione asincrona.
Le domande di controllo (3 e 4) nella condizione di stimolazione sincrona hanno risultati simili a quelli relativi al questionario sul Body Ownership, mentre nella condizione di stimolazione asincrona le domande di controllo determinano delle risposte più positive.
DISCUSSIONE
Questa ricerca è nata per convalidare la nostra ipotesi secondo cui tramite il paradigma della RHI è possibile embodizzare, oltre alla mano altrui, anche il movimento che la mano altrui compie come è stato dimostrato in alcuni pazienti emiplegici (Garbarini & al., 2012).
Per quanto riguarda la RHI dai dati è emerso che effettivamente era presente nei nostri soggetti, ciò lo deduciamo dalle differenze di risposte date al questionario dai soggetti tra stimolazione sincrona e asincrona.
La stimolazione sincrona ha determinato delle risposte positive alle domande del questionario reali che con la stimolazione asincrona sono state negative; ciò conferma ulteriormente che la stimolazione asincrona si configura come situazione sperimentale di controllo in cui l’illusione non si crea (Botvinick & Cohen, 1998).
Per quanto riguarda il movimento abbiamo visto che l’effetto stimolazione per domanda è risultato significativo.
La stimolazione sincrona ha prodotto un effetto leggermente positivo nelle risposte alle domande reali del questionario (media=0,078).
La stimolazione asincrona ha determinato risposte negative alle stesse domande (media=1,380), tranne nel caso della domanda 3 in cui le risposte sono state positive, ma questo potrebbe dipendere dal fatto che la domanda risultava troppo controversa.
Possiamo affermare che in seguito alla stimolazione sincrona i soggetti hanno provato, seppur in minima parte, la sensazione di “possedere” il movimento fatto dalla mano altrui.
Questi dati confermano la nostra ipotesi, cioè in soggetti sani in seguito all’embodiment di una mano altrui si può embodizzare anche il movimento compiuto da essa.
I dati relativi al Body Ownership sono molto positivi, c’è stata una forte sensazione da parte dei soggetti di possedere la mano altrui.
Questo ci suggerisce l’idea che magari aumentando l’embodiment della mano altrui potrebbe anche aumentare l’effetto relativo al movimento, ad esempio si potrebbe aumentare il tempo delle stimolazioni o forse introdurre delle misure oggettive oltre a quelle soggettive.
Un altro dato che è emerso dalla nostra ricerca è la differenza tra mano sinistra e mano destra, in relazione alla domanda 1 del questionario dell’Agency c’è una discrepanza tra mano sinistra (che mostra risultati positivi) e mano destra (che mostra risultati negativi).
Questo dato non era stato previsto poiché non rientrava nella nostra ipotesi di ricerca; come detto in precedenza in letteratura non ci sono casi che dimostrino la presenza di lateralità nella RHI (Ocklenburg & al., 2011).
È noto che l’emisfero destro è dominante nelle abilità visuo-spaziali, mentre quello sinistro lo è per il linguaggio; Ockenburg et al. Hanno svolto uno studio per verificare se la sensazione della RHI fosse più forte in soggetti destrimani piuttosto che mancini, assumendo a priori che l’emisfero destro fosse dominante per il senso di Body Ownership basandosi sul fatto che tutti i deficit di rappresentazione corporea riguardassero pazienti con danni cerebrali destri (Ocklenburg & al., 2011).
I risultati mostrano che la vivacità della RHI non era modulata dalla manualità del soggetto, perché nei soggetti mancini non erano presenti diminuzioni o dati opposti rispetto ai destrimani; questi dati mostrano quindi che non vi è lateralizzazione per quanto riguarda la RHI, tuttavia potrebbe essere interessante svolgere altri studi riguardanti ciò (Ocklenburg & al., 2011).
Probabilmente i risultati che abbiamo ottenuto alle domande dei questionari sono dovuti al tipo di domande che abbiamo utilizzato.
Rispetto a quelle usate da Botvinich e Cohen, che erano più lunghe e vaghe e quindi era più facile che i soggetti dessero delle risposte più vicine alla media, le nostre erano più mirate e dirette, ciò potrebbe aver spinto i soggetti a dare risposte più estreme (soprattutto nel questionario dell’Agency).
La nostra ricerca rappresenta un lavoro preliminare sulla relazione che lega il senso di Body Ownership ed Agency, il nostro gruppo di ricerca sta pensando di svolgere ulteriori studi sull’argomento.
Uno di questi sarà l’utilizzo dei Pinprick, gli stimolatori tattili presentati in precedenza, come strumenti volti alla misurazione della Sensory Suppression (Foo & Mason, 2005).
La Sensory Suppression è un fenomeno sensoriale per cui quando compiamo dei movimenti auto-generati e volontari verso una parte del
nostro corpo la nostra soglia sensoriale di attivazione si abbassa, mentre si alza quando subiamo dei movimenti dall’esterno. Utilizzando la Sensory Suppression, secondo noi, sarebbe possibile misurare indirettamente l’embodiment del movimento compiuto dalla mano altrui.
Questo si potrebbe verificare usando i Pinprick ed andando a confrontare i rating sensoriali dei soggetti prima e dopo la RHI, se la nostra ipotesi è vera, si dovrebbe riscontrare una diminuzione dei giudizi di rating dopo l’illusione perché in seguito all’embodiment della mano altrui si dovrebbe manifestare la Sensory Suppression.
Un altro futuro sviluppo di questo lavoro potrebbe essere rivolgerlo anche ai pazienti E+, i pazienti emiplegici con disturbo del Body Ownership per studiare ulteriormente i loro deficit. Il rapporto tra Body Ownership e il senso di Agency rimane da indagare a fondo, la nostra ricerca rappresenta l’inizio di una serie di studi che in futuro verranno svolti sull’argomento.
È importante svolgere delle ricerche su questo argomento in quanto potrebbero essere d’aiuto per lo sviluppo di nuove tecniche riabilitative in campo.
Figura 1- Setting sperimentale e Pinprick.Figura 2- confronto tra STIMOLAZIONE x DOMANDA- è significativo per le domande reali rispetto di controllo e anche durante la stimolazione sincrona rispetto all’asincrona.
Figura 3- Effetto STIMOLAZIONE per DOMANDA- le domande reali (linea blu) determinano una riduzione dell’effetto nella stimolazione asincrona (2) rispetto alle domande di controllo (linea rossa).
AUTORE:
Dott.ssa Chiara Brandimarte, Laureata in Scienze della Mente presso l’Università degli Studi di Torino.
Questo articolo, tratto dalla tesi di laurea magistrale, ha partecipato al Premio State of Mind 2013 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia
Gli interventi psicoterapeutici nelle età della vita: lo stato dell’arte – SOPSI 2014
Gli interventi psicoterapeutici nelle età della vita: lo stato dell’arte
Nell’ambito del congresso SOPSI si è svolto il Simposio “Gli interventi psicoterapici nelle età della vita: lo stato dell’arte”, a cura della Società Italiana Psicoterapia Medica (SIPM).
Il Prof. Secondo Fassino, moderatore della sessione, ha sottolineato come la letteratura scientifica degli ultimi anni evidenzi sempre di più l’efficacia degli interventi psicoterapici, a diverso orientamento, anche psicodinamico, in termini di modifiche e di stabilizzazione dei risultati nel lungo termine e per i cambiamenti neurobiologici che inducono, registrati dalle tecniche di neuroimaging. Tali evidenze prendono origine dalle scoperte del Premio Nobel Eric Kandel e dagli studi più recenti di Georg Northoff e di Vittorio Gallese.
“Nella relazione psicoterapica si innescano profonde interazioni, al di là del consapevole, che portano all’attivazione delle reti neuronali del paziente e del terapeuta”.
Il Dott. Andrea Ferrero, Responsabile del Centro Integrato per la Prevenzione e Cura dei Disturbi di Personalità dell’Adolescenza, Dipartimento di Salute Mentale, ASL TO4 Settimo Torinese, affronta il tema della specificità degli interventi di psicoterapia in adolescenza. Il primo quesito proposto dal relatore è: “esiste una specificità delle psicoterapie in adolescenza?”.
Premessa fondamentale è innanzitutto la valutazione della specificità alle indicazioni alla psicoterapia, ossia la capacità clinica del terapeuta di comprendere quali vissuti, comportamenti e relazioni, in un momento di profondo cambiamento e così carico di significati quale l’adolescenza, siano inquadrabili nella sfera della normalità o della patologia.
In adolescenza, infatti, sono indicatori di normalità rispetto agli adulti: un valido rapporto con la realtà, anche in presenza di progettualità indeterminata; un’attitudine soddisfacente alla conoscenza e all’apprendimento, differenziata per età; riconoscere e integrare rappresentazioni e affetti, pur con limiti di capacità narrativa; un buon controllo dell’aggressività, anche se le emozioni sono esasperate; un’immagine di sé coesa, anche se sono presenti aspetti proiettivi idealizzati; l’utilizzo degli altri (in particolare del gruppo dei coetanei), come supporto a tollerare la perdita dell’identità infantile e come fonte temporanea di nuovi modelli identitari (Ferrero e Peloso, 2010).
L’interpretazione semeiologica degli aspetti del linguaggio del corpo e del comportamento agito in adolescenza possono acquisire, invece, un valore specifico quali possibili indicatori di patologia. Inoltre in adolescenza anche aspetti di ordine biologico, psicologico e sociale possono influire sull’espressione di sintomi analoghi senza configurare quadri psicopatologici: l’adolescenza infatti è un momento di cambiamento biologico-endocrinologico, di evoluzione della personalità e di cambiamenti esistenziali con vulnerabilità e sensibilità rispetto ai modelli socio-culturali.
Il secondo quesito discusso dal relatore è: “ esiste una psicopatologia specifica in adolescenza?” Bisogna valutare le interazioni tra la vulnerabilità biologica e psicosociale, il significato simbolico dei life-events e la diagnosi di struttura dell’individuo (Adler 1907, 1912; Rovera 1992; Fassino et al. 2007; Ferrero 2009, 2012; Zubin & Spring,1977; Ciompi 1982; Livesley 2008; Svrakić et al. 2009; Goldberg 2009; Paris 2011). Per quanto riguarda la vulnerabilità biologica i processi di maturazione del cervello in adolescenza presentano delle differenza relative al genere: in particolare per i processi cognitivi nei maschi la maturazione delle regioni prefrontali è ritardata rispetto alle regioni limbiche e questo comporta una iper-reattività (novelty seeking) di fronte ad uno stimolo incongruo; nei maschi e nelle femmine sono carenti (in crescita) le funzione esecutiva e working memory (Raznahan et al., 2010; Andrews-Hanna et al., 2011).
Per quanto riguarda i processi socioemotivi caratteristica del genere femminile è un’accentuazione del funzionamento delle regioni orbito-frontali, del gyrus cinguli e dell’amigdala con conseguente eccessiva influenza dei fattori emotivi (Bava-Tapert, 2010).
Il significato dei life-events in adolescenza è da mettere in relazione al delicato momento di rivisitazione dell’identità e del sé con tutte le tematiche sull’autonomia; nella sfera della socializzazione l’adolescente è impegnato nel processo di autonomizzazione ed indipendenza emotiva dai genitori ed altri adulti, di acquisizione di un ruolo sociale, femminile o maschile, e di un comportamento socialmente responsabile e di preparazione al ruolo professionale futuro. Sulla dimensione identitaria nell’adolescente si costruisce l’immagine mentale del proprio corpo, dei valori di identità di genere e sessuale.
Per quanto riguarda l’organizzazione di personalità in adolescenza alcuni meccanismi di difesa appartenenti alla costellazione borderline o nevrotica (Kernberg, 1975) possono non assumere una connotazione psicopatologica ma essere “normali”, transitori e funzionali.
Sulla questione dei disturbi di personalitàin adolescenza il Dott. Ferrero fa riferimento all’autore Caspi (1998) secondo cui la personalità mostra una sostanziale continuità dai 3 anni all’adolescenza e all’età adulta, al “Modello del disturbo basato sulla clinica” (Olbrich, 1990) secondo cui i problemi emotivi, familiari, relazionali, sociali sono “normali” ed al “Modello della continuità basato sull’epidemiologia” (Offer et al., 1998) secondo il quale tra gli adolescenti: il 20% sono patologici, il 20% a rischio ed il 60% normali. Viene poi passata in rassegna la letteratura più recente (Laurenssen, 2013) sul tema della specificità delle tecniche psicoterapiche in adolescenza, in particolare per il trattamento dei disturbi borderline di personalità (DBP).
Il Centro Integrato per la Prevenzione e Cura dei Disturbi di Personalità dell’Adolescenza (DPA), Dipartimento di Salute Mentale, dell’ ASL TO4 di Settimo Torinese può accogliere pazienti adolescenti provenienti non solo dall’area di pertinenza territoriale. Gli interventi di psicoterapia sono a breve termine, per una vasta gamma di disturbi, specifici per psicopatologia, e si pongono in continuità con un processo integrato di cura. Il modello psicoterapico applicato per il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità è la SB-APP: Psicoterapia Psicodinamica Adleriana Breve Sequenziale strutturata secondo moduli di 40 sedute con frequenza settimanale, sequenziali e ripetibili; ogni modulo viene condotto da un terapeuta differente: il razionale di questa scelta prevede che, iniziando un nuovo modulo sequenziale della SB-APP, si dovrebbe prevedere di lavorare sul distacco dal terapeuta precedente, valutando eventuali idealizzazioni o svalutazioni. La scelta del trattamento secondo la SB-APP deve tener conto di tutte quelle considerazioni sovraespresse inerenti gli aspetti specifici dell’adolescenza.
Prosegue il simposio il Prof. Abbate Daga con l’intervento “Psicoterapia dei disturbi alimentari dai sintomi alla cura del se’”. Le psicoterapie dei DCA si devono interessare sia dei sintomi che delle aree psicopatologiche non direttamente connesse ai sintomi: la dicotomia mente-corpo va recuperata nella cura. Le emozioni nei disturbi alimentarisono state spesso trascurate e sembrano rispecchiare le difficoltà stesse di queste pazienti caratterizzate da condotte di evitamento e controllo emotivo (Treasure, 2012). Come affermava la Bruch non si possono trattare questi disturbi se non si comprende la traiettoria evolutiva della costruzione del sé (recupero dell’identità corporea) (Skarderud, 2009); è assolutamente fondamentale recuperare i significati consci ed inconsci dei sintomi.
Il relatore passa in rassegna lo stato dell’arte dei trattamenti psicoterapici nei disturbi del comportamento alimentare:
Modelli CBT (Fairburn): attenzione ad individualizzare i trattamenti ed a recuperare gli aspetti di personalità;
Modello Cognitivo-Interpersonale (Ulrike Schnidt e Janet Treasure);
Terapia Interpersonale;
Modello che evidenzia l’ansia di tipo sociale che conduce all’utilizzo del cibo come “gestione emotiva” nella bulimia e come evitamento del giudizio nell’anoressia;
Modelli psicodinamici.
Il Prof. Abbate-Daga evidenzia un recente studio sul Lancet (2013) che dimostra che le terapie psicodinamiche controllate con quelle di Fairburn e con interventi pubblici di tipo ambulatoriale (40 sedute) funzionano tutte sul sintomo; a distanza di un anno dal trattamento le terapie psicodinamiche, che agiscono sui significati e la ristrutturazione del sé, mostrano una maggiore efficiacia. Viene enfatizzata dal relatore l’importanza dell’utilizzo della relazione terapeutica rispetto all’interpretazione; la relazione infatti fa emergere le proprie sensazioni, il pensiero e l’emozionalità.
Il relatore quindi conclude: i disturbi alimentari sono disturbi dell’identità corporea connessi al deficit dello sviluppo del sé; la cura del corpo e la cura del sé non possono essere disgiunte; le psicoterapie psicodinamiche rappresentano uno strumento di cura efficace e duraturo nel tempo.
(Si ringrazia il Dott. Ferrero per aver fornito il materiale del proprio intervento).
Capita talvolta che il sogno ideale non sia realmente desiderato. Pare una contraddizione. Forse sarebbe meglio dire che esistono sogni desiderati senza che si conoscano a pieno le implicazioni della loro realizzazione.
Come dire: vengono desiderati perché è giusto e normale desiderarli, desiderarli è un dovere.
D’altronde la nostra mente produce sogni idilliaci. Pensiamo al sogno di diventare una rock star. La gloria, il denaro, il riconoscimento non racconta nulla di quanto ci si possa sentire soli, dello sballottamento da una città all’altra, perdita dei propri riferimenti e del danno per le relazioni e la vita personale. Qualcuno amerebbe questa vita e i suoi costi. Per altri potrebbe essere un inferno di viaggi e di finti sorrisi. Il sogno è irreale in quanto non ne sono contemplate le implicazioni e confrontate con ciò che noi gustiamo della vita.
C’è anche un’altra opzione simile e in parte sovrapposta a quest’ultima: fare propri i sogni altrui. Accade talvolta che il sogno a cui siamo attaccati appartenga alla nostra cultura o alla nostra famiglia, persone che abbracciano ciò che i genitori hanno innanzitutto sognato per loro fin quasi a imporselo. Il successo (la vetta) è un sollievo dalla lotta per non essere una delusione e finalmente essere libero dalle aspettative altrui. Le difficoltà, la naturale demotivazione alzano i livelli di stress, di ruminazione mentale e conseguente riconoscimento innanzi allo specchio di essere stati una reale delusione per standard che poi neanche si voleva veramente raggiungere.
Forse in fondo quel campo da gioco lo si è sempre mal sopportato. Oppure si riesce. E allora ci si accorge che la vetta non offre la soddisfazione attesa da tanto tempo, immaginata virtualmente. Subentra il vuoto e il grigiore per cui ‘ora dovrei essere felice e non lo sono’ o a volte la tristezza ‘ho investito così tanto per qualcosa che ora mi sembra così superficiale’ oppure ancora la confusione ‘che cosa voglio realmente’. Allora s’apre una soluzione estrema: la ricerca di un nuovo sogno in cui infilarsi che garantisca, non riposo (poiché di una seconda erculea fatica si tratta) ma almeno energia, motivazione e vitalità.
Il sogno come malattia autoimmune
Certe prospettive mentali agiscono come malattie autoimmuni. Le malattie autoimmuni attaccano il normale funzionamento dell’organismo fino a danneggiarlo. Una delle funzioni mentali di adattamento alla realtà è la capacità di apprendere e di modificare il nostro comportamento, mentale e motorio, in relazione alle risposte dell’ambiente.
Il sogno è una spinta necessaria per iniziare grandi opere. Il rifugio costante nel sogno o la sua indiscriminata perseveranza può trasformarsi in un cronico volger le spalle alla realtà. Come dire, l’esperienza insegna salvo malattie autoimmuni che glielo impediscano. Queste ultime possono contribuire a una lettura distorta della realtà che salvaguardi la nostra visione.
Risultato apparente: immunità alla frustrazione. Risultato reale: danno alle nostre facoltà di apprendimento e adattamento. La frustrazione, per quanto spiacevole, favorisce l’apprendimento di nuove strategie e la flessibilità del sistema. In sintesi, aiuta a evolversi.
Questa malattia autoimmune tende a essere degenerativa. Con il passar del tempo e degli attacchi frustranti operati dalla realtà, l’autoinganno è sempre più arduo, e l’illusione più fragile. Così, perché il sogno regga è necessario esagerare, in sostanza raccontarsela sempre più grande, aumentare gli strati di prosciutto innanzi agli occhi. L’ipotetica frustrazione è percepita come sempre più intollerabile perché sempre meno conosciuta. Un esempio. Il ragazzo che a 14 anni inizia ad anellare una serie di due di picche nei primi approcci con il gentil sesso ma continua a osare senza fuggire imbarazzo e vergogna, forse a trenta avrà appreso che queste bastonate poi non sono così tremende e saprà anche evitarne le forme più eclatanti. Ma se lo stesso ragazzo a 14 anni inizia a ritirarsi dal rischio perché ‘meglio sprecare le proprie energie per la ragazza giusta, ideale, quella per cui vale la pena’ allora la caccia al difetto dell’altra sarà sempre un’ottima scusa a portata di mano per dire ‘non è quella giusta, non ci esponiamo’. Se anche osa e viene rifiutato, questo non è occasione per capire cosa fare meglio alla prossima occasione, ma la prova che l’altra ‘è solo una sciocca, che mi ha deluso e che non è ciò che cerco’.
Quando poi la realtà si fa troppo evidente allora la fuga nel sogno si può trasformare in fuga dalla coscienza: non riesco più a raccontarmela, quindi trovo un modo che mi impedisca di pensare. A questo punto attività fortemente distraenti e capaci di annullare ogni riflessione o ruminazione sulla realtà come il gioco, l’alcool o il cibo divengono l’estrema ratio. L’alternativa all’immersione in stati alterati di coscienza è un doloroso bagno di realtà. E quando accade magari di anni se ne hanno 35, con l’abilità di fronteggiare le frustrazioni di un giovane quattordicenne, con l’aggiunta di non avere lo stesso supporto sociale, e di sentirsi ancor più inadeguati in un mondo dove le persone intorno nel frattempo han fatto parecchi passi avanti.
In sintesi, conviene porre attenzione che il sogno rimanga una spinta motivante e non il modo di togliere lo sguardo dalla realtà.
Videogames violenti: come GTA influenza Alimentazione e Tendenze antisociali
Un recente studio mostra come gli adolescenti che giocano a videogames violenti mangiano più cioccolato e sono più propensi a rubare biglietti della lotteria durante un esperimento rispetto a ragazzi che giocano a videogiochi non violenti.
Questi risultati si sono rivelati più forti tra gli adolescenti che avevano ottenuto un punteggio molto alto in un test di disimpegno morale, in cui si valutava la capacità di convincere se stessi che le norme etiche si possono non applicare in certe situazioni.
Quando le persone giocano a videogiochi violenti mostrano meno autocontrollo, mangiano di più e imbrogliano di più” afferma il dottor Brad Bushman, co-autore di questo studio e professore di Psicologia e Comunicazione all’Università dell’Ohio, “Non si tratta solo di aggressione, anche se questa aumenta quando le persone giocano a Grand Theft Auto (abbreviato GTA, videogioco in cui si interpreta un criminale).
Videogames violenti vs videogames non violenti: l’esperimento
Lo studio comprende 172 studenti italiani delle scuole superiori, di età compresa tra i 13 e i 19 anni, che hanno giocato o ad un videogame violento (GTA III O GTA:SAN ANDREAS) o ad un videogame non violento (Pinball o MiniGolf) per 35 minuti.
Effetti dei videgames violenti su alimentazione e impulsività
Durante lo studio, è stata posta accanto ai ragazzi una scatola di cioccolatini M&M’s e gli è stato detto che potevano mangiarli liberamente, ma sono stati anche avvertiti del fatto che mangiare tanti cioccolatini in poco tempo non era salutare.
E’ interessante notare che i ragazzi che hanno giocato a videogames violenti hanno mangiato tre volte di più di cioccolatini rispetto a quelli che avevano giocato a videogames non violenti.
“hanno semplicemente mostrato meno moderazione nel loro mangiare” afferma Bushman.
Videogames violenti e comportamenti antisociali
Dopo aver giocato, i ragazzi si sono cimentati in un test di logica in cui si poteva vincere un biglietto della lotteria per ogni risposta corretta. Dopo aver comunicato ai ragazzi il loro numero di risposte corrette, sono stati invitati a prendere il numero corrispondente di biglietti della lotteria da una busta, senza nessuna supervisione. All’insaputa dei ragazzi, i ricercatori erano al corrente del numero di biglietti presenti nella busta in modo da poter successivamente stabilire se un giocatore prendeva il numero corretto di biglietti che gli spettava.
I risultati hanno mostrato che i ragazzi che hanno giocato ai videogames violenti hanno imbrogliato molto di più rispetto ai ragazzi che avevano giocato ai videogames non violenti, prendendo più biglietti di quanti, in realtà, gliene spettassero.
Ai giocatori era stato anche detto che erano in competizione con una controparte non visibile e che se avessero vinto potevano spaventare questo partner con un forte suono all’interno delle sue cuffie (in realtà non c’era nessuna controparte). I ragazzi che avevano giocato a videogames violenti hanno scelto di spaventare la propria controparte con suoni molto più forti e che duravano molto più a lungo rispetto agli altri ragazzi che avevano giocato a videogames non violenti.
Infine, Bushman conclude dicendo:
Uno dei principali fattori di rischio per il comportamento antisociale è semplicemente essere maschi. Anche le ragazze erano più propense a mangiare più cioccolato, ad imbrogliare e ad agire in modo aggressivo quando giocavano a GTA, ma non raggiungevano mai i livelli dei maschi.