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A letto con Lacan: Del buon uso erotico della collera (2013). di Gerard Pommier

A letto con Lacan: una recensione di

“Del buon uso erotico della collera e di qualche sua conseguenza”

di Gerard Pommier

 

 

DEL BUON USO EROTICO DELLA COLLERA. -Immagine: copertinaPommier dimostra in queste storie cliniche la capacità di cogliere la microscopia della sessualità, di esplorare il coito non solo nella meccanica più o meno disfunzionale dimostrata dai vari pazienti, ma nella multiforme fenomenologia del vissuto, conscio ed inconscio.

Lo confesso, il titolo mi ha suscitato un minimo di disagio. Quando, dopo un’attesa un po’ lunga, ho potuto dare un occhio alla copertina, i miei dubbi si sono fatti più consistenti. Una coppia impegnata in un coito sul pavimento. L’uomo, il torace possente nudo, schiaccia la compagna. Ma che libri mi manda la redazione di State of Mind??. Quando ho nascosto il libro nella borsa per l’evidente timore che finisse nelle mani dei miei figli, mi sono reso conto che il disagio nasceva da una sottile eccitazione.

Del resto Pommier è ben consapevole del potere attrattivo della forza esercitata nel contesto delle relazioni sessuali. Con ironia racconta come uno dei suoi libri sulla natura dell’inconscio sia stato pubblicato con una copertina decisamente osé da una casa editrice cattolica.

Nell’immaginario sessuale la violenza, o almeno la forza (bruta) rappresenta un elemento eccitante. La pornografia, ma anche la pratica quotidiana della sessualità, fanno largo uso di metafore o prassi violente od autoritarie. I – troppo frequenti – eventi di cronaca in cui la disponibilità sessuale della donna o di minori viene estorta con la violenza sono causa di un interesse in cui l’indignazione è solo una componente secondaria. Il quesito se la donna desideri essere violata o comunque forzata, l’idealizzazione di una virilità autoritaria, circolano sui giornali, così come nelle conversazioni.

Ma il lettore non si spaventi: l’interesse di questo testo sulla vita sessuale non è certo quello di un facile voyeurismo. Al contrario, Pommier va al nocciolo della questione e cerca, nella sua prospettiva squisitamente Lacaniana, di comprendere fino in fondo l’enigmatica relazione tra aggressività ed erotismo.

Pommier parte da una costatazione che può essere comune. Così spesso nelle coppie uno scontro, un violento litigio, ma anche uno stato di conflittualità più sottile, sono seguiti da un momento di intimità più accesa.

Nella prospettiva Lacaniana i comportamenti umani sono condizionati permanentemente dai residui adulti della configurazione edipica. La sessualità dell’adulto lo mette dunque in inevitabile concorrenza con il padre, immaginato come autoritario, o comunque superiore ed inaccessibile. Ecco quindi il maschio gravato dal senso di colpa o costretto a sedurre le mogli di amici, colleghi, vicini di casa in una coazione senza fine. Ecco la donna che può giungere al godimento solo quando tradisce, o comunque castra il partner ufficiale, “paterno”.

Certo, per chi è abituato a una prospettiva più relazionale, a comprendere le fantasie inconsce nel contesto di una rete relazionale reale, nell’attualità della vita affettiva del paziente, il testo risulta a prima vista riduttivo.

Pommier costruisce una sorta di meccanica edipica implacabile, in cui i partner sono del tutto intercambiabili. Nei racconti clinici le separazioni non si contano, mentre l’autore sembra non percepire la grave immaturità relazionale di alcuni pazienti, l’incapacità di radicarsi affettivamente nel partner, di costruire legami profondi. 

Oggi gli studi sull’attaccamento hanno ampiamente dimostrato come il legame tra umani, inclusi gli adulti, sia giocato solo in parte sulla dinamica pulsionale. Anche nell’amore la componente preedipica, le aree di pura fusionalità così come spazi di più adulta interattività reciproca, giocano un ruolo fondamentale.

Del resto la ricerca antropologica ha dimostrato che la sessualità umana non è solo lo strumento della riproduzione della specie. Anzi è il cemento della famiglia monogamica, predispone il terreno specificamente umano per la crescita  e l’educazione dei figli (Diamond, 2006). Il racconto biblico contiene insomma una verità innegabile: maschio e femmina sono strutturati in maniera tale da avere bisogno l’uno dell’altra.

Se il paradigma edipico della sessualità umana suona oggi un po’ obsoleto, il valore più vero del testo non è – credo – quello teorico. Il tesoro sono i casi clinici, innumerevoli, le storie umane vive e vere che incontriamo pagina dopo pagina.

Pommier dimostra qui una straordinaria capacità narrativa. Molti lettori finiranno per saltare le disquisizioni teoriche, ma resteranno avvinti alle pagine cliniche come ad un romanzo. Soprattutto Pommier dimostra in queste storie cliniche la capacità di cogliere la microscopia della sessualità, di esplorare il coito non solo nella meccanica più o meno disfunzionale dimostrata dai vari pazienti, ma nella multiforme fenomenologia del vissuto, conscio ed inconscio.

In fondo, per la maggior parte degli umani, in almeno qualche fase della vita, la sessualità è un’esperienza importantissima, ma necessariamente taciuta, spesso anche al compagno della vita.

Insomma il lettore non potrà che specchiarsi – o confrontarsi – in questi racconti e finirà inevitabilmente per interrogare la prioria vita sessuale in modo nuovo. Sono convinto che la lettura di Del buon uso erotico della collera lascerà qualche traccia nella vostra vita sessuale quotidiana. O almeno settimanale.

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SESSO – SESSUALITA’AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALILETTERATURARECENSIONI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Schema Therapy: efficace per i disturbi di personalità

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La Schema Therapy, rivolgendosi direttamente e in modo più focalizzato alle parti più vulnerabili del paziente (Mode del Bambino), sembra portare a una risposta terapeutica positiva più rapida (confrontata con le terapie più incentrate sulla parte adulta) e, secondo i ricercatori, è proprio questo l’elemento determinante i bassissimi livelli di drop out.

Già in passato, diversi studi avevano dimostrato l’efficacia della Schema Therapy nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità. L’International Socety of Schema Therapy ha recentemente reso pubblici alcuni dati da cui emergerebbe la possibilità di considerare la Schema Therapy come trattamento da preferire anche nella cura dei Disturbi di Personalità Paranoide, Istrionico, Narcisista e del Cluster C.

Ciò che principalmente contraddistingue la Schema Therapy dagli altri approcci, è la focalizzazione sullo Schema mal adattivo precoce (definibile come tema costituito dai ricordi, emozioni e sensazioni del paziente, che viene elaborato nel corso della vita e porta alla generazione dei comportamenti disfunzionali).

Riassumendo brevemente la teoria di Young, è dai qui che si svilupperebbero i diversi Mode del paziente (Young ne individua quattro: Mode del Bambino, Mode di Coping Disfunzionale, Mode dei Genitori Disfunzionali, Mode dell’Adulto Sano). Secondo quanto emerso fino ad ora, la Schema Therapy, rivolgendosi direttamente e in modo più focalizzato alle parti più vulnerabili del paziente (Mode del Bambino), sembra portare a una risposta terapeutica positiva più rapida (confrontata con le terapie più incentrate sulla parte adulta) e, secondo i ricercatori, è proprio questo l’elemento determinante i bassissimi livelli di drop out.

Nel recente studio di Bamelis, Evers, Spinhoven e Arntz, condotto dal 2006 al 2011 in dodici istituti di salute mentale oldandesi, 323 pazienti con disturbi di personalità sono stati assegnati casualmente a tre gruppi terapeutici diversi (Schema Therapy, psicoterapia insight-oriented e psicoterapia clarification-oriented).

Al follow up di tre anni, il maggior numero di pazienti con outcome positivo proveniva dal gruppo Schema Therapy (80% di outcome positivo dei pazienti sottoposti a Schema Therapy vs il 60% dei pazienti insight-oriented e il 50% dei pazienti clarification-oriented), con una significativa diminuzione della sintomatologia depressiva e un elevato miglioramento del funzionamento personale e sociale. Anche i livelli di drop-out sono risultati particolarmente bassi in questo gruppo, suggerendo agli autori una rapida accettazione di questa terapia da parte dei pazienti.

I ricercatori sottolineano anche che nessuno dei terapeuti del gruppo Schema Therapy presentava una consolidata conoscenza di questo approccio e che la maggior parte era stata formata attraverso un corso di  quattro giorni, dimostrando così la possibilità di inserire la Schema Therapy all’interno della metodologia standard da usare in ambito clinico. In rapporto alla formazione dei terapeuti, al follow up è emerso un ulteriore dati interessante, per cui i terapeuti formati attraverso un training più pratico avevano “fatto meglio” dei terapeuti che avevano ricevuto una formazione più teorica.

ARGOMENTI CORRELATI:

SCHEMA THERAPY – DISTURBI DI PERSONALITA’ 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

“Medicina Personalizzata in psichiatria”: un modello di prescrizione individualizzata esteso alle strutture territoriali – SOPSI 2014


SOPSI 2014 

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

La Psicopatologia e le età della vita – Torino 12-15 Febbraio 2014

 

“Medicina Personalizzata in psichiatria”: un modello di

prescrizione individualizzata esteso alle strutture territoriali

Claro A.E.1, Curto M.1, Santamaria F.2, Simmaco M.2, Leccisi D.3, Ferracuti S.1, Girardi P.1 e Fiori Nastro P.4

1 NESMOS (Dipartimento di Neuroscienze, Salute Mentale e Organi di Senso), U.O.C. di Psichiatria, Facoltà di Medicina e Psicologia, “Sapienza” Università di Roma.
2 NESMOS (Dipartimento di Neuroscienze, Salute Mentale e Organi di Senso), Servizio di Diagnostica Molecolare Avanzata, Facoltà di Medicina e Psicologia,“Sapienza” Università di Roma.
3 Dipartimento di Salute Mentale ASL RMH, B.go Garibaldi 12, 00041, Albano Laziale, Roma
4 Dipartimento di Neurologia e Psichiatria, “Sapienza” Università di Roma, Facoltà di Medicina e Odontoiatria, Roma 

TUTTI I POSTER DEL CONGRESSO SOPSI 2014
I REPORTAGES DAL CONGRESSO SOPSI 2014

Il Piccolo Principe, un magico trattato di Psicologia umana – Sulla relazione Pt.2

 

Il Piccolo Principe

Un magico trattato di Psicologia umana

Pt. 2: sulla Relazione

 

 

LEGGI LA PRIMA PARTE: Il Piccolo Principe, un magico trattato di Psicologia umana – I Pensieri dei Grandi

Il Piccolo Principe“Il Piccolo Principe” racconta con parole spiazzanti cosa significa stare in relazione, cosa significa condividere realmente un affetto autentico.

E’ una descrizione capace di arrivare all’ascolto di un bambino libero da sovrastrutture e di penetrare con la stessa forza nella consapevolezza di un adulto persuaso della propria complessità.

La parola all’opera.

Non posso giocare con te“, disse la volpe, “non sono addomesticata

Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?”

E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire ‘creare dei legami’…

Creare dei legami?

Certo“, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo

…”La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…

…”Non si conoscono che le cose che si addomesticano. Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”

…”Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore…Ci vogliono i riti. Anche questa è una cosa da tempo dimenticata

…E quando l’ora della partenza fu vicina:

Ah!“, disse la volpe, “…piangerò

La colpa è tua“, disse il piccolo principe, “io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…

E’ vero“, disse la volpe.

Ma piangerai!“…”Ma allora che ci guadagni?

Ci guadagno“, disse la volpe, “il colore del grano

…”Addio“, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi“.

In poche righe, gli elementi fondamentali di ciò che la relazione rappresenta per l’essere umano. Pardon, di ciò che dovrebbe rappresentare per l’adulto se fosse compresa appieno. E di ciò che rappresenta per un bambino, che appieno la comprende.

 

 

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BIBLIOGRAFIA:

Il Programma Mindfulness di Bob Stahl & Elisha Goldstein – Recensione

 

 

Il Programma Mindfulness (2013)

di Bob Stahl & Elisha Goldstein

Essere Felici Edizioni

 

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Il Programma MindfulnessIl Programma Mindfulness di Stahl & Goldstein è un ottimo volume pratico, concreto e centrato sul quotidiano, per iniziare ad avvicinarsi al mondo scientificamente affascinante della pratica di consapevolezza.

Il volume di Bob Strahl e Elisha Goldstein che ho tra le mani mi colpisce molto. La sensazione che si ha nel momento in cui si sfogliano le pagine è che sia un libro molto “visuale”, molto concreto e pratico.

I due autori, Bob Strahl, instruttore MBSR della Bay Area di San Francisco e Elisha Goldstein, psicologo clinico che svolge la professione a Santa Monica, presentano un volume molto concreto, ricco di schede, tabelle, box informativi e altro, che permettono a chi lo legge di farsi accompagnare passo dopo passo all’interno delle basi della meditazione di consapevolezza.

Il volume, nell’edizione italiana, nonostante a tratti abbia qualche difficoltà di traduzione, sembra una raccolta di pratiche e di meditazione basate sul programma MBSR.

Gli elogi da parte di autori e professionisti di primo rilievo non mancano. Nelle prime pagine leggiamo commenti entusiastici di colleghi del calibro di Daniel Siegel, Marion Solomon, Shauna Shapiro e molti altri.

Il libro è un vero e proprio workbook, in puro stile americano, diretto in prima persona al lettore che non ha come obiettivo quello di fornire informazioni complete e dettagliate sulla mindfulness bensì quello di diventare un “alleato” alla pratica per il lettore.

Lo stesso Jon Kabat-Zinn, autore della premessa, scrive che questo andrebbe considerato “come un “playbook”, un manuale ludico, perché la mindfulness in realtà dovrebbe essere abbracciata sia in spirito ludico che con l’atteggiamento interiore che di solito si riserva al duro lavoro”.  E di lavoro da svolgere in queste pagine se ne trova davvero molto: Schede di riflessione sulla pratica formale, box con Frequently Asked Questions, Schede di esplorazione e di approfondimento delle emozioni, delle sensazioni fisiche, Schede con i disegni delle posizioni delle due sessioni di yoga previste nel protocollo MBSR.

In particolare, una serie di box intitolati “fallo e basta!” è un invito deciso e intenzionale di fermare la lettura e di praticare proprio in quel momento. Gli autori invitano spesso il lettore a non accontentarsi della lettura cognitiva del manuale ma di prenderlo sul serio, così come va fatto con la pratica di meditazione, e di portare le esperienze e i suggerimenti letti nel libro nella propria pratica quotidiana, nell’esatto momento in cui si sta leggendo. Questo riduce, in parte, il rischio di tutti i manuali di mindfulness, che siano una descrizione di cosa sia la pratica di meditazione e non un’esperienza della pratica di meditazione, aspetto centrale e più efficace di tutto il sistema complesso che noi occidentali chiamiamo mindfulness.

I capitoli del libro seguono una strada gradualmente in salita che porta verso aspetti più avanzati della pratica di meditazione. Dopo una breve introduzione su cosa sia la mindfulness, gli autori si addentrano velocemente negli aspetti pratici della mindfulness, cogliendo a pieno il senso della pratica, che poco ha di mistico e tanto si concentra sulla quotidianità, sull’intenzione alla pratica e sulla decisione deliberata di coltivare, giorno dopo giorno, un atteggiamento osservativo e pienamente partecipatorio verso la propria esperienza personale, qualsiasi sia la tonalità emotiva del momento.

Alle brevi indicazioni su come svolgere la pratica, seguono i capitoli dedicati ai vari “oggetti” su cui imparare a focalizzare l’attenzione e su cui pratica: la piena coscienza del corpo, lo yoga, le meditazioni sui pensieri, una breve introduzione alle pratica Metta (sull’amorevolezza) fino ad arrivare a capitoli dedicati ai rapporti interpersonali e a suggerimenti su come mantenere viva e costante la pratica.

Ho apprezzato molto il workbook, meno la traduzione. Ci sono alcuni termini, che hanno una traduzione italiana “ufficiale” che a volte sembra sia stata trascurata, a mio parere. Ad esempio, l’introduzione inizia con “benvenuti ne il programma mindfulness in base alla mindfuless”. Credo sia una traduzione di “Programma per la riduzione dello stress basato sulla mindfulness”. Quest’ultima è la traduzione più diffusa della traduzione italiana di Mindfulness Based Stress Reduction Program.

Inoltre, il titolo inglese del volume di Strahl & Goldstein è “A Mindfulness Based Stress Reduction Workbook”. La traduzione italiana è “Il Programma Mindfulness: un metodo pratico e clinicamente testato per superare stess, ansia, panico, depressione, dolore cronico… e altri problemi di salute“. Trovo che in questo titolo vi sia un grandissimo rischio, quello di “banalizzare”, “sminuire” una pratica di meditazione di consapevolezza millenaria…

Il Programma MSBR è il programma basato sulla mindfulness per il quale, ad oggi, esistono il maggior numero di studi di efficacia. È un programma ideato da Jon Kabat-Zinn nel 1979 e portato nella sua forma originaria e strutturata circa dieci anni dopo, periodo in cui Kabat-Zinn, durante il suo percorso di meditazione, ha ideato un programma che nasce e origina dalla sua pratica personale e dalle sue conoscenze di biologo molecolare (per chi di voi non lo sapesse, Kabat-Zinn è un biologo molecolare, che ha ricevuto il suo Ph.D. in Biologia Molecolare nel 1971 al MIT (Massachussets Institute of Technology) dove studiò con Salvador Luria, Nobel per la Medicina nel 1969.

Questo solo per dire che l’MBSR ha un’origine scientifica, che a sua volta proviene e trae spunto da tradizioni millenarie di meditazione (Buddhismo Theravada, Birmana, Zazen etc…).

Il volume è sicuramente una buona e ricca introduzione alla pratica di consapevolezza solo se è un libro letto durante un arco di tempo di mesi o anni, meditato, sperimentato e lasciando che le pratiche non solo vengano fatte una volta come per “fare un po’ di mindfulness” ma che vengano interiorizzate come “un modo di vivere” (Kabat-Zinn, 2003).

Ciò non toglie che il libro di Stahl & Goldstein sia un ottimo volume pratico, concreto e centrato sul quotidiano, per iniziare ad avvicinarsi al mondo scientificamente affascinante della pratica di consapevolezza.

 

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ARGOMENTI CORRELATI: MINDFULNESSMBSR – MINDFULNESS BASED STRESS REDUCTION – MEDITAZIONE

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Social Behavior, Separation Anxiety and Adult psychopathology – SOPSI 2014

 

 

 

SOPSI 2014

Report dalla sessione plenaria:

Social Behavior, Separation Anxiety and Adult psychopathology

Heinrichs M., Abelli M., Banti S., Troisi A.

SOPSI 2014 - Simposio Social BehaviorAll’interno del Cogresso SOPSI, dove ampio risalto è dato alle età della vita, si inserisce il contributo di questo simposio dedicato al rapporto tra primarie esperienze relazionali, ansia da separazione e psicopatologia nell’adulto.

Heinrichs, prendendo le mosse dalle interazioni sociali positive come fattori protettivi per il benessere dell’individuo, si focalizza sui mediatori definiti “social neuropeptides”, in particolare sul ruolo dell’ossitocina. Quest’ultima, come diversi studi dimostrano, influenza fortemente il comportamento dell’uomo e risulta essere un mediatore del comportamento sociale di attaccamento.

E’ stato osservato che, mentre nelle specie in cui la cura della prole risulta scarsamente importante per la sopravvivenza troviamo bassi livelli di ossitocina, viceversa, in specie dove la sopravvivenza è assicurata dalla presenza di un caregiver troviamo livelli significativamente più alti di ossitocina. Un ruolo importante rivestito da questo peptide (ossitocina) è quello di azione nella risposta autonomica della paura in cui l’amigdala ha un ruolo centrale. Le ricerche in questo ambito evidenziano che l’attivazione dell’amigdala diminuisce per effetto dell’aumento dei livelli di ossitocina. Questo dato ha suggerito vari filoni di ricerca. Una delle ricerche più interessanti, in tal senso, ha confrontato due gruppi di soggetti con diagnosi di Fobia Sociale, ad un gruppo veniva somministrata una dose di ossitocina attraverso uno spray nasale, al gruppo di controllo veniva somministrato un placebo.

Come noto, i soggetti con fobia sociale hanno un’elevata attivazione dell’amigdala come risposta alla paura di esporsi a situazioni temute. Entrambi i gruppi venivano esposti ad una situazione attivante. Dai risultati emerge che i soggetti trattati mostravano livelli di attivazione dell’amigdala significativamente più bassi, all’incirca della metà, dei soggetti ai quali era stato somministrato un placebo. Gli studi in questo campo sono tutt’ora in evoluzione e uno degli sviluppi futuri sarà quello di indagare le differenze di genere nelle risposte dell’ossitocina.

Spostando l’attenzione sull’ambito più prettamente diagnostico, la Dott.ssa Abelli si focalizza sul Disturbo d’Ansia da Separazione nell’Adulto (ASAD) che entra nel DSM V (2013) a pieno titolo nel grande gruppo diagnostico dei Disturbi d’Ansia. Questo disturbo che nella nosografia veniva inscritto solo nei disturbi infantili diventa una diagnosi a tutti gli effetti anche nella popolazione adulta. Nello specifico i criteri diagnostici prevedono:

A. Ansia inappropriata rispetto al livello di sviluppo ed eccessiva che riguarda la separazione da coloro cui il soggetto è attaccato, come evidenziato da almeno tre dei seguenti elementi:

1. malessere eccessivo ricorrente quando avviene la separazione da casa o dai principali personaggi di attaccamento o quando essa è anticipata col pensiero

2. persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo alla perdita dei principali personaggi di attaccamento, o alla possibilità che accada loro qualche cosa di dannoso (come una malattia, un danno, una calamità o la morte)

3. persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo al fatto che un evento spiacevole comporti separazione dai principali personaggi di attaccamento (per es. essere smarrito, essere rapito, avere un incidente, ammalarsi)

4. persistente riluttanza o rifiuto di uscire, per andare lontano da casa, di andare a scuola, al lavoro o altrove per la paura della separazione

5. persistente ed eccessiva paura o riluttanza a stare solo o senza i principali personaggi di attaccamento a casa, oppure di qualsiasi altro posto (situazioni)

6. persistente riluttanza o rifiuto di dormire fuori casa e di andare a dormire senza avere vicino uno dei personaggi principali di attaccamento.

7. ripetuti incubi sul tema della separazione

8. ripetute lamentele di sintomi fisici (es. mal di testa) quando avviene o è anticipata col pensiero la separazione dai principali personaggi di attaccamento

Rispetto al criterio B, relativo alla durata, si può fare diagnosi di Disturbo d’Ansia da Separazione nell’adulto se i suddetti sintomi sono presenti da almeno 6 mesi dall’esordio della sintomatologia.

L’epidemiologia di questo quadro clinico oscilla nella popolazione generale tra 0.9 e 1.9% negli adulti e si attesta intorno al 4% nei bambini (APA, 2013). Secondo uno studio australiano (Silove, 2010) il Disturbo d’Ansia da Separazione nell’adulto ha una prevalenza del 23% nella popolazione normale di riferimento. Nel Disturbo d’Ansia da Separazione nell’adulto troviamo un elevato pattern di comorbilità con gli altri Disturbi d’Ansia (Silove et al., 2010):

– Agorafobia e Disturbo di Panico (20.6%)

PTSD (23.7%)

Disturbo Bipolare (19.4%)

Depressione (40.8%)

L’esordio da ASAD precede quello del disturbo in comorbilità nel 75% dei casi. In merito alla diagnosi differenziale, mentre i soggetti con Disturbo Dipendente di Personalità (a causa della pervasiva tendenza a dipendere dagli altri) sviluppano ansia per paura di non essere in grado di far fronte ad un abbandono, i pazienti con ASAD fanno riferimento ad una serie limitata di preoccupazioni, relative alla sicurezza delle figure di riferimento ed al mantenimento di prossimità con esse.

La diagnosi differenziale con il Disturbo Borderline di Personalità evidenzia che, pur presentando paura dell’abbandono, in questa popolazione di pazienti troviamo una pervasiva instabilità dell’umore, delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé, nei comportamenti, marcata impulsività, sentimenti di rabbia e di vuoto che non si riscontrano nei soggetti con ASAD.

Ad oggi non sono disponibili in letteratura studi relativi al trattamento dell’ASAD, in quanto non abbiamo protocolli di intervento per questo disturbo. Grazie all’introduzione nel DSM V sarà possibile definire specifici interventi terapeutici per questo disturbo. Possiamo, infine, chiederci se esiste una relazione tra Disturbo d’Ansia da Separazione nell’adulto e stili di attaccamento ed, in merito a questo,  Silove e Mamane (2010) affermano che mentre ASAD è una categoria diagnostica, ovvero un costrutto nomotetico basato sulla coesistenza di sintomi operazionali, l’attaccamento ansioso è un costrutto idiografico il cui significato deriva dalla sua funzione esplicativa all’interno della teoria dell’attaccamento

Sull’attaccamento si sono sviluppati vari filoni di indagine come quello promosso dal Prof. Troisi su “Social Attachment and OPRM1 polymorphism: a translation approach”. Nello studio delle variabili che influenzano le risposte individuali agli oppiacei sono emerse evidenze che suggeriscono una interazione tra alcuni geni e diversi stili di attaccamento.

Dall’indagine sulla variabilità di risposta agli oppiacei si è giunti ad identificare degli specifici circuiti legati al piacere/rinforzo e al dolore. Entrambi questi circuiti vedono coinvolti gli oppiacei e si attivano rispettivamente a seguito di piacere o dolore fisico. Ma gli studiosi hanno riscontrato che questi sistemi vengono attivati anche da esperienze relazionali. Nello specifico il circuito del piacere si attiva anche quando avviene un atto di cooperazione sociale e quello del dolore in seguito ad un lutto o ad un rifiuto sociale. Lo studio di questo polimorfismo ha portato ad individuare particolari geni (A118G) che sembrano essere correlati con la predisposizione all’anedonia sociale. I risultati evidenziano che sia le precoci esperienze relazionali che le variabili genetiche giocano un ruolo fondamentale nella sensibilità al rifiuto sociale.

In questo senso Troisi et al. stanno portando avanti ricerche atte a indagare come le precoci cure del caregiver interagiscano sulle variabili genetiche nello sviluppo di tratti di personalità strettamente correlati alla sensibilità al rifiuto.

In conclusione, Troisi sottolinea come l’interazione tra variabili genetiche e ambiente dovrebbe essere intesa più come suscettibilità che come vulnerabilità. La suscettibilità, infatti, prende in considerazione sia la variabilità genetica che le precoci esperienze nella relazione di attaccamento.

A sintesi dei diversi interventi del simposio chiudiamo con la citazione di Thomas R. Insel (Director NIMH, USA): “We are, by nature, a highly affiliative species craving social contact. When social experience becomes a source of anxiety rather than a source of confort, we have lost something fundamental – whatever we call it”.

 

TUTTI I REPORTAGES DAL CONVEGNO SOPSI 2014

ARGOMENTI CORRELATI:

ANSIAATTACCAMENTO

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

AUTORE: 

Maria Sansone. Psicologa Psicoterapeuta – Scuola Cognitiva di Firenze

Identità virtuali influenzano il nostro comportamento nel mondo reale

 

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Un nuovo studio pubblicato su Psychological Science ha indagato in che modo le esperienze virtuali – come ad esempio impersonare un eroe o un personaggio maligno – possano influenzare i comportamenti delle persone nelle loro vite reali.

Il modo in cui rappresentiamo noi stessi nel mondo virtuale può influenzare i nostri comportamenti nel mondo reale. 

Gli ambienti virtuali consentono alle persone di assumere identità e in qualche misura fare esperienze – seppur virtuali- di situazioni di cui generalmente non avrebbero opportunità nella vita reale.

Un nuovo studio pubblicato su Psychological Science ha indagato in che modo le esperienze virtuali – quindi per esempio impersonare un eroe o un personaggio maligno – possano influenzare i comportamenti delle persone nelle loro vite reali.

I ricercatori hanno reclutato 194 soggetti che sono stati randomicamente assegnati a fare esperienza di gioco virtuale nei panni di Superman (l’avatar eroico), del mago Voldemort (l’avatar maligno) o di un avatar neutrale (un semplice cerchio).

L’esperienza di gioco identificandosi nell’avatar aveva una durata di cinque minuti in cui dovevano in tutte le condizioni combattere contro i nemici. In seguito, sono stati sottoposti a diverse esperienze gustative, provando salsa chili e cioccolata e chiedendo loro di preparare un piatto di uno  o l’altro ingrediente per un successivo partecipante allo studio.

Ebbene i risultati rivelano che i soggetti che avevano vissuto nei panni di superman per cinque minuti erano portati a elargire il doppio della cioccolata (fattore di rinforzo) rispetto ai soggetti che avevano impersonato Voldemort che invece tendenvano ad esagerare con la salsa chili (fattore punitivo).

Interessante è che questi effetti sarebbero indipendenti dal livello di identificazione con l’avatar percepito durante il gioco, e con scarsa consapevolezza degli effetti comportamentali di tali esperienze virtuali.

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PSICOLOGIA DEI NEW MEDIA – CYBERPSICOLOGIA

 

BBLIOGRAFIA:

 

Il Disturbo da stress post traumatico (PTSD) al Congresso SOPSI 2014 – Sessione Plenaria con C. Katona

Alice Visintin, Psichiatra Psicoterapeuta

 

 

SOPSI 2014

Report dalla sessione plenaria:

The Complexity of trauma and of responses to trauma

(C. Katona, UK)

18° Congresso SOPSI Torino 2014 - Sessione Plenaria C. Katona - TraumaL’ampio calderone denominato PTSD comprende al suo interno popolazioni di pazienti molto diverse tra loro e per le quali necessitiamo di diversi modelli terapeutici.

La terza giornata del 18o Congresso della SOPSI inizia con un piccolo ritardo per permettere a tutti di fornirsi di cuffie prima dell’intervento del Prof. Katona (non così necessarie, con il senno di poi, ché la chiara dizione ed il ritmo pacato hanno reso la presentazione molto fruibile anche in lingua originale) che ha toccato il tema estremamente interessante ed attuale della complessità del trauma e delle risposte al trauma.

Punto di partenza è l’esperienza clinica e di ricerca della Helen Bamber Foundation, London, UK  che opera nella cura delle vittime di violazioni dei diritti umani, di coloro che sono sopravvissuti a violenze ripetute ed inimmaginabili: vittime di tortura ma anche del traffico di esseri umani, di abusi domestici, di violenze basate sull’orientamento sessuale, e – forse la categoria che ci mette più in difficoltà – coloro che sono stati bambini soldato.

Come professionisti della salute mentale non possiamo ignorare che, nonostante l’abolizione della schiavitù, il traffico di esseri umani, tanto per lo sfruttamento sessuale quanto per nuove forme di lavoro forzato, è un’attualità.

Nel Regno Unito come in Italia giungono vittime di atti perpetrati spesso in altri paesi in cerca di protezione e molti fattori contribuiscono a perpetuarne la condizione di vittime: la separazione dal proprio paese e dalla famiglia, le incertezze dello status di immigrato, la povertà, la mancanza di una rete di supporto, lo scivolamento nell’uso di alcol o sostanze, possibili persecuzioni continue (da parte di agenti del paese di origine), e la difficoltà ad accedere a trattamenti e supporti di cui pure avrebbero diritto.

Nonostante la varietà di cause, sintetizza il prof. Katona, vi sono una serie di elementi comuni nella presentazione clinica dalla presenza in anamnesi di traumi ripetuti e difficili da comprendere per chi li subisce (con una complessità intrinseca che non troviamo nei traumi da incidente o da terremoto, ad esempio), alla vulnerabilità a subire nuovi ulteriori traumi e una sintomatologia che il professore chiama “PTSD +”: difficoltà a fidarsi (per violazioni ripetute della fiducia e/o per perdite ed abbandoni), perdita di agency, incapacità ad immaginare un futuro, condotte a rischio e frequenti sintomi somatici (sia come somatizzazioni sia per sequele di percosse ed altri traumi fisici).

Il modello di lavoro della Helen Bamberg Foundation – condiviso peraltro nelle sue linee essenziali da numerosi centri internazionali ed anche italiani per la cura dei richiedenti asilo, delle vittime di tortura e della tratta – segue un approccio integrato. Questo termine è sicuramente familiare a psichiatri, psicologi ed in genere operatori della salute mentale,  basti pensare alla complessità del trattamento della schizofrenia: psicofarmacoterapia, psicoterapia e psicoeducazione, social skill training e via dicendo.

Trattando delle vittime di traumi complessi il ventaglio di interventi, da individualizzare dopo un’attenta ricognizione dei bisogni della singola persona, presenta alcune particolarità: oltre ad approcci psicoterapici specifici, individuali e di gruppo, un ruolo importante è destinato alla cura del corpo da un lato ed alle attività creative non solo nelle valenze espressive ma come mezzo di riacquisizione di competenze sociali e relazionali e come supporto all’apprendimento linguistico.

Un punto cruciale è quello del supporto legale nelle pratiche di richiesta di protezione internazionale, ove il ruolo dei sanitari non è affatto secondario poiché la cultura del sospetto che permea il sistema dell’asilo si intreccia con la difficoltà delle vittime a raccontare la propria storia in un modo credibile, ostacolato sia da sentimenti di vergogna (in particolare per le vittime di abusi o sfruttamento sessuale) sia dalla stessa natura delle memorie traumatiche e da fenomeni dissociativi.

Purtroppo i limiti di tempo non hanno permesso di approfondire questo tema, di grande interesse tanto in ambito clinico quanto per la ricerca in neuroscienze ma il prof. Katona ha potuto offrirci qualche elemento in più rispetto al ruolo di diverse strutture cerebrali nella formazione delle memorie nelle vittime di traumi ripetuti: è stata rilevata un’attività ridotta a carico della regione ippocampale – coinvolta nell’attribuzione di contesto alle tracce mnesiche – a fronte di un’amigdala molto attiva – che provvede agli aspetti sensoriali, cognitivi, emozionali e fisiologici dei ricordi.

Quando una persona ha subito numerosi episodi traumatici, di cui ricorda in modo vivido ogni dettaglio sensoriale (“c’era una luce”, “mi hanno colpito alla schiena“) ma che non può efficacemente contestualizzare, non ci stupisce che abbia difficoltà nel ricostruire un preciso racconto cronologico.

Dopo una breve carrellata degli elementi correlabili al concetto di traumi complessi ripetuti nel DSM-4 (concetto di DESNOS e di cluster dei sintomi interpersonali) e nel ICD-10 (alterazioni permanenti di personalità nelle vittime di eventi catastrofici), abbiamo potuto sbirciare le novità del DSM-5, che aggiunge ai sintomi del PTSD le alterazioni negative cognitive e dell’umore e specifica un sottotipo “con sintomi dissociativi”, e delle proposte per l’ICD-11, che parla specificamente di Complex PTSD, recependo quindi nella terminologia il riferimento alla complessità, ma non menziona i sintomi dissociativi.

Sempre tra le proposte per l’ICD-11 si nota una maggior specificità nella definizione dei cluster sintomatologici, in particolare con riferimento ai temi della memoria: episodi ri-vissuti nel presente e non solo ricordati, evitamento di stimoli che potrebbero rievocare le memorie legate al trauma.

Per quanto riguarda il trattamento, un buon riferimento, evidence based, sono le Society for Traumatic Stress Studies Consensus Guidelines (2012), che indicano negli approcci combinati outcome migliori e individuano tre fasi comuni ai diversi modelli di intervento: stabilizzazione, rielaborazione del trauma, consolidamento dei risultati e integrazione. Tra i vari modelli di intervento la Narrative Exposure Therapy, applicata alla Helen Bamber Foundation, è stata validata.

Al termine di questa carrellata, sintetica ma molto chiara, il dibattito è stato brevissimo, più che altro per ragioni temporali poiché il tema in sé non avrebbe mancato di stimolare gli uditori. Si è accennato al problema della traumatizzazione vicaria degli operatori esposti ai racconti delle vittime ed alla supervisione e collaborazione in piccoli gruppi come strumenti utili alla prevenzione. Sollecitato sulla possibile applicazione dell’EMDR, il prof. Katona ha segnalato come gli esiti clinici con questa particolare popolazione di utenti siano stati deludenti e la pratica sia stata dismessa, seppur in mancanza di una vera e propria valutazione clinica.

Proprio a partire da quest’ultimo stimolo vorrei sottolineare come l’ampio calderone denominato PTSD comprenda al suo interno popolazioni di pazienti molto diverse tra loro e per le quali necessitiamo di diversi modelli terapeutici.

Il prof. Katona ci ha introdotti agli esiti di traumi ripetuti, intenzionali, perpetrati da esseri umani su altri esseri umani all’interno di contesti di violenza statale, bellica, di sistemi di sfruttamento paramafiosi, di rapporti di potere ineguali. Auspichiamo che questi temi possano essere oggetto di approfondimento nelle prossime edizioni del convegno SOPSI, anche in un’ottica multidisciplinare che permetta ai professionisti della salute mentale di confrontarsi sugli aspetti giuridici, antropologici e sociologici che intrecciano la pratica clinica.

 

TUTTI I REPORTAGES DAL CONVEGNO SOPSI 2014

ARGOMENTI CORRELATI: 

DISTURBO DA STRESS POST TRAUMATICO – PTSD – TRAUMA – ESPERIENZE TRAUMATICHE – ABUSI E MALTRATTAMENTI – VIOLENZA

The European Journal of Psychoanalysis – Presentation

Alvise Sforza Tarabochia 

 

European Journal of PsychoanalysisThe “European Journal of Psychoanalysis – New Series” continues the publication of its first and second editions. It was founded by Sergio Benvenuto in New York in 1995 with the title “Journal of European Psychoanalysis” (JEP).

On 2007 its name was changed in “JEP. European Journal of Psychoanalysis”. In 2013 the journal ‘rebooted’ with a new Editorial Board and a new logo as “EJΨ. European Journal of Psychoanalysis”. It is published both on line (by I.S.A.P.) and on paper (by Alpes).

When its first edition saw light in 1995, its main aim was to make available to an English-speaking audience Continental authors and papers writing in languages other than English. In fact, the privileged link psychoanalysis has to spoken languages does not facilitate communication among analysts and psychotherapists of different mother tongues. The European Journal of Psychoanalysis seeks to overcome these linguistic barriers.  It tries to introduce to the English reader to important European authors, as well as debates and trends within psychoanalysis and within other related fields (especially philosophy, literature, humanities and social sciences).  It will include also authors of, e.g., Latin American countries, whose paradigms are close to European “styles.”

The journal is not the official organ of any particular school. Material is be chosen solely in terms of quality, originality and relevance to international debates in psychotherapeutic and psychoanalytic fields.  Similarly, significant, hard-to-pigeonhole authors and works falling outside any particular trend will also be presented.

The European Journal of Psychoanalysis publishes not only translations, but also papers by English-speaking contributors whose works are close to European currents and “styles”. The European Journal of Psychoanalysis also includes philosophical, anthropological, literary and historical contributions.  Psychoanalysis has practical, ethical, and theoretical implications relevant not only to clinical practice, but also to politics and social policy, philosophy, cultural studies and the social sciences.  The journal provides an international forum for the exploration of the frontiers of psychoanalytic inquiry, giving voice to diverse perspectives, research, and clinical practice which link and transform its many partial understandings.

In the 32 issues of the first edition of our Journal, plus the 2 issues of the new edition of EJP, we have published articles by internationally recognized personalities such as G. Agamben, J. André, C. Bollas, N. Braunstein, C. Castoriadis, J. Cremerius, J. Derrida, F. Dolto, E. Fachinelli, A. Figà-Talmanca, S. Freud, R. Girard, A. Green, B. Grünberger, M. Henry, H. Kächele, O. Kernberg, J. Kristeva, P. Lacoue-Labarthe, J. Laplanche, D. Leader, S. Leclaire, J.-F. Lyotard, R. Major, I. Matte Blanco, V. Mazin, J.-L. Nancy, M. Perniola, T. Pievani, P. Roazen, R. Rorty, E. Roudinesco, J. Searle, M. Solms, F. Varela, G. Vattimo, S. Vegetti Finzi, J.-P. Vernant, P. L. Wachtel, Y. H. Yerushalmi, S. Žižek, etc.

 

ARGOMENTI CORRELATI: PSICOANALISI E TERAPIE PSICODINAMICHE  

VISITA IL SITO DELL’EUROPEAN JOURNAL OF PSYCHOANALYSIS

 

AUTHOR: 

Alvise Sforza Tarabochia Ph.D – Lecturer in Italian, University of Kent

Il Metacognitive Functions Screening Scale – MFSS-30 – Psicologia

Sebastiano Maurizio Alaimo

 

 

UN NUOVO STRUMENTO PER LO SCREENING DEL FUNZIONAMENTO METACOGNITIVO:

IL METACOGNITIVE FUNCTIONS SCREENING SCALE (MFSS-30)

 

 

Il Metacognitive functions screening scale - MFSS-30. -Immagine: © ArchMen - Fotolia.comL’attività diagnostica e clinica mi aveva suggerito l’importanza della costruzione di uno strumento self-report sulla metacognizione che non fosse eccessivamente lungo da somministrare e che fosse relativamente semplice da interpretare, senza comunque scotomizzare la complessità insita nel processo diagnostico.

La relazione è fondamentale. Siamo nodi di una rete, “dovunque c’è vita ci sono reti” (Casati, 1997). Le funzioni metacognitive, nel loro senso più esteso,  giocano un ruolo fondamentale nella vita dell’uomo (Baron-Cohen et al. 1985; Premack e Woodruff 1978; Bateman e Fonagy 2004; Brüne et al. 2007; Alaimo, 2004).

A prescindere dai modelli teorici di riferimento, è opinione condivisa di clinici e ricercatori che a “parità” di deficit o di tipologia di disturbo clinico, la capacità di “pensare il pensiero” e di modulare di conseguenza il comportamento può fare la differenza rispetto alla capacità di relazionarsi funzionalmente con gli altri, ma anche, sotto il versante clinico, nella capacità di accelerare e tesorizzare un “processo terapeutico” (Semerari et al., 2003; Cozolino 2010; Dimaggio e Lysaker 2011; Alaimo, 2012a; Schimmenti, 2012).

L’attività diagnostica e clinica che da diversi anni svolgo presso l’Istituto Scientifico di Psicologia Edgar Morin (ISPEM) di Caltanissetta mi aveva suggerito l’importanza della costruzione di uno strumento self-report sulla metacognizione che non fosse eccessivamente lungo da somministrare e che fosse relativamente semplice da interpretare (Alaimo 2012a, 2012b), senza comunque scotomizzare la complessità insita nel processo diagnostico (Scrimali, Alaimo, Grasso, 2007).

Giunsi intorno al 2006 ad una prima scala con 48 item, già dotata di una buona coerenza interna e definita Metacognitive Functions Screening Scale (MFSS). Dopo alcuni anni di lavoro sullo strumento, e dopo averlo testato più volte clinicamente presso l’ISPEM con esiti incoraggianti, ho proposto un attento studio al collega Adriano Schimmenti il quale ha effettuato ulteriori analisi statistiche sul test, per verificarne distribuzione dei punteggi agli item, consistenza interna, correlazioni tra item, correlazioni item-totale e possibili soluzioni fattoriali, giungendo, dopo circa due anni, alla versione definitiva costituita da 30 item.

La MFSS-30 è stata quindi somministrata, insieme ad altri strumenti self-report, a 335 soggetti non clinici, al fine di valutarne attendibilità e validità in questo gruppo. 

Dopo aver verificato l’adeguata consistenza interna della MFSS-30 (alpha di Cronbach=0,88), si è proceduto a verificare inoltre la presenza dei criteri minimi affinché l’analisi in componenti principali potesse produrre risultati interpretabili: sono stati utilizzati il test KMO di Kaiser-Meyer-Olkin per verificare la misura dell’adeguatezza campionaria, e il test di sfericità di Bartlett per verificare che la matrice di correlazione tra gli item non provenisse da una popolazione di variabili indipendenti.

Desiderabilmente, l’indice KMO è risultato piuttosto elevato (0,86), e il test di sfericità di Bartlett è risultato altamente significativo (chi-quadro=2447,75, gdl=435, p<0,0001). Per valutare il numero delle componenti sottostanti alle variabili osservate empiricamente è stato utilizzato lo scree plot di Cattell (1966).

Sono state quindi estratte 4 componenti. E’ stata successivamente effettuata un’analisi qualitativa degli item che saturavano su più componenti, ed è stato così possibile individuare quattro sottoscale teoricamente coerenti con i quattro macrofattori che la versione originale del test, a 48 item, desiderava esplorare.

Le 4 sottoscale sono state così denominate:

CRE – Capacità di riconoscere le emozioni (6 item) (alpha Cronbach di 0,79).

CRC – Capacità di cogliere relazioni causali (8 item) (alpha Cronbach di 0,71).

CDD – Capacità di decentramento (12 item) (alpha (Cronbach di 0,78).

CDP – Capacità di ponderazione (4 item) (alpha Cronbach di 0,70).

Naturalmente è ottenibile, ed è molto importante, anche un punteggio globale (alpha di Cronbach=0,88) che sintetizza il livello delle funzioni metacognitive esplorate.

È opportuno precisare che esistono già diversi studi condotti con la MFSS-30, sia presso l’ISPEM (ed in particolare all’interno delle attività svolte dall’Unità Clinica e di Ricerca per la Psicoterapia Cognitiva centrata sulla Implementazione delle Funzioni Metacognitive) sia presso altre strutture cliniche e di ricerca; presto verranno presentati i risultati di questi studi.

Studi che nella loro totalità, appaiono promettenti e incoraggianti per un utilizzo diffuso della MFSS-30 in ambito clinico e di ricerca, grazie anche alle sue qualità di rapidità di somministrazione, scoring e interpretazione.

ARGOMENTO CORRELATO:

METACOGNIZIONE

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Report: Giornate Seminariali Siciliane di Psicologia Clinica e Psicoterapia Cognitiva

 

METACOGNITIVE FUNCTIONS SCREENING SCALE – 30 ITEMS (MFSS-30): UN NUOVO

STRUMENTO PER LO SCREENING DEL FUNZIONAMENTO METACOGNITIVO

Sebastiano Maurizio Alaimo, Adriano Schimmenti

Istituto Scientifico di Psicologia “Edgar Morin” (ISPEM), Caltanissetta;

Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Cognitiva “Aleteia”, Enna.

Facoltà di Scienze Umane e Sociali, UKE – Università degli Sudi di Enna “Kore”;

Società Italiana di Psicodiagnostica Clinica (SIPDC).

Abstract

METACOGNITIVE FUNCTIONS SCREENING SCALE – 30 ITEMS (MFSS-30):

A NEW MEASURE FOR THE SCREENING OF METACOGNITIVE FUNCTIONING

Key words: metacognition, theory of mind, alexithymia, validity, reliability

Metacognitive functions allow individuals to regulate affects and behaviors. These functions include the abilities of representing emotions and mental events, attributing mental states to oneself and to other persons, and predicting behaviors on the basis of mental representations. This article presents the Metacognitive Functions Screening Scale – 30 items (MFSS-30), a new self-report measure for the screening of metacognitive functioning. The MFSS-30 was administered together with other self-report measures investigating specific aspects of metacognitive functioning to 335 non-clinical participants (47.5% males) ages 18 to 60 . The psychometric properties of the scale were analyzed according to classical test theory. The MFSS-30 demostrated good internal consistency (Cronbach’s alpha=.88) and test-retest stability (r=.82), a four-factor structure consistent with the investigated construct, and good characteristics of convergent validity demonstrated by its association with measures assessing specific aspects of metacognitive functioning. Discussion: In several psychiatric disorders, metacognitive functions are more or less damaged. The psychometric characteristics of the MFSS-30 suggest that this measure can be useful as a screening tool for these functions. Cooncusions: The assessment of metacognitive functions through the MFSS-30 can be useful in the diagnostic frame, as well as in the process of planning a psychotherapy capable to take into account specific deficits or problems in the individual’s metacognitive functioning. The MFSS-30 and its scoring criteria are presented in appendix to the article.

 

BIBLIOGRAFIA:

  • Alaimo,SM, Schimmenti,S., METACOGNITIVE FUNCTIONS SCREENING SCALE – 30 ITEMS (MFSS-30): A NEW MEASURE FOR THE SCREENING OF METACOGNITIVE FUNCTIONING(ACQUISTA IL PDF)
  • Alaimo SM (2004). Le storie della mente. Edizioni ISPEM, Caltanissetta.
  • Alaimo SM (2012a). La valutazione dei processi metacognitivi ed attentivi nei disturbi di personalità. Relazione al Convegno Internazionale Volcanic Mind, Acitrezza (CT), 23 giugno 2012 [Audioregistrazione].
  • Alaimo SM (2012b). Disturbi di personalità e psicoterapia: prime evidenze dell’utilizzo di una batteria di test per l’assessment del funzionamento metacognitivo e del deficit attentivo. Relazione al Congresso nazionale SITCC, Roma, 5 ottobre 2012. [Audioregistrazione].
  • Baron-Cohen S, Leslie A, Frith U (1985). Does the autistic child have a Theory of Mind?
  • Cognition 21, 37-46.
  • Bateman AW, Fonagy P (2004). Psychotherapy of Borderline Personality Disorder: mentalisation based treatment. Oxford University Press, Oxford. Tr. it. Il trattamento basato sulla mentalizzazione: psicoterapia con il paziente borderline. Raffaello Cortina, Milano 2006.
  • Brüne M, Abdel-Hamid M, Lehmkämper C, Sontag C (2007). Mental state attribution, neurocognitive functioning, and psychopathology: What predicts poor social competence in schizophrenia best? Schizophrenia Research 92, 151-159.
  • Cattell RB (1966). The scree test for the number of factors. Multivariate Behavioral Research 1, 245-76.
  • Cozolino L (2010). The neuroscience of psychotherapy: Healing the social brain. WW Norton, New York.
  • Dimaggio G, Lysaker PH (2011). Metacognizione e psicopatologia, Valutazione e trattamento. Raffaello Cortina, Milano.
  • Premack D, Woodruff G (1978). Does the chimpanzee have a Theory of mind? Behavioral and Brain Sciences 4, 515-526.
  • Schimmenti A (2012). Unveiling the hidden self: developmental trauma and pathological shame. Psychodynamic Practice 18, 181-194.
  • Scrimali T, Alaimo SM, Grasso F. (2007). Dal sintomo ai processi, l’orientamento costruttivista e complesso in psicodiagnostica. Edizioni Franco Angeli, Milano.
  • Semerari A, Carcione A, Dimaggio G, Falcone M, Nicolò G, Procacci M, Alleva G (2003). How to evaluate metacognitive functioning in psychotherapy? The Metacognition Assessment Scale and its applications. Clinical Psychology and Psychotherapy 10, 238-261.

 

Il materialismo e il benessere soggettivo: cambiamenti correlati

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Il benessere delle persone aumenta in misura direttamente proporzionale alla riduzione della rilevanza attribuita a valori e obiettivi materialisti; viceversa, l’orientamento verso obiettivi maggiormente materialistici sarebbe associato a un decremento del benessere nel corso del periodo preso in considerazione. 

Il denaro non fa la felicità. E’ proprio cosi? Il vecchio detto recita di consueto… ma i soldi aiutano a vivere meglio.

Su un piano teorico, con materialismo identifichiamo la credenza per cui rispetto ad altri obiettivi, sia più importante dare la priorità nei propri scopi a guadagnare denaro e beni materiali (Kasser 2002; Richins and Dawson 1992).

Finora ancora pochi studi si sono addentrati nella questione se e come il materialismo possa essere associato al benessere in particolare progettando disegni sperimentali e studi longitudinali.

Il giornale scientifico Motivation and Emotion dedica spazio a un interessante studio che ha preso in considerazione come i cambiamenti nei livelli di materialismo delle persone siano correlati a cambiamenti nel loro benessere soggettivo (Diener 1984) a distanza di 6 mesi, 2 anni e 12 anni.

I risultati dei tre studi sono concordi tra loro nel supportare l’ipotesi che il benessere delle persone aumenta in misura direttamente proporzionale alla riduzione della rilevanza attribuita a valori e obiettivi materialisti; viceversa, l’orientamento verso obiettivi maggiormente materialistici sarebbe associato a un decremento del benessere nel corso del periodo preso in considerazione.

Dal punto di vista sperimentale, una quarta ricerca riportata nel contributo appare di interesse a ulteriore supporto dei dati sopra descritti.

Un gruppo di adolescenti americani con elevati livelli di materialismo è stato sottoposto a un intervento di gruppo finalizzato alla riduzione delle aspirazioni e doverizzazioni materialistiche. In conseguenza dell’intervento si è registrato un aumento nei livelli di autostima mantenutosi nei mesi successivi rispetto a un gruppo di controllo.

La prova empirica che imparare a rispettare le proprie priorità e ristrutturare le proprie doverizzazioni – anche in termini materialistici- può favorire il benessere soggettivo.

ARGOMENTI CORRELATI:

PSICOPATOLOGIA DELLA VITA QUOTIDIANA SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

SCOPI ESISTENZIALI – PSICOLOGIA POSITIVA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Frontiere della Psicoanalisi – Limite e Caos – Milano Febbraio-Maggio 2014

Centro Milanese di Psicoanalisi Cesare Musatti – Società Psicoanalitica Italiana
PRESENTANO:

Frontiere della Psicoanalisi

LIMITE E CAOS

Milano 10 Febbraio – 27 Maggio 2014

In molti settori della nostra società (economico, politico, giuridico, scientifico, culturale) si avverte il bisogno di introdurre un limite, di ristabilire una qualche forma di ordine, di fronte ad una realtà che appare sempre più caotica e confusa.

Intendiamo quest’anno esplorare il concetto di “limite”, liberandolo dalla connotazione esclusivamente negativa di frustrazione depressiva e sottolineandone invece il valore di organizzatore e generatore di pensiero.

 

ARGOMENTI CORRELATI: 

PSICOANALISI

TUTTI GLI EVENTI DEL CALENDARIO DI STATE OF MIND

Il tempo che ci rimane. Di Elia Suleiman (2009) – Psicologia Film Festival – PFF

 

5° PSICOLOGIA FILM FESTIVAL – PFF

Presenta: 

IL TEMPO CHE CI RIMANE

Di Elia Suleiman (2009)

Presenta Sami Hallac, Presidente del Comitato di solidarietà con il popolo palestinese – Torino

comunicato il tempo che ci rimane il tempo che ci rimane faceb

 

Il Collettivo di Psicologia, in collaborazione con le Officine Corsare, presenta il

6° Appuntamento del Psicologia Film Festival

Giovedì 27 Febbraio ore 21,30

presso “Sala Poli – Centro Sereno Regis, via Garibaldi 13 – Torino”

con la proiezione del film

Il TEMPO CHE CI RIMANE

di Elia Suleiman (2009)

presenta il film Sami Hallac

Ingresso ad offerta liberta

Il Film

Di fronte ad una casa c’è un enorme carro armato; un ragazzo esce per buttare la spazzatura. Il cannone lo segue in tutti i suoi minimi spostamenti; il ragazzo fa finta di nulla e risponde come se niente fosse al cellulare. Una riflessione in quattro parti sulla storia degli arabi palestinesi a partire dal 1948, anno della proclamazione dello Stato di Israele, sino ad oggi. Viene raccontata attraverso episodi comici o tragici della vita di tutti i giorni ed è ispirata ai racconti del padre del regista, alle lettere della madre e ai ricordi del regista stesso. È il ritratto di un popolo che ormai convive con l’orrore, ma che va avanti con la propria quotidianità.  “Il tempo che ci rimane” è folgorante fin dall’incipit, un claustrofobico viaggio in taxi nella Terra Santa sotto un diluvio biblico e nell’accecante oscurità della notte, con il protagonista che fa capolino,  mentre il conducente ebreo testimonia (anche) il proprio disorientamento nei confronti di un paese divenuto irriconoscibile. La pellicola si riavvolge poi nel tempo, soffermandosi su quattro date dal 1948 ad oggi cui corrispondono quattro episodi significativi della vita pubblica dei Territori e privata dei personaggi. Per tutto il film, c’è il coraggio di una partigianeria schietta, che ancor più dei grandi crimini dello Stato ebraico ne stigmatizza le piccole, continue provocazioni quotidiane che logorano i palestinesi fino a indurli alla follia o al pensiero del suicidio. Il tempo che ci rimane trasforma la frustrazione e la rabbia in un discorso cinematografico.

 

Il regista

Elia Suleiman Nasce il 28 luglio 1960 a Nazaret da una famiglia palestinese di fede cristiana. Terminati gli studi, dal 1982 al 1993 vive e lavora a New York, dove gira Homage by Assassination, dura e lucida critica alla Guerra del Golfo. Nel 1996 gira il suo primo lungometraggio, Cronaca di una sparizione, che ottiene il Premio per la miglior Opera Prima alla Mostra internazionale d’arte cinematografica di Venezia. Il grande successo arriva nel 2002 con Intervento divino da lui scritto, diretto ed interpretato, che narra una storia d’amore ambientata al checkpoint tra Nazaret e Ramallah. Il film fa incetta di premi, fra cui il  Gran Premio della Giuria a Cannes.

 

Sami Hallac

Presidente del “Comitato di solidarietà con il popolo palestinese – Torino”. Palestinese di Gerusalemme Est, lavora come educatore per il comune di Torino.

 

Vi aspettiamo numerosi

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RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

 

Piano del sogno, Pt. 1 – Il sogno come desiderio sommo della nostra umana esistenza.

E chissà quanti ne hai visti e quanti ne vedrai di giocatori
che non hanno vinto mai
ed hanno appeso le scarpe a qualche tipo di muro
e adesso ridono dentro a un bar,
e sono innamorati da dieci anni
con una donna che non hanno amato mai.
Chissà quanti ne hai veduti, chissà quanti ne vedrai.  

Francesco De Gregori, La leva calcistica della classe ‘68

 

PIANO DEL SOGNO PT.1

Piano del sogno. - Immagine: ©-Andrii-Salivon-Fotolia.comÈ quantomeno curioso l’uso del termine e l’analogia tra l’esperienza onirica notturna e l’ideale desiderato. Qui vorrei occuparmi della seconda veste: il sogno come desiderio sommo della nostra umana esistenza.

Uno degli aspetti caratteristici della mente umana è la possibilità di prefigurarsi i sogni personali e la passione con la quale si cerca di realizzarli.

È quantomeno curioso l’uso del termine e l’analogia tra l’esperienza onirica notturna e l’ideale desiderato. Qui vorrei occuparmi della seconda veste: il sogno come desiderio sommo della nostra umana esistenza. Sin da piccini è culturalmente e socialmente trasmessa l’importanza di avere un sogno nel cassetto. Non solo. La società moderna induce la necessità di coltivare i sogni sotto l’egida del pensiero positivo.

Una vasta corrente di filosofi, motivatori e psicologi urlano l’importanza dei desideri personali, di rimanervi attaccati innanzi alle difficoltà, perseguirli senza timori con strenuo sforzo e imperituro sacrificio. I giovani navigano nei sogni e consumano sforzi (propri e dei familiari) per cercare di realizzarli. Ora più che in passato la macchina del commercio cavalca l’onda dei sogni, nei talent show, nella facilità di accesso a una vetrina telematica, attraverso l’autopromozione condivisa dei social network.

Questo movimento possiede un valore sociale, aumenta non solo l’introito economico ma amplifica anche lo spettro di opportunità e anche di illusioni. Il messaggio educativo è centrato sul sogno. Senza sogni, siamo solo uomini (come se esserlo fosse obiettivo da poco). Senza sogni siamo solo mediocri (come se fosse un male o si possa effettivamente essere qualcosa di diverso).

D’accordo, rallento con il cinismo, che dietro al cinismo si sa, v’è sempre un romantico frustrato. Iniziamo con sottolineare la forza motivante del sogno ideale. La vetta della montagna ha una sua funzione, ci permette di sostenere ostacoli per una gratificazione lontana nel tempo. Offre energia, motivazione ed entusiasmo, passione motoria e concentrazione mentale, esperienze ottimali di flow, vale a dire un completo assorbimento nel viaggio che si sta percorrendo.

E questo di per sé rende felici. E spesso aiuta. Molti personaggi famosi che arricchiscono le copertine patinate di altrettanto famose biografie espongono in bella mostra l’attaccamento ai propri sogni. Mi chiedo quanto sia vasta la parte cieca: quelli che non hanno raggiunto la riva. Di loro poco si conosce. Erano davvero meno attaccati ai sogni, meno fortunati, meno talentuosi. Conosciamo bene coloro che sono stati premiati dal sogno, ma quanti ne vengono bruciati, questo ci è più oscuro. Tuttavia qualche riflessione è lecito farla attorno a questo elogio del sogno, o meglio dell’avere sogni. In particolare può valer la pena chiedersi quando e quanto il sogno ci costringa entro una gabbia.

Il sogno è una spinta motivante verso il raggiungimento dei propri scopi. Ma cosa succede quando l’attaccamento al sogno e alla ricompensa dei propri sforzi diventa rigido e inflessibile? Un sogno è rigido quando non si modula sulla base delle risposte che la realtà offre, anzi si cristallizza. La realtà bastona e la risposta alle bastonate è la chiusura e l’incremento del proprio investimento, ad oltranza. Forse è proprio in questo passo che il sogno diventa una vulnerabilità alla sofferenza psicologica.

Primo, la chiusura nel sogno allontana i dati di realtà fin quasi a non considerarli.

Garantisce di vivere entro i confini della propria mente idilliaca e rassicurante, con l’occhio puntato sempre e solo sulla vetta. Ciò che dicono gli altri e le risposte della realtà divengono meno influenti, talvolta inutili, all’estremo fastidiosi. Le reazioni ad esse si fanno prima evitanti, poi rabbiose e sprezzanti nei confronti di chi o cosa prova ad abbassare il nostro sguardo. Lo sguardo altrove riduce la capacità di adattarsi a ciò che ci circonda, quei maledetti o noiosi cinque centimetri davanti ai piedi.

Secondo: restare a lungo nel desiderio e nel suo perseguimento sostiene il diritto a vederlo realizzato.

Tra le leggi naturali vediamo scritto che a impegno corrisponde successo e se il nostro impegno è smisurato allora lo è il credito che ci è dovuto e conseguentemente il senso di ingiustizia del vederlo insoluto, e infine la rabbia.

E come terzo viene il costo. Sì perché quei cinque centimetri davanti ai piedi che abbiamo smesso di osservare potrebbero essere ricchi e benedetti.

Talvolta vi crescono i piccoli piaceri quotidiani, le esperienze di pace, di condivisione e affetto con gli altri. Gridava Al Pacino in Any Given Sunday “i centimetri sono intorno a noi”, distanti dalla vetta ma a portata della nostra mano. Si tratta del lato brillante della tanto osteggiata mediocrità, quella che il sogno può impedirci di gustare.

E infine la pratica: il lato concreto della semplice sopravvivenza che forse è paradossalmente anche la via migliore per avvicinarsi alla vetta.

D’altronde guardare la vetta non è il miglior modo per vedere come raggiungerla.

Insomma, la testa può stare ogni tanto tra le nuvole, ma l’attenzione è bene che sia anche ai piedi, piantati per terra, al fine di scegliere intanto il prossimo passo.

 

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I disturbi dissociativi della coscienza (2013) di Giuseppe Miti – Psicologia

Paola Castelli Gattinara

 

 

I disturbi dissociativi della coscienza

 Giuseppe Miti (2013). Carocci, Roma

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I disturbi dissociativi della coscienza di Giuseppe Miti. -Immagine: copertina

I disturbi dissociativi della coscienza – Miti ci introduce, partendo dall’idea di coscienza come un’entità non unitaria ma come una pluralità organizzata di stati di coscienza, alle due principali ipotesi che sono state utilizzate per descrivere i fenomeni di dissociazione: quella del Continuum e quella del Detachment e compartmentalization. 

Il libro di Giuseppe Miti ci propone uno dei temi più complessi e affascinanti della psicopatologia contemporanea: la dissociazione. La sua è una proposta sulla dissociazione rigorosa nell’analisi dei fondamenti scientifici, della descrizione nosografica e clinica ma, nello stesso tempo, anche una proposta storica e culturale che questo fenomeno ha assunto in epoche diverse.

L’esperienza del “dolore estremo”, così come la definisce nell’introduzione Giovanni Liotti, uno dei maggiori studiosi dei disturbi dissociativi, è declinata lungo diverse prospettive: quella relativa al suo inquadramento diagnostico, agli aspetti neurofisiologici che la sottendono, alle diverse modalità di cura e infine alla forma metaforica che ha assunto nel passato in diversi ambiti: religioso, filosofico, politico e antropologico.

Nella prima parte vengono definiti i concetti di dissociazione e coscienza, unitamente all’ampio dibattito e alle diverse concezioni proposte dagli studiosi per spiegare le variegate forme dissociative presenti nei pazienti.

Miti ci introduce, partendo dall’idea di coscienza come un’entità non unitaria ma come una pluralità organizzata di stati di coscienza, alle due principali ipotesi che sono state utilizzate per descrivere i fenomeni di dissociazione: quella del Continuum e quella del Detachment e compartmentalization.  Entrambe queste ipotesi, pur implicando meccanismi sottostanti differenti, cercano di rendere conto della natura del rapporto fra trauma, memoria e dissociazione. 

Dal 1980 in poi, il rinnovato interesse clinico per la patologia post-traumatica ha portato a sottolineare il legame fra trauma e dissociazione, sviluppando moltissimo la ricerca in questo ambito.

La dissociazione, infatti, viene strettamente collegata al trauma, inteso come l’impossibilità per il soggetto di organizzare psicologicamente l’esperienza che si trova a vivere.

Questa esperienza inelaborabile rimane pertanto dissociata e si manifesta attraverso le vie espressive del corpo e della disregolazione affettiva.

Il progredire degli studi sull’attaccamento e in particolare sull’attaccamento disorganizzato, unitamente all’accento posto da molti studiosi sulla natura relazionale della coscienza, permettono all’Autore di introdurci all’importanza della storia di sviluppo quale variabile in gioco nel determinare un particolare predisposizione a produrre esperienze dissociative di fronte ad episodi traumatici.

Nella seconda parte, dopo aver descritto le problematiche connesse all’inquadramento nosografico dei sintomi dissociativi in ambito psichiatrico, Miti passa ad affrontare il tema della memoria prendendo in esame anche lo spinoso problema dei falsi ricordi che ha suscitato, negli anni ’90, un ampio dibattito critico negli Stati Uniti. In particolare l’Autore ci offre una utile panoramica delle ricerche sperimentali mirate a definire dei criteri che possano indicare il grado di attendibilità delle memorie ricostruite.

La complessità del trattamento dei fenomeni dissociativi, dove sono implicati disturbi della memoria, è ben illustrata dall’Autore che, riportando le parole dei suoi pazienti, afferma: “la cosa più drammatica che hanno vissuto non è il dramma di per sé (gli eventi traumatici), ma le conseguenze che ne sono scaturite, cioè l’esperienza stessa della dissociazione della coscienza. L’assoluta impossibilità di dare senso agli avvenimenti….la percezione di non potersi fidare neppure dei propri ricordi e delle proprie percezioni”.

Ne consegue necessariamente un approccio clinico articolato, orientato per fasi, che tenga conto del corpo e dell’esperienza fisica come luogo privilegiato d’intervento. Il corpo, infatti, è la sede del ricordo traumatico, il quale rimane attivo anche in contesti non pericolosi e questo è il motivo per cui sono necessarie tecniche e strategie fondate sul non verbale. Tecniche che risultano essere particolarmente utili nei disturbi dissociativi gravi in quanto sono in grado di produrre un cambiamento senso-motorio.

Nell’illustrare brevemente queste strategie cliniche buttom up, che mettono da parte il racconto e partono dal corpo per integrare solo in seguito i contenuti mentali, Miti propone un’interessante spiegazione del loro funzionamento utilizzando il modello neurofisiologico della gerarchia polivagale proposto da Porges. 

L’ultima parte del libro tratta il tema della dissociazione da un’angolatura particolare. Giuseppe Miti, sulle orme di Janet che nel 1929 tenne delle Lezioni al College de France proprio su Le Possessioni e sullo Spiritismo quali forme della disaggregazione psicologica, traccia una storia, lunga 500 anni, di come il fenomeno dissociativo fu usato dalla Sacra Inquisizione come forma di repressione e di controllo sociale.

E’ la storia di uno dei periodi più bui della Chiesa Cattolica, che mostra come il fantasma del diavolo o dei demoni si riveli una realtà da esorcizzare e combattere “quando il male s’incorpora nel corpo della persona”. La possessione incarnata stravolge completamente la personalità tanto che una persona diventa un’altra, ed è talmente incomprensibile e destabilizzante perché, questa altra personalità, si presenta quasi sempre nelle sembianze di un maligno o di una strega.

La possessione, di là dell’interpretazione religiosa, che tuttavia è durata fino al 2000, quando Papa Giovanni Paolo II ha ammesso gli errori della Chiesa, è oggi riconosciuta dalla comunità scientifica come un disturbo dissociativo strutturale.

Un traguardo che ha una sua storia nella psichiatria che parte dalle teorie di Mesmer di metà ‘800 sul ruolo sociale che queste manifestazioni ricoprivano, passando poi per la psichiatria fenomenologica di Jaspers del primo ‘900, fino alle attuali teorie corroborate dalla ricerca scientifica.

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Aspetti neuropsicologici nell’Anoressia Nervosa e correlazioni con fattori ansiosi

Matteo Aloi.

 

 

Aspetti neuropsicologici nell’Anoressia Nervosa e 

correlazioni con fattori ansiosi

 

 

 

Aspetti neuropsicologici dell'anoressia nervosa. - Immagine: © Kzenon - Fotolia.comAnoressia Nervosa: l’interesse delle scienze neuropsicologiche per i Disturbi del Comportamento Alimentare (DCA) appare evidente dal gran numero di studi pubblicati nell’ultimo decennio. (Roberts et al., 2007; Abbate Daga et al., 2011; Stedal et al., 2012).

Avere l’opportunità di individuare le caratteristiche neuropsicologiche che caratterizzano in maniera significativa i pazienti affetti da DCA può essere senz’altro interessante e utile sia dal punto di vista nosografico che dal punto di vista clinico-terapeutico.

Particolarmente interessante per l’Anoressia Nervosa sembra essere la rigidità cognitiva che risulta essere misurabile tramite test neuropsicologici. La scarsa flessibilità cognitiva sembra essere ereditaria, stato-indipendente e collegata ai fattori causali del disturbo, e considerata da molti recenti studi un buon candidato come endofenotipo per l’AN (Bulik et al., 2007).

La rigidità cognitiva potrebbe essere una caratteristica neuropsicologica presente prima dell’insorgenza del disturbo che però fa si che il sintomo alimentare si radichi nella paziente e sia difficilmente modificabile, anche a causa della messa in atto di comportamenti restrittivi con conseguente denutrizione che rende la paziente più rigida e la porterà ad incontrare sempre maggiori resistenze per intraprendere un percorso terapeutico. Oltre alla rigidità cognitiva, in letteratura sta emergendo anche come le pazienti con Anoressia Nervosa sembrano avere deficit nei compiti di Decision Making e scarsi indici di Coerenza Centrale.

Appare evidente che l’individuazione di endofenotipi per i DCA potrebbe portare ad una nuova classificazione di essi secondo appunto i tratti endofenotipici che li caratterizzano e si aprirebbero le strade per nuove e più specifiche tecniche terapeutiche che mirino proprio al cambiamento dei tratti endofenotipici. Si ipotizza infatti che i modelli endofenotipici di malattia possano aiutare la comprensione dell’eziologia e l’inquadramento diagnostico di complesse alterazioni della fisiologia psichica.

Il presente studio è stato svolto su un campione di 52 soggetti affetti da Anoressia Nervosa e 51 soggetti di controllo. Tutti i soggetti partecipanti sono stati valutati con test neuropsicologici sulla flessibilità cognitiva quali il Wisconsin Card Sorting Test (WCST), il Trail Making Test (TMT) e l’Hayling Sentence Completion Task, sul Decision Making quale l’Iowa Gambling Task (IGT) e sulla Coerenza Centrale quale la Rey-Osterrieth Complex Figure Test (RCFT). Sono stati somministrati anche test autovalutativi quali: l’Eating Disorders Inventory-2 (EDI-2), il Beck Depression Inventory (BDI), il Temperament and Character Inventory (TCI), la Toronto Alexithymia Scale-20 (TAS-20), il Metacognition Questionnaire-30 (MCQ-30) e la Intolerance of Uncertainty Scale (IUS)

L’ipotesi è quella di confermare il deficit neuropsicologico in termini di rigidità cognitiva, di deficit nel Decision Making e di ridotta Coerenza Centrale nelle pazienti con Anoressia Nervosa. La conferma della rigidità cognitiva come deficit neuropsicologico delle pazienti con Anoressia Nervosa avvalorerebbe l’utilità di terapie innovative mirate al miglioramento neuropsicologico, come la Cognitive Remediation Therapy (Tchanturia et al., 2005; 2006; 2007; Abbate Daga et al., 2012). Il miglioramento neuropsicologico potrebbe portare ad un miglioramento nella sintomatologia e consentirebbe alle pazienti di affrontare un percorso psicoterapeutico di crescita individuale con maggiori risorse.

Infine, per la prima volta in letteratura, si valuterà se e quanto le capacità metacognitive valutate con il Metacognition Questionnaire-30 (MCQ-30), l’intolleranza dell’incertezza valutata con la Intolerance of Uncertainty Scale (IUS) e gli stati emotivi valutati con la Toronto Alexithymia Scale-20 (TAS-20) influiscano sulla performance neuropsicologica delle pazienti con Anoressia Nervosa.

 

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L’AUTORE:   Dott. Matteo Aloi.
Questo articolo è direttamente estratto dalla tesi di laurea magistrale. Corso di Laurea in Scienze della Mente del Dipartimento di Psicologia dell’Università di Torino. La tesi è una tesi sperimentale condotta presso il Centro Pilota Regionale per la Diagnosi, la Cura e lo Studio dei Disturbi del Comportamento Alimentare di Torino diretto dal Prof. Secondo Fassino. La suddetta tesi è stata discussa in data 8 luglio 2013. La votazione finale è stata di 110/110 con lode e menzione speciale.

Questo articolo ha partecipato al Premio State of Mind 2013 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia, Sezione Junior.

 

L’ossessione per l’ordine nell’arte di Ursus Wehrli

 

 

L’artista e attore comico Ursus Wehrli  è l’autore di Tidying Up Art: l’arte di mettere in ordine.

Nella sua visione estetica, l’arte e il circostante necessitano di una buona risistemata: quello di cui c’è bisogno è di una forma d’arte contemporanea più pulita, razionale e organizzata!
Questa brillante provocazione artistica non può che farci sorridere e ci chiediamo: fino a che punto l’artista svizzero impersona uno stereotipo e in che misura è veramente preda di questa ossessione?
Ancora, possiamo ridurre e assimilare questa “arte del mettere in ordine” alle tante estetizzazioni pop delle piccole ossessioni quotidiane e del disturbo ossessivo-compulsivo (OCD)?

GUARDA LA CONFERENZA TED TALK DI URSUS WEHRLI

 L’arte di mettere in ordine di Ursus Wehrli:

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TED Conference: Ursus Wehrli riordina l’arte

FONTE: TED.COM RIPRODOTTO SU LICENZA CREATIVE COMMONS 3.0 – AUTORE: URSUS WEHRLI

ARTEINSTALLAZIONI & PERFORMANCES – OSSESSIONIDISTURBO OSSESSIVO COMPULSIVO

Trascrizione:

Tradotto in italiano da Lela Selmo  •  Revisione di Maria Gitto

Mi chiamo Ursus Wehrli, e vorrei parlarvi, questa mattina, del mio progetto, Tidying Up Art (Riordinando l’Arte). Prima di tutto – qualche domanda fin’ora? Prima di tutto, devo dirvi che non sono di queste parti. Vengo da un’ area culturalmente completamente diversa, forse l’avrete notato? Voglio dire, primo, indosso una cravatta. E secondo, sono un po’ nervoso perché sto parlando in una lingua straniera, e voglio scusarmi in anticipo per ogni errore che potrò commettere, perchè sono svizzero, e spero che non pensiate che la lingua che sto parlando sia lo svizzero tedesco. E’ solo come suona quando noi svizzeri cerchiamo di parlare americano. Ma non preoccupatevi – non ho problemi con l’inglese in sé. Voglio dire, non è un mio problema, è la vostra lingua dopo tutto. (Risate) Io sono a posto. Dopo questa presentazione qui al TED posso semplicemente tornare in Svizzera, siete voi a dover continuare a parlare così. (Risate)

Mi è stato chiesto dagli organizzatori di leggere dal mio libro. Si chiama, Tidying Up Art (L’arte a soqquadro n.d.t.) e, come potete vedere, è più o meno un libro illustrato. Quindi la lettura finirebbe ben presto. Ma visto che sono qui al TED, ho deciso di tenere la mia presentazione in una maniera più moderna, nello spirito del TED, e mi sono organizzato con alcune diapositive per voi. Vorrei mostrarle in giro, così che possiamo, sapete… (Risate) Di fatto, ho preparato per voi degli ingrandimenti – anche meglio.

Quindi Tidying Up Art, intendo, devo dire, che è un termine relativamente nuovo. Non vi sarà familiare. Intendo dire, è un hobby al quale mi sono dedicato negli ultimi anni, e tutto è cominciato con quest’opera dell’artista americano, Donald Baechler che avevo appesa a casa mia. Dovevo guardarla ogni giorno e dopo un po’ non sono più riuscito a sopportare il disordine che questo tizio doveva guardare tutto il giorno. Sì, mi sentivo un po’ dispiaciuto per lui. E mi sembrava che persino lui si stesse davvero male costretto a guardare questi quadrati rossi disorganizzati, giorno dopo giorno. Quindi ho deciso di dargli un piccolo aiuto, e ho riportato un po’ di ordine impilando i blocchi uno sull’altro. (Risate) Sì. E penso che ora sembri un po’ meno scontento. Ed è stata una cosa meravigliosa. Con questa esperienza ho cominciato a guardare con più attenzione all’arte moderna. E mi sono reso conto che, sapete, il mondo dell’arte moderna è particolarmente sotto sopra.

E posso mostrarvi un ottimo esempio. E’ di fatto un esempio semplice, ma è un buon inizio. E’ un’opera di Paul Klee. E possiamo vedere chiaramente come sia una confusione di colore. (Risate) Sì. L’artista sembra non sapere davvero dove mettere i diversi colori. Le varie immagini qui, dei vari elementi dell’immagine — l’intera opera manca di struttura. Non possiamo saperlo, forse il signor Klee, era probabilmente in ritardo. Voglio dire… (Risate) …forse doveva prendere un aereo o qualcosa del genere. Possiamo vedere qui che aveva cominciato con l’arancio e qui l’aveva già finito, e qui possiamo vedere che aveva deciso di fare una pausa per un quadrato. E vorrei mostrarvi la mia versione ordinata di questo quadro. (Risate) Possiamo vedere ora quello che si poteva a malapena riconoscere nell’originale: 17 quadrati rossi e arancio sono giustapposti a 2 quadrati verdi. Sì, è incredibile. Voglio dire, questa è roba per principianti. Vorrei mostrarvi un lavoro un po’ più avanzato. (Risate)

Cosa possiamo dire? Che casino. Intendo dire, vedete, tutto sembra essere stato sparso alla rinfusa nello spazio. Se la mia camera a casa dei miei fosse stata così, mia madre mi avrebbe messo in castigo per tre giorni. Quindi vorrei… vorrei reintrodurre un po’ di struttura in questo quadro. E questo è riordinare ad uno stato avanzato. (Applauso) Avete ragione. A volte la gente applaude a questo punto ma di solito succede in Svizzera. (Risate) Noi svizzeri siamo famosi per il cioccolato e il formaggio. I nostri treni sono in orario. Siamo contenti solo quando le cose sono in ordine.

Ma per andare avanti, questo è un buon esempio da vedere. Questo è un quadro di Joan Mirò. E sì, possiamo vedere che l’artista ha disegnato un po’ di linee e forme e le ha lasciate cadere in qualche modo su uno sfondo giallo. E’ il tipo di cose che si producono quando si scarabocchia al telefono. (Risate) E questo è mio… (Risate) …potete vedere che ora l’intera cosa occupa molto meno spazio. E’ più economico e più efficiente. Con questo medoto il signor Mirò avrebbe potuto risparmiare tele per un altro quadro.

Ma posso vedere dalle vostre facce che siete ancora un po’ scettici. Affinché possiate capire quanto sono serio su questo argomento, ho portato i brevetti, le specifiche di alcuni di questi lavori, perché ho fatto brevettare i miei metodi al Eidgenössische Amt für Geistiges Eigentum a Berna, Svizzera. (Risate) Riporto dalle specifiche. “Laut den Kunstprüfer Dr. Albrecht –” non è ancora finito. “Laut den Kunstprüfer Dr. Albrecht Götz von Ohlenhuse wird die Verfahrensweise rechtlich geschützt welche die Kunst durch spezifisch aufgeräumte Regelmässigkeiten des allgemeinen Formenschatzes neue Wirkungen zu erzielen möglich wird.”

Sì, avrei potuto tradurre, ma non ci avreste capito niente in ogni caso. Neanche io sono sicuro di cosa voglia dire ma suona bene. Ho capito di recente che è importante il modo in cui uno introduce nuove idee al pubblico, ecco perché i brevetti a volte sono necessari. Vorrei fare un breve test con voi. Siete tutti seduti in maniera ordinata questa mattina. Quindi vorrei chiedere a tutti voi di alzare la mano destra. Sì così. La mano destra è quella con la quale scriviamo, eccetto che per i mancini. Ed ora, conterò fino a tre. Voglio dire, siete ancora belli ordinati. Ora, conterò fino a tre, e al tre vorrei che diate la mano alla persona dietro di voi. OK? Uno, due, tre. (Risate)

Vedete ora, ecco un buon esempio di come comportarsi in maniera ordinata, sistematica possa portare a volte, al caos completo. Questo lo possiamo vedere molto chiaramente nel prossimo dipinto. Questo è un dipinto dell’artista, Niki de Saint Phalle. E voglio dire, nell’originale è praticamente impossibile vedere cosa questi triangoli e colori e forme dovrebbero rappresentare. Ma nella versione ordinata, è evidente che è una signora scottata dal sole che gioca a pallavolo. (Risate) Sì, è una… questa qui, è molto meglio. Questa è un’opera di Keith Haring. (Risate) Credo non importi. Voglio dire, questo quadro non ha nemmeno un titolo. Si chiama “Senza Titolo” e penso che sia appropriato.

Quindi, nella versione ordinata abbiamo una specie di negozio di pezzi di ricambio di Keith Haring. (Risate) Così è come guardare Keith Haring statisticamente. Qui si può vedere chiaramente, che ci sono 25 elementi verde chiaro, dei quali uno a forma di cerchio. O qui, per esempio, abbiamo 27 quadrati rosa e una sola curva rosa. Voglio dire, è interessante. Uno potrebbe estendere questo tipo di analisi statistica per coprire tutti i lavori del signor Haring. Così, per vedere in quale periodo l’artista preferiva cerchi verdini o quadrati rosa. E l’artista stesso potrebbe trarre beneficio da questo tipo di procedura usandola per prevedere di quante latte di vernice avrà probabilmente bisogno in futuro. (Risate)

Uno può anche ovviamente fare delle combinazioni. Per esempio, i cerchi di Keith Haring e i punti di Kandinsky. Li puoi aggiungere a tutti i quadrati di Paul Klee. Alla fine, uno ha una lista con la quale creare composizioni. Poi le puoi categorizzare, archiviare, e metterle in un catalogatore, metterlo in ufficio e portare a casa il pane con questo lavoro. (Risate) Certo! Esperienza personale. Quindi, io… (Risate) Di fatto, abbiamo anche artisti che lavorano con un po’ più di struttura. Non è male. Questo è Jasper Johns. Possiamo vedere che qui si esercitava con il suo righello. (Risate)

Ma penso che possa comunque migliorare con un po’ più di disciplina. E penso che il tutto funzioni meglio se facciamo così. (Risate) E qui, questo è uno dei miei preferiti. Riassettare Rene Magritte, questo è davvero divertente. Sapete, c’è… (Risate) mi è stato chiesto cosa mi ha inspirato ad iniziare questo progetto. Dobbiamo andare indietro ad un tempo quando stavo spesso in hotel. Una volta ho avuto l’occasione di soggiornare in un hotel “ritzy” a 5-stelle . E sapete, c’era uno di questi cartellini — Tutte le mattine mettevo fuori dalla porta questo cartello che diceva: “Per cortesia, riordinate la stanza.” Non so se li avete da queste parti. Quindi, la mia stanza non veniva ripulita una volta giorno, bensì tre. Quindi dopo un po’ decisi di divertirmi un pochino, e prima di lasciare la stanza ogni giorno sparpagliavo un po’ di cose qua e là. Libri, vestiti, spazzolini, eccetera. Ed era grandioso. Quanto tornavo tutto era stato precisamente rimesso al proprio posto. Ma una mattina, appesi lo stesso cartellino al quadro di Vincent van Gogh. (Risate) E dovete concedermi che questa stanza non è mai stata rifatta dal 1888. E quando tornai era così. (Risate) Sì, per lo meno ora è possibile passare l’aspirapolvere. (Risate)

Ok, voglio dire, vedo che ci sono sempre persone alle quali piace contestare che quella o quell’altra immagine non è stata riordinata adeguatamente. Quindi, vorrei fare un piccolo test con voi. Questo è un quadro di Rene Magritte, e vorrei che tra di voi — nella vostra testa, intendo — lo riordinaste. E’ possibile che alcuni di voi la immaginino così. (Risate) Sì? Io preferirei farlo in questo modo. Alcuni ne farebbero una torta di mele. Ma è un ottimo esempio per vedere che l’intero lavoro è stato più che altro un lavoro manuale che ha preso parecchio tempo, per tagliare tutti i vari elementi e riattaccarli in nuove configurazioni. E non è stato fatto con il computer, come molti immaginano, altrimenti sarebbe così (Risate)

Fin’ora ho avuto l’occasione di riordinare immagini che avrei voluto ripulire da parecchio tempo. Qui c’è un ottimo esempio. Prendete Jackson Pollock, per esempio. E’ — oh no, è — è uno difficile davvero. Ma dopo un po’, ho deciso di andare fino in fondo e di rimettere tutta la vernice nelle lattine. (Applauso) Oppure potreste dedicarvi all’arte tridimensionale. Qui abbiamo la Fur Cup di Meret Oppenheim. Qui l’ho riportato al suo stadio originale. (Risate) Ma sì, è fantastico, e potete persino, sapete — O abbiamo il movimento puntinista, per quelli tra di voi che non se ne intendono d’arte. Il movimento puntinista è quel tipo di pittura dove tutto è ridotto a puntini e pixel E allora, io — questo tipo di cose sono l’ideale per riordinare. (Risate)

Quindi, mi sono dedicato al lavoro dell’ inventore di questo metodo, Georges Seurat, e ho collezionato tutti i suoi puntini. Ed ora sono tutti qui. (Risate) Potete contarli dopo, se volete. Vedete, questa è la cosa straordinaria di questa idea del riordinare: E’ nuova. Non esistono tradizioni. Non ci sono manuali, voglio dire, non ancora, almeno. Voglio dire, è il “futuro che creeremo”. (Risate) Ma per concludere vorrei mostrarvene solo un altro. Questo è La piazza del villaggio di Pieter Bruegel. Questo è quello che si vede quando mandate tutti a casa. (Risate) Sì, forse vi starete chiedendo dov’è finita la gente di Bruegel il Vecchio? Ovviamente, non sono scomparsi. Sono tutti qui. (Risate) Ne ho fatto una bella catasta. (Risate)

Quindi… di fatto per il momento ho finito. E per quelli che vogliono vedere altro, c’è il mio libro nella libreria sotto. E sono felice di firmarvelo con il nome di qualsiasi artista. (Risate) Ma prima di andare vorrei mostrarvi, che sto lavorando ad un altro — in un campo affine con il mio metodo per riordinare l’arte. Sto lavorando in un campo affine. E ho iniziato a portare un po’ di ordine nelle bandiere. Qui — questa è la mia proposta per la Union Jack. (Risate) E ancora, prima di lasciarvi… sì, credo, dopo che avete visto questa dovrò andare via comunque. (Risate) Qesta è stata dura. Non riuscivo a trovare il modo di riordinarla adeguatamente, quindi ho deciso di semplificarla un po’. (Risate) Molte grazie. (Applauso)

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La psicologia positiva è utile per contrastare il tabagismo

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Alcuni esercizi di psicologia positiva sono efficaci per supportare le tecniche e i trattamenti per contrastare il tabagismo.

Un gruppo di ricercatori americani ha studiato gli effetti dell’applicazione della psicologia positiva (Positive Psychology) nei cambiamenti delle cosiddette cattive abitudini. La psicologia positiva è conosciuta dei tecnici del mestiere come area di interesse in cui i processi psicologici non sono studiati a partire dalla psicolopatologia ma dalle aree di funzionamento sano ed efficace.

In particolare, nel caso della cessazione della dipendenza da nicotina i ricercatori si sono focalizzati sulla promozione di emozioni positive e di umore positivo potenziandone l’espressione e l’esperienza soggetiva stessa.

Nello studio preliminare sono stai reclutati 19 fumatori con bassi livelli di affettività positiva (positive affect, PA) ed elevati livelli di affettività negativa (fattori predittivi di bassi tassi di astinenza tra i fumatori in trattamento) che erano a rischio di drop del trattamento anti-tabagismo che consisteva in sei sedute di counseling e 8 incontri di terapia sostitutiva della nicotina. Il campione è stato diviso in tre sottogruppi a uno dei quali sono stati proposti – accanto a strategie standard di cessazione di smoking – anche esercizi di psicologia positiva finalizzati ad aumentare le emozioni positive e relativi correlati cognitivi e comportamentali.

I risultati rivelano che circa un terzo dei partecipanti hanno mantenuto l’astinenza dal fumo per i successivi sei mesi, a differenza di coloro che sottoposti a trattamento standard per cui la percentuale di efficacia è di circa un terzo.

Dunque la psicologia positiva può costituire un’utile integrazione ai tradizionali protocolli di trattamento, da testare su campioni più ampi e consolidarne l’efficacia evidence-based. La capacità di spostarsi da una fase di pre-contemplazione e contemplazione a fasi di cambiamento per ridurre e cessare l’abitudine al fumo è in parte dipendente dagli aspetti motivazionali e da un ruolo che l’affettività positiva può giocare nel favorire questi aspetti. 

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