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Tulpa – Perdizioni mortali (2012) di Federico Zampaglione – Recensione

 

 

 

Tulpa–Perdizioni mortali

(2012) di Federico Zampaglione

 

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Tulpa Perdizioni mortaliTulpa – Perdizioni mortali è un film di Federico Zampaglione, ex leader dei Tiromancino; è il suo terzo lavoro, ultimo nato dal filone giallo horror inaugurato dalla pellicola “Shadow”.

Un conflitto senza vittima tra due personalità. Un riflettore acceso sugli errori, sugli orrori e, perché no, sulle scelte dettate da un inconscio che prende il sopravvento. Uno spaccato sulla realtà del sadomasochismo. Uno scontro tra due verità, o fra due finzioni? Questa, l’essenza, e forse anche l’interrogativo, che ci consegna Federico Zampaglione, ex leader dei Tiromancino, con il suo terzo lavoro, ultimo nato dal filone giallo horror inaugurato dalla pellicola “Shadow”.

La trama, tratta dalle storie del nostro tempo, si sviluppa attorno alla doppia vita di Lisa Boeri, affermata manager, morbosamente coinvolta in un’esistenza parallela, tessuta sulle maglie del sesso estremo. Spiazzante, per l’occhio dello spettatore più tradizionale, è lo scindersi – a tratti persino psicotico, e comunque privo di sfumature o di mezze misure – tra le due contrapposte personalità della protagonista, istrionica nel mutare, a stretto giro, trucco, abbigliamento, sguardo e movenze.

È questione di attimi, e Lisa, smessa l’identità di donna rigorosa, avvolta da impeccabili tailleur, scivola senza inibizioni in trasgressivi incontri notturni con sconosciuti, quasi ad esorcizzare, abbandonandosi ad i suoi istinti, quella solitudine che nel quotidiano lavorativo la avvolge. Una solitudine voluta, scelta, abilmente difesa dagli approcci (amichevoli? sentimentali?) del suo capo (Michele Placido).

Una solitudine sconvolta, però, da una serie di omicidi brutali. Vittime, i clienti – mascherati, ed obbligati dal regolamento all’anonimato più assoluto – dell’esclusivo “Tulpa”, club notturno gestito da un inquietante Khiran, guru tibetano interpretato dal noto Nuot Arquint (già “presente”, nella parte del malvagio, in Shadow). Nel mistico locale, teatro di orge, di passione fluida, forte, intensa, che coinvolge le menti, oltre che i corpi dei partecipanti, il sesso si consuma fra arredi e tendaggi tinti di rosso intenso e di nero. Colori predominanti che si mescoleranno – con una crudeltà espositiva degna di un genere splatter-horror – nel rosso sangue, che vedremo scorrere fluido a più riprese.

È così che, tra efferate scene di mutilazioni, ed asettiche riprese negli uffici direzionali dove svolge i suoi affari, Lisa si affannerà in una disperata corsa contro il tempo, tesa alla scoperta dell’identità del mostro, dal passo felpato e armato ogni volta di nuove e crudeli armi bianche. Il look dell’assassino? In omaggio ai grandi maestri del brivido (Dario Argento), è quello tratto dalla più classica tradizione cinematografica (Profondo Rosso): mantello, guanti e cappello, rigorosamente neri. Il tentativo – come del resto afferma lo stesso Zampaglione – è quello di riportare sul grande schermo il film giallo, spesso relegato ai margini della produzione cinematografica italiana, nonostante i prestigiosi trascorsi che la nostra tradizione può vantare.

Tentativo già ben riuscito, va detto, con la sua prima pellicola horror. Con Tulpa, però, il regista si è spinto oltre. “Credo di aver totalmente spiazzato il pubblico” – afferma – “nessuno si aspettava dopo l’elegante Shadow, un giallo così estremo, sporco e senza alcuna regola”.

Un cinema di sangue, che Zampaglione, peraltro, contestualizza, narrando – senza intento di critica, né di giudizio morale – di una società perversa, presa dagli affari e dal potere, in competizione con tutti e con tutto, sorda ed indifferente alle più basilari esigenze, anche di benessere. Così, in fondo, si finisce per farsi del male (o per assecondare la propria indole?), per rischiare, per mettersi alla prova. Ma è così che, a volte, si finisce anche per restare uccisi. Azzardo ipotizzare che il soggetto cinematografico affondi le basi sulla filosofia tibetana – secondo la quale il libero sfogo delle proprie fantasie consentirebbe la materializzazione/visualizzazione del Tulpa, inteso come intima essenza dell’essere umano – proprio per porre l’accento sulla voce della psiche, spesso inascoltata o imbavagliata dalle regole, dal buon senso e dall’etica.

Rammarica annotare, tuttavia, come di tale trascendentalità (evocata persino dal titolo) vi siano flebili “tracce” nel lavoro, affatto onirico o soprannaturale, se non in isolati passaggi. Semina perplessità, a mio avviso, anche la sporadicità (quasi assenza) di imput indiziari, essenziale per un più vivo coinvolgimento dello spettatore nella dinamica giallo-poliziesca del film.

Da apprezzare, invece, sia la semplicità della ripresa – la pellicola viene girata, quasi per intero, con la macchina a mano – che il mancato ricorso a sofisticati effetti speciali. Il digitale, in questo caso, cede il passo al talento del regista, abile nel creare, persino nell’asettica scenografia dell’Eur (ma forse era sua sfida personale, senz’altro superata) una suspence tale da spezzare il respiro. E per restare ancora senza fiato, non ci resta che attendere il suo prossimo lavoro. Chissà se intreccerà di nuovo il noir a temi sociali scottanti? Probabilmente si, almeno da quanto sembra trapelare da una sua recente intervista. “Il genere umano” – afferma Zampaglione – “sta diventando sempre più perverso e morboso. Forse esplorare il Crystal Meth sarebbe interessante: è una droga terribile che ti trasforma fisicamente in mostro”.

Staremo a vedere. E nell’attesa, potremo domandarci…. la vera indole di Lisa è quella che si cela nel tailleur, o quelle che si libera in intimo hot? O forse entrambe? E se in Lisa convivessero due donne, quali sarebbero le scelte davvero coscienti intraprese dall’una e dall’altra? E ancora, cosa accadrebbe se il suo “Tulpa” prendesse il sopravvento e il gioco erotico degenerasse in omicidio? Quali i risvolti penali e giuridici della questione?

Al fenomeno del sesso estremo, sarà dedicata la prossima puntata della mia Rubrica “Psiche&Legge”.

 

 

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Basket: la “Mano Calda” non è leggenda! – Psicologia dello Sport

Un Articolo di Massimo Amabili e Benjamin Gallinaro. Introduzione di Domenico Marchese, giornalista sportivo e Responsabile Comunicazione della PMS Basketball Torino.

SLIDE Ronald Steele - Immagine: © 2014 PMS Basketball Torino

La Mano Calda

“Mano calda”. “He’s on fire”. Metafore che riconducono gli appassionati di pallacanestro allo stato di grazia che vive occasionalmente un tiratore. Una sensazione che ho avuto la fortuna di vivere in prima persona, nonostante l’infimo livello in cui mi sono cimentato nella mia poco gloriosa carriera agonistica, ma soprattutto di raccontare, grazie al mestiere di cronista sportivo, termine ormai in disuso ma che ha sempre un fascino nobile e antico. Quando la vivi da giocatore la sensazione è realmente di “calore”: parte dai piedi (tutti i cestisti sanno che il tiro nasce in basso per poi concludere la sua catena cinetica con la frustata di polso) e pervade tutto il corpo. Gli avversari che si frappongono con le braccia alte per ostacolare il tiro sono uno stimolo ulteriore, quasi un aiuto per disegnare la parabola di tiro perfetta. In quel momento potresti segnare anche dagli spogliatoi, il calore emanato è percepito dai compagni di squadra, che ti cercano in attacco con continuità, dagli avversari, che si “incollano” fisicamente per evitare ogni tuo movimento. Ma soprattutto è percepito da te stesso: ed è una sensazione bellissima, quello per cui ci si allena ogni giorno, a qualsiasi livello.

Molto emozionante anche raccontare le “strisce” offensive, le “mani calde” di un tiratore: perché la legge dei grandi numeri e la difficoltà di questo splendido sport vengono stravolte. Tiro dopo tiro, la mente aspetta un errore, lo “sdeng” del ferro, una stoppata del difensore. Pensi che “non può segnare ancora”, ma gli occhi assistono quasi ad un miracolo e la reazione è, nella maggior parte dei casi, una risata quasi isterica.

In questa stagione di alti e bassi vissuta dalla PMS Torino ho avuto la fortuna di vivere positivamente un “man on fire”, ma anche di subirne uno. Ed in entrambi i casi si è trattato di atleti statunitensi. Il primo è stato Ronald Steele, che contro Verona ha concluso quella che in gergo si chiama “partita perfetta”: 40’ senza sbagliare una sola conclusione, da lontano o da vicino, da 3 punti o dalla lunetta. Un compito che diventa più difficile tiro dopo tiro, per le attese del pubblico e l’attenzione della difesa nel cercare di annullare l’avversario.

Nel secondo caso la guardia americana Brett Blizzard ha rappresentato al meglio lo stato di grazia di chi ha la “mano calda”: trentadue minuti sonnecchiando, svolgendo il suo “compitino” nonostante la sua carriera da grande tiratore. Per poi accendersi nell’ultima parte di gara, spingendo Veroli alla vittoria contro Torino: 14 punti degli ultimi 17 dei ciociari sono stati realizzati da questo fromboliere, che ha anche segnato l’ultimo tiro da 3 punti per il 73-72 finale, sulla sirena e con un marcatore di 20 centimetri più alto che lo ostacolava. Paradossale che la “mano calda” fosse quella di Blizzard. Che ha gelato le speranze di vittoria con il calore della sua mano…

 

 

PMS Basketball Torino - Ronald Steele al tiro da 3 punti. - Immagine: © 2014 PMS Basketball Torino
Ronald Steele – Immagine: © 2014 PMS Basketball Torino

Gli appassionati di sport in generale e di basket in particolare, sanno che il giocatore con la “mano calda” è quello che, avendo messo a segno tre, quattro tiri consecutivi a canestro, accentra le aspettative di tifosi e compagni e i timori degli avversari, che anche il suo prossimo tiro avrà molte chances di successo.

Per quasi trent’anni, da Gilovich, Vallone, Tversky (1985) a Bar-Eli et al. (2013), la letteratura accademica ha considerato questo aspetto un fenomeno fallace, basato sull’euristica della rappresentatività (Kahneman e Tversky, 1971). L’assunto su cui si poggia tale punto di vista è che la scelta della tipologia di tiro da parte del giocatore è indipendente dalla percezione della propria “mano calda” o meno.

Il primo studio che ha cercato di rispondere a questa domanda è stata condotto da Thomas Gilovich, Robert Vallone , e Amos Tversky nel 1985 . In questo lavoro, gli autori hanno analizzato una serie di tiri di giocatori del Philadelphia 76ers , alla ricerca di una correlazione positiva tra tiri successivi , senza trovarne .

Essi hanno inoltre analizzato una serie di tiri liberi da parte delle squadre di basket maschili e femminili dei Boston Celtics e dei Cornell, senza trovare evidenza di correlazione seriale . Studi successivi , tra cui Adams , 1992; Koehler e Conley , 2003; Bar- Eli , Avugos e Raab , 2006 e Rao 2009 hanno confermato questa conclusione.

Oggi , per la popolazione accademica, la mano calda è quasi universalmente considerato un “fenomeno illusorio”. Eppure , tra i giocatori e gli appassionati di basket, la mano calda è un mito che si rifiuta di morire . I giocatori professionisti stessi hanno riferito la sensazione del “quasi non poter mancare il tiro“, dopo averne messi a segno diversi di fila ( Kahneman e Tversky , 1971) . Le azioni dei giocatori confermano questa descrizione, anche se la difficoltà del tiro tendeva ad aumentare dopo averne messi a segno una serie.( Rao , 2009 ) .

PMS Basketball Torino Ogni giocatore ha un repertorio di tiri che variano in base alla difficoltà della situazione di gioco (per esempio la distanza dal canestro o il pressing della difesa), e ogni tiro viene selezionato casualmente dal repertorio individuale” (Gilovich, Vallone e Tversky, 1985)

Una recente ricerca condotta da Andrew Bocskocsky, John Ezekowitz, and Carolyn Stein della Harvard University di Cambridge , ha utilizzato un nuovo set di dati , forniti dal monitoraggio delle telecamere SportVU della STATS, Inc. Questo set di dati è costituito da oltre 83.000 tentativi di tiro della stagione 2012-2013 NBA . Sintetizzando questo insieme di dati , è stato possibile studiare e conoscere quasi tutte le caratteristiche rilevanti del gesto tecnico del tiro nell momento in cui veniva effettuato.

Questo ha consentito di indagare le seguenti due questioni : in primo luogo, i giocatori (sia attaccanti che difensori) credono nella mano calda , come dimostrano le loro scelte di gioco ? E in secondo luogo , se controlliamo la variabile difficoltà del tiro , emergerà l’ effetto Hot Hand?

Gli studiosi hanno mostrato che i giocatori che percepiscono di avere la mano calda in base ai precedenti risultati, s’incaricano di sparare tiri da distanze significativamente più lontane, e di fronte alla difesa più stretta , sono più propensi a prendersi ulteriori tiri per la loro squadra , a incaricarsi dei tiri più difficili. Questi risultati invalidano l’assunto di indipendenza (o casualità) nella selezione del colpo.

Per stimare questa distorsione , gli autori hanno creato un modello globale di difficoltà del tiro che dipende dalle condizioni stesse del tiro nel momento in cui viene effettuato . Queste condizioni includono variabili rilevanti per la situazione di gioco, la posizione del tiro, e le posizioni dei difensori. Successivamente, hanno stabilito una misura del “calore”, che riflette la misura in cui un giocatore ha sovraperformato i suoi ultimi tiri, tenendo presente quanto fossero difficili.

Avendo sia una misura della difficoltà del tiro, sia una misura del calore della mano, i ricercatori hanno trovato un modo per testare la hot hand, monitorando la difficoltà del tiro. I risultati di questo test suggeriscono che una volta tenuta sotto controllo la variabile dipendente selezione del tiro , ci può essere un piccolo ma significativo effetto Hot Hand .

Dati empirici preliminari

STATS Inc. ha introdotto il sistema di tracciamento ottico di SportVU nella NBA nel 2010. Il sistema utilizza sei telecamere, tre su ogni lato del campo, che forniscono precise immagini tridimensionali dei giocatori, degli arbitri, e della palla ogni 25esimo di secondo. Il dataset dei ricercatori è costituito da ogni partita giocata alle 15 nelle SportVU arene attrezzate nella stagione regolare 2012-2013.

E’ stato creato un registro di tiro che sintetizza i dati di tracciamento ottico di SportVU e i dati play-by-play dalla NBA per creare una solida caratterizzazione di ogni tiro. Per ognuno di essi sono state prese informazioni sul giocatore che ha effettuato il tiro, il tipo di tiro effettuato, il tempo e il punteggio al momento del tiro. Dai dati di monitoraggio ottici, si otteneva anche la posizione esatta della palla e di tutti i dieci giocatori, sia attaccanti che difensori, sul campo.

Previsione della difficoltà del tiro

 

Utilizzando tali dati, gli studiosi hanno stimato un modello che predice la difficoltà di ogni tiro per il giocatore che lo esegue, basato su quattro grandi categorie di determinanti la difficoltà del tiro: controllo della situazione di gioco, controllo del tiro, controllo della difesa e Effetti fissi del giocatore.

Per Controllo di gioco, hanno inteso il tempo di gioco restante e la differenza di punteggio tra le squadre per spiegare le differenze di pressione che gravano sul giocatore che effettua un tiro, l’affaticamento del giocatore e lo sforzo fisico per tutti i tiri effettuati. Per Controllo del tiro, hanno inteso la distanza precisa dal cestello di ogni tiro e la sua categorizzazione play- by-play (cioè, terzo tempo, schiacciata, ecc.) , per stimare la difficoltà del tiro .

Il costrutto di Controllo della Difesa è stato ideato per misurare l’intensità difensiva . Utilizzando i dati SportVU , sono stati in grado di determinare e utilizzare sia la distanza assoluta tra le riprese del giocatore tiratore e il difensore più vicino, sia l’angolo di quel difensore rispetto alla linea retta che va dal tiratore al canestro. Hanno anche tenuto conto della differenza di altezza tra il difensore più vicino e il tiratore, per misurare quanto incideva questa differenza. Infine il costrutto Effetti fissi del giocatore è stato impiegato per controllare le differenze tra i giocatori. Se Kevin Durant e Tyson Chandler effettuano due tiri identici, i due gesti tecnici probabilmente hanno diverse somiglianze di esecuzione. Tale costrutto ha permesso di cogliere eventuali differenze.

Conclusioni

Dopo trent’anni di conferme empiriche che identificano la “Hot Hand” come un esempio di fallacia della mente umana, lo studio di Bocskosky, Ezekowitz e Stein riesce a confutare l’assunto su cui regge tale convinzione, ovvero che la scelta del tipo di tiro sia indipendente dalla percezione di “mano calda”.

Grazie ai dati ricavati dall’optical tracking di SportVU si nota, infatti, che i giocatori che sono riusciti a compiere una performance particolarmente brillante, mettendo a segno più tiri consecutivi rispetto ai loro standard, tendono a provare ad andare nuovamente a segno, con coefficienti di tiro più difficili. Come osservato, anche controllando la variabile dipendente rappresentata dalla selezione del tiro, emerge un piccolo ma significativo effetto Hot Hand.

Questi risultati possono riaprire il dibattito, che sembrava ormai a senso unico, sulla reale consistenza di quello che sembrava ormai solo un mito del mondo del basket, ovvero l’effetto Hot Hand. Conoscere i meccanismi con i quali i giocatori reagiscono alla percezione di questo fenomeno, può fornire un elementi preziosi per mettere a punto differenti e più efficaci strategie sia a livello di squadra che di singolo giocatore.

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Gli adolescenti antisociali hanno mostrato meno attivazione rispetto al gruppo di controllo nella giunzione temporoparietale e nel giro frontale inferiore . Queste aree del cervello sono responsabili di funzioni come “mettersi nei panni di un altro” e il controllo degli impulsi.

Gli adolescenti con disturbo antisociale di personalità infliggono gravi danni fisici e psicologici a se stessi e gli altri. Tuttavia, poco si sa ancora sui processi neurali sottostanti.

I ricercatori dell’Università di Leiden e del Max Planck Institute for Human Development hanno individuato una possibile spiegazione: le aree cerebrali responsabili della elaborazione delle informazioni sociali e del controllo degli impulsi sono meno sviluppate del normale.

Lo studio si è concentrato su detenuti adolescenti di età compresa tra i 15 e i 21 anni dei Paesi Bassi, che avevano ricevuto una diagnosi di disturbo di personalità antisociale.

I ricercatori hanno chiesto agli adolescenti di giocare a mini-ultimatum, un gioco cooperativo che simula considerazioni sull’equità, in cui al giocatore viene offerta una somma di denaro da un altro giocatore. Al giocatore viene anche detto che l’avversario potrebbe aver fatto un’offerta equa o che non aveva alternative. L’attività cerebrale durante la partita è stata misurata utilizzando la risonanza magnetica funzionale ( fMRI ) . Confrontando i risultati con quelli di un gruppo di controllo di adolescenti non delinquenti , i ricercatori sono stati in grado di determinare ciò che stava accadendo nei cervelli dei partecipanti nel contesto di considerazioni di equità .

Gli adolescenti antisociali hanno mostrato meno attivazione rispetto al gruppo di controllo nella giunzione temporoparietale e nel giro frontale inferiore . Queste aree del cervello sono responsabili di funzioni come “mettersi nei panni di un altro” e il controllo degli impulsi.

In entrambi i gruppi i ricercatori hanno osservato livelli simili di attivazione della corteccia cingolata anteriore dorsale e della insula anteriore – le aree del cervello associate ai processi affettivi .

I risultati indicano che , sebbene entrambi i gruppi mostravano gli stessi livelli di reattività emozionale in risposta a offerte inique , gli adolescenti delinquenti hanno rifiutato queste offerte più spesso. In contrasto con il gruppo di controllo, gli adolescenti antisociali non hanno tenuto conto delle intenzioni dell’avversario o del fatto che non avesse alternative.

Gli adolescenti con disturbo antisociale di personalità sembrano quindi avere difficoltà a prendere in considerazione tutte le informazioni pertinenti nelle interazioni sociali, come le intenzioni delle altre persone. I ricercatori ipotizzano che questo incrementi il comportamento antisociale e sperano che le loro scoperte aiuteranno a lo sviluppo di trattamenti psicoterapeutici adeguati.

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Ciò che mi nutre mi distrugge – Documentario – Recensione

Maurizio Brasini

 

CIò CHE MI NUTRE MI DISTRUGGELa sfida ulteriore, dopo averci invitati nella stanza della terapia, è di farci assistere con un senso di partecipe normalità; in effetti, dentro la stanza incontriamo persone simili a noi che insieme affrontano temi di vita che ci accomunano a loro.

Ci sembra di esserci già stati, in quei luoghi, ci sembra che quelle quattro storie siano una storia sola, che parli anche a noi e non soltanto: che parli anche di noi.

Ciò che mi nutre mi distrugge (Quod me nutrit me destruit)” è un documentario di Raffaele Brunetti e Ilaria De Laurentiis, interamente girato nel Comprensorio di Santa Maria della Pietà, all’interno dell’Unità Operativa Semplice Dipartimentale “Disturbi del Comportamento Alimentare” della ASL Roma E, diretta dal dr. Armando Cotugno, ideatore del progetto.

Il documentario racconta un anno del percorso terapeutico di quattro donne affette da disturbi del comportamento alimentare. Tra i numerosi elementi di pregio di questo documentario, uno in particolare mi ha colpito: a mio avviso, attraverso quest’opera si dimostra, con pacata efficacia, che la sofferenza non è un fatto privato.

E’ nota la storia di come nella nostra cultura il dolore e la sofferenza siano diventati istituzionalmente una faccenda privata: si parte dalle pratiche rituali di guarigione collettive per approdare al patto di “privatezza” (privacy) che fa da presupposto alla relazione tra terapeuta e paziente. Questa è la prassi che dà forma alla nostra esperienza, fino a diventare un’abitudine di pensiero.

Ebbene, “Ciò che mi nutre mi distrugge” sovverte questa prospettiva già nelle premesse, dal momento in cui un terapeuta ed una paziente, di comune accordo, invitano nella stanza della terapia il pubblico. Mi rendo conto che solo assistendo alla proiezione in una sala cinematografica, presenti autori e protagonisti, ho avuto la giusta misura di quanto coraggio richiedesse un’operazione simile.

Dentro la stanza della terapia le persone si espongono, sono fragili; sono, con le parole di una delle protagoniste del documentario, umane. Dentro quella stanza è rischioso invitare un pubblico profano, abituato a quella ormai diffusa spettacolarizzazione della sofferenza che è conseguenza nefasta della sua privatizzazione (perché è legge di mercato che ogni cosa privatizzata si presti ad essere poi sfruttata a fini commerciali).

La sfida ulteriore, dopo averci invitati nella stanza della terapia, è di farci assistere con un senso di partecipe normalità; in effetti, dentro la stanza incontriamo persone simili a noi che insieme affrontano temi di vita che ci accomunano a loro. Ci sembra di esserci già stati, in quei luoghi, ci sembra che quelle quattro storie siano una storia sola, che parli anche a noi e non soltanto: che parli anche di noi.

La speranza è che questo documentario venga distribuito nelle sale, che la gente possa vederlo in contesti collettivi, perché quello che accade somiglia ad uno di quei classici esperimenti di psicologia sociale, dove basta creare le condizioni favorevoli e tutti fanno la cosa giusta. Personalmente, da qualche giorno nella stanza del mio studio privato non posso fare a meno di tenere aperta una finestra.

 

Per maggiori informazioni

www.ciocheminutremidistrugge.com.

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Dentro il camice bianco di Giuseppina Majani – Recensione

 

Dentro il camice bianco

(2013) di Giuseppina Majani

 

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Dentro il camice biancoDentro il camice bianco: la bellezza del curare è – o dovrebbe essere – un concetto familiare a tutti coloro che vogliono lavorare in ambito sanitario. Eppure è un concetto tutt’altro che scontato: presenta delle sfumature, delle contraddizioni, che questo libro analizza in maniera garbata e acuta. Giuseppina Majani approfondisce in modo originale il tema del prendersi cura, del paziente e del medico.

Ti diranno che per fare bene il medico devi essere molto preparato e studiare tanto, capire la statistica, parlare inglese, saper padroneggiare la tecnologia, muoverti bene in economia sanitaria. Tutto vero. Ti sentirai dire che è emozionante fare una diagnosi corretta e bellissimo ricevere la gratitudine di un paziente guarito. Tutto vero. Ma quando ti sentirai bucare dagli occhi di un uomo o una donna a cui devi dire che non arriverà a Natale, o che non ci arriverà suo figlio o sua madre, o sua moglie o marito, e se ci arriva non sarà comunque mai più come prima, niente di quello che sai ti farà sentire meno piccolo, meno solo, meno inutile. Lì, in quello spazio e in quel momento, ci sarà solo quello che tu sei. Ci sarà la tua storia, la tua umanità. Io ti auguro di avere paura, e di aver voglia di scappare, perché vorrà dire che sei lì, che non sei già scappato. Questo ti auguro: di uscire dal tuo ospedale o dal tuo ambulatorio sentendo sulla pelle la bellezza del benessere che riesci a restituire, e la verità bruciante del male che non puoi guarire, con pari dignità e pari umiltà. Non importa se dalla gioia della gratitudine o da occhi che verranno a bucarti: fatti comunque trovare. Questo libro è per te che hai deciso di essere un medico. Di stare dentro il tuo camice. Costi quel che costi.

Giuseppina Majani, psicologa psicoterapeuta cognitivo comportamentale e dirigente del Servizio di Psicologia dell’Istituto Scientifico di Montescano (PV) della Fondazione Maugeri, ha voluto raccogliere in questo manuale le riflessioni maturate in anni di esercizio della professione, una professione che ha permesso di guardare attentamente i personaggi che si alternano e che si relazionano nell’ambito di un’azienda ospedaliera che ha come obiettivo la cura e la riabilitazione del paziente. L’esperienza diretta dell’Autrice, consiste nell’osservazione dei suoi pazienti, ma non solo; preziose sono le occasioni quotidiane di scambio con le figure professionali che si occupano dei pazienti, in particolare medici, e acute sono le esplorazioni delle dinamiche relazionali tra il paziente, preoccupato, speranzoso e solo, e il suo medico, anche lui spesso preoccupato, speranzoso e solo.

Il libro si apre con un quesito apparentemente semplice, ma intrinsecamente complesso: perché vuoi fare il medico?

Le osservazioni personali della Dr.ssa Majani, avvalorate dalla letteratura scientifica, aprono numerosi spazi di riflessione sul tema della scelta professionale. Un contributo innovativo in Italia, dove al 2013 il percorso di Laurea in Medicina prevede pochi spazi dedicati alla formazione psicologica del professionista. L’Autrice passa in rassegna i rischi correlati a tale mancanza, non limitandosi tuttavia a rivolgersi a chi deve ancora intraprendere il percorso di laurea in Medicina e Chirurgia, ma anche a tutti quei professionisti che già si trovano ‘dentro il camice bianco’.

Nel libro si può apprendere ad esempio come un’alta percentuale di medici oggi non metta in pratica molti dei consigli che offre ai pazienti in tema di prevenzione primaria e secondaria. E allora il quesito per il futuro medico è il seguente: come sei messo, quanto a cura di te? “Se ad un certo punto della tua formazione il disagio psicologico si fa avvertibile e inizia a darti fastidio, la cosa peggiore che tu possa fare è imbottigliarlo e far finta di niente, aspettando che passi da solo” – si legge nel testo – “…questo atteggiamento, molto diffuso, nasce dalla tendenza a considerare il malessere psicologico come un segno di debolezza che va tenuto nascosto perché non rovini la tua credibilità di studente oggi e di medico domani”.

Il libro apre infine uno spazio di riflessione interessante su chi sia il paziente. Molti sono i contributi scientifici e i modelli di riferimento illustrati nel libro che possono arricchire la professionalità del medico e delle figure sanitarie in genere. Inevitabile pensare ai pazienti che si è incontrato. Forse troppo concentrati sulla tecnica o forse troppo insicuri e impacciati, si è dimenticata la bellezza della persona che si aveva di fronte.

Da questa piacevole lettura emerge un insegnamento prezioso per il medico e per tutte le persone che nella vita vogliono lavorare a stretto contatto con i pazienti: “E abbi cura di te, perché parte tutto da lì”.

 

 

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– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La diversità non porta necessariamente la gente ad assumere un atteggiamento difensivo, ma consente anche di aprirsi e può essere un occasione di coinvolgimento con l’altro, con persone di etnie diverse dalla propria.

Negli ultimi 50 anni la diversità socio-culturale di molti quartieri delle città europee è aumentata. Come reagisce ai cambiamenti chi vive in questi quartieri ? Una maggiore integrazione promuove maggiori contatti e fiducia tra i gruppi?

Un recente studio pubblicato su Psychological Science ha cercato di rispondere a queste domande esaminando più di 1.500 persone in 224 quartieri di tutta l’Inghilterra.

Circa la metà dei partecipanti (la maggioranza del campione) erano inglesi caucasici, mentre l’altra metà era composta da minoranze etniche provenienti da quartieri con diversi gradi di diversità.

I ricercatori hanno cercato di capire come la diversità ha influenzato la fiducia tra i gruppi, la fiducia nel prossimo e l’atteggiamento complessivo verso i membri non appartenenti al proprio gruppo.

Tra gli individui del campione di minoranza etnica, una maggiore diversità socio-culturale non è stata collegata con atteggiamenti positivi o negativi verso la maggioranza britannica caucasica. In altre parole, il livello di diversità in un quartiere non sembra essere correlato agli atteggiamenti individuali della minoranza etnica rispetto ai vicini o alla maggioranza britannica.

Inoltre per quanto riguarda la maggioranza caucasica, nonostante le risposte di questo gruppo fossero eterogenee, una maggiore diversità è stata associata complessivamente con fiducia e atteggiamenti positivi, ma in modo indiretto: maggiore diversità promuove il contatto e l’interazione tra i gruppi, e maggiore contatto ha portato a una minore percezione della minaccia.

Questo studio, che fino ad oggi è il più grande e completo del suo genere, si aggiunge alle ricerche precedenti, dimostrando che gli effetti indiretti di contatto e di minaccia percepita possono svolgere un ruolo significativo nei livelli generali di fiducia tra i gruppi.

Complessivamente i risultati indicano che la diversità non porta necessariamente la gente ad assumere un atteggiamento difensivo, ma consente anche di aprirsi e può essere un occasione di coinvolgimento con altri di etnie diverse dalla propria.

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Sonno e rischio di suicidio in un campione di adolescenti europei.

Andrea Ballesio.

 

 

Insonnia e rischio di suicidio. - Immagine: ©-karuka-Fotolia.comInsonnia e problemi di sonno sono comuni in moltissime forme di psicopatologia in cui è alto il rischio di suicidio, primi tra tutti i disturbi dell’umore. Un recente studio statunitense ha riscontrato un’associazione tra problemi di sonno e ideazione, programmazione e tentativi di suicidio in un campione di oltre 5000 persone.

Una recente metanalisi ha indicato come l’insonnia possa essere predittiva di depressione (Baglioni et al., 2011). Sulla base di queste evidenze, Sarchiapone e colleghi (2014), hanno indagato la relazione tra ore di sonno e alcuni outcome cognitivi, emotivi e comportamentali, compresi l’ideazione suicidaria e i tentativi di suicidio.

Il campione analizzato è costituito da 12.395 adolescenti provenienti da Austria, Estonia, Francia, Germania, Ungheria, Irlanda, Israele, Italia, Romania, Slovenia e Spagna.

Sono state somministrate una scala di misurazione dell’ansia (Zung Self-rating Scale), una scala di valutazione dell’ideazione suicidaria e i tentativi di suicidio nelle due settimane precedenti la somministrazione (Paykel Suicidal Scale), ed una scala di valutazione di problemi emotivi, relazione tra pari, comportamenti prosociali, problemi di condotta e sintomi di inattenzione/iperattività (Strenghts and Difficulties Questionnaire).

I risultati della ricerca mostrano che le ore di sonno sono inversamente correlate alle variabili di ideazione suicidaria, ansia, problemi emotivi, di condotta e di relazione tra pari.

Inoltre, relazione tra ore di sonno e ideazione suicidaria rimane significativa anche tenendo sotto controllo l’ansia e i problemi dell’umore. Alla luce delle evidenze emerse, appare sempre più importante promuovere il trattamento dell’insonnia e dei problemi di sonno anche come strumento di prevenzione del suicidio e di disturbi dell’umore.

 

 

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La trasmissione intergenerazionale del legame di attaccamento

 

La trasmissione intergenerazionale del legame di attaccamento. - Immagine: © Ogerepus - Fotolia.comPattern disorganizzati:La trasmissione intergenerazionale del legame di attaccamento e della psicopatologia borderline.

Tra i differenti pattern di attaccamento, il sistema disorientato-disorganizzato (Main & Solomon, 1986) sembra essere quello che, con maggiore probabilità di rischio, predice lo sviluppo di psicopatologia infantile e adulta. Main e Solomon (1990) suggeriscono di considerare disorientati e/o disorganizzati i bambini che mostrano comportamenti di attaccamento contraddittori, conflittuali, “congelati” nel relazionarsi con il caregiver tipicamente detto “spaventato spaventante”, interiorizzando Modelli Operativi Interni che si dimostrano funzionali nel loro permettere di sopravvivere in circostanze di vita allarmanti e pericolose per la propria incolumità (traumatiche), ma fortemente disadattivi per lo sviluppo emotivo, relazionale, interpersonale e persino cognitivo del bambino stesso.

Molteplici studi si sono concentrati sulla relazione esistente tra attaccamento disorganizzato (D) e sviluppo di psicopatologia nel bambino, caratterizzata da quadri complessi in maniera proporzionale rispetto alla gravità, cronicità e intensità degli eventi a carattere traumatico vissuti in età precoce (altra variabile discriminante è, dunque, l’età del bambino), con lo sviluppo di sindromi in Asse I aggravate dalla compresenza di tratti dissociativi, a volte a soddisfare i criteri per la diagnosi di un Disturbo da Stress Post-Traumatico Complesso (cPTSD).

Contributi scientifici hanno permesso di evidenziare un legame tra attaccamento D e la diagnosi di Disturbo Borderline di Personalità in soggetti adulti, probabilmente a causa delle grandi lacune di mentalizzazione del bambino (Fonagy, Steele, Steele, Haggitt & Target, 1994), deficit nello sviluppo delle funzioni metacognitive, instabilità nella costruzione del senso di Sé, ambivalenza verso la figura di accudimento, scissione traumatica e sistema difensivo primitivo, in balia degli effetti del vago dorsale e delle sue risposte primordiali di freeze e faint (Fonagy & Target, 1997).

A sostegno di quanto riportato, è stato osservato in uno studio condotto da Hobson, Crandell, Garcia-Perez & Lee (2005) come bambini figli di madri con Disturbo Borderline di Personalità manifestassero durante il paradigma della Strange Situation, a 12 mesi di età, un attaccamento di tipo disorganizzato nell’80% dei casi, il quale come principali conseguenze comporta notevoli difficoltà nella regolazione delle emozioni, memoria episodica frammentaria, risposte dissociative e perdita del senso di Sé (sintomatologia tipica del disturbo in Asse II, a conferma sia delle tesi circa la trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento, che della correlazione con l’insorgenza di patologia Border).

La letteratura è ormai orientata verso una spiegazione scientifica ed empirica della trasmissibilità intergenerazionale del legame (Van IJzendoorn, 1995), a carico del ruolo svolto dai Modelli Operativi Interni e del loro riproporre e ricreare nel soggetto gli stili di interazione interiorizzati in infanzia; i figli di madri che svolgono il loro ruolo in maniera carente e inadeguata, che si mostrano resistenti al contatto fisico e incapaci di far fronte ai bisogni e alle angosce del bambino, tendono difatti a sviluppare poca fiducia in se stessi e negli altri, scarsa capacità di valutare in modo realistico le situazioni, una bassa competenza sociale che si esprime, a seconda dei casi, con l’isolamento o con esplosioni di rabbia ingiustificata (Cassidy & Shaver, 2008); i bambini maltrattati o trascurati si ritrovano a doversi confrontare con una visione di sé intollerabile, riflessa nelle loro figure di accudimento, e si percepiscono odiati, respinti, ma anche meritevoli di tali trattamenti, allo scopo di preservare intatta l’immagine del caregiver (per salvare il genitore, frantumano e dissociano se stessi).

Tali vissuti, se non adeguatamente elaborati e integrati nella propria esperienza, porteranno quei bambini e quelle bambine a divenire dei “genitori irrisolti” (Liotti & Farina, 2011), mantenendo vivo il copione di disorganizzazione che li ha da sempre caratterizzati.

Dati a sostegno della trasmissione intergenerazionale dell’attaccamento sono supportati anche dalla letteratura che si è occupata del Disturbo Borderline di Personalità (Stepp et al., 2011); non solo è stato ribadito l’alto rischio di disturbo nel genitore e sviluppo di un pattern D di attaccamento con il figlio, ma è stata anche data una plausibile spiegazione della trasmissione del disturbo stesso e dei suoi tratti principali: i comportamenti disorganizzati del genitore trovano pieno riscontro in quelli del bambino, che “impara” a sopravvivere a contatto con un caregiver altamente disfunzionale,  con una forma di apprendimento relazionale e comportamentale altrettanto disadattiva e che, tendenzialmente, si riproporrà a circolo vizioso nei rapporti interpersonali (bagaglio trasmesso da generazione in generazione).

Nonostante questi aspetti di continuità, Van IJzendoorn (1995) osserva come la costituzione del legame sia piuttosto sensibile, entro i primi 5 anni di vita del bambino, a una serie di aspetti e fattori contestuali, relazionali, situazionali, oltre che dal temperamento individuale del bambino stesso, così che divenga necessario parlare di un transmission gap (lacuna di trasmissione), che giustifica a pieno l’assenza di una causalità diretta e lineare tra attaccamento del caregiver e quello del bambino.

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I fumatori e l’insensibilità alle informazioni sui danni del fumo

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il cervello dei fumatori viene “ingannato” dal rapporto che questi hanno con le sigarette, rimanendo “insensibile” agli aspetti negativi e dannosi del fumo.

In Canada e negli Stati Uniti, circa il 20 % degli adulti fumano sigarette pur consapevoli degli effetti negativi di questa abitudine sulla salute; inoltre circa il 70 – 95 % dei fumatori che smettono di fumare, nonostante gli sforzi, ricominciano a fumare entro un anno .

I fumatori hanno un rischio dalle 3 alle 9 volte maggiore di sviluppare il cancro, malattia polmonare o problemi cardiaci. Le sigarette sono anche associate a problemi di fertilità , invecchiamento precoce , mancanza di igiene e di stigmatizzazione sociale , inoltre il fumo passivo ha un impatto negativo sulla salute di chi lo subisce. Un fumatore su due morirà a causa di questa dannosa abitudine. Perchè essere a conoscenza di tutto ciò non dissuade i fumatori cronici dal continuare a farlo?

Un recente studio condotto dai ricercatori dell’Université de Montréal ha cercato di capire in che modo l’uso che facciamo di un prodotto condiziona il nostro atteggiamento emotivo nei confronti dello stesso.

In particolare i ricercatori hanno indagato le reazioni emotive dei fumatori cronici nei confronti del fumo cercando di capire  perchè l’esposizione alle informazioni sugli effetti negativi del tabacco è così poco efficace nell’aiutarli ad abbandonare per sempre questa dannosa abitudine.

Utilizzando tecniche di neuroimaging, è stato possibile confrontare le reazioni emotive di 30 fumatori durante l’esposizione a tre diversi tipi di immagini: immagini negative legate al fumare (ad esempio, il cancro del polmone ), altri tipi di immagini negative (ad esempio, un uomo anziano sul letto di morte ), e immagini positive legate al fumare.

I risultati dello studio indicano che i fumatori cronici hanno reagito emotivamente all’esposizione a immagini sia negative che positive connesse con il tabacco, ma che l’intensità della reazione aveva a che fare con come il fumare veniva rappresentato: le aree del cervello legate alla motivazione si attivavano maggiormente in risposta a immagini che rappresentavano il fumare in una luce positiva, e l’attivazione era minore in risposta a immagini relative agli effetti negativi del fumo o in risposta a immagini che incoraggiavano a smettere.

Inoltre l’attivazione in corrispondenza di immagini negative non legate al fumo era maggiore rispetto a quella in risposta a immagini sulle conseguenze negative del fumare.

Il cervello dei fumatori insomma viene “ingannato” dal rapporto che questi hanno con le sigarette, rimanendo “insensibile” agli aspetti negativi e dannosi del fumo.

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Non aggrapparti ai tuoi sogni, perseguili! – Psicologia dei Sogni Pt.6

 

PIANO DEL SOGNO PT. 6

Conclusione

Non aggrapparti ai tuoi sogni, perseguili!

 

MONOGRAFIA PIANO DEL SOGNO

Conclusione – Psicologia dei Sogni Pt.6. - Immagine: © Serg Nvns - Fotolia.comPerseguire un sogno è una propensione motivante per l’essere umano che offre un senso di vitalità, una spinta verso il sacrificio, la capacità di rinunciare a gratificazioni immediate per soddisfazioni più grandi e più lontane.

Anche il sogno aiuta a evolversi. Non è nel sogno la malattia autoimmune ma nel modo in cui lo si utilizza.

Giunti alla fine di questa riflessione vale la pena non mettere in croce il sogno nella sua totalità. Il punto non è tanto avere dei sogni, il punto è avere solo dei sogni a cui si è rigidamente aggrappati.  

Perseguire un sogno è una propensione motivante per l’essere umano che offre un senso di vitalità, una spinta verso il sacrificio, la capacità di rinunciare a gratificazioni immediate per soddisfazioni più grandi e più lontane. Anche il sogno aiuta a evolversi. Non è nel sogno la malattia autoimmune ma nel modo in cui lo si utilizza.

Come tutelarsi da un uso deleterio del sogno? Primo, ricordarsi la bellezza di costruire il sogno nel tempo, un gradino dopo l’altro: ‘ora che sono qui, cosa vorrei fare di più?’. Non attaccare quindi lo sguardo alla vetta lontana.

Secondo, osservare come la realtà può essere anche più meravigliosa dei nostri sogni proprio per i piaceri ma anche per i tormenti che ci offre ad ogni passo. È possibile gustare ogni giorno un piccolo piacere e vedere un tormento come l’opportunità di riscoprire il piacere di rialzarsi in piedi.

Terzo cercare il dolce contatto della malinconica disillusione che accomuna tutte le particelle di pulviscolo che attraversano l’universo.

L’idea può far storcere il naso a qualcuno fino a risultare fastidiosa. A costoro però l’invito è almeno quello di guardarla questa opzione in faccia, apparentemente svilente e devitalizzata. Forse in questa malinconia si nasconde un mondo di nuove serenità e scoperte, già a portata di mano.

PIANO DEL SOGNO: PARTE 1 – PARTE 2 – PARTE 3 – PARTE 4 – PARTE 5

 

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Temperamento, carattere e stili parentali come predittori della tendenza alla ruminazione rabbiosa

Articolo presentato al Premio State of Mind 2013 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia

Temperamento, carattere e stili parentali come predittori della tendenza alla ruminazione rabbiosa

 

 

Ruminazione rabbiosa Premio State of Mind 2013. - Immagine: © olly - Fotolia.comLa ruminazione rabbiosa (anger rumination) è una modalità di pensiero negativo, ciclico e ricorrente, che si focalizza su episodi passati che hanno provocato rabbia nel soggetto. Questo stile di pensiero rappresenta una strategia di controllo cognitivo su emozioni spiacevoli ed intrusive.

La  presente ricerca si pone l’obiettivo di indagare gli antecedenti evolutivi della ruminazione rabbiosa. Le ipotesi considerate hanno lo scopo di valutare in che modo le dimensioni temperamentali e caratteriali, gli stili parentali e la rabbia (propensione a provare rabbia e frequenza con cui essa è espressa) incidano sull’anger rumination.

270 volontari  hanno partecipato alla ricerca: i soggetti dovevano compilare una batteria di test standardizzati che prendevano in esame le dimensioni indagate. La rabbia è stata valutata tramite le sottoscale dello State-Trait Anger Expression Inventory (STAXI) e quelle dello STAXI-AX/EX; la personalità, definita da temperamento e carattere, è stata misurata con il Temperament Character Inventory (TCI); infine il Parental Bonding Instrument (PBI) è stato utilizzato per  analizzare la qualità degli stili parentali.

 I risultati mostrano che la rabbia e le dimensioni di personalità predicono in modo significativo ed indipendente la ruminazione rabbiosa. La rabbia reattiva (sottoscala della rabbia di tratto) e le dimensioni riguardanti la rabbia repressa ed espressa rappresentano le componenti più rilevanti nello spiegare la variabile indagata. I fattori di Self-Directedness e Persistence, relativi rispettivamente al carattere ed al temperamento, sono risultati maggiormente predittivi dell’anger rumination La presente ricerca evidenzia il ruolo del temperamento, del carattere e della disposizione alla rabbia nello sviluppo di una tendenza eccessiva alla ruminazione rabbiosa.

Anger rumination is a negative thinking process, cyclic and recurrent, focused on past events which caused anger. Anger rumination is a cognitive strategy tend to control intrusive emotions. This research would to examine evolutive antecedents of anger rumination. The purpose is to analyze how personality, parental styles and anger affect anger rumination. 270 subjects completed a series of assessment questionnaires. Anger was evaluated by the State – Trait Anger Expression Inventory (STAXI) and STAXI-AX/EX. Personality dimensions were analyzed by Temperament Character Inventory (TCI). The Parental Bonding Instrument (PBI) assessed parental styles. Results confirm that anger and personality dimensions predict significantly anger rumination. The dimension of Angry-reaction, a subscale of Anger-Trait, Anger-In and Anger-Out explain anger rumination. In particular, both Self-Directness and Persistence, about character and temperament respectively, largely predict anger rumination. Both personality and anger dimensions have an important role to influence an excessive tendency to anger rumination.

Keywords: anger rumination, parental styles, anger, temperament, character

 

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– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un gruppo internazionale guidato dai ricercatori della Vanderbilt University ha scoperto i recettori dei cannabinoidi attraverso i quali la marijuana esercita i suoi effetti nella regolazione dell’ansia e nella risposta attacco-fuga.

È la prima volta che i recettori dei cannabinoidi vengono identificati nel nucleo centrale dell’amigdala del topo.

La scoperta, pubblicata sulla rivista Neuron, potrebbe contribuire a spiegare perché i consumatori di marijuana dicono di farlo principalmente per ridurre l’ansia, ha detto Sachin Patel , MD , Ph.D., autore senior del documento e professore di Psichiatria e di Fisiologia Molecolare e Biofisica.

I ricercatori hanno anche dimostrato, per la prima volta, come le cellule nervose in questa parte del cervello producono e rilasciano i propri endocannabinoidi naturali.

In questo studio, i ricercatori hanno utilizzato anticorpi ad alta affinità per etichettare i recettori dei cannabinoidi in modo che potessero essere visti utilizzando varie tecniche di microscopia, tra cui quella elettronica, che ha permesso la visualizzazione molto dettagliata delle singole sinapsi.

Precedenti studi hanno suggerito che il sistema endocannabinoide naturale regola l’ansia e la risposta allo stress smorzando i segnali eccitatori che coinvolgono il neurotrasmettitore glutammato. Lo stress cronico o un grave trauma emotivo possono causare una riduzione sia della produzione di endocannabinoidi che della reattività dei recettori, così che, senza il loro effetto tampone, l’ansia aumenterebbe.

Ma attenzione, se i cannabinoidi “esogeni” della marijuana possono ridurre l’ansia, l’uso cronico del farmaco deprime i recettori, con una crescita paradossale dell’ansia. Questo può innescare il circolo vizioso di aumento dell’assunzione che in alcuni casi porta alla dipendenza.

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Onde corte e Nervi tesi: Rassegna di Documentari su Storie di Straordinaria Follia

PSICOLOGIA FILM FESTIVAL  (PFF 2014)

Presenta: 

Onde corte e Nervi tesi

Rassegna di Documentari su Storie di Straordinaria Follia

Onde Corte e Nervi Tesi - Rassegna di Documentari su Storie di Straordinaria Follia - Collettivo Psicologia Torino - 2014

A differenza di altri spettri di frequenza nel campo radio, le onde corte permettono con poca potenza, di effettuare collegamenti a lunghissima distanza. Proponiamo un appuntamento al mese in cui ci incontreremo in un luogo non casuale, per vedere ed asoltare storie diverse di gente normale, gente normale con una storia di sofferenza mentale. Questi lavori documentano realtà da ampliare e altre da cancellare per sempre. In ogni realtà la parola è affidata a chi queste esperienze le vive ogni giorno.

PAGINA DELLO PSICOLOGIA FILM FESTIVAL

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Posseduta

– Leggi l’introduzione –

CIM-NR.4 Posseduta. - Immagine: ©AlexTihonovFotolia.comAl CIM la scelta degli operatori per una chiamata di emergenza tiene normalmente conto della reciproca intesa, della complementarietà professionale e caratteriale e, talvolta, della sommatoria della massa muscolare.

Quella volta le condizioni vennero dettate dall’esterno.

Serviva una squadra tutta femminile, dovendo intervenire all’interno del monastero delle suore della Consolata.

La richiesta pressante giungeva dal vescovo di Vontano, che voleva vederci chiaro nel caso di una ragazzina sospetta indemoniata, ospitata transitoriamente nel bel convento che caratterizza il profilo del Monte Marzucco, dietro il quale si nasconde il sole al tramonto. 

La scelta fu dunque facile: come medico la dottoressa Mattiacci, la psicologa Daniela Fiacca e le infermiere Gilda e Luisa.

Arrivate poco prima dell’ora di pranzo furono invitate dalla superiora Suor Simona a consumare il frugale pasto con le consorelle cui venne spiegato il compito di quella strana squadra, con l’invito a collaborare ad ogni loro richiesta. Con una telefonata era stata avvertita Anna, la madre della ragazzina, perché raggiungesse anch’ella il convento. Se lo scopo dell’assenza di operatori maschi doveva preservare il voto di castità del luogo, il risultato fu completamente fallito: la provocante bellezza di Gilda non rispettava i confini di genere, nella sua vita aveva sempre ricercato il piacere sessuale senza far troppo caso a chi fosse in grado di dargliene.

Abituata a sentire su di sé lo sguardo voglioso di uomini e donne avvertì, dal momento dell’entrata in convento un flusso di desiderio saffico avvolgerla ad ogni movimento. L’idea della trasgressività della situazione ne stimolarono inconsapevolmente l’innata seduttività.

Don Alfonso, padre spirituale e confessore del convento, ebbe il suo bel da fare nel confessionale la domenica successiva e non trovò spiegazione migliore all’impennata di pensieri e atti impuri della presenza del demonio nell’animo della ragazzina ospitata.

Il primo colloquio si tenne nella biblioteca del convento tra la signora Anna, madre di Luana, e  la dottoressa Fiacca per ricostruire tutta la storia. Il materialismo militante della psicologa si trovò subito a fronteggiare un mondo dove il soprannaturale era la norma.

La signora Anna  è fortemente preoccupata per il futuro, proprio e della figlia, con un solo stipendio di assistente sociale e senza nessun contributo da parte del marito che tratteggia rapidamente come un debosciato, violento “senza arte nè parte”. Alla preoccupazione si è aggiunta da alcuni mesi la tristezza generata dalla scomparsa della anzianissima madre, morta in clinica psichiatrica dove era ricoverata per un delirio mistico che si è presentato nelle varie generazioni in più membri della sua famiglia. Lo scientismo materialista della dottoressa Fiacca si rassicura per la positività dell’anamnesi familiare, ma subito Anna le chiede se sia o meno credente. Non avendo timore di finire all’inferno, mente spudoratamente ed il resoconto di Anna riprende con maggior passione.

Anna nasce figlia unica 55 anni fa in un minuscolo paesino del Lazio da una famiglia di contadini onesti, lavoratori e timorati di Dio e vive fino ai diciotto anni nella stretta cerchia dei parenti, serrata a proteggerla dalle insidie del mondo. Inesperta, si invaghisce di un bell’imbusto di passaggio. Un Peter Pan di Firenze che, orfano, vive con una zia iperprotettiva con la quale ha un rapporto simbiotico e se la cava con espedienti post sessantottini, collanine e manufatti personalizzati e non disdegna l’uso di sostanze diffuse tra i figli dei fiori.

Forse fu proprio lo stordimento dovuto alle droghe, unito alla baldanzosa euforia ormonale dei diciotto anni, che consentirono a Marcello di superare il serio ostacolo posto dall’aspetto fisico di Anna che si distingueva per sgradevolezza, anche in un tempo in cui le donne brutte erano molto più diffuse di oggi e portarono in un colpo solo alla perdita della verginità che Anna intendeva donare al Signore, considerato anche lo scarso valore di mercato che aveva tra gli umani e all’annidamento nel suo utero di un assembramento di cellule primo abbozzo della futura Luana.

Forse fu proprio l’innato atteggiamento oblativo da assistente sociale, quale sarebbe poi diventata, che spinse Anna a volersi dedicare a Marcello cercando di trasformarlo in un responsabile padre di famiglia.

Ma lui e la sua forse incestuosa zietta non vedevano di buon occhio il progetto di redenzione dell’orfano dei fiori. Marcello tentò in tutti i modi possibili di far abortire Anna con una strategia fai da te consistente nel massacrarla di botte. Le botte rimasero da allora una costante della loro relazione e più volte la piccola Luana le salverà la vita chiamando i soccorsi dopo averla trovata riversa in un lago di sangue, in tal modo ricambiando il dono fattole dalla madre che l’aveva protetta  dalla furia abortiva del padre.

Ognuna salva e vigila sulla vita dell’altra, costantemente minacciate da tutto ciò che è esterno alla loro diade simbiotica. Anna raggiunge Marcello a Firenze decisa a fargli accettare il suo ruolo di padre e, durante la sua assenza, suo padre si suicida, forse per l’intollerabile vergogna, con un colpo di pistola in bocca. Il gesto e la sua assenza in quel frangente saranno sempre vissute da Anna come una gravissima colpa per riparare la quale si dedica totalmente alla cura della madre vedova.

La vita di Anna è offerta completamente al Signore anche senza potergli donare il fiore della sua verginità, alla cura della madre della figlia e del prossimo più sfortunato con il suo lavoro di assistente sociale.

E’ una esistenza di risarcimento ed espiazione.

Marcello, dal canto suo, frequenta moltissime donne ma non abbandona mai la sua zietta fiorentina e continua a malmenare Anna ogni qual volta gli si fa sotto. Fa perdere le sue tracce in Australia non avendo trovato sul pianeta una terra più lontana dall’Italia. Dopo sei mesi cessa l’invio del vaglia con cui contribuiva per il mantenimento di Luana.  Anna dorme poco e male (il sonno si vedrà essere un tema drammaticamente ricorrente) e prova tristezza per la recente morte della madre, verso la quale prova anche sensi di colpa per averla “rinchiusa in clinica” e per aver provato nascostamente sollievo alla notizia della sua scomparsa.

L’incontro con Luana avviene invece nella sua cameretta e vi partecipa oltre a Daniela anche la dottoressa Mattiacci.

Per una questione medico-legale è importante la presenza di un medico.

Luana è un po’ spaesata, essendo giunta in convento la mattina stessa, in fuga da una cosiddetta comunità terapeutica. Arriva accompagnata per mano dalla superiora Suor Simona.

Appare molto più bambina dei suoi 22 anni anagrafici e viene naturale pensarla come una ragazzina qualsiasi, vestita semplicemente e con qualche chilo di troppo.

E’ visibilmente spaventata e chiede continue rassicurazioni circa il fatto che non sarà più rimandata nella comunità di Perugia dove ha trascorso gli ultimi tre mesi da incubo.

Suor Simona, bionda, magra e delicata ma di rocciosa solidità è la giovane superiora con una laurea in psicologia che si pone come figura protettiva e materna e la lascia solo dopo essersi assicurata che Luana sia tranquilla con Daniela e Lina. In un contesto clinico si sarebbe scritto in cartella che “la paziente è orientata nel tempo e nello spazio, accede volentieri al colloquio e non presenta manifestazioni psicopatologiche di alcun genere”: Luana è una ragazza estremamente lucida, consapevole e molto intelligente che racconta volentieri la sua storia ed ha con le due operatrici un ottimo rapporto empatico, non sembra esserci alcunché di psicotico.

Allora, però, se non è matta, pensano le due, a cosa attribuire le incredibili manifestazioni che hanno allarmato il vescovo? Sarà davvero indemoniata? Se non fossero a conoscenza dei risvolti ultraterreni della vicenda e di tutte le figure che vi ruotano o svolazzano intorno, dopo mezz’ora sarebbero sulla strada del ritorno con beneficio spirituale delle consorelle ora tutte prese dalle chiacchiere con Gilda sul degrado morale degli attuali costumi sessuali.

Ma la vicenda, al di là del demonio, si fa interessante e la sua brillante e profonda narrazione avvince.

Luana ricorda un’ infanzia segnata dalla continua guerra tra il padre e la madre. La madre descriveva il padre come un demonio ma la spingeva ad andare da lui a Firenze perché questo spetta ad una brava figlia. Quando il padre era presente le liti tra i genitori esplodevano furibonde e ricorda spesso la madre a terra insanguinata e lei che chiama l’ambulanza. Quando il padre non c’era le liti erano tra la madre e la nonna descritta come iperansiosa, controllante e fissata con la religione. 

Il padre non tollerava di stare con loro anche per questa presenza, asfissiante per tutti, lo ricorda stordito dalle sostanze e inaffidabile ma mai direttamente violento nei suoi confronti. La madre invece mai disponibile per lei, presa dalle liti con il padre, le cure della vecchia madre e dei suoi utenti.

Parla volentieri dei suoi sintomi. Convinta della sua possessione o, in alternativa, della sua follia, racconta di aver avuto tutti i possibili disturbi tra cui degli attacchi di panico che non risultano essere tali. Il primo, infatti,  consiste in uno svenimento a seguito di una sigaretta fumata a digiuno. Scivola a terra e la madre lascia perdere tutto per occuparsi di lei. A quel punto consapevolmente resta a terra e si lamenta eccessivamente beandosi dell’attenzione della madre finalmente richiamata. Luana dice di aver compreso allora che l’unico modo per avere l’attenzione della madre era star male. Insomma “piccole isteriche crescono”.

La scuola di perfezionamento la fa alle cosiddette “messe di liberazione”, di per sé pratiche innocue in quanto preghiere a favore dei malati, dove viene spinta dalla nonna con l’argomentazione che “non si sa mai” e poi “pregare certamente non fa male a nessuno”.

L’ambiente però è mal frequentato e Luana assiste a clamorose crisi isteriche di fronte ad un pubblico che esalta entusiasticamente le più teatrali. Ne resta turbata e chiede di non andarci più, in accordo con la ferma presa di posizione laica del padre.

Ma agli occhi di chi ha una fede primitiva, tanta ignoranza ed una tendenza al delirio, cosa può significare questo rifiuto? Ovviamente che il demonio, che si è introdotto nella ragazzina, vuole fuggire dall’incontro con Dio. 

In questo modo si entra in una terribile spirale confirmatoria tipica anche della malattia mentale. 

Infatti una volta che intervengono gli psichiatri, qualsiasi tentativo di mostrare la propria sanità mentale e magari l’irritazione per essere considerati folli divengono ulteriori prove dello stato di follia, come ha dimostrato la famosa “beffa di Roshenam”.  Altrettanto con gli esorcisti: non  è forse la prima delle astuzie del demonio quella di far credere che non esiste?

Tornando alla sua realtà di quattordicenne bruttina e timida racconta delle difficoltà ad inserirsi nel gruppo classe, dei primi turbamenti sessuali con relativi sensi di colpa. Poi, finalmente, una cotta per Marco di tre anni più grande e i sogni di normalità. Escono persino un paio di volte insieme e lui mostra un interesse per il suo fisico ma viene respinto fermamente. Mamma Anna, forte della sua esperienza con Marcello, l’ha messa in guardia: il sesso è la via maestra per l’inferno. Così, dopo mesi di inutile assedio alla virtù di Luana, Marco durante una gita scolastica si mette con una ragazzetta più grande e disponibile. Per Luana è il dolore allo stato puro. Vede confermate le sue previsioni di solitudine, emarginazione e derisione. E’ diversa dalle altre. Si sveglia la notte e rimugina ossessivamente su quanto è successo, cercando le sue colpe e le sue mancanze.

Si preoccupa del sonno disturbato, sintomo del nonno nel periodo precedente al suicidio e lo dice alla mamma. Anna inizia a dormire nel letto con la figlia per controllarla e pensa ad interventi terapeutici più sostanziosi che non le semplici messe di liberazione.

Luana ha ottenuto la vicinanza della madre che le dorme accanto, ma paga il prezzo di un escalation di esorcismi verrebbe da dire “privati”, nel senso di professionisti scaccia diavoli non organici alla chiesa, ma dotati di poteri particolari che utilizzano per sbarcare il lunario. Il problema del sonno permane richiedendo interventi sempre più massicci. Attualmente Luana sostiene una cosa inverosimile, perché incompatibile con la vita e cioè di non dormire da quattro anni. Leggende analoghe riguardano il nonno suicida.

Ogni incontro con gli scaccia demoni se non risolve la sintomatologia aiuta però a confermare la diagnosi per il suo comportamento rifiutante.

Luana è piena zeppa di demoni e di quelli importanti. La loro presenza si manifesta oltre che con l’ insonnia con vizi notoriamente ispirati dal maligno come il fumo e l’assunzione di caffè che lei ha infatti eliminato da quattro anni.

Il fatto di essere trattata da indemoniata a motivo delle convinzioni della madre e del delirio della nonna non era la cosa peggiore che potesse capitare a Luana. Il peggio doveva succedere negli ultimi tre mesi quando la gestione è passata ai colleghi strizzacervelli.

Anna, abbattuta dal lutto della propria madre, aveva gettato la spugna e Luana era stata inviata in una comunità terapeutica vicino Perugia.

Questa comunità mette insieme matti, tossicodipendenti di tutti i tipi, internati sottoposti dal giudice a misure di sicurezza, barboni e ogni sorta di umanità sofferente e marginale. La gestione, sotto la guida della chiesa locale, è affidata ad ex ricoverati che si gettano con zelo e certezze assolute come solo gli ignoranti possono avere nel recupero delle anime in via di perdizione per qualsivoglia vizio. La filosofia di fondo è che tutto il male provenga dalla mancanza di regole, dal proprio egoismo e dall’orgoglio lo stesso, in definitiva, che portò alla rivolta di Lucifero. 

Di conseguenza la terapia consiste essenzialmente nell’imposizione di regole e nella sistematica vessazione e umiliazione. Il paziente va domato, deve abbassare la cresta, riconoscere chi comanda. E’ chiaro che una tale impostazione si presta a tirare fuori il peggio da operatori già evidentemente disturbati per il loro passato, se persino persone normali e oblative possono diventare aguzzini feroci come ha dimostrato l’esperimento di Zimbardo nel laboratorio di Stantford .

La situazione di Perugia è particolarmente grave e Luana vive tre mesi di incubo, maltrattamenti e umiliazioni di ogni genere, tanto chi crederebbe alle denunce di una povera matta? E’ costretta a riferire, sotto minaccia, al vescovo che si trova bene. Gli ospiti non possono comunicare con l’esterno. La situazione se possibile peggiora ancora, dopo  l’arresto per abusi sessuali di Don Lucio. Il suo sostituto è un laico ex tossico che sentendosi accerchiato dalla magistratura si fa ancora più minaccioso.

Quella mattina Luana ha lasciato la comunità, ma per avere la certezza che torni non le hanno permesso di portar via le sue cose e i documenti. Si sta facendo tardi  e l’ultima parte del colloquio è dedicata al futuro. Luana chiede solo di dormire e insieme concordano che i farmaci non basteranno. Sarà necessaria anche una vita migliore e lei esprime il desiderio di allontanarsi dal suo paesino e studiare scienze infermieristiche o imparare un lavoro più pratico legato al mondo dell’estetica. Ricompare Suor Simona che dice di aver forse trovato una sistemazione per Luana e la madre in un luogo a metà strada, in modo che Anna può facilmente raggiungere il suo lavoro al paese e Luana con il treno rapidamente Roma che offre tutte le possibilità di studio e di lavoro, per costruire la sua esistenza lontana da strizzacervelli e scaccia diavoli.

Si concordano una serie di incontri a tre in cui affrontare il problema e Luana aggiunge una richiesta che denota ulteriormente il suo buonsenso: vorrebbe fare una psicoterapia per rimettersi in carreggiata. 

Se tutto finisse qui sarebbe stato un pomeriggio utile ma c’è ancora una incombenza: la preghiera o il cosiddetto esorcismo per cui sta per arrivare Don Riccardo, padre amoroso e comprensivo per i suoi fedeli di giorno e implacabile cacciatore di demoni dopo il crepuscolo. Luana esprime chiaramente il suo desiderio di soprassedere almeno per oggi.

E’ stata una giornata impegnativa. Sveglia nella comunità, poi la fuga, poi tre ore con quelle del CIM… le sembra di aver dato abbastanza.

Ma la macchina purificatrice è già in moto. Daniela, Luisa, Gilda e Lina non riescono ad opporsi con fermezza, per non entrare in conflitto con l’ambiente che per il momento accoglie Luana e che le bollerebbe come presuntuose materialiste con odore di zolfo o forse anche perché sono curiose di vedere l’epifania del soprannaturale, non vogliono perdersi lo spettacolo e per questo si sentiranno lungamente in colpa.

Ci sono tre suore col ruolo di testimoni. La squadra scaccia demoni è costituita oltre che da Don Riccardo, l’esorcista titolare, da altri quattro aiutanti. Tutti i cinque uomini di Dio mostrano segni di possessione alla vista di Gilda, in maniche corte per la temperatura del convento. La formazione: frate Gabriele, giovane esorcista in formazione, che sembra uscito da un volume di Dan Brown con il suo saio elegante e severo e gli avambracci protetti da una guaina di pesante cuoio fermata con delle fibbie in metallo per proteggersi da morsi e graffi; Mario, un ex ammiraglio vedovo che porta il suo contributo immobilizzando, con i suoi 90 kg, il corpo dove ha trovato dimora il maligno; Livio, un sacrestano sessantenne con l’aria annoiata di chi è costretto agli straordinari rimandando la cena, che prepara gli strumenti per il rito, un materassaccio a molle, gettato in terra, cuscini per la testa di Luana e cuscini per coloro che vi si getteranno addosso, l’aspersorio con l’acqua santa che inonderà Luana ma raggiungerà tutti per maggior sicurezza, il libro con il testo del rito, rotoli di scottex per pulire la bava e gli sputi, che sono attesi.

Luana si siede al centro del materasso con intorno nove persone adulte di cui sei uomini, il suo sguardo dice “ora sono davvero al centro dell’attenzione”. 

Nel frattempo è sopraggiunta la madre, si accovaccia al suo fianco e la avvolge in un abbraccio che mette i brividi. Dall’abbraccio con la madre Luana riemerge diversa, sguardo nel vuoto, inespressiva, rassegnata e pronta a recitare la sua parte. Poi accade quanto tutti si aspettano che accada, uno spettacolo di estrema violenza, ancor più inquietante in quanto fatto certamente a fin di bene e volto esplicitamente al benessere della vittima. Del resto qualche secolo addietro ci sarebbe stato, sempre a fin di bene, il rogo.

Tutti i maschi presenti si gettano su Luana per immobilizzarla, a lei spetta la parte di chi si divincola e non delude le aspettative. Scalcia, urla con voce rauca, in  perfetta sincronicità con Don Riccardo le sue imprecazioni diventano più forti quando lui affronta i passaggi più enfatici con voce stentorea e mostra un accanimento maggiore con gli schizzi dell’aspersorio. Si vede che hanno provato altre volte, tuttavia la qualità della rappresentazione resta dilettantesca e qualsiasi attore amatoriale farebbe di meglio.

Le pie donne, madre e suore, si affaccendano in preghiere di sottofondo e asciugano il volto di Luana madido di sudore e di acqua santa. Don Riccardo fa notare alle infedeli del CIM gli sputi di Luana come prova incontrovertibile della presenza del demonio. Gilda, indomita comunista, gli fa notare che se uno è immobilizzato quella è l’unica forma di reazione possibile ad un aggressione. Don Riccardo è vistosamente preso da Gilda più che dalle sue osservazioni.

Appena data la benedizione finale tutti si abbracciano provati e soddisfatti del lavoro compiuto.

Nella riunione generale del servizio si decide una psicoterapia familiare con il dr. Irati e la ricerca di un lavoro protetto in ambito estetico per Luana che viene anche iscritta ad un corso regionale per operatori socio sanitari.

Fortunatamente si ritiene inutile qualsiasi trattamento farmacologico. Si scoprirà più tardi, infatti, che Luana al momento della fuga dalla comunità di Perugia era incinta di tre settimane e partorirà a luglio.

 

 

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Sinestesia – Definizione da Psicopedia

 

 

 

Sinestesia

 

PSICOPEDIA

Psicopedia - Immagine: © 2011-2012 State of Mind. Riproduzione riservataLa sinestesia (dal greco syn, “insieme” e aisthánestai, “percepire”) è un processo percettivo (non cognitivo) inconsueto che consiste nell’interazione e sovrapposizione spontanea e incontrollata di più sensi.

Essendo il cervello dotato di una funzionalità selettiva dei dati esterni, distribuita in più aree (si parla infatti di “specializzazione funzionale” della corteccia cerebrale e di “corteccia associativa”), la percezione dei differenti elementi che costituiscono la realtà interessata – ossia il colore, il movimento, i volti ed i suoni – avviene generalmente in maniera molto localizzata e distinta. La percezione cromatica, ad esempio, interessa una zona della corteccia visiva definita area V4; quella uditiva interessa una zona detta corteccia uditiva; il movimento è codificato in un’area della corteccia visiva detta V5 etc…

In alcuni casi, tuttavia, accade che la percezione di uno stimolo esterno venga associata a quella di uno completamente diverso e perfino inesistente rispetto alla realtà con cui ci si sta rapportando in quell’istante. Ad esempio in qualche soggetto la percezione del suono riesce a stimolare la zona corticale V4, specializzata nel riconoscimento dei colori (si parla in questo specifico caso di sinestesia di tipo A), provocando un’inedita percezione cromatica, senza che sia effettivamente intervenuto lo stimolo coloristico.

Nel caso della sinestesia di tipo A, un uomo è in grado pertanto di percepire e riprodurre un colore attraverso l’ascolto di un particolare suono o nota, perfino sovrapposto all’eventuale immagine osservata in cui tale cromia è elusa.

Si parla così di “sinestesia”, processo che resta ancora misterioso per i neuroscienziati, i quali propendono per l’ipotesi della presenza di connessioni particolari (o l’esistenza di vere e proprie zone di contatto tra le differenti aree o di particolari fibre nervose all’interno delle singole aree cerebrali) che conferirebbero alla persona interessata la capacità di saper individuare delle nuove relazioni.

Mozart e Kandinsky, per riportare due famosissimi esempi, “soffrivano” di questa corrispondenza che quasi certamente ha contribuito allo sviluppo della loro creatività.

La presenza di alcune cellule predisposte ad associare percezioni e concetti anche lontani, presenti generalmente in numero maggiore in alcuni individui più “creativi” ha ultimamente condotto a pensare che ci sia un effettivo legame tra sinestesia e creatività.

Probabilmente, senza essere dei soggetti sinesteti, è possibile, affinando la propria sensibilità con il coinvolgimento globale dei sensi, conquistare l’ispirazione artistica!

 

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– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I ricercatori dell’Università della California hanno recentemente scoperto che i farmaci antipsicotici hanno un’azione anti-tumorale proprio contro il glioblastoma.

Il glioblastoma è uno dei tumori cerebrali più conosciuti e si stima che vengano diagnosticati 10000 nuovi casi all’anno negli USA. Attualmente il glioblastoma è uno dei tumori con il più elevato tasso di mortalità, con una prognosi che nella maggior parte dei casi si attesta intorno ai due anni di sopravvivenza, seppur la mediana dei tempi di sopravvivenza si attesti ancora intorno ai 14 mesi, in quanto altamente aggressivo e resistente ai trattamenti radio e chemioterapici e praticamente impossibile da asportare chirurgicamante per la sua caratteristica infiltrante.

 

I ricercatori dell’Università della California hanno recentemente scoperto che i farmaci antipsicotici  hanno un’azione anti-tumorale proprio contro il glioblastoma.

Questo gruppo, capitanato dal dottor Chen, ha utilizzato una tecnica nota come  shRNA (alla cui scoperta è stato assegnato il Premio Nobel in Fisiologia/Medicina nel 2006) per testare come ciascun gene del genoma umano contribuisca alla crescita del glioblastoma. Gli shRNAs permettono infatti di scoprire la funzione dei geni, funzionando come “disattivatori” molecolari contro ciascun tipo di gene del genoma umano. Una volta costruiti gli shRNA vengono inglobati nei virus e introdotti nelle cellule tumorali.

Il principio di azione è quindi il seguente: se esistesse un gene specifico per la crescita del glioblastoma, essendo lo shRNA in grado di eliminare la funzione di qualsiasi gene, le cellule tumorali smetterebbero di crescere o morirebbero.

La scoperta di questo gruppo di ricerca è stata che molti geni necessari per la crescita del glioblastoma sono necessari anche per il funzionamento dei recettori dopaminergici. La dopamina è una piccola molecola rilasciata dai neuroni che si lega ai recettori dopaminergici che circondano i neuroni, rendendo possibile la comunicazione intra-neuronale. Un’anomala regolazione della dopamina è associata alla Malattia di Parkinson, alla schizofrenia e al Deficit di Attenzione-Iperattività, per la cui cura vengono utilizzati farmaci detti appunto dopamina-antagonisti, tra cui alcuni anti-psicotici.

Seguendo quanto scoperto attraverso l’utilizzo degli shRNA questo gruppo di ricerca ha sperimentato gli effetti delle molecole dopamina-antagoniste contro il glioblastoma trovando che questi farmaci hanno un effetto anti-tumorale significativo sia nelle cellule coltivate in laboratorio che nei modelli animali. Questi farmaci combinati con altri farmaci utilizzati per il trattamento del glioblastoma hanno mostrato un’azione sinergica nell’arrestare la crescita tumorale.

Questa scoperta è quindi molto importante in quanto questi farmaci ad azione dopamina-antagonista vengono normalmente utilizzati per altri scopi nell’uomo e quindi per essere utilizzati nel trattamento del glioblastoma non necessitano di lunghi tempi di test pre-clinici. Inoltre questi farmaci si sono mostrati in grado di superare la barriera emato-encefalica, e quindi di entrare nel cervello, contrariamente a quanto avviene per il 90% dei farmaci in commercio.

 

 

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La Resilienza e i Disturbi Depressivi – SOPSI 2014


SOPSI 2014 

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

La Psicopatologia e le età della vita – Torino 12-15 Febbraio 2014

 

 La Resilienza e i Disturbi Depressivi

Anastasi Serena 1, Verdolini Norma 1, Scierma Tiziana 2, Elisei Sandro 2, Quartesan Roberto 3

1 Scuola di Specializzazione in Psichiatria, Università degli Studi di Perugia
2 Sezione di Psichiatria, Psicologia Clinica e Riabilitazione Psichiatrica, Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Perugia
3 Dipartimento di Medicina Clinica e Sperimentale, Università degli Studi di Perugia

 

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Will Hunting – Genio ribelle (1997) – Cinema & Psicoterapia nr.21

 

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #21

Will Hunting – Genio ribelle (Good Will Hunting)(1997)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

Will Hunting – Genio ribelle (1997) – Cinema & Psicoterapia nr.21

Il film può essere un’ottima base di discussione sulla valenza della self-disclosure, su come, quando e perché il terapeuta può svelare aspetti di sé o eventi di vita personali vissuti. 

Info:

Un film di Gus Van Sant. Interpretato da Matt Damon, Robin Williams, Ben Affleck e Minnie Driver. Commedia. Usa 1997. Vincitore di due premi Oscar.

Trama: 

Il film racconta la storia di Will Hunting, un ragazzo prodigio, autodidatta che lavora come bidello al Massachusetts Institute of Technology (MIT). Dimostra un gran talento per la matematica superando, nella risoluzione di problemi complessi, anche i docenti universitari.

Will vive, però, in modo precario e scombinato, con alcuni amici teppisti. Non sfrutta il suo talento, ha difficoltà a relazionarsi con le altre persone, persino con Skylar (Minnie Driver), la sua ragazza, studente ad Harvard.

Dovrà imparare ad affrontare e superare la paura dell’abbandono per amare e fidarsi. In questo compito lo aiuterà il suo amico Chuckie (Ben Affleck) e sopratutto il dottor Sean McGuire (Robin Williams) uno psicologo che ha vissuto esperienze difficili simili a quelle del ragazzo. Tra i due nasce una relazione terapeutica che porterà Will a cambiare profondamente e il Dr. McGuire a rivedere molte cose della sua vita. 

Motivi di interesse:

Il protagonista è un ragazzo apparentemente come tanti che sfoga la sua rabbia la sera in strada e nel tempo libero legge moltissimo. La sua cultura è paragonabile a quella di un laureato che ha brillantemente concluso il corso di studi. Il professor Gerald Lambeau scopre le capacità intellettive di Will che nel frattempo era stato arrestato per una delle tante risse, e gli propone la libertà in cambio della frequenza alle lezioni di matematica e di un percorso settimanale con uno psicologo.

Dopo aver preso in giro e messo in fuga molti psicologi Will incontra il dr. McGuire, con cui dopo un inizio titubante instaura un bel rapporto. McGuire viene dal suo stesso ambiente, anche lui ha subito abusi dal padre e il cancro gli ha ucciso la moglie.

Le scene più rilevanti del film riguardano proprio lo snodarsi della relazione terapeutica, tra impasse e rotture da confronto e da ritiro. Will ripropone nel rapporto con il terapeuta gli schemi che hanno determinato le difficoltà con le altre figure significative del suo mondo. Si trascina un forte senso di colpa per un episodio di vita passato.

L’emozione gli impedisce di costruire relazioni – persino con Skylar di cui è innamorato – e mettere a frutto le notevoli risorse di cui dispone. L’attesa paziente del terapeuta, il suo porsi in termini autorevoli e mostrarsi affidabile, dopo una serie di ritiri e di confronti anche aggressivi porta Will a fidarsi.

Sarà, però, il rivelare trascorsi di vita dolorosi e intimi del Dr. McGuire che determinerà nel ragazzo la consapevolezza della necessità di risolvere i suoi problemi e l’impegno a farlo.

Indicazioni per l’utilizzo: 

Il film può essere un’ottima base di discussione sulla valenza della self-disclosure, su come, quando e perché il terapeuta può svelare aspetti di sé o eventi di vita personali vissuti. 

Trailer:

 

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Si segnala anche: 

  • Il discorso del re (The King’s Speech). Un film di Tom Hooper, con Colin Firth, Geoffrey Rush. Gran Bretagna, Australia. Storico. 2010.

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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