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Psicoanalisi: Intervista con Giuseppe Civitarese – I Grandi Clinici Italiani

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Giuseppe Civitarese

Psichiatra e Psicoanalista. Membro Didatta e Trainer della Società Psicoanalitica Italiana (SPI).

Direttore della Rivista di Psicoanalisi.

 

 

State of Mind intervista Giuseppe Civitarese, Psichiatra e Psicoanalista. Membro Didatta e Trainer della Società Psicoanalitica Italiana (SPI). Direttore della Rivista di Psicoanalisi. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.


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Dimmi che foto hai e ti dirò chi sei. - Immagine: ©-venimo-Fotolia.comQuanta curiosità si cela dietro un nome? Tanta, tantissima al punto da andare su Facebook, digitare il nome e il cognome della persona in questione e scorgerne le foto.

Siamo tutti lì a sbirciare per scoprire l’ennesima curiosità su quella persona a noi sconosciuta fino ad un attimo prima. Subito dopo, siamo in grado di designare, addirittura, delle caratteristiche del comportamento e di definirne dei tratti. Come è possibile? Grazie alle foto pubblicate, attraverso le quali si è in grado di dipingere accuratamente le caratteristiche personologiche di qualcuno. Le foto sono lo specchio statico del nostro essere. Quindi, ognuno di noi in base alle proprie attitudini assume posture diverse a seconda delle situazioni, dei luoghi e della compagnia.

I social network come Facebook, concedono la possibilità, tramite le foto, di rivelare la storia della vita di ognuno di noi, o di immortalare, dichiarandolo al mondo intero, quanto si è felici in un determinato momento o evento. Ci sono persone che vivono per postare foto, infatti minuto per minuto rivelano accuratamente cosa fanno e dove si trovano. Una sorta di crono-foto-storia per far sapere agli altri cosa si fa in ogni istante della propria esistenza.

Ma che foto si sceglie di pubblicare?

Immediatamente, risalta la foto scelta per definire il proprio profilo, di che immagine si tratta?

E’ un’immagine ravvicinata del volto che non lascia spazio allo sfondo? O è una foto dove si lascia spazio al contesto? Si è soli o in compagnia?

Ognuno sceglie foto e immagini diverse di se stessi, ma la decisione da cosa deriva?

Pare possa dipendere dalla cultura di origine, dal posto dal quale si proviene e si è cresciuti.

A seconda di quelli che sono i valori culturali inculcati o appresi si prediligono primi piani o paesaggi.

Tutto ciò deriva da uno studio in cui si analizzavano 200 profili di Facebook, la metà dei quali erano di cittadini statunitensi mentre l’altra di cittadini di Taiwan. Il lato interessante dalla ricerca fu che si riscontrarono corrispondenze culturali indipendentemente dal contesto della foto. Infatti,  chi era di Taiwan optava per immagini nelle quali si notava bene il contesto mentre gli statunitensi preferivano foto dove si vedevano meglio i volti a scapito del contesto. 

In seguito, per verificare questi risultati si è sviluppato un secondo studio coinvolgendo un campione più vasto di soggetti, 312 utenti di Facebook di tre università americane (California, San Diego, Texas ad Austin) e di tre università asiatiche (Hong Kong, Singapore e Taiwan). I dati confermano i precedenti e completano la letteratura esistente che mostra l’influenza della cultura sulle abitudini di ognuno di noi. Infatti, in uno studio del 2008 ai partecipanti erano mostrate delle immagini e, grazie alla tecnica di “eye tracking” (che permette di tracciare come si muovono gli occhi mentre osservano gli oggetti), si è rilevato che le persone di cultura occidentale prediligono il volto mentre le persone di cultura orientale tendono ad apprezzare di più il contesto. In aggiunta, individuarono tratti annoverabili ai big five che potrebbero determinare definitivamente la scelta.

Quindi, in generale, potremmo affermare che gli estroversi tenderanno a postare foto stravaganti, mentre gli introversi possono non avere affatto una foto! Gli amiconi saranno pieni di foto con amici, quelli arrabbiati inseriranno foto che si riferiscono a proteste, etc.

E tu, che foto hai? scopriamolo insieme attraverso degli esempi illustrativi derivanti dagli articoli sopra citati.

1. Perfettamente centrata: Sei un adulto maturo con fiducia in te stesso ma forse un poco annoiato.

2. Ritratto a distanza: Non desideri rivelare la tua personalità, sei timido e riservato. Probabilmente nascondi qualche difetto fisico che non vuoi mostrare.

3. Foto di quando eri bambino: Pensi che il tuo passato sia la parte migliore della tua vita, provi una forte nostalgia per lo stesso e probabilmente continui ad ascoltare la stessa musica da decenni o usi sempre gli stessi vestiti. Insomma, non vuoi cambiare.

4. Foto del proprio figlio: Probabilmente pensi che avere un bambino è stata la cosa più importante che abbia mai realizzato nella tua vita. Ed essere genitore è bello, ma ricordati che sei anche molto di più di questo.

5. Foto del matrimonio: Desideri dare l’impressione di essere una persona adulta e matura che sa assumersi le sue responsabilità. Ma … lo sei davvero?

6. Foto in coppia: Indica che l’altra persona è enormemente importante per te. Probabilmente saresti disposto a fare qualsiasi cosa pur di mantenere la relazione perché non riesci ad immaginarti la vita senza l’altro.

7. Foto di un personaggio fittizio: Non desideri rivelare la tua vera identità o sei di quelle persone che si lasciano trasportare facilmente dalle opinioni degli altri. Non ti interessa far valere i tuoi criteri e le tue opinioni.

8. Caricatura: Questa scelta si può interpretare in due modi: come un tentativo di mantenere le distanze o come una persona che non si prende davvero sul serio.

9. Foto artistica: Normalmente sono in bianco e nero ed hanno come obiettivo di gridare al mondo che siete un pittore, uno scrittore o un poeta. Ma … lo siete davvero?

10. Foto di una festa con gli amici: Probabilmente indica una persona suggestionabile che si piega facilmente ai desideri del gruppo e che desidera offrire un’immagine di sé estroversa e aperta alle nuove esperienze.

Beh, sicuramente ti sarai rivisto in alcuni di questi esempi; ognuno di noi non è solo una foto, ma  molto di più!

 

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Frozen – Il regno di ghiaccio – Recensione – Psicologia & cinema

Alessia Incerti

Frozen – Il regno di ghiaccio

 

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Frozen. - Immagine © locandina Frozen: Ultimo nato nella casa di Walt Disney Animation Studios, una commedia di genere fantastico, divertente con i colori e l’ambientazione che si addice al periodo natalizio.

Una storia familiare, d’amore e di amicizia, che ci mostra come rielaborare traumi del passato.

SPOILER ALERT! ATTENZIONE, VIENE RIVELATA LA TRAMA DEL FILM.

Protagonista è la famiglia reale che vive in uno sfarzoso castello in completa armonia e serenità: il re, la regina, Elsa la figlia grande e Anna la più piccola. Come spesso accade nelle favole l’inizio è idilliaco ma dopo poco più di cinque minuti di pellicola già si comprendono le difficoltà.

La principessa primogenita ha un potere magico, una caratteristica speciale, un’abilità ancora poco compresa e non gestita dalla stessa Elsa. Come spesso accade tutto ciò che è diverso e poco conosciuto spaventa e ciò che ci spaventa si fugge.

Elsa con le sue mani produce scie di ghiaccio, in un momento di gioco e grande divertimento tra le sorelle, Elsa ferisce la piccola Anna con il suo potere. Allarmata chiama i genitori che subito ricorrono allo sciamano troll che guarisce la piccola Anna.

Tutto bene, viene da chiedersi, la famiglia reale ha superato la disavventura?  Sì, ma a che prezzo? Elsa vive isolata nella sua stanza e cresce senza nulla più condividere con Anna e nessun altro, non solo deve anche custodire il segreto. Ovvero addolorata (sentimenti di colpa, tristezza e paura) ed emarginata! I genitori reali, sempre per proteggere il segreto di Elsa, chiudono le porte del castello: riducono il personale e niente più feste o udienze.

Bhe! Direi che fino a qui molti genitori e psicologi s’indignerebbero: come i genitori non pensano a come possa stare Elsa? Non credono di poter trovare una soluzione migliore? Magari che contempli la condivisione e l’empatia?

I genitori muoiono durante un viaggio ed Elsa, diviene la nuova regina. Per l’occasione della proclamazione, si aprono le porte del castello, il regno è in festa, e le sorelle si rincontrano. Ma, il potere segreto di Elsa prende il sopravvento così la regina fugge.

Anna sarà la chiave e la soluzione, stabilisce da sé cosa è meglio fare!

Anna, che probabilmente ha potuto beneficiare di una base sicura, ottimista ed esploratrice, intraprende un epico viaggio in compagnia di un coraggioso uomo di montagna, Kristoff, e della sua fedele renna Sven alla ricerca della sorella Elsa, i cui poteri glaciali hanno intrappolato il regno di Arendelle in un inverno senza fine. In condizioni estreme come quelle dell’Himalaya, dopo aver incontrato creature fantastiche come i troll e un buffo pupazzo di neve di nome Olaf, Anna e Kristoff combattono contro le forze della natura per salvare il regno.

Ed è in questo viaggio che emergono gli elementi più fiabeschi:

Kristoff che s’innammora di Anna, e le mostra le proprie origini e le radici dei suoi vissuti di abbandono;

Anna che non teme la sorella ma è fiduciosa di poter trovare una soluzione, parlandole; Elsa fugge perché teme di essere cattiva ma, Anna sa che ha solo bisogno di essere accettata e di qualcuno che creda in lei.

Olaf, buffo e semplice pupazzo di neve, ha grandi intuizioni, ed è disposto al sacrificio per amicizia.

Anna ed Elsa, entrambe disposte al sacrificio l’una per l’altra.

La chiave della disavventura sarà proprio “un gesto d’amore vero”.

Un gesto d’amore che scioglie gli incantesimi, che risana vecchie ferite , che fa riconoscere i legami veri e dà ad Elsa la forza di imparare a gestire il suo potere che diverrà una risorsa per tutto il regno.

Il film si conclude con una festa da fiaba e l’apertura delle porte del castello, ci lascia il presagio di una regina di buon senso, Elsa, supportata dalla principessa Anna e dal suo principe Kristoff, di umili origine ma di grande coraggio e bontà d’animo.

La visione del film, è resa piacevole, come in ogni produzione disneyana, da una colonna sonora azzeccata e d’autore.

 

TRAILER:

 

 

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Migliorare l’esito della schizofrenia nelle varie epoche della vita

 

SOPSI 2014  

Report dalla Sesssione Plenaria:

Migliorare l’esito della schizofrenia nelle varie epoche della vita

(S. Galderisi, Napoli)

 

SOPSI 2014 - Plenaria Silvana GalderisiNegli anni 80-90 il trattamento per la schizofrenia era volto a controllare i sintomi, evitare le ricadute e l’ospedalizzazione.

Oggi l’obiettivo è più ambizioso: reintegrare pienamente i pazienti nella vita quotidiana. Nonostante la vasta mole di ricerche di trattamenti sperimentati e consolidati e nonostante l’esistenza di linee guida sui trattamenti più efficaci in circolazione, la schizofrenia permane tra le 10 cause di disabilità nel mondo.

Le variabili che influenzano la malattia sono molteplici: i sintomi, le abilità sociali, la neurocognizione, la social cognition, lo stigma e la discriminazione, la famiglia, i fattori ambientali, la salute fisica. Il quadro è quindi molto complesso e richiede soluzioni complesse.

Quando si parla di trattamento per la schizofrenia, sono tre le parole chiave da tenere a mente: il trattamento deve essere precoce, integrato ed individualizzato.

L’intervento deve inoltre essere modulato in base all’età di esordio:

1 – Schizofrenia ad esordio precoce (Infanzia / Prima adolescenza).
2 – Schizofrenia (Tarda adolescenza / Giovane età adulta).
3 – Schizofrenia ad esordio tardivo (Età anziana).

 

 

Schizofrenia nell’infanzia / prima adolescenza

Nella schizofrenia ad esordio infantile Il disturbo insorge prima dei 13 anni e si osserva un declino del funzionamento ed un mancato raggiungimento delle capacità scolastiche e relazionali appropriate per l’età.

Nei bambini un’accurata diagnosi differenziale è imprescindibile per distinguere il disturbo da condizioni mediche, manifestazioni dovute ad abuso di sostanze o assunzione di farmaci (corticosteroidi, anestetici, anticolinergici, antistaminici), vivida immaginazione tipica dei bambini sani, sintomi dissociativi (maltrattamento, manifestazioni post-traumatiche) e disturbi pervasivi dello sviluppo / autismo.

Le forme ad esordio adolescenziale, la cui diagnosi soddisfa gli stessi criteri delle forme adulte, rappresentano circa il 18% dei casi, l’onset è prima dei 18 anni ed interessa più spesso il genere maschile. In queste forme si osserva una progressiva perdita del volume della materia grigia prefrontale e dell’integrità della materia bianca (Gochman et Al., 2005; Frangou, 2010; 2013)

Nella schizofrenia ad esordio precoce il trattamento deve essere precoce e prevedere l’integrazione di più interventi (psicofarmacologico, pscoterapeutico e psicosociale) rivolti ai deficit cognitivi e funzionali, nonché all’aderenza al trattamento:

  • Social e cognitive skill training individualizzato
  • Psicoeducazione sulla malattia, le diverse opzioni di trattamento e la promozione della compliance al trattamento
  • Psicoeducazione rivolta alla famiglia per aumentare la comprensione della malattia, delle opzioni di trattamento e della prognosi, e per sviluppare strategie di coping per gestire i sintomi del paziente

Ueland & Rund (2004; 2005); Driver et Al. (2013)

 

 

Schizofrenia in tarda adolescenza / prima età adulta

Per quanto riguarda la schizofrenia con esordio nella giovane età adulta, l’intervento deve essere tarato sulla fase in cui il disturbo si presenta:

1)   fase prodromica

2)   primo episodio

3)   mantenimento

 

Fase prodromica

Durante la fase prodromica, se intervenire o meno con un trattamento farmacologico è argomento controverso in quanto non sempre soggetti in fase prodromica evolvono in un disturbo schizofrenico: alcuni svilupperanno schizofrenia, alcuni svilupperanno altri disturbi come il Disturbo Bipolare o andranno incontro a suicidio, altri ancora andranno in remissione oppure permarranno in uno stadio prodromico.

 

Primo episodio

Il primo episodio, invece, è riconosciuto come momento critico della malattia, in cui si verifica la maggior parte della perdita disfunzionale.

I programmi elaborati per gestire il primo episodio e migliorare l’outcome dell’intervento sono diversi e possono fare molto. Un esempio è lo studio OPUS (Nordentoft et Al. 2013; Austin et Al. 2013), uno studio traslazionale che in Danimarca ha avuto una ricaduta sulla pratica clinica unica nel suo genere e che è diventato lo standard per eccellenza; ulteriore nota positiva, ha un costo minore rispetto ai trattamenti standard. L’intervento comprende un trattamento assertivo in comunità con un numero adeguato di operatori dedicato al paziente, il coinvolgimento della famiglia e un social skill training.

Tra gli obiettivi primari vi è quello di ridurre i sintomi negativi ed il periodo di non trattamento della psicosi intervenendo con una diagnosi precoce. Infatti i sintomi negativi persistenti e la compromissione cognitiva limitano il recupero funzionale ed interferiscono con la motivazione del paziente e con la compliance al trattamento farmacologico (Harvey PD. & Bellack AS. , 2009; Harvey PD. & Strassnig M., 2012 ).

Ad oggi si stanno pertanto testando diversi approcci per comprendere come affrontare in maniera efficace i sintomi negativi, come la CBT e la cognitive remediation, sebbene siano necessari ulteriori studi per stabilirne l’efficacia (Pfammatter M et Al., 2006; Wykes T. et Al., 2008; Klingberg S. et Al., 2011). Altri studi si stanno invece interessando ai training cognitivi per cercare di capire quale sia il migliore (Bucci et Al., 2013).

 

Fase di mantenimento

Durante la fase di mantenimento lo psichiatra ha il compito di coordinare l’aspetto delle malattie fisiche (imprescindibile occuparsi dello screening degli aspetti metabolici) e di non trascurare di intervenire sullo stile di vita del paziente, in quanto un’elevata percentuale di gravi malattie fisiche ha un impatto negativo sulla mobilità, flessibilità e coordinazione motoria di questi pazienti che soffrono, tra l’altro, di un’aspettativa di vita minore di 15-20 anni.

A tal proposito vi sono diversi approcci evidence-based, tra cui:

  • trattamento assertivo in comunità
  • CBT per le psicosi
  • cognitive remediation
  • terapia familiare / psicoeducazione
  • supporto dei pari e strategie di self-help
  • social skill training
  • impiego lavorativo protetto
  • trattamento integrato per la coesistenza di disturbi da abuso di sostanze

 

Altri approcci promettenti sembrano essere:

  • terapia cognitiva adattiva
  • interventi per la promozione di stili di vita salutari
  • interventi su individui più vecchi
  • interventi sulla fase prodromica
  • social cognition training
  • social rehabilitation (Clubhouse Model)

 

 

Schizofrenia in età anziana

Si tratta di schizofrenia cronica oppure di forme che esordiscono tardivamente.

I casi ad esordio tardivo hanno una maggiore prevalenza femminile e, soprattutto negli esordi dopo i 60 anni, presentano sintomi negativi, disturbi del pensiero e deficit cognitivi meno marcati.

Nei soggetti anziani vi sono diversi fattori che contribuiscono ad aumentare il rischio di sviluppare psicosi (Karim S. & Byrne EJ., 2005):

  • il deterioramento della corteccia frontale e temporale dovuto all’età
  • i cambiamenti neurochimici dovuti all’età
  • l’isolamento sociale
  • deficit sensoriali
  • il declino cognitivo
  • i cambiamenti farmacocinetici e farmacodinamici dovuti all’età
  • terapia multifarmacologica

Ad oggi non ci sono evidenze su quale sia il trattamento migliore.

 

CONCLUSIONI

Al termine del suo brillante discorso la Prof.ssa Silvana Galderisi ha sottolineato come sia sempre più riconosciuta l’importanza di un intervento precoce, individualizzato ed integrato per la schizofrenia. Il trattamento della psicosi non è sufficiente, ma per chi si occupa di pazienti affetti da schizofrenia deve diventare una priorità considerare anche i sintomi negativi, la depressione, l’abuso di sostanze, le risorse personali del paziente ed una buona relazione terapeutica.

La Professoressa ha concluso il suo intervento osservando come la prospettiva nichilista che ha dominato la scena in passato sia stata sostituita da una visione più ottimista, che vede la guarigione in senso funzionale da questo disturbo quanto meno possibile. Da qui la necessità di un impegno, anche delle istituzioni, affinché interventi evidence-based ed integrati siano disponibili per la maggior parte di questi pazienti, cosa che, purtroppo, ad oggi ancora non avviene.

 

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– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il trial è annoverabile tra gli studi che supportano la CBT come trattamento evidence-based a maggior ragione per i pazienti che sono resistenti al trattamento farmacologico, senza che questo significhi forzatamente escludere in maniera definitiva la ricerca dell’alleanza anche farmacologica.

 

Un nuovo trial che analizza gli effetti della CBT (cognitve-behavioural therapy) su pazienti schizofrenici è stato recentemente pubblicato sulla rivista The Lancet.

L’aspetto interessante è che i soggetti che hanno costituito il campione del trial sono pazienti schizofrenici che al momento dello studio non stavano assumendo alcuna terapia farmacologica, quindi completamente depurati da eventuali effetti co-occorrenti delle terapie farmacologiche solitamente associate agli interventi psicologici in tale tipologia di pazienti.

Chiaramente lo studio ha sfruttato una delle difficoltà che si incontra con una certa frequenza nel trattare i pazienti schizofrenici: la loro scarsa compliance alla terapia farmacologica in termini di netto rifiuto o assunzione discontinua contrariamente al parere medico.

Il trial è stato effettuato in Inghilterra tra il 2010 e il 2013 e ha coinvolto 74 pazienti con diagnosi di schizofrenia (età compresa tra i 16-65 anni) che non stavano assumendo alcuna terapia psicofarmacologica.

La metà di essi è stato assegnato alla condizione CBT, l’altra metà a una condizione di trattamento usuale non specifico. Come misura di outcome è stata utilizzata la scala PANSS (Positive and Negative Syndrome Scale) alla baseline e a diversi punti di follow-up (fino a 18 mesi dal termine del trattamento).

Dai dati emerge che i punteggi totali della scala PANSS sono significativamente inferiori nel gruppo sottoposto alla terapia cognitiva rispetto al gruppo di controllo. Il trial è dunque annoverabile tra gli studi che supportano la CBT come trattamento evidence-based a maggior ragione per i pazienti che sono resistenti al trattamento farmacologico, senza che questo significhi forzatamente escludere in maniera definitiva la ricerca dell’alleanza anche farmacologica.

Come dire una valida alternativa per questa specifica categoria di pazienti, in attesa di trial successivi che rafforzino ulteriormente queste conclusioni.

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BIBLIOGRAFIA:

 

SOPSI 2014 – Sessione Plenaria: The Early Natural History Of Bipolar Disorder. A. Duffy, Calgary Canada

SOPSI 2014

Report dalla Sessione Plenaria

The Early Natural History Of Bipolar Disorder

(A. Duffy Calgary, Canada)

 

SOPSI 2014 - Plenaria A. Duffy BIPOLARE

Il Disturbo Bipolare è un disturbo altamente ereditabile. Data l’elevata probabilità di svilupparlo se si ha un genitore affetto da Disturbo Bipolare, appare evidente l’importanza di condurre studi longitudinali su figli di pazienti bipolari.

L’obiettivo di tali studi è quello di:

– Comprendere la natura della vulnerabilità ereditata.
– Descrivere il decorso naturale del disturbo sin dai suoi stadi più precoci ed i marcatori biologici associati.
– Identificare gli obiettivi primari per un trattamento efficace.
– Identificare gli obiettivi per la prevenzione delle recidive, della morbilità e della mortalità.

La ricercatrice psichiatra Anne Duffy ha presentato i risultati di alcuni di questi studi.

 

Decorso clinico ed ereditarietà

Dall’analisi di gruppi di pazienti che rispondono al trattamento con il litio (Lithium responder – LiR) e di pazienti non rispondenti (LiNR), e dei loro figli è emerso che i pazienti adulti LiR rappresentano un sottogruppo omogeneo dalle caratteristiche cliniche definibili che sono osservabili anche nei loro figli affetti da Disturbo Bipolare.

Inoltre se si confrontano i due gruppi di figli si osservano differenze:

  • nel funzionamento durante l’infanzia
  • nello sviluppo psicopatologico (ADHD nei LiNR)
  • nel decorso del disturbo dell’umore
  • nella qualità della remissione
  • nella risposta al trattamento di mantenimento

 

Modello clinico a stadi

Le ricerche longitudinali su soggetti ad alto rischio hanno fornito elementi di prova convergenti a favore dell’ipotesi che nelle persone predisposte i disturbi depressivi maggiori e i disturbi psicotici spesso si sviluppano da antecedenti non specifici nel corso dello sviluppo. Ad esempio, l’evoluzione del Disturbo Bipolare pare seguire un iter definito:

  • il disturbo sembra evolvere da antecedenti infantili non specifici, tra cui ansia e disturbi del sonno (stadio 1)
  • segue una disregolazione dell’umore caratterizzata da sintomi ansioso-depressivi sotto stress durante la prima adolescenza (stadio 2)
  • si manifestano episodi conclamati di depressione in tarda adolescenza (stadio 3)
  • si sviluppano episodi di mania nella prima età adulta (stadio 4).

La possibilità di individuare sin dall’inizio gli stadi clinici di uno sviluppo di Disturbo Bipolare ha un enorme potenziale per l’identificazione precoce della malattia, per lo sviluppo di trattamenti fase-specifici e per aumentare la nostra comprensione della fisiopatologia associata con l’esordio della malattia e la sua progressione.

Alla luce di quanto sopra descritto appare evidente che l’approccio diagnostico corrente sia necessariamente da rivedere. Troppo spesso, infatti, le diagnosi enfatizzano i sintomi presenti non specifici del disturbo, non prendono in considerazione i fattori predittivi (storia familiare, decorso clinico, risposta al trattamento, peggioramento paradossale) e si focalizzano esclusivamente sugli ultimi stadi della malattia; non considerano né il decorso clinico longitudinale né il rischio familiare, con la conseguenza che le fasi iniziali della malattia non sono riconosciute come appartenenti al disturbo e il trattamento impostato rischia di non essere la scelta ottimale.

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il Piccolo Principe, un magico trattato di Psicologia umana – I Pensieri dei Grandi Pt.1

 

Il Piccolo Principe

I Pensieri dei Grandi Pt.1

 

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Il Piccolo Principe Il Piccolo Principe” è un piccolo e magico trattato di psicologia umana, di sentimenti delicati, un viaggio in forma di favola attraverso una realtà immaginaria e più vera del reale, fra i sentieri dell’irrazionale amore per la vita.

E’ forse una delle più importanti lezioni che la letteratura dà agli uomini spiegando loro qual è il significato più profondo delle esperienze che vivono e di quelle che non vivono, soffrendone. La grande forza poetica di quest’opera è la capacità di colmare le drammatiche lacune del linguaggio degli adulti utilizzando il linguaggio dei bambini, che non dispone di tutte le parole della vita matura ma coglie l’essenza di ciò che le parole non possono esprimere.

Cosa è davvero importante comprendere? “Il Piccolo Principe” ha una risposta chiara.

Mostrai il mio capolavoro alle persone grandi, domandando se il disegno li spaventava. Ma mi risposero: “Spaventare? Perché mai, uno dovrebbe essere spaventato da un cappello?” Il mio disegno non era il disegno di un cappello. Era il disegno di un boa che digeriva un elefante. Affinché vedessero chiaramente che cos’era, disegnai l’interno del boa. Bisogna sempre spiegargliele le cose, ai grandi. Questa volta mi risposero di lasciare da parte i boa, sia di fuori che di dentro, e di applicarmi invece alla geografia, alla storia, all’aritmetica e alla grammatica. Fu così che a sei anni io rinunziai a quella che avrebbe potuto essere la mia gloriosa carriera di pittore. Il fallimento del mio disegno numero uno e del mio disegno numero due mi aveva disanimato.

…Quando ne incontravo uno [dei grandi] che mi sembrava di mente aperta! Tentavo l’esperimento del mio disegno numero uno, che ho sempre conservato. Cercavo di capire così se era veramente una persona comprensiva. Ma, chiunque fosse, uomo o donna, mi rispondeva: “E’ un cappello“. E allora non parlavo di boa, di foreste primitive, di stelle. Mi abbassavo al suo livello. Gli parlavo di bridge, di golf, di politica, di cravatte. E lui era tutto soddisfatto di avere incontrato un uomo tanto sensibile.

…Se vi ho raccontato tanti particolari sull’asteroide B 612 e se vi ho rivelato il suo numero, è proprio per i grandi che amano le cifre. Quando voi gli parlate di un nuovo amico, mai si interessano alle cose essenziali. Non si domandano mai: “Qual è il tono della sua voce? Quali sono i suoi giochi preferiti? Fa collezione di farfalle?” Ma vi domandano “Che età ha? Quanti fratelli? Quanto pesa? Quanto guadagna suo padre?” Allora soltanto credono di conoscerlo. Se voi dite ai grandi: “Ho visto una bella casa in mattoni rosa, con dei gerani alle finestre, e dei colombi sul tetto“, loro non arrivano a immaginarsela. Bisogna dire: “Ho visto una casa da centomila lire“, e allora esclamano: “Com’è bella”. Così se voi gli dite: “La prova che il piccolo principe è esistito, sta nel fatto che era bellissimo, che rideva e che voleva una pecora. Quando uno vuole una pecora è la prova che esiste” Be’, loro alzeranno le spalle, e vi tratteranno come un bambino. Ma se voi invece gli dite: “Il pianeta da dove veniva è l’asteroide B 612” allora ne sono subito convinti e vi lasciano in pace con le domande. Sono fatti così.

Possiamo forse ritrovarci tutti nella sottile malinconia e insieme nell’ironica presa di coscienza di un’incomunicabilità che spesso ci attanaglia, e non per mancanza di contenuti da svelare né per carenza di strumenti espressivi, bensì dentro le rigide strutture di un pensiero che credendosi evoluto si scontra con la difficoltà di accedere alle emozioni intime, abbandonando le certezze apparenti e il tentativo di controllarle. Da “Il Piccolo Principe” si irradia un messaggio potente come solo le cose semplici sanno essere.

FINE PRIMA PARTE

 

 

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Antonio Cerasa1, Aldo Quattrone1, Stefania Alfano2, Iolanda Martino2, Maria Cecilia Gioia2, Annalisa Silipo1, Paolo Perrotta1, Federico Rocca1, Angela Funaro2

1 Unità di Neuroimmagini, Istituto di Bioimmagini e Fisiologia Molecolare-CNR; Germaneto (CZ).

2 Associazione Centro Trauma Ippocampo, 5 – Castrolibero (CS). 

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Coinvolgere adolescenti riluttanti: l’efficacia di un primo incontro familiare

Di Matteo Selvini. Brani estratti dall’articolo omonimo inviato a Terapia Familiare, gennaio 2014.

 

 Coinvolgere adolescenti riluttanti:

l’efficacia di un primo incontro familiare

 

 

Coinvolgere gli adolescenti nel percorso psicologico . - Immagine: © Lisa F. Young - Fotolia.comLa stragrande maggioranza degli esperti dà per scontato che la strategia ottimale o obbligata sia quella di incontrare per la prima volta l’adolescente non richiedente e non collaborante da solo.

Il tabù dell’incontro congiunto genitori-adolescente

La stragrande maggioranza degli esperti dà per scontato che la strategia ottimale o obbligata sia quella di incontrare per la prima volta l’adolescente non richiedente e non collaborante da solo (Tommaso Senise, Aliprandi et al., 1990; Arnaldo Novelletto,1986 e Gustavo Pietropolli Charmet, 1992). In realtà credo pesi soprattutto la difficoltà della gran parte dei professionisti a gestire incontri familiari.

Una recente ricerca (Selvini, 2014) sulle ultime 179 richieste di aiuto ricevute dal mio centro privato di consultazione familiare ha mostrato come non sia mai l’adolescente stesso a prendere contatto. Tuttavia in 90 casi il giovane è collaborativo (seppur con frequenti modalità compiacenti o rinunciatarie), in altri 60 casi arriva trascinato/muto/ostile/negativista. In altri 29 non si presenta proprio ed il primo colloquio è con i familiari.

Il dato che mi ha colpito è quello che si arriva ad una presa in carico con l’88% dei giovani collaboranti, il 78% dei negativisti, ma solo il 41% degli assenti. L’assenza del giovane al primo colloquio è dunque un segnale prognostico molto negativo sull’efficacia della presa in carico.

 

Rafforzare il ruolo guida dei genitori

Nella nostra casistica, così come si legge nella letteratura, molto spesso i genitori vorrebbero delegare al professionista il figlio adolescente. Ma è proprio questa “complicità” espulsiva tra terapeuta e genitore che va evitata: mai iniziare vedendo l’adolescente non richiedente da solo. 

I dati dimostrano che anche una presenza negativista ad una riunione familiare è potenzialmente preziosissima per arrivare ad una presa in carico. Al contrario invitare l’adolescente da solo può comunicare un’implicita e quindi potentissima squalifica dei suoi genitori, figure che al contrario hanno di solito bisogno di essere sostenute e rafforzate: di fronte ad un adolescente problematico, che non chiede di essere aiutato, guidare i familiari affinché, con delicatezza, cerchino di portarlo con loro ad incontrare congiuntamente un esperto, è una tattica/tecnica più efficace del cercare di organizzare un incontro dell’adolescente da solo con il professionista.

E questo per i seguenti motivi:

Aumentano, e di molto, le probabilità che l’adolescente arrivi ad incontrare l’esperto.

L’incontro familiare lo aiuta a mettersi in gioco molto più di un incontro individuale affrontato con atteggiamento negativista.

L’incontro familiare è più efficace e rapido nel cominciare a valutare non solo le risorse/patologie dell’adolescente, ma contemporaneamente quelle dei familiari.

Può essere il primo passo di un processo di riconciliazione.

I familiari, fianco a fianco con l’adolescente, possono dimostrarsi capaci di dare l’esempio nell’aprirsi e nel mettersi in discussione.

È rarissimo che l’adolescente si opponga all’incontro familiare e “negozi” di venire invece da solo.

La seduta congiunta può farci incontrare pazienti psicotici gravi non trattati e consentire un’immediata presa in carico.

Una vastissima letteratura (a partire da Selvini Palazzoli, 1963) dimostra che il tentativo di costruire un’alleanza terapeutica con questi ragazzi attraverso sedute individuali, prassi tipica di un approccio iper-individuale, richiede spesso anni, produce innumerevoli abbandoni della terapia, e per di più può dare cattivi risultati, perché l’adolescente talvolta vive la terapia individuale stessa come un (ennesimo) abbandono/delega del genitore, e questo può portare ad un pericoloso allontanamento affettivo dell’adolescente dai suoi genitori, oltre ad un transfert negativo sul terapeuta (Selvini, 2013).

 

La difficoltà del primo incontro. Il ruolo di guida del conduttore.

Il rischio di un abbandono immediato del ragazzo/a o dei familiari è molto forte.

L’obiettivo essenziale di stabilire una relazione significativa richiede un atteggiamento attivo e direttivo da parte del conduttore. Sarebbe fallimentare mettersi in posizione di ascolto, verremmo travolti dalle interazioni disfunzionali, mentre dobbiamo tentare di produrre un’esperienza innovativa/correttiva. Le linee guida di un primo colloquio puntano sulla co-costruzione dell’autorevolezza del terapeuta e sull’intensità del coinvolgimento emotivo, in primo luogo dell’adolescente. Tuttavia rispetto a questi obiettivi è prioritario, anche proprio cronologicamente, che un primo incontro familiare garantisca a tutti i partecipanti uno spazio emotivamente sicuro (Friedlander et al, 2006; Escudero et al., 2010). Costruire un contesto di condivisione dove nessuno si senta attaccato è la premessa indispensabile.

 

Preparazione dell’incontro

L’adolescente accetta più volentieri una riunione familiare per parlare più in generale di quello che non va in famiglia, piuttosto che un suo personale invio dallo “strizzacervelli”.

È più che opportuno che il genitore non stia troppo a discutere se il figlio ha o non ha un problema, ma dichiari che sicuramente lui stesso è in crisi con lui.

Di fatto è molto molto raro che, a partire da una chiamata/richiesta di un genitore, possa seguire un incontro individuale con un adolescente, a meno che non sia l’esperto stesso, commettendo un grave errore, a favorire questo tipo di passaggio.

Per concludere daremo indicazioni affinché l’adolescente sia sollecitato a partecipare: “Vieni almeno questa volta, per dare il tuo parere su questa strada e questa persona, fammi questo favore, fallo per me…”, ma non forzato, ricattato, obbligato o pagato.

Non ha proprio senso fare affrontare al giovane da solo un’esperienza che non ha scelto/deciso lui e che molto probabilmente lo preoccupa, dato che non sa cosa aspettarsi. Magari ci sono fantasie di essere puniti, umiliati, criticati, trattati con farmaci o addirittura ricoverati! (Keating-Cosgrave, 2006).

È evidente che l’atto stesso di chiedere per lui una visita specialistica per problemi psichici, mentali, comportamentali, contiene una implicita e quindi potentissima connotazione negativa: “C’è qualcosa che non va in te, ed è qualcosa di molto importante che concerne la tua stessa persona”.

Sarà chiaro che questo messaggio potrebbe essere difficile da reggere, e ancor più se l’adolescente teme ci sia del vero… È quindi un passaggio davvero critico in cui ha bisogno del massimo sostegno/accompagnamento, non certo di essere mandato allo sbaraglio verso l’ignoto.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Non si può più dire “è più forte di me”, ora si può gestire l’aggressività.

 

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Come mai chi mette in atto comportamenti aggressivi non riesce a fermarsi in tempo?

Per il senso comune è quasi impossibile pensare che una persona aggressiva o violenta non sia in grado di controllare la propria impulsività.

Ecco che ci vengono in aiuto alcune ricerche che ci dimostrano come chi è più aggressivo di fatto tenta di inibire il primo impulso di rabbia, ma che non sempre è possibile.

Questi fattori che vengono esplicati e messi a confronto nelle  ricerche dell’articolo, comprendono sia fattori genetici (gene della monamina ossidasi-A),sia livelli ormonali (cortisolo, testosterone…) che infine quelli di glucosio. Il fattore comune di queste ricerche sembra essere che non esiste un “è più forte di me” e la scienza ce lo dimostra!

Grazie anche all’intervento dei fattori, genetici od organici sembra esserci da parte del cervello un tentativo di inibizione del comportamento, che però spesso va a discapito di altro, ad esempio una prestazione cognitiva.

Quello che queste ricerche suggeriscono è che sia possibile andare ad agire sul cervello dell’aggressivo e limitare il danno del suo comportamento, gli si può insegnare a mantenere quello che lui tenta di mettere in atto spontaneamente.

 

An impatient commuter shoves us out of the way to get onto the subway train. The bullying boss enjoys berating us in front of colleagues. The grouch next door yells at the neighborhood kids whenever a kickball accidentally ends up in his yard. We routinely deal with people who seem socially reckless, quick to retaliate at any perceived slight, and unremorseful if not downright sadistic.

In truth, though, the modern mantra “mean people suck” fails to capture many underlying drivers of aggression, cruelty, and hostility. Recent work in social neuroscience indicates that the brains of hotheaded people seem to work extra hard to control their outbursts, but for some reason fail.

 

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Più empatia e fiducia in chi si prende cura di un animale – Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo un nuovo studio chi si prende cura di un animale ha relazioni sociali più solide e maggiore senso di appartenenza alla comunità.

Mentre gli effetti positivi degli animali sui bambini in contesti terapeutici sono ormai noti, non si sa molto di come le interazioni quotidiane con gli animali possono influire sviluppo dei giovani. I risultati dello studio suggeriscono che a fare la differenza non sia tanto la presenza di un animale ma la qualità della relazione che si stabilisce con esso.

Megan Mueller, psicologa dell’età evolutiva e ricercatrice della Cummings School of Veterinary Medicine alla Tufts University, ha esaminato gli atteggiamenti e l’interazione con gli animali di più di 500 giovani di età compresa tra 18-26 anni.

Le risposte sono state incrociate con i dati provenienti da uno studio longitudinale nazionale (4-H Study of Positive Youth Development) che ha misurato negli stessi soggetti caratteristiche di sviluppo quali la competenza, la cura, la fiducia, la connessione, il carattere, i sentimenti di depressione.

I giovani adulti che si sono presi cura di un animale hanno riferito di impegnarsi maggiormente in attività collaborative (per esempio fornire un servizio alla propria comunità o aiutare gli amici o la famigliae dimostrato maggiore leadership, di chi invece non aveva un animale.

Inoltre più si sono occupati attivamente dell’animale e più alto è stato il punteggio nella collaborazione.  Lo studio ha anche evidenziato che livelli elevati di attaccamento ad un animale nella tarda adolescenza e nella giovinezza erano associati con un positivo senso di appartenenza al gruppo, e maggiore empatia e fiducia.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo e le età della vita – SOPSI 2014 – Prof. G. Maina

SOPSI 2014

Report dalla Sessione Plenaria

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo e le età della vita

(G. Maina, Torino)

 

SOPSI 2014 - Plenaria MainaLa descrizione classica del Disturbo Ossessivo Compulsivo (DOC) fa riferimento ad un disturbo con esordio precoce, decorso cronico e suscettibile agli eventi di vita. Ma è veramente così o questi sono solo luoghi comuni?

Il Prof. G. Maina, in un intervento brillante ed interessante, discute ciascuno dei tre punti alla luce della letteratura scientifica più aggiornata.

 

 

 

1.    ESORDIO PRECOCE

Diverse ricerche scientifiche hanno evidenziato che la maggior parte delle persone con DOC esordisce entro i 25 aa.

SOPSI 2014 - Simposio sul Disturbo Ossessivo Compulsivo
Articolo consigliato: Report dal Simposio: La Complessità dell’inquadramento e del trattamento del DOC nelle età della vita

Un recente studio (Anholt et Al., 2014) condotto su 377 pazienti ha mostrato come l’età di onset per questo disturbo si distribuisca su una curva bimodale in cui nella maggior parte dei pazienti l’esordio avviene prima dei 20 anni (early onset); tali pazienti sono tra loro simili e rappresentano un gruppo compatto, che si differenzia dai pazienti Adult Onset (20-40aa).

Esiste poi una piccola percentuale di pazienti ad esordio tardivo (dopo i 40aa): sono donne con sintomi subclinici su cui impattano eventi di vita. Se si ha di fronte un esordio DOC tardivo che non presenta queste caratteristiche, è fortemente probabile che si tratti di altro oppure che si tratti di un nuovo episodio di un disturbo DOC che si era già mostrato in passato, ma poi si era risolto.

 

 

2.    DECORSO CRONICO

In letteratura è diffusa l’idea che il decorso del DOC sia cronico. Più gli studi sono datati, più il decorso del disturbo viene definito maggiormente cronico. Studi prospettici recenti, invece, illustrano risultati che indicano nella direzione opposta. Si osservano infatti:

  • Forme sporadiche di DOC (in cui si osserva guarigione e non ricorrenza) che interessano forme familiari e non, forme con tic e non, forme biologiche e non…
  • Forme che evolvono in altri disturbi (es. DOC che evolvono in disturbi bipolari in presenza di abuso di sostanze)
  • Quadri cronici, in cui si possono osservare modifiche quantitative (relative alla gravità dei sintomi), ma che spesso mantengono la loro dimensione sintomatologica
  • Forme biologiche, in cui il DOC è manifestazione di una malattia autoimmune.

 

 

3.    EVENTI DI VITA

Il DOC pare essere un disturbo suscettibile agli eventi di vita in categorie specifiche:

Nei bambini e negli adolescenti, per i quali, in presenza di un disturbo DOC, è necessario valutare la presenza di eventi di vita che siano stati percepiti come traumi gravi dal soggetto.

Nei Late Onset, dove un trauma grave o una gravidanza/post partum possono indurre lo sviluppo del disturbo.

 

 

In conclusione, il Disturbo Ossessivo Compulsivo è un disturbo prevalentemente ad esordio precoce, ma si possono presentare esordi in età adulta e persino tardiva. Il decorso non è sempre cronico, bensì composito e con varianti evolutive, forme sporadiche e forme biologiche. È un disturbo suscettibile ad eventi di vita, nello specifico eventi di vita gravi interessano l’esordio in bambini, adolescenti e donne over 40; in queste ultime un ulteriore fattore di rischio è rappresentato dalla gravidanza.

 

TUTTI I REPORTAGES DAL CONVEGNO SOPSI 2014

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DISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO – OSSESSIONI

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Anholt GE. et Al. (2014) Age of onset in obsessive-compulsive disorder: admixture analysis with a large sample. Psychol Med. 2014 Jan;44(1):185-94.
  • Frydman et Al. (2014) Late-onset obsessive-compulsive disorder: risk factors and correlates. J Psychiatr Res. 2014 Feb;49:68-74
  • Skoog G. & Skoog I. (1999) A 40-year follow-up of patients with obsessive-compulsive disorder. Arch Gen Psychiatry. 1999 Feb;56(2):121-7.
  • Maina G. et Al. (1999). Obsessive-compulsive syndromes in older adolescents. Acta Psychiatr Scand. 1999 Dec;100(6):447-50.
  • Rosso G. et Al (2012) OCD during pregnancy and post partum. Riv Psichiatr. 2012 May-Jun;47(3):200-4. doi: 10.1708/1128.12441. 

Il Disturbo Ossessivo Compulsivo al Congresso SOPSI 2014

SOPSI 2014

Report dal Simposio:

La Complessità dell’inquadramento e del trattamento del DOC nelle età della vita

 

 

SOPSI 2014 - Simposio sul Disturbo Ossessivo CompulsivoSimposio sul disturbo ossessivo compulsivo al diciottesimo Congresso della Società Italiana di Psicopatologia (SOPSI) 2014. Quattro relatori, tra cui uno psicoterapeuta cognitivo, Francesco Mancini, che dialoga con tre psichiatri d’impostazione farmacologica: Umberto Albert (Responsabile della Segreteria Scientifica del congresso), Donatella Marazziti e Antonio Tundo. Mentre aspetto che inizino le relazioni penso che sarà interessante vedere come interagiranno questi clinici di differente formazione.

Comincia Mancini, che espone il suo noto modello cognitivo dell’ossessività. L’esposizione è particolarmente sintetica e stringata e consente di avere una visione chiara. Mancini dapprima insiste sulle componenti intenzionali e cognitive del disturbo ovvero sulla possibilità che i sintomi ossessivi dipendano da pensieri espliciti, poi conferma che l’ossessività dipende da pensieri di colpa e disgusto e infine riflette sul rapporto tra questi due domini emotivi.

Il disgusto sembra giocare un ruolo prevalente sull’ossessivo schiavo del lavaggio, il cosiddetto washer. Tuttavia Mancini riesce a ricondurre anche quest’area sintomatologica alla colpa, riportando dati che correlano il senso di disgusto verso se stessi alla colpa morale.

Impressiona sapere da studi sperimentali come persone oppresse da un senso di colpa –anche non ossessivo- provino sollievo lavandosi le mani; una sorta di conferma delle basi cognitive dell’atto di Pilato.

SITCC 2012 – Disgusto e Colpa nel Disturbo Ossessivo-Compulsivo. - Immagine: © olly - Fotolia.com
Articolo consigliato: SITCC 2012 – Disgusto e Colpa nel Disturbo Ossessivo Compulsivo

Mancini prosegue distinguendo colpa altruistica (il timore di aver recato danno) e colpa deontologica (il timore di aver violato una norma morale) e connettendo l’ossessività e il disgusto soprattutto alla colpa deontologica. Infine conclude con i suoi noti studi sulle immagini cerebrali che dimostrano come la colpa deontologica, connessa al disgusto e all’ossessività, abbia una localizzazione neurologica diversa dalla colpa altruistica, essendo posizionata nell’insula e non nelle aree corticali; il che ne conferma la natura più arcaica in termini di evoluzione cerebrale.

Dopo Mancini tocca ad Albert, che espone interessanti dati sulla familiarità dell’ossessività. Insomma, i parenti di pazienti ossessivi sono a loro volta significativamente più ossessivi della popolazione generale. Se questo abbia base genetica o ambientale rimane senza risposta, se non il solito buon senso (sia pure scientificamente corroborato) che suddivide la responsabilità tra i due fattori. È un eterno dilemma e un eterno compromesso.

La relazione della Marazziti è dedicata al livello di consapevolezza di questi ossessivi. In che misura queste persone si rendono conto dell’irrazionalità dei loro timori? La risposta è difficile. Naturalmente i pazienti più gravi, quelli che sono in cura più per pressioni esterne che per convinzione interiore, mostrano un basso grado di consapevolezza. E probabilmente, dal suo punto di vista psichiatrico, la Marazziti ha a che fare soprattutto con questo tipo di pazienti.

Il quadro è più ambiguo per il paziente che ha consapevolmente scelto una psicoterapia, che inevitabilmente sarà più motivato e conscio della natura psicologica del suo problema. È però vero che questi pazienti anche quando hanno scelto autonomamente la psicoterapia mostrano una forte difficoltà a distaccarsi dai propri pensieri ossessivi, mostrando quindi di crederci molto, di prenderli per veri e buoni. Insomma, dice la Marazziti, si tratta di pazienti con scarsa consapevolezza.

Per ultimo Tundo espone i dati di uno studio, condotto insieme a Mancini, di efficacia della psicoterapia cognitiva su pazienti in comorbilità ossessiva e psicotica. Una popolazione apparentemente poco adatta alla psicoterapia, nonché particolarmente sofferente.

Ma i dati di Tundo sono positivi e incoraggianti e stimolano l’introduzione sempre più massici di trattamenti psicoterapeutici nella pratica psichiatrica.

Forse questa è la risposta alla mia domanda iniziale: come interagiscono psichiatri e psicoterapeuti cognitivi? Al loro meglio, unendo le loro forze.

 

TUTTI I REPORTAGES DAL CONVEGNO SOPSI 2014

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La Psicopatologia e le età della vita – Congresso SOPSI 2014

SOPSI 2014

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

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Dopo 17 anni torna a Torino il Congresso SOPSI alla sua diciottesima edizione dal titolo la psicopatologia e le età della vita e presieduto dal Prof Filippo Bogetto, presidente della Società Italiana di Psicopatologia.

Alla giornata inaugurale erano presenti le autorità istituzionali e gli esponenti della ricerca, della clinica e dell’università torinesi nonché naturalmente illustri partecipanti, soci e non, provenienti da tutta Italia.

Alla presentazione del prof Bogetto ha fatto seguito l’apertura dei lavori con l’intervento del Dr Del Favero, direttore dell’azienda ospedaliera universitaria “ Citta della Salute e della Scienza” di Torino, struttura che riunisce tra gli altri i poli d’eccellenza delle Molinette, CTO, OIRM e Sant’Anna.

Proprio in relazione al tema di questo diciottesimo congresso il Dr Del Favero pone l’accento sulla complessità di una visione longitudinale della cura nelle età della vita dal periodo perinatale all’infanzia e fino alla senescenza.

A seguire è intervenuto, portando i saluti del Rettore dell’Università degli Studi di Torino, il Prof Federico Bussolino vice rettore con delega alla ricerca che ha sottolineato come negli ultimi anni i bandi di fondi destinati alla ricerca premino progetti imperniati sul benessere e sulla qualità di vita, ambito nel quale le neuroscienze ed in particolare la psichiatria sono fondamentali.

Il Prof Riccardo Rigardetto, direttore della Scuola di Medicina e Neuropsichiatra infantile ha ricordato il rapporto strettissimo e sempre più studiato tra la mente e il corpo che porta la psicologia e la psichiatria a integrarsi ed essere sempre più coinvolte nelle altre discipline mediche e di cura.

Chiude la carrellata dei saluti la Dr.ssa Giovanna Briccarello, direttrice generale dell’Asl TO1 che mette in evidenza il grande problema della carenza di risorse e dell’inquietudine esistenziale generate dall’attuale congiuntura economica che si ripercuote sulla qualità di vita dei cittadini generando malessere e a volte patologia psichiatrica.

In questo momento più che mai è importante che tutti i servizi possano trovare una modalità di lavoro integrata al fine di sfruttare al meglio le risorse disponibili e puntando ad una sempre maggiore collaborazione tra ospedali e territorio.

Il Presidente della SOPSI, Prof Bogetto, espone infine una disamina degli aspetti clinici e della psicopatologia in una prospettiva longitudinale nelle età della vita, appunto, partendo dalla constatazione che, essendosi la vita media europea allungata dai 72 anni del 1990 ai 76 del 2011, anche la vita in patologia è aumentata con situazioni di cronicità e di problematiche legate alla senescenza.

Pertanto anche in ambito di malattia e cura è auspicabile affiancare al qui ed ora anche una visione più completa che tenga conto dell’evoluzione degli aspetti patologici e psicopatologici e delle differenze di presentazione delle patologie nel corso della vita.

Il disturbo bipolare può presentare caratteristiche peculiari a seconda dell’età di esordio e questo dato va considerato attentamente e studiato al fine di evitare ritardi nella diagnosi che comprometterebbero la prognosi e la qualità della vita dei pazienti. Questo stesso discorso è valido per le principali psicopatologie come la schizofrenia, il disturbo ossessivo compulsivo, il disturbo borderline di personalità anche se purtroppo, almeno per quanto riguardala schizofrenia, per ora l’individuazione di aspetti premorbosi e poi prodromici comporta il peso di una diagnosi stigmatizzante e non pare aver dato risultati significativi in termini di riduzione della progressione a patologia conclamata.

E’ quindi sottolineato ampiamente in apertura del Congresso l’importanza di estendere lo studio, la comprensione e la cura della psicopatologia ad una visione più ampia e completa della persona sia nelle sue caratteristiche di individuo inserito in un contesto psicosociale sia di persona in evoluzione.

 

 

Università: l’abilitazione nazionale e il privilegio della cecità

Simone Natale Ph.D

 

 

Peer Review Process - Abilitazione Nazionale UniversitaLa pubblicazione dei giudizi pronunciati nelle procedure di abilitazione nazionale, che decide sulla possibilità di diventare professore associato ed ordinario nell’università italiane, ha suscitato molte critiche e proteste.

In molti casi, messi in luce dal ROARS così come da numerosi quotidiani, le decisioni delle commissioni giudicanti lasciano infatti molti dubbi.

Sebbene si tratti di 185 commissioni che lavoravano nei rispettivi settori disciplinari, dunque ogni commissione vada giudicata per il proprio specifico lavoro, l’intera procedura di abilitazione nazionale rischia di perdere di credibilità. E con essa, ne perde l’università italiana.

Questo episodio stimola a riflettere sul modello delle commissioni per le valutazioni del merito di individui o progetti di ricerca. Negli ultimi anni, il sistema universitario italiano e internazionale –a partire dalle riviste scientifiche, per passare recentemente anche alle decisioni di finanziamento di progetti di ricerca da parte del MIUR- è passato sempre di più al meccanismo di stampo anglosassone della valutazione “cieca”, o blind peer review.

La valutazione cieca (meglio se assegnata a studiosi internazionali) significa che il candidato non conosce l’identità di chi lo valuta.

Questo, naturalmente, non garantisce di per sé che l’esaminatore sia onesto e la valutazione giusta. Però ha un vantaggio fondamentale: priva gli esaminatori della responsabilità di rispondere ai valutati sulle proprie decisioni. Dà loro, insomma, tutti i mezzi per esercitare la propria indipendenza. Oltre ad assicurare una gestione più facile dei risultati.

È il privilegio della cecità, che piano piano stiamo imparando tutti ad apprezzare.

 

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La Ricerca Scientifica in Italia: 2 bilanci per una panoramica realistica (e non catastrofista)

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BIBLIOGRAFIA:

 

L’importanza di ricostruire la propria storia: fattore di protezione nelle adozioni

Paola Fanti.

 

L'importanza di ricostruire la propria storia. - Immagine: © fotografiedk - Fotolia.comAdozioni: uno dei momenti nei quali tradizionalmente la persona adottata sente il bisogno di reperire informazioni sulla famiglia biologica è l’adolescenza , fase nella quale la costruzione della propria identità spinge i ragazzi a raccogliere i pezzi della loro storia (anche quelli perduti) per integrare le informazioni in un immagine di sé coerente.

Questo processo psicologico di base sino a poco tempo fa era ostacolato da un modello che considerava l’adozione una nuova nascita per il bambino, dove tutto il passato doveva essere negato e tenuto nascosto. Un punto di vista fondato sul segreto delle origini, sull’interruzione e sull’idea della famiglia adottiva come unica nella storia del bambino. Ciò che era accaduto prima dell’adozione non aveva peso anche quando quel prima era il luogo, ad esempio, di un trauma che non poteva essere ripreso, rielaborato, intergrato; d’altronde le informazioni era tenute nascoste, omesse agli stessi genitori adottivi e spesso ai servizi competenti.

Attualmente si assiste ad una trasformazione radicale, si sta passando ad un modello basato sul recupero del passato, sulla continuità , sulla triade genitori adottivi, bambini e genitori biologici. Questo implica l’importanza della narrazione, della raccolta di informazioni come punto di partenza affinchè la coppia adottiva possa accompagnare il bambino nella co/costruzione della propria identità.  La trasformazione ha implicato una modifica legislativa, infatti l’articolo 28 della legge 184/1983 sancisce l’obbligo per i genitori adottivi di informare il figlio adottato sulle proprie origini.

La possibilità di accedere in maniera trasparente alle informazioni inerenti il passato del bambino diventa fondamentale, non solo per la costruzione del sé, ma appare funzionale su altri piani: sapere aiuta il genitore adottivo ad attribuire significati ai comportamenti ed alle emozioni del bambino. 

Costruiamo le rappresentazione di noi, del mondo e degli altri attraverso le prime relazioni di attaccamento, attraverso di esse elaboriamo strategie per ottenere protezione; e così, ad esempio, un bambino che abbia vissuto con un genitore distanziate  imparerà, in caso di bisogno, a non chiedere aiuto, a comportarsi come se nulla fosse accaduto.

Se il genitore adottivo conosce la storia del proprio figlio, potrà comprendere e rispecchiarsi emotivamente nella sofferenza di quel comportamento; in caso contrario ed in assenza di una cornice si sentirà inutile e non voluto arrivando a disattivare le proprie cure.

La mentalizzazione è un fattore di protezione per lo sviluppo del bambino che può essere aiutato a rileggere la propria storia e a capire che la mamma non lo ha abbandonato perché lui era cattivo (egocentrismo)  ma perché era depressa (decentramento).  Mettere i genitori adottivi nella condizione di dare al proprio figlio una chiave di interpretazione della propria storia significa aiutarlo a  capire come mai alcuni adulti (tra cui i suoi genitori biologici) hanno fallito nell’assumere il proprio ruolo genitoriale (Vadilonga, 2011).

Collegare i propri comportamenti attuali ad esperienze reali è una condizione fondamentale per darsi delle spiegazioni e creare significati . Appare chiaro come la narrazione possa considerarsi un fattore protettivo del buon esito del percorso adottivo; proprio per questo non può essere lasciata alle sole forze dei genitori adottivi che devono essere aiutati e supportati anche passando attraverso la rilettura  delle proprie storie di attaccamento che influenzano il modo nel quale loro stessi si mettono in relazione, che orientano la capacità di sintonizzarsi sui bisogni emotivi dei propri figli anche quando questo implica ripercorrere il trauma di un abuso.

L’adozione è un processo complesso, l’attribuzione di significati non si ferma , deve essere sempre ricontrattata in linea con le tappe evolutive del minore e della famiglia e che pertanto dovrebbe essere accompagnata e sostenuta con continuità.

 

 

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BIBLIOGRAFIA:

Vadilonga F. (2011). Curare l’adozione, a cura di Raffaello Cortina Editore , (133-140)

Attili G., (2011).  Attaccamento e costruzione evoluzionistica della mente, Raffaello Cortina Editore (283-299)

Schofield G., Beek M., (2013). Adozione, Affido, Accoglienza, , Raffaello Cortina Editore (461-491)

 

 

Giocare ai videogiochi è davvero dannoso? Psicologia dei new media

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Giocare ai videogiochi, compresi quelli violenti, può incrementare le abilità sociali, la capacità di apprendimento e addirittura la salute in bambini e adolescenti.

È quanto emerge da una revisione globale della ricerca sulla violenza nei videogiochi e nei media interattivi condotta dall’APA, che pubblicherà le sue conclusioni entro la fine dell’anno. Lo studio nasce dalla discussione sugli effetti dei media violenti sui giovani: “per decenni si sono ottenuti dati di ricerca sugli effetti negativi del gioco: dipendenza , depressione e aggressività, e questo non deve essere ignorato “, dice Isabela Granic, PhD, della Radboud University Nijmegen in Olanda “tuttavia, per capire l’impatto dei videogiochi sui bambini e sullo sviluppo degli adolescenti, è necessaria una prospettiva più equilibrata.”

Se alcuni dati ricerca sostengono che giocare ai videogiochi renda intellettualmente pigri, secondo altri giocare può rafforzare una vasta gamma di abilità cognitive: come la navigazione spaziale, il ragionamento, la memoria e la percezione. E questo è particolarmente vero per i videogiochi in cui si spara, quindi spesso violenti.

Una meta- analisi del 2013 ha evidenziato che giocare a questo tipo di videogiochi ha migliorato la capacità del giocatore di pensare in tre dimensioni, così come se avesse frequentato corsi accademici volti a potenziare queste stesse competenze. Questo potenziamento delle abilità non è stato osservato in relazione ad altri tipi di videogiochi come i puzzles o i giochi di ruolo.

I videogiochi aiutano anche a sviluppare capacità di problem solving: secondo i risultati di uno studio a lungo termine pubblicato nel 2013, più un adolescente ha riferito di giocare a videogiochi strategici, come ad esempio i giochi di ruolo, più ha migliorato il problem solving e i voti di scuola l’anno successivo.

Anche la creatività dei bambini è arricchita con il gioco di qualsiasi tipo di video game, ma non quando per farlo utilizzano altre forme di tecnologia, come ad esempio il computer o il telefono cellulare.

Inoltre giochi semplici, di facile accesso e che possono essere riprodotti rapidamente, come “Angry Birds“, sono in grado di migliorare l’umore dei giocatori, favorire il rilassamento e scongiurare l’ansia

Gli autori hanno anche messo in evidenza la possibilità che i videogiochi siano strumenti efficaci per l’apprendimento di resilienza di fronte al fallimento: imparare a perdere quando si gioca aiuta a costruire la capacità di resilienza emotiva che può essere utile nella vita di tutti i giorni.

Un altro stereotipo che viene sfatato è quello del giocatore solitario:  più del 70 per cento dei giocatori infatti gioca con un amico, e milioni di persone in tutto il mondo partecipano a giochi virtuali collettivi come “Farmville” e “World of Warcraft“; questi giochi diventano comunità sociali virtuali, dove si impara a decidere rapidamente di chi ci si può fidare e di chi no e come prendere decisioni in gruppo.

A tal proposito uno studio del 2011 ha evidenziato che chi gioca ai videogiochi che incoraggiano la cooperazione, anche quelli violenti, ha più probabilità di essere utile agli altri durante il gioco di chi gioca a giochi competitivi.

 

 

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BIBLIOGRAFIA:

Felice per un giorno di Primo De Vecchis (2013)- Recensione

 

Felice per un giorno

di Primo De Vecchis (2013)

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Felice per un giorno - E-book (2013)

Oppresso da un vita colma di catene economiche e legali oltre che mentali, l’unica felicità possibile per il protagonista del romanzo può essere raggiunta quindi soltanto attraverso una rivoluzione totale, ma improvvisa e mal gestita, arrivando a connotarsi a tutti gli effetti come una vera e propria crisi psicotica

Alessandro, il protagonista del romanzo, condensa in una giornata di vagabondaggi e contemplazioni il picco di una presa di coscienza: è un uomo di mezza età, sulla quarantina, divorziato dalla moglie che lo tradiva con un dirigente di banca e con una figlia di dodici anni che vede solo ogni tanto.

Finora il suo lavoro burocratico e ripetitivo ha assorbito tutte le sue energie, ma all’improvviso questa struttura implode, e il grigio impiegato sembra voler consumare una guerra principalmente contro se stesso, contro la maschera sociale che ha indossato per desiderio di quieto vivere.

Tuttavia, tale improvviso desiderio di felicità, o meglio di libertà, non imbocca la strada dell’armonia, bensì del nichilismo e delle fantasie di violenza, come un improvviso esplodere di gioia di vivere.

Il romanzo di Primo De Vecchis rappresenta un’affascinante e accurata descrizione della vita interiore di un uomo da sempre prigioniero delle proprie ossessioni e dei propri schemi comportamentali orientati alla passività.

Ormai sfinito e depresso dalla prospettiva di una vita priva di stimoli autentici, Alessandro, protagonista del romanzo, decide da un giorno all’altro di riappropriarsi del tempo perduto, con un tentativo maldestro e esagerato di tornare a godere di ciò che ha attorno, senza più proiettarsi per abitudine né nel futuro né nel passato.

Ciò che conta per Alessandro è quindi ora soltanto il presente, un eterno presente raccontato con dovizia di particolari e illuminato da una nuova prospettiva, meravigliosa ma terrificante al tempo stesso. L’intera vicenda di Alessandro, si snoda così all’interno di una sola giornata: il giorno in cui decide di non presentarsi a lavoro, per la prima volta nella sua vita.

L’aspetto forse più interessante è che l’autore scandisce la vicenda di Alessandro dall’interno, nella forma di un memoriale scritto di getto in prima persona, ma con un contrappunto esterno di immagini, descrizioni e metafore, che si vanno disfacendo nell’arco della storia. Con dovizia di particolari, l’autore riesce a dipingere scenari che si costruiscono attorno al lettore, trasportandolo all’interno di un mondo nuovo e affascinante.

L’autore descrive bene la tendenza morbosa del protagonista a rimuginare sugli aspetti negativi e fallimentari del passato: un groviglio di pensieri connotati ormai dalla credenza delirante della loro ineluttabilità, come se fossero dettati da una sorta di destino al quale non si può sfuggire.

La nausea, l’angoscia di vivere, di «condurre un’esistenza da zombie, sempre immersi nelle medesime mansioni, con le stesse misere aspirazioni» si trasferisce anche all’universo intero, in una sorta di terrore cosmico.

Oppresso da un vita colma di catene economiche e legali oltre che mentali, l’unica felicità possibile per il protagonista del romanzo può essere raggiunta quindi soltanto attraverso una rivoluzione totale, ma improvvisa e mal gestita, arrivando a connotarsi a tutti gli effetti come una vera e propria crisi psicotica. 

Da leggere, sicuramente. Per terapeuti che vogliono entrare nella mente di un ossessivo per identificarsi con i meccanismi mentali del protagonista, per pazienti che vogliono comprendere l’importanza del godere pienamente della propria vita evitando di gestire la propria rivoluzione senza un aiuto esterno, e per semplici lettori che apprezzano la letteratura fatta bene, colma di citazioni, reti associative, paesaggi pittoreschi e rivelazioni mentali. 

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RECENSIONIOSSESSIONI PSICOSI LETTERATURA

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

  • Primo De Vecchis, Felice per un giorno , 2013.

 

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