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Pink Freud. Psicanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan a Van De Sfroos – Recensione

Pink Freud. Immaginiamo un esperto psicanalista che fa accomodare sul proprio lettino Sua Maestà il rock e che questo paziente si esprima con la canzone.

Di Gaspare Palmieri

Pubblicato il 17 Gen. 2014

Pink Freud.

Psicanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan a Van De Sfroos.

Di Angelo Villa (2013) – Mimesis Editore

 

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Pink Freud. Psicoanalisi della canzone d'autore

Pink Freud. Psicanalisi della canzone d’autore da Bob Dylan a Van De Sfroos. Immaginiamo un esperto psicanalista lacaniano, grande appassionato di musica, che fa accomodare sul proprio lettino Sua Maestà il rock (ma anche il folk…) e che questo particolare paziente si esprima tramite la forma comunicativa che gli è più congeniale: la canzone.

L’analista lavora per associazioni partendo dalle canzoni, ma anche dalle storie psicologiche di chi le ha scritte. L’autore si è documentato in modo approfondito traendo preziosi dati anamnestici dalle biografie delle rockstar e dei cantautori, che notoriamente spesso assomigliano a delle cartelle cliniche, soprattutto se si tratta di songwriter che hanno vissuto gli anni sessanta e settanta. La lunga seduta psicanalitica parte dai trovatori, i precursori dei cantautori, e da Freud che non amava la musica, ma che riconosceva che “Quando il viandante canta nell’oscurità rinnega la propria apprensione”.

Nella lunga carrellata di personaggi troviamo: le oscillazioni del senso di identità di Bob Dylan; le pulsioni edipiche di Jim Morrison esplicitate nel celeberrimo brano The end; il lutto non elaborato per la perdita del padre di Leonard Cohen; parte della produzione solista di John Lennon, influenzata da un complesso rapporto con la figura materna; l’identificazione di Fabrizio De Andrè con i reietti protagonisti delle sue canzoni e alcune interessanti ipotesi psicodinamiche sulle prostitute che compaiono in tanti brani di Faber; un capitolo sulle cantautrici capitanate dalla martire del rock Janis Joplin.

Le analisi sono interessanti, anche se chiaramente molto dense di teoria psicanalitica. Quindi può capitare di leggere che “la dimensione pulsionale si riflette con forza” nella celeberrima “svolta elettrica” di Bob Dylan, o che “la fantasia di Imagine invoca un mondo materno”. Le interpretazioni sono suggestive, anche se tolgono un po’ di magia alle canzoni, che speso nascono come geniali inafferrabili intuizioni.

Credo che il pregio più grande di questo libro, oltre alla perizia e alla profondità con cui vengono osservati tanti frammenti di cultura pop, sia l’importanza e la dignità che l’autore dedica alle canzoni come forme espressive ricche di significati.

L’autore sottolinea come la canzone nella nostra epoca, si sia in parte sostituita a quello che nei secoli scorsi era il romanzo di formazione. Non mi risulta ci siano tanti psicanalisti che si siano avvicinati all’argomento canzone, mentre abbondano studi e dissertazioni su altre forme espressive come la pittura (si pensi a quanto è stato scritto su Munch e quante volte è stato utilizzato il suo L’urlo) o il cinema (i cineforum con i film di Bergman…).

I cantautori, o i “nuovi trovatori” come li definisce Villa, esprimono cantando i disagi, le aspettative e le contraddizioni della propria generazione e possono riempire il vuoto narrativo del mondo postmoderno. Per questo meritano grande attenzione.

 

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