L’attaccamento come organizzatore di psicopatologia nel corso della vita
All’interno della relazione terapeutica, attraverso un lavoro profondo, il paziente può riuscire sicuramente a prendere consapevolezza del proprio funzionamento ed a comprendere che ci sono modalità che si porta dentro da sempre e che applica alle proprie relazioni attuali.
Simposio moderato dalla Prof.Marazziti, che da anni presso la Clinica Psichiatrica dell’Università di Pisa conduce ricerche sull’attaccamento e sulla neurobiologia dello stesso, in particolare sull’attaccamento romantico.
Apre il simposio il Dott. Francesco Albanese, Psicologo Clinico e Psicoterapeuta dell’Università di Firenze, con l’intervento “I modelli operativi nelle relazioni di attaccamento”: l’attaccamento è una dimensione psicologica la cui prima definizione risale a Bowlby (1968) che integrò il modello psicoanalitico classico con osservazioni comportamentali di stampo etologico, con particolare attenzione alla relazione madre-cucciolo.
Lo stile di attaccamento di un individuo dipende dal modo in cui viene trattato dal caregiver (Bowlby, 1988) e su queste interazioni si struttura uno dei quattro stili attualmente riconosciuti: sicuro, insicuro ansioso resistente, insicuro evitante, disorientato disorganizzato.
Nella specie umana il punto essenziale dell’attaccamento è che tale sistema ci spinge ad una sorta di relazione: è un processo sociale che parte dalla relazione emozionale, ossia entra in campo quando siamo in una sfera emotiva e ci fa cercare “protezione-aiuto” quando siamo in difficoltà, condizione essenziale e strategica per la sopravvivenza e lo sviluppo della vita.
Liotti inserisce poi l’attaccamento tra i Sistemi Motivazionali Interpersonali (MOI) di base (2001): il sistema dell’attaccamento, con il complementare sistema dell’accudimento entra in attivazione per assicurare il recupero della vicinanza della figura di attaccamento (FdA).
Bowlby scriveva che “il comportamento di attaccamento caratterizza l’essere umano dalla culla alla tomba” (1979), ovvero tende a rimanere stabile nel tempo; diversi autori, nella letteratura più recente, hanno cercato di utilizzare i modelli teorici per applicare il legame madre-bambino a tutte le relazioni affettive dell’esperienza.
Il relatore sottolinea come lo stile dei primi rapporti di attaccamento possa influenzare l’organizzazione precoce della personalità: si tratta di una “rappresentazione di sé-con l’altro”, ci parla dunque di una relazione, e si organizza all’interno dei MOI, ossia di vere e proprie “griglie di lettura del mondo”.
“Comportamenti differenti sono all’origine dei diversi modelli operativi interni (Bowlby, 1988), strutture mentali che includono configurazioni spaziali, temporali e causali e che contribuiscono ad anticipare il comportamento e le risposte dell’altro. I MOI relativi al sé e all’altro, strutturati come relazioni a carattere prevalentemente emozionale, sono riattivati in età adulta nelle relazioni a contenuto altamente emozionale” (Albanese,2009).
Secondo il modello delle R.I.G. ossia Rappresentazioni di Interazioni che sono state Generalizzate (Sterne, 1985) le singole esperienze, derivanti dalla memoria episodica e semantica, vengono poi combinate in rete e si viene a costituire precocemente una “neuroanatomia” dei MOI.
Nei primi mesi di vita si assiste ad una crescita dei dendriti della corteccia orbito-frontale (Schore, 1994) e si stabiliscono connessioni con l’area limbica (emotiva); le ripetute esperienze emotive connesse alla relazione di attaccamento determinano la costituzione di una nuova struttura anatomica orbito-frontale (sede dei MOI). Il Dott. Albanese richiama poi l’attenzione dei presenti sui quattro stili di attaccamento del Modello di Bartholomew & Horowitz (1991) derivanti dalla combinazione del Modello di sé (Dipendenza) e del Modello dell’altro (Evitamento).
Possiamo classificare tre relazioni fondamentali di Attaccamento:
1. La Relazione Parentale: è una relazione complementare nella quale la figura di attaccamento (FdA) è generalmente la madre;
2. La Relazione tra Partners: è una relazione di tipo simmetrico nella quale entrambe le figure cercano attaccamento e danno accudimento (FdA: partner). In tale relazione si riattivano i MOI.
3. La Relazione Terapeutica: è una relazione di tipo complementare in cui la FdA è il terapeuta; anche in tale relazione si riattivano i MOI. Il quesito importante è: “i Modelli Operativi Interni possono cambiare in età adulta?” Ed in particolare all’interno di un lavoro di psicoterapia?
Il dott. Albanese conclude il suo intervento sottolineando che all’interno della relazione terapeutica, attraverso un lavoro profondo, il paziente può riuscire sicuramente a prendere consapevolezza del proprio funzionamento ed a comprendere che ci sono modalità che si porta dentro da sempre e che applica alle proprie relazioni attuali.
Prosegue il simposio la prof. Marazziti presentando la relazione “Stile di Attaccamento e Psicopatologia”.
L’attaccamento romantico è un legame sociale, indica lo stabilirsi della relazione emozionale tra due partners che nasce in relazione alla necessità di tenere unita la coppia genitoriale finchè i cuccioli non sono in grado di sopravvivere da soli.
“Il partner è implicitamente investito del ruolo di figura di attaccamento, ma allo stesso tempo risulta essere un partner sessuale, verso il quale la richiesta di disponibilità equivale ad una richiesta di esclusività. La paura della perdita di questa esclusività è all’origine della gelosia romantica. Il sistema-gelosia ed il sistema attaccamento si possono dunque considerare come finalizzati al mantenimento del legame” (Albanese, 2009). La diversa combinazione di due componenti continue chiamate “ansietà” ed “evitamento”, dà origine ai quattro stili di attaccamento romantico adulto: sicuro, preoccupato, distanziante, timoroso-evitante (Brennan et al., 1998).
La Prof. Marazziti illustra lo studio che indaga, in un campione di pazienti ambulatoriali in cura presso la clinica di Pisa, le possibili relazioni tra dimensione categoriale psicopatologica (diagnosticata con la SCID-IV, First et al., 1997) e l’attaccamento romantico, rilevato con la versione italiana dell’ ECR (Brennan et al., 1998). Le correlazioni emergenti confermano che ogni categoria diagnostica è caratterizzata da uno stile romantico; in particolare lo stile preoccupato era più frequente nei disturbi bipolari.
Mantenendo il filo conduttore dell’attaccamento romantico arriviamo all’intervento del Prof. Volterra “Attaccamento e stalking” tema purtroppo di notevole interesse attuale sia psicopatologico che sociale che giudiziario. Lo stalking si colloca nell’ambito della dimensione umana e psicologica dell’attaccamento in una prospettiva però di maladattamento e disadattamento. Il relatore descrive le caratteristiche e le conseguenze dello stalking, i fattori di rischio e l’escalation dissociale della gelosia; in particolare viene illustrata la recente legge sullo stalking (Legge del 15 ottobre 2013 n.119).
Conclude la sessione il Dott. Mario Campanella, giornalista, con l’intervento “Dall’abuso alla psicopatologia nel bambino-adolescente” proiettando alla platea i dati inquietanti raccolti dalle Associazioni Arcobaleno, Telefono Azzurro e Mater Onlus:
Ogni anno circa 50.000 minori infraquattordicenni vengono molestati o violentati in Italia.
Il 90% subisce molestie di vario tipo (comprese le molestie attraverso il cyberweb).
Il 60% delle molestie si svolgono all’interno delle famiglie; l’estrazione sociale del fenomeno è prevalentemente medio-bassa con una percentuale stimata di quasi 1/5 relativa a ceti socio-culturali alti.
A fronte di tali proprorzioni del fenomeno nel 2011 le denunce presentate negli uffici giudiziari sono state 550 e nel 2012 circa 580 (solo l’1%)!!
L’ amore paziente di Anne Tyler (2003) – Recensione
L’ amore paziente di Anne Tyler
Guanda 2003
Amare è proprio una parola sconosciuta per i personaggi di questo libro: per i due protagonisti Jeremy, narcisista mascherato da agorafobico e Mary, “madre per sempre“, così accudente e così pronta alla fuga per sfinimento.
Questa volta vorrei cominciare dal titolo in inglese – Celestial navigation – tradotto, chissà perchè, in italiano con – L’amore paziente.
Ecco, questo libro racconta di altro non di amore, direi piuttosto che racconta, in modo davvero esauriente, di dipendenza, di necessità dell’altro dettata da ostinati e antichi bisogni che nulla hanno a che fare con la realtà, di legami, insomma e non di relazioni.
Amare è proprio una parola sconosciuta per i personaggi di questo libro: per i due protagonisti Jeremy, narcisista mascherato da agorafobico e Mary, “madre per sempre“, così accudente e così pronta alla fuga per sfinimento.
E anche per i personaggi secondari, gli ospiti della casa di Jeremy trasformata in pensione, tante solitudini e tanti fragili rapporti con la realtà, chi per vecchiaia, chi per abitudine, chi per paura di vivere.
Siamo a Baltimora, Jeremy ha trentotto anni quando muore la madre, con cui ha vissuto fino a quel momento in una relazione simbiotica esclusiva ed escludente.
Lui è un’artista di discreto successo, che vive chiuso nella propria casa-pensione a creare sculture in totale solitudine, sommerso e governato da numerosi e più o meno inconsapevoli sintomi di varia entità: agorafobia, paura della gente, del contatto, paura di uscire di casa e altro.
Domina su tutto l’estraneità a ciò che gli capita intorno, come se la realtà fosse rarefatta e incomprensibile, in modo particolare il rapporto con gli altri; privo delle minime competenze sociali e con una theory of mind piuttosto povera Jeremy si guarda appena intorno, stupito e rattrappito nel suo mondo interiore che è soprattutto silenzio.
Chi legge, a questo punto, si chiede come farà a sopravvivere uno così senza la madre a fargli da baluardo.
Ed ecco che arriva Mary, scappata dal marito e con una figlia piccola, alla ricerca di una camera da affittare.
Molto rapidamente tra i due inizia una relazione, pare quasi che Jeremy possa finalmente curare il suo autistico mondo interiore con l’innamoramento per questa giovane donna.
Non si sposano, fanno finta di essere marito e moglie e mettono al mondo, in rapida successione, cinque figli.
Mary l’accudente trova finalmente la sua ragione d’essere, nell’occuparsi dei piccoli, della gestione pratica della casa e di questo strano marito che si dimentica di finire le frasi mentre sta parlando perchè si perde nei suoi pensieri e nei suoi silenzi.
Mary ha bisogno che altri siano dipendenti da lei, è “dipendente dalle dipendenze“, desidera che i suoi comportamenti siano regolatori ed equilibranti per gli altri più che per se stessa, in fondo lei cos’ altro è se non una in grado di prendersi cura?
Ma la corda è troppo tirata, piccole delusioni scalfiscono la certezza di Mary di essere il centro della casa, in fondo Jeremy non è uno che vuol farsi accudire, vuole solo essere lasciato in pace nella sua solitudine colorata di fantasie e ossessioni, dove gli altri proprio non esistono, nemmeno i figli (che lo chiamano per nome proprio e non con la parola papà o padre); Mary l’accudente diventa fuggitiva, prende figli e bagagli e se ne va.
Non è questa la fine della storia, ci sarà altro: bellissimo uno dei capitoli finali dove Jeremy, affronta una miriade di preoccupazioni ansiose che lo collocano almeno in tre o quattro quadri psicopatologici differenti ( utile per noi clinici per confermare, se mai ce ne fosse bisogno, quanto è difficile fare diagnosi). Sovraccarico di paure, debolezza e sensazione di estraneità, per la prima volta nella vita attraversa tutta la città per andare a trovare Mary e i bambini, con esiti davvero originali e inaspettati.
La copertina del TIME del 3 febbraio è, come molti già sanno, stata dedicata alla mindfulness. Ad essere più precisi, alla Mindfulness Revolution che sta ormai da anni “colpendo” gli USA.
L’autrice, Kate Pickert, racconta in primis la sua esperienza come partecipante ad un gruppo MBSR svolto a Chelsea (Manhattan) a New York.
Un aspetto che viene sottolineato molto bene dalla giornalista è che intendere la mindfulness solo come una “moda del momento” per acquietare la mente non sia il modo migliore per approcciarsi a questa forma di meditazione, che trae le proprie origini nelle antiche tradizioni del Buddhismo Theravada. Riprendendo le parole della Pickert: “If distraction is the pre-eminent condition of our age, then mindfulness, in the eyes of its enthusiasts, is the most logical response”.
Tanto logico, a quanto pare, che un report del 2007 della NIH (National Institutes of Health), dichiara che gli americani hanno speso circa 4$ bilioni in medicine alternative legate alla meditazione e alla mindfulness. Questo è un dato molto interessante per almeno due motivi, a mio parere.
Il primo, riguarda il fatto che la mindfulness sta veramente portando una “rivoluzione” che chiederà ai clinici della nostra generazione di fare i conti con la nostra “scienza” e a “allargare la prospettiva”, recuperando anche ciò che di prezioso esiste all’interno delle tradizioni orientali (Gunaratana, 1995).
Il secondo, invece, è un aspetto legato ai lati oscuri delle moda. La pratica di mindfulness è “una cosa seria”, non ha molto di mistico, richiede grande pazienza, costanza, autodisciplina e disponibilità a mantenere una pratica costante, giorno dopo giorno, anno dopo anno. Chi propone questo tipo di “intervento” dovrebbe avere alle spalle una grande esperienza personale di pratica, poiché, come viene scritto nei libri “tecnici” di mindfulness, “le abilità di conduzione di un gruppo mindfulness provengono e vengono sviluppate e affinate dalla pratica personale”. La mindfulness non è una tecnica che si può imparare facendo shopping di libri e avendo sottomano le istruzioni delle varie pratiche previste all’interno del protocollo MBSR.
E’ vero che questo tipo di controllo su “chi offre cosa” è davvero impensabile.
L’articolo del TIME continua con una breve rassegna dell’impatto che la pratica di mindfulness sta avendo nella cultura e nell’ambito lavorativo statunitense. Riprendo solo alcuni dei dati forniti dalla giornalista del TIME.
Il gigante bancario Chase, propone ai suoi clienti pacchetti per “spend mindfully”, Negli USA, il Institute of Mindful Leadership “(…) explores mindful leadership training as a way to strengthen and cultivate four hallmarks of leadership excellence-focus, clarity, creativity and compassion”. Libri di self-help come il recente “Finding the Space to Lead: A Practical Guide to Mindful Leadership” non si riescono più a contare.
Negli ultimi anni, la Silicon Valley è diventato uno dei luoghi più affollati di training mindfulness. Come alcuni di voi sapranno, dal 2007 in quella zona high-tech del mondo viene organizzata una tappa della famosa conferenza per leader della tecnologia Wisdom 2.0 che ha come tagline “living with awareness, wisdom and compassion”. Nel 2007 ha accolto 235 partecipanti, nel 2014 ne aspettano circa 2000. Per citare solo alcuni dei grandi leader partecipanti a questa assemblea: Facebook, Twitter e Instagram.
Nel frattempo, un ingegnere di Google ha creato il programma Search Inside Yourself, un corso di sette settimane che viene offerto ai dipendenti di Moutain View quattro volte l’anno.
Per ultimo, Tim Ryan, membro della Camera dei Rappresentanti per lo Stato dell’Ohio è diventato una star all’interno dei sostenitori della mindfulness, da quando ha riservato $1 milione di grant federale per insegnare la mindfulness nelle scuole del suo Distretto.
Insomma, ormai la mindfulness in USA è entrata a far parte del mainstream. Resta ancora da comprendere quanto questa impressionante diffusione della mindfulness sia la moda del momento o se sia davvero portata avanti da persone preparate, qualificate e soprattutto che stabiliscono ogni giorno l’intenzione di praticare e di procedere nel proprio percorso personale di pratica di meditazione.
A quanto pare, questo è un vicolo da cui non possiamo uscire se non con l’onestà professionale e la preparazione.
Gli effetti benefici dovuti alla pratica di mindfulness si fanno vedere da soli alle persone che decidono di prendere la pratica di meditazione con valore, rispetto e disponibilità e costanza.
Concludo con le ultime righe dell’articolo del TIME.
“In the months since, I haven’t meditated much, yet the course has had a small–but profound–impact on my life. I’ve started wearing a watch, which has cut in half the number of times a day I look at my iPhone and risk getting sucked into checking email or the web. When I’m at a restaurant and a dining companion gets up to take a call or use the bathroom, I now resist the urge to read the news or check Facebook on my phone. Instead, I usually just sit and watch the people around me. And when I walk outside, I find myself smelling the air and listening to the soundtrack of the city. The notes and rhythms were always there, of course. But these days they seem richer and more important”.
(traduzione: nei mesi successivi (alla mia partecipazione al training MBSR, ndT), non ho praticato molto, ma il corso ha avuto un piccolo – ma profondo – impatto sulla mia vita. Ho iniziato a mettermi l’orologio, che ha dimezzato il tempo di ogni giornata che passo a guardare il mio iPhone e rischiando di rimanere incastrata nel controllare le email e il web. (…) quando sono al ristorante e il mio commensale di alza per rispondere al telefono o per andare in bagno, adesso resisto all’impulso di leggere le news o di guardare Facebook sul mio telefono. Invece, rimango seduta e noto le persone intorno a me. E quando cammino, I ritrovo a annusare l’aria e ad ascoltare la “colonna sonora” della città. Le annotazioni, le cose da fare e i ritmi giornalieri, sono sempre là, ovviamente, ma queste giornate a me sembrano più ricche e importanti. )
Questa tesi di Dottorato ha vinto la IX Edizione del Premio “Maria Baiocchi”, promosso, in collaborazione con il Dipartimento di Psicologia dei Processi di Sviluppo e Socializzazione dell’Università di Roma “Sapienza”, dall’associazione Di’Gay Project, dedicato alle migliori tesi di laurea e di dottorato di ricerca sui temi dell’orientamento sessuale e dell’identità di genere.
SOPSI 2014 – Lo Stigma percepito sui disturbi mentali gravi – Poster Session
Impulsività e procrastinazione fanno parte della stessa famiglia? – Psicologia
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Impulsività e procrastinazione fanno parte della stessa famiglia?
Il gruppo di ricercatori del dott Daniel Gustavson del’università del Colorado hanno approfondito l’argomento.
Per quel che riguarda l’impulsività la spiegazione del perché la si possiede è semplice, gli uomini primitivi ne avevano bisogno per fronteggiare situazioni difficili in poco tempo, quindi è funzionale alla specie.
Ma la procrastinazione invece? Quella capacità del “rimandare a domani quello che potresti fare oggi”, non è funzionale alla specie come mai si è tramandata fino ad oggi? Secondo gli autori probabilmente questi due fattori sono collegati anche alla mancanza di previsione, o all’incapacità di mettere delle priorità.
Ma come mai si posseggono capacità cosi opposte e come mai si tramandano di generazione in generazione capacità disfunzionali?
Gli autori hanno quindi approfondito l’argomento, andando appunto ad analizzare la parte ereditaria e genetica di queste capacità, e hanno pubblicato la loro risposta su Psychological Science.
In the modern world, long-term goals are far more important than immediate survival needs, yet our impulsive tendencies remain firmly ingrained. We keep getting distracted by immediate temptations, with the result that we fail to attend to other, more meaningful goals. In short, we procrastinate, and not only that, we evolved to be procrastinators.
Why would those who intentionally but irrationally put things off, who don\’t seem pressured by time — why would these same people also tend to make rash decisions, without thought or planning? Procrastination and impulsivity are the odd couple of th… (…)
Uzun et al. (2020) hanno indagato la relazione tra autocontrollo e procrastinazione in ambito accademico, considerando l’autostima come possibile mediatrice
La qualità del sonno potrebbe essere una variabile che influenza la procrastinazione dei lavoratori. Tale relazione risulta però mediata dall'autocontrollo
A differenza della procrastinazione, la precrastinazione consiste nel completare le attività il prima possibile anche se questo richiede uno sforzo maggiore
Un nuovo studio si è posto l’obiettivo di comprendere perché alcuni di noi cedono alla procrastinazione rispetto ad altri: vi è una componente genetica?
Una persona che procrastina mette in atto una forma di evitamento che gli permette di non entrare in contatto con le proprie insicurezze, paure e limiti
Nuove ricerche suggeriscono che procrastinare è un modo per gestire stress e ansia: l'intervento terapeutico va focalizzato sulle emozioni del paziente.
Lo studio mostra che abbiamo più possibilità di rimandare un compito se questo ci sembra parte del futuro rispetto a quando lo percepiamo parte del presente
Impulsività e Procrastinazione sono due tratti che convivono nel nostro percorso evolutivo, da cosa dipendono le capacità di scelta e previsione? Psicologia
Lo spessore della sostanza grigia nelle regioni temporali e prefrontali, strutture cerebrali in cui sono localizzate le funzioni linguistiche e altre funzioni di ordine superiore come il self-control e il problem-solving, sarebbe il candidato più promettente per il mappaggio genetico, sulla base sia delle forti basi genetiche che dell’associazione con il disturbo.
Il disturbo bipolareha una diffusione dell’1-2% ed è caratterizzato da variazioni importanti e inusuali sia dell’umore che delle energie che interferiscono con la vita quotidiana e sono altamente invalidanti. Coloro che hanno questo disturbo esperiscono infatti livelli estremamente elevati, caratterizzati da iperattività, insonnia, condotte pericolose, che si alternano a livelli estremamente bassi, in cui non hanno le energie per uscire dal letto.
La ricerca delle basi genetiche del disturbo bipolare ha portato alla scoperta del coinvolgimento di svariati geni, che interagiscono tra loro in modo complesso, ma non è ancora stato compreso quali siano i geni direttamente responsabili e con quale meccanismo portino alla patologia.
A questo scopo i ricercatori dell’UCLA hanno tentato un nuovo approccio: invece di utilizzare soltanto le interviste cliniche standardizzate per verificare se i pazienti raggiungano i criteri per la diagnosi clinica del disturbo bipolare, hanno combinato i risultati di neuroimaging, valutazione cognitiva e una serie di misure del temperamento e del comportamento. Mediante questo metodo hanno identificato circa 50 cervelli e misure comportamentali che sono controllate geneticamente e si associano al disturbo bipolare.
Per questo studio sono stati reclutati 738 soggetti adulti appartenenti a famiglie numerose della Colombia, provenienti da una popolazione fondata circa 400 anni fa dagli europei e dai nativi indiani d’America, che fino ad allora era stata isolata e quindi rappresenta una campione “ideale” da sottoporre a studi genetici rispetto alla popolazione generale. Questa popolazione è inoltre caratterizzata da un’alta incidenza del disturbo bipolare e sono stati reclutati sia individui diagnosticati come bipolari che i loro familiari, non affetti dal disturbo. Tra i pazienti bipolari inoltre, 181 erano caratterizzati da un disturbo bipolare grave.
I ricercatori hanno utilizzato delle immagini in 3D ad alta definizione, questionari di valutazione del temperamento e dei tratti di personalità e un’estensiva batteria di test neuropsicologici indaganti la memoria a lungo termine, l’attenzione, il controllo inibitorio e altra funzioni cognitive. Approssimativamente 50 di queste misure hanno dimostrato di avere un’influenza genetica. In particolare questi ricercatori hanno scoperto che lo spessore della sostanza grigia nelle regioni temporali e prefrontali, strutture cerebrali in cui sono localizzate le funzioni linguistiche e altre funzioni di ordine superiore come il self-control e il problem-solving, sarebbe il candidato più promettente per il mappaggio genetico, sulla base sia delle forti basi genetiche che dell’associazione con il disturbo.
Il fatto che queste scoperte siano in linea con quelle precedenti, provenienti da studi minori, effettuati su popolazioni differenti, è stata una sorpresa anche per i ricercatori coinvolti in questo studio, visto il background genetico unico e l’ambiente dei soggetti da loro reclutati.
Il prossimo passo di questi ricercatori sarà utilizzare il genoma raccolto da queste famiglie per iniziare a identificare i geni specifici responsabili del rischio di sviluppare il disturbo bipolare, ed estendere il reclutamento anche ai bambini e agli adolescenti di questa popolazione, poiché ipotizzano che la maggior parte delle differenze cerebrali e comportamentali riscontrate negli adulti bipolari abbia origine nei processi di neurosviluppo in adolescenza.
S. C. Fears, S. K. Service, B. Kremeyer, C. Araya, X. Araya, J. Bejarano, M. Ramirez, G. Castrillón, J. Gomez-Franco, M. C. Lopez, G. Montoya, P. Montoya, I. Aldana, T. M. Teshiba, Z. Abaryan, N. B. Al-Sharif, M. Ericson, M. Jalbrzikowski, J. J. Luykx, L. Navarro, T. A. Tishler, L. Altshuler, G. Bartzokis, J. Escobar, D. C. Glahn, J. Ospina-Duque, N. Risch, A. Ruiz-Linares, P. M. Thompson, R. M. Cantor, C. Lopez-Jaramillo, G. Macaya, J. Molina, V. I. Reus, C. Sabatti, N. B. Freimer, C. E. Bearden. Multisystem Component Phenotypes of Bipolar Disorder for Genetic Investigations of Extended Pedigrees. JAMA Psychiatry, 2014; DOI: 10.1001/jamapsychiatry.2013.4100
Rubber Hand Illusion ed esperienza soggettiva: quale rapporto tra Body Ownership ed Agency?
Rubber Hand Illusion ed esperienza soggettiva: quale rapporto tra Body Ownership ed Agency?
In questo articolo viene presentato un lavoro di Rubber Hand Illusion svolto su soggetti sani per indagare la relazione tra questi due sensi legati alla rappresentazione corporea basandosi sull’esperienza soggettiva diretta dei soggetti grazie all’utilizzo di due questionari.
ABSTRACT
Il senso di Body Ownership, l’autoconsapevolezza del proprio corpo, ed il senso di Agency, la consapevolezza di compiere dei movimenti legati al proprio corpo, sono legati tra loro? Quale relazione c’è tra i due? In questo articolo viene presentato un lavoro di Rubber Hand Illusion svolto su soggetti sani per indagare la relazione tra questi due sensi legati alla rappresentazione corporea basandosi sull’esperienza soggettiva diretta dei soggetti grazie all’utilizzo di due questionari.
Body Ownership, self-awareness of own body, and sense of Agency, awareness to make the movements related to own body, are related? What kind of relationship is there? In this article we present a work of Rubber Hand Illusion done on healthy subjects to investigate the relationship between these two senses related to the body representation based on the subjective experience thanks to the use of two questionnaires.
PAROLE CHIAVE: Body Ownership, Agency, Rubber Hand Illusion, Mano altrui, Questionari
La rappresentazione corporea è composta da due elementi fondamentali: il senso di Body Ownership e il senso di Agency.
Il senso di Ownership è la sensazione di appartenenza del nostro corpo che è sempre presente e che è indipendente dal fatto che le azioni compiute siano volontarie o involontarie. Il senso di Agency, invece, è la sensazione di aver causato o generato un’azione.
Nelle azioni volontarie il senso di Ownership e di Agency coincidono, quindi io riconosco che è stato il mio corpo a muoversi e che ho voluto io quel movimento.
In caso di azioni involontarie è quasi sempre possibile distinguere il senso di Ownership da quello di Agency, un esempio potrebbe essere quando ad una visita medica il dottore muove il mio braccio, in questo caso il senso di Ownership è presente perché sono consapevole che il braccio mosso è il mio, ma il senso di Agency non esiste perché non sento di essere stato io a causare quel movimento o quell’azione (Gallagher, 2000).
Il presente lavoro è nato dalla volontà di indagare quale rapporto lega il Body Ownership e il senso di Agency ed eventualmente studiare questa relazione.
Per fare ciò abbiamo utilizzato come protocollo sperimentale la Rubber Hand Illusion (RHI) che è una procedura sperimentale, solitamente usata per indagare il senso di Ownership, tramite cui una mano di gomma può entrare a far parte o meno del nostro schema corporeo.
La RHI è stata utilizzata per la prima volta da Botvinick e Cohen nel 1998 e consiste nell’attribuzione errata di sensazioni tattili ad una mano di gomma o aliena posta davanti al soggetto.
Nell’esperimento di Botvinick e Cohen sono stati testati 10 soggetti, ognuno di loro sedeva davanti ad una scrivania sulla quale in corrispondenza del braccio sinistro si trovava una mano di gomma di dimensioni reali e molto simile a quella vera mentre la mano vera veniva nascosta dietro ad un pannello.
Gli sperimentatori toccavano con due pennelli identici la mano vera e quella di gomma nel modo più sincrono possibile, durante la stimolazione al soggetto veniva chiesto di tenere lo sguardo fisso sulla mano di gomma.
Dopo dieci minuti ai partecipanti veniva fatto compilare un questionario, composto da 9 item, volto ad indagare l’esperienza diretta dei soggetti (Botvinick & Cohen, 1998).
Le risposte rilevarono che durante la stimolazione i soggetti riportavano di sentire il pennello sulla mano di gomma.
Botvinick e Cohen avanzarono l’ipotesi secondo cui l’illusione creava un conflitto multisensoriale che veniva risolto dal nostro cervello attraverso “l’embodiment” della mano di gomma.
Per invalidare ulteriormente i loro risultati, Botvinick e Cohen fecero un altro esperimento in cui ai soggetti, dopo aver indotto l’illusione, veniva chiesto di far scorrere il proprio dito destro sul bordo della scatola nel punto dove percepivano il loro dito sinistro, ciò veniva fatto con gli occhi chiusi.
In questo secondo caso però i soggetti erano divisi in gruppo sperimentale e di controllo, nel primo gruppo la stimolazione col pennello era sincrona mentre in quello di controllo la stimolazione veniva fatto in modo asincrono.
I risultati mostrarono che effettivamente i soggetti sperimentali dopo l’illusione riportavano un errato posizionamento della mano sinistra spostata verso la mano di gomma; questo bias non era presente nel soggetti del gruppo di controllo.
La spiegazione dei dati appena descritti è che l’illusione crea un conflitto multisensoriale tra sistema propriocettivo e visivo, ed è quest’ultimo che vince sul primo ed induce la “ricalibrazione” del braccio.
La RHI è una metodica utilizzata per studiare oltre all’integrazione sensoriale tra tatto, vista e propriocezione anche il nostro modo di percepire il corpo.
Sappiamo che alla base ci sono due principali componenti:
1. Un processo bottom-up di integrazione sincronizzata degli oggetti percepiti con il tatto e con la vista per produrre la RHI
2. Il cambiamento fenomenologico della rappresentazione del corpo che scaturisce da questo processo che è persistente.
Questi due concetti hanno indotto Tsakiris e Haggard (2005) a pensare che la RHI coinvolgesse un’ interazione generale tra le rappresentazioni dello schema corporeo e le integrazioni visuo-tattili degli stimoli.
Questi motivi li spinsero a condurre una serie di esperimenti volti ad indagare le situazioni in cui la RHI non era presente; qui di seguito ne riporterò solo uno per non dilungarmi troppo sull’argomento.
I soggetti erano tenuti a discriminare degli stimoli vibro-tattili dati sul dito indice oppure sul pollice della loro vera mano mentre guardavano la rubber hand che si poteva trovare in tre modi differenti: in posizione congrua, posizione non congrua (ruotata di -90°) oppure al posto di essa poteva esserci un ramo.
I risultati mostrarono che la RHI era presente nelle situazioni in cui la stimolazione era sincrona, ma soprattutto quando era posizionata in modo congruo con la posizione del soggetto (Tsakiris & Haggard, 2005).
Nei casi in cui la mano di gomma era posizionata in modo non congruo oppure era un ramo la RHI non avveniva, ciò dimostra che il fatto di vedere e sentire uno stimolo nello stesso posto non basta per causare l’illusione.
Tsakiris e Haggard suggerirono che a livello in cui viene costruita l’illusione il processo bottom-up non è sufficiente bisogna aggiungere ad esso i processi top-down che influenzano la rappresentazione del proprio corpo (Tsakiris & Haggard, The Rubber Hand Illusion: Visuotactile Integration and Self-Attribution, 2005).
Riassumendo per indurre la RHI è necessario che:
1. L’oggetto utilizzato per l’illusione sia una mano e non un oggetto neutrale
2. La mano di gomma deve essere messa in modo plausibile rispetto alla postura del corpo
3. Deve essere il più simile possibile alla mano vera del soggetto
Il nostro disegno sperimentale è nato a partire da alcuni studi condotti da Garbarini et al. nel 2012 sull’effetto di accoppiamento bimanuale in alcuni pazienti.
il loro studio è nato a partire da uno lavoro di Franz e collaboratori i cui risultati mostravano che nei soggetti normali esiste un effetto di accoppiamento bimanuale quando le due mani compiono movimenti diversi (Franz, Zelaznik, & Mccabe, 1991).
Quando la mano sinistra deve disegnare dei cerchi e la mano destra delle righe, la traiettoria della mano che disegna righe tende ad ovalizzarsi mentre l’altra mano disegna dei cerchi, ciò significa che il programma motorio della mano che disegna cerchi influenza quello dell’altra mano e produce l’effetto di accoppiamento bimanuale.
A partire da questi risultati Garbarini et al. applicarono tale paradigma ai pazienti con Anosogonsia per l’Emiplegia per verificare se anche in loro fosse presente questo effetto, dato che sono in grado di sviluppare un programma motorio per la mano plegica (Garbarini & al., 2012).
I partecipanti all’esperimento erano pazienti anosognosici, pazienti emiplegici, pazienti con motor neglect e soggetti sani.
I partecipanti dovevano compiere tre compiti:
1 Linee-Unimanuale: i soggetti dovevano disegnare delle righe con la mano destra
2 Cerchi-Righe Bimanuale: i soggetti dovevano disegnare cerchi e righe simultaneamente con le due mani
3 Cerchi-Righe Immaginarie: i soggetti dovevano tracciare delle righe con la mano destra ed immagianare di fare dei cerchi con la mano sinistra
Per determinare se effettivamente era presente l’effetto di accopiamento bimanuale veniva calcolato l’Indice di Ovalizzazione per la traiettoria della mano destra, un valore che indica quanto essa era deviata rispetto a quella originale.
Le previsioni erano che l’effetto di accoppiamento bimanuale fosse presente nei soggetti sani e nei pazienti anosognosici, mentre fosse assente nei pazienti emiplegici senza Anosognosia e Motor Neglect.
I risultati confermarono le previsioni; le performance dei pazienti anosognosici erano simili a quelle dei soggetti normali, mentre nei pazienti emiplegici e motor neglect l’effetto era assente.
Successivo a questo lavoro Garbarini et al. ne svolsero un altro simile, esso riguarda l’applicazione del paradigma Cerchi-Righe ad una particolare categoria di pazienti, denominati E+.
I pazienti E+ sono emiplegici ed affetti da una specie di Emisomatoagnosia, per cui non riconoscono come appartenenti a loro il braccio plegico (un chiaro disturbo di Ownership); allo stesso tempo riconoscono come loro però la mano dello sperimentatore ed i movimenti che essa compie, alla condizione che essa sia messa in coordinate egocentriche affianco alla loro vera mano (Garbarini & al., 2013).
La situazione appena descritta è molto simile alla RHI, con l’unica differenza che in questi pazienti non c’è bisogno di nessun tipo di stimolazione per indurre l’embodiment della mano dello speriementatore, detta anche mano aliena.
In questo esperimento veniva chiesto ai pazienti, il gruppo sperimentale di E+ ed un gruppo di controllo E-, di tracciare delle linee con la mano destra e dei cerchi con la mano sinistra in tre condizioni: in assenza della mano aliena, in concomitanza con la mano aliena sinistra che faceva dei cerchi in prospettiva egocentrica oppure con la mano aliena in prospettiva allocentrica.
L’effetto di accopiamento bimanuale era presente nei pazienti E+ nella condizione in cui la mano aliena disegna i cerchi, ciò dimostra che questi pazienti mostrano anche un disturbo del senso di Agency. Garbarini et al. hanno ipotizzato che questi pazienti assimilino completamente il movimento della mano aliena nella loro rappresentazione motoria, per questo motivo credono di aver realizzato il movimento e mostrano l’effetto di accoppiamento bimanuale. (Garbarini & al., 2013).
I risultati appena descritti hanno portato a pensare che probabilmente oltre alla mano aliena viene embodizzato anche il movimento che questa mano compie, per il momento però ciò è stato dimostrato solo per i pazienti definiti E+, cioè pazienti emiplegici anosognosici che riconoscono come propria la mano dello sperimentatore quando questa è collocata in una posizione coerente.
La nostra ipotesi di ricerca è partita proprio da questi risultati, abbiamo voluto indagare se è possibile riscontrare anche in soggetti normali l’embodiment di una mano altrui e del suo movimento.
Precedentemente ho parlato di “mano aliena” per indicare la mano dello sperimentatore che viene embodizzata, questo termine è al centro di una diatriba lessicale in quanto tende a categorizzare a priori la mano.
Per questo motivo per la parte che riguarda la ricerca svolta parlerò di “mano altrui” o “mano di qualcun altro” perché mi sembra un termine neutro ed adatto alla situazione.
PARTECIPANTI
Il campione sperimentali era formato da 32 soggetti sani, 16 femmine e 16 maschi, con età compresa tra i 18 e 30 anni (età media 25,1 anni).
Tutti i soggetti al test di manualità Edimburgh Handedness Inventory sono risultati destrorsi (media= 91,82), il grado di scolarità media era di 16,5 anni.
Abbiamo scelto tutti soggetti destrorsi e li abbiamo sottoposti alla stimolazione di una sola mano dato che in letteratura non sono presenti studi che dimostrino differenze significative tra mano sinistra e mano destra (Ocklenburg & al., 2011); inoltre abbiamo deciso di stimolare solo una mano per volta per ogni soggetto sperimentale anche per ridurre i tempi degli esperimenti che altrimenti si sarebbero dilungati troppo.
Per quest’ultima scelta il disegno sperimentale è stato bilanciato in modo da ottenere un disegno within subject, inoltre tutti i soggetti riportarono di non aver avuto nessun disturbo neurologico, neuropsicologico o comportamentale.
METODI
Per gli esperimenti non abbiamo utilizzato la classica scatola utilizzata negli esperimenti di RHI, ma abbiamo ideato una struttura idonea alle nostre esigenze sperimentali (Figura 1)
Questa struttura permette il libero movimento sia della mano del soggetto che quella altrui e soprattutto è stato possibile adattarla a qualsiasi soggetto grazie alla sua flessibilità.
Prima della stimolazione ai partecipanti veniva fatto indossare un telo che copriva gli avambracci, ciò serviva per non far riconoscere la propria mano al soggetto distinguendone avambracci e polsi.
La mano di qualcun altro veniva posto in modo congruo rispetto alla posizione del soggetto ed in linea con la sua spalla affinché potesse realizzarsi l’illusione, come sostenuto da Tsakiris e Haggard (Tsakiris & Haggard, 2005).
L’esperimento prevedeva due tipi di stimolazione:
1 STIMOLAZIONE SINCRONA: in cui il dito indice del soggetto e quello della mano altrui venivano stimolati simultaneamente
2 STIMOLAZIONE ASINCRONA: in cui il dito indice del soggetto e quello della mano altrui venivano stimolati alternatamente.
Entrambi le stimolazione, per ogni condizione sperimentale duravano 120 secondi; abbiamo scelto questo tempo di stimolazione a differenza di altre ricerche di RHI (Ehrsson & al., 2005) perché in letteratura è il tempo indicato affinché si instauri l’illusione (Botvinick & Cohen, 1998).
Per la nostra ricerca abbiamo utilizzato come strumento per compiere il movimento i Pinprick.
I Pinprick sono degli stimolatori tattili dotati di una punta retrattile in modo da esercitare sempre la stessa forza su di una superficie indipendentemente dalla potenza con cui vengono usati; ne abbiamo usati di diverse intensità per evitare che i soggetti si adattassero e non si creassero delle aspettative sul tipo di risposta da dare.
Dopo ogni stimolazione la mano del soggetto o la mano altrui pungeva la mano non stimolata del soggetto con il Pinprick; al seguito di ogni stimolazione il partecipante doveva fornire un rating soggettivo per indicare l’intensità dello stimolo da 1 a 5, dove 1 indicava la minima intensità e 5 massima intensità.
Non abbiamo preso in considerazione i dati relativi ai rating soggettivi delle stimolazioni con i Pinprick perché sono ancora in fase di elaborazione, per questo studio abbiamo utilizzato i Pinprick solo per dare un senso al movimento che veniva fatto.
Nella prima parte degli esperimenti abbiamo dovuto valutare quanto era forte la RHI nei soggetti sperimentali, per fare ciò abbiamo selezionato e tradotto quattro affermazioni del questionario elaborato da Kalckert ed Ehrsson (Kalckert & Ehrsson, 2012):
1. Mi sembrava di guardare la mia stessa mano
2. Sentivo la mano altrui come fosse parte del mio corpo
3. Sentivo come se avessi più di una mano destra/sinistra
4. Sembrava che la mano altrui si stesse spostando verso la mia vera mano.
I partecipanti a queste frasi dovevano rispondere con una Scala Likert che variava da -3 a +3: dove -3 indica completo disaccordo, 0 non so e +3 completo accordo.
Abbiamo deciso di utilizzare come metro di giudizio solo le risposte date alle affermazioni sopra elencate tralasciando il drift propriocettivo perché ci interessava indagare solo l’esperienza diretta e soggettiva.
Successivamente abbiamo dovuto indagare il senso di Agency legato al movimento fatto in seguito alla stimolazione, per fare ciò abbiamo selezionato e tradotto altre quattro affermazioni del questionarrio elaborato da Kalckert e Ehrsson (Kalckert & Ehrsson, 2012):
1. Sentivo come se stessi controllando i movimenti della mano altrui
2. Sentivo come se stessi causando il movimento che ho visto
3. Sembrava che la mano altrui avesse una propria volontà
4. Sentivo come se la mano altrui stesse controllando i miei movimenti.
Come nel caso precedente anche a queste affermazioni i soggetti dovevano rispondere con una Scala Likert che variava da -3 a +3.
Sia le domande relative al questionario dell’Ownership che quelle dell’Agency erano suddivise in due gruppi:
– Le domande 1 e 2 erano domande reali
– Le domande 3 e 4 erano domande di controllo, che servivano per mantenere sotto controllo la conformità, la suggestionabilità e l’effetto del compito. Queste domande sono state create per essere simili a quelle reali, ma che differiscono per il fatto che non catturano l’esperienza fenomenologica dell’Ownership e dell’Agency (Kalckert & Ehrsson, 2012).
Abbiamo scelto queste domande anziché quelle proposte da Botvinich e Cohen, che vengono solitamente utilizzate nei paradigmi di RHI, perché secondo noi sono più immediate e specifiche.
L’utilizzo di domande più dirette si è reso necessario soprattutto nel caso del questionario sul movimento, che forse era più difficile da valutare rispetto al Body Ownership.
Alla fine dell’esperimento ad ogni soggetto abbiamo fatto compilare il test di manualità Edimburgh Handedness Inventory.
PROCEDURE
Il soggetto veniva fatto sedere ad una scrivania di fronte allo sperimentatore, veniva fatto sedere il più vicino possibile alla scrivania con i gomiti appoggiati ad essa.
Gli veniva fatto indossare il telo per nascondere gli avambracci, a seconda del bilanciamento la sua mano destra/sinistra veniva sistemata sotto alla struttura precedentemente illustrata in modo tale che se il soggetto teneva fisso lo sguardo sul dito indice della mano altrui non vedessa la propria mano.
Dopo la condizione baseline, durante la quale a caso la mano altrui o quella del soggetto andava a stimolare l’altra mano del soggetto con il Pinprick; questa fase ci è servita per far si che i soggetti sperimentali prendessero confidenza con i Pinprick e per avere a disposizione una situazione pre-stimolazione, eseguivamo la fase di Rubber Hand Illusion in cui i soggetti dovevano tenere lo sguardo fisso sul dito indice della mano altrui per 2 minuti senza muoversi.
Per due minuti lo sperimentatore procedeva con la stimolazione, sincrona o asincrona, tramite i pennelli; al termine di ogni stimolazione veniva sottoposto il questionario precedentemente presentato:
1. Mi sembrava di guardare la mia stessa mano
2. Sentivo la mano altrui come fosse parte del mio corpo
3. Sentivo come se avessi più di una mano destra/sinistra
4. Sembrava che la mano altrui si stesse spostando verso la mia vera mano.
Alla fase di RHI seguiva quella sperimentale vera e proprio, in cui dopo la stimolazione con i pennelli veniva fatta quella con i Pinprick.
Questa condizione era composta da 5 trials, abbiamo scelto questo numero di prove in modo da ottenere un’illusione più forte ed in più utilizzare i diversi Pinprick.
Dopo ogni stimolazione il soggetto dava il rating sensoriale e alla fine di tutte le prove veniva sottoposto il questionario relativo all’Agency:
5. Sentivo come se stessi controllando i movimenti della mano altrui
6. Sentivo come se stessi causando il movimento che ho visto
7. Sembrava che la mano altrui avesse una propria volontà
8. Sentivo come se la mano altrui stesse controllando i miei movimenti.
Per concludere la nostra previsione era che dopo aver embodizzato la mano altrui i soggetti sperimentali embodizzassero anche il movimento fatto da essa, per indagare ciò abbiamo preso in considerazioni solo le risposte date al questionario relativo al senso di Agency.
RISULTATI
Per l’analisi dei dati sono state calcolate le medie delle risposte dei soggetti alle domande del questionari sia di Body Ownership che di Agency.
Per ogni questionario sono stati divisi i dati in base alla mano stimolata, alle domande(reali o di controllo) ed al tipo di stimolazione(sicrona/asincrona).
ANALISI STATISTICA QUESTIONARIO DEL BODY OWNERSHIP
È stata fatta un ANOVA a misure ripetute con 2 fattori:
1. STIMOLAZIONE a due livelli: sincrona e asincrona
2. DOMANDA a due livelli: reali e di controllo.
Il fattore MANO non è stato preso in considerazione in quanto non sono stati trovati dati in letteratura che potessero confermare l’ipotesi di una differenza significativa tra mano destra e mano sinistra (Ocklenburg & al., 2011).
Il fattore principale STIMOLAZIONE è risultato significativo [F(1, 30)=18,819, p=,00015] in quanto c’è differenza significativa tra stimolazione sincrona e asincrona come confermato ai confronti post hoc con la correzione di Duncan: la stimolazione sincrona determina una risposta ai questionari leggermente positiva (mean=0,15625); all’interno di questo dato bisogna tenere presente la distinzione tra domande reali (ossia quelle che valutavano realmente la riuscita della RHI) e di controllo (quelle che servivano per mantenere sotto controllo la conformità, la suggestionabilità e l’effetto del compito).
È importante notare che il solo effetto della stimolazione abbiamo un effetto significativo, ciò è stato fondamentale per la riuscita della RHI e di conseguenza dell’embodiment della mano altrui. Il solo fattore DOMANDA ha un effetto significativo [F(1, 30)=49,287, p=,00000], quindi alle domande reali (1 e 2) i soggetti hanno dato risposte significativamente positive rispetto a quelle di controllo (3 e 4).
L’effetto del confronto tra STIMOLAZIONE x DOMANDA è risultato significativo [F(1, 30)=27,995, p=,00001] (Figura 2), questo indica che le domande reali con la stimolazione sincrona sono significativamente positive (media: 1,67) rispetto alle domande di controllo nella stessa condizione (media= -1,36).
Anche nella condizione della stimolazione asincrona è così: le domande reali durante la stimolazione asincrona sono più positive (media= -0,68) rispetto a quelle di controllo (media= -1,53).
La differenza tra stimolazione sincrona e asincrona è molto maggiore nelle domande reali rispetto a quelle di controllo, nelle quali la differenza non è significativa.
ANALISI STATISTICA QUESTIONARIO DELL’AGENCY
Anche in questo caso è stata fatta un ANOVA a misure ripetute con 2 fattori:
1. STIMOLAZIONE a due livelli: sincrona e asincrona
2. DOMANDA a due livelli: reali e di controllo.
L’effetto STIMOLAZIONE x DOMANDA è risultato significativo anche in questo caso [F(1, 30)=11,959, p=,00165] (Figura 3).
In questo caso, a differenza del questionario sul body Ownership, le domande reali (1 e 2) determinano una riduzione dell’effetto nella stimolazione asincrona addirittura inferiore alle domande di controllo (3 e 4).
Rispetto al questionario del Body Ownership le domande reali (1 e 2) nella condizione di stimolazione sincrona risultano essere vicino allo 0, ma comunque diventano estremamente negative nella condizione di stimolazione asincrona.
Le domande di controllo (3 e 4) nella condizione di stimolazione sincrona hanno risultati simili a quelli relativi al questionario sul Body Ownership, mentre nella condizione di stimolazione asincrona le domande di controllo determinano delle risposte più positive.
DISCUSSIONE
Questa ricerca è nata per convalidare la nostra ipotesi secondo cui tramite il paradigma della RHI è possibile embodizzare, oltre alla mano altrui, anche il movimento che la mano altrui compie come è stato dimostrato in alcuni pazienti emiplegici (Garbarini & al., 2012).
Per quanto riguarda la RHI dai dati è emerso che effettivamente era presente nei nostri soggetti, ciò lo deduciamo dalle differenze di risposte date al questionario dai soggetti tra stimolazione sincrona e asincrona.
La stimolazione sincrona ha determinato delle risposte positive alle domande del questionario reali che con la stimolazione asincrona sono state negative; ciò conferma ulteriormente che la stimolazione asincrona si configura come situazione sperimentale di controllo in cui l’illusione non si crea (Botvinick & Cohen, 1998).
Per quanto riguarda il movimento abbiamo visto che l’effetto stimolazione per domanda è risultato significativo.
La stimolazione sincrona ha prodotto un effetto leggermente positivo nelle risposte alle domande reali del questionario (media=0,078).
La stimolazione asincrona ha determinato risposte negative alle stesse domande (media=1,380), tranne nel caso della domanda 3 in cui le risposte sono state positive, ma questo potrebbe dipendere dal fatto che la domanda risultava troppo controversa.
Possiamo affermare che in seguito alla stimolazione sincrona i soggetti hanno provato, seppur in minima parte, la sensazione di “possedere” il movimento fatto dalla mano altrui.
Questi dati confermano la nostra ipotesi, cioè in soggetti sani in seguito all’embodiment di una mano altrui si può embodizzare anche il movimento compiuto da essa.
I dati relativi al Body Ownership sono molto positivi, c’è stata una forte sensazione da parte dei soggetti di possedere la mano altrui.
Questo ci suggerisce l’idea che magari aumentando l’embodiment della mano altrui potrebbe anche aumentare l’effetto relativo al movimento, ad esempio si potrebbe aumentare il tempo delle stimolazioni o forse introdurre delle misure oggettive oltre a quelle soggettive.
Un altro dato che è emerso dalla nostra ricerca è la differenza tra mano sinistra e mano destra, in relazione alla domanda 1 del questionario dell’Agency c’è una discrepanza tra mano sinistra (che mostra risultati positivi) e mano destra (che mostra risultati negativi).
Questo dato non era stato previsto poiché non rientrava nella nostra ipotesi di ricerca; come detto in precedenza in letteratura non ci sono casi che dimostrino la presenza di lateralità nella RHI (Ocklenburg & al., 2011).
È noto che l’emisfero destro è dominante nelle abilità visuo-spaziali, mentre quello sinistro lo è per il linguaggio; Ockenburg et al. Hanno svolto uno studio per verificare se la sensazione della RHI fosse più forte in soggetti destrimani piuttosto che mancini, assumendo a priori che l’emisfero destro fosse dominante per il senso di Body Ownership basandosi sul fatto che tutti i deficit di rappresentazione corporea riguardassero pazienti con danni cerebrali destri (Ocklenburg & al., 2011).
I risultati mostrano che la vivacità della RHI non era modulata dalla manualità del soggetto, perché nei soggetti mancini non erano presenti diminuzioni o dati opposti rispetto ai destrimani; questi dati mostrano quindi che non vi è lateralizzazione per quanto riguarda la RHI, tuttavia potrebbe essere interessante svolgere altri studi riguardanti ciò (Ocklenburg & al., 2011).
Probabilmente i risultati che abbiamo ottenuto alle domande dei questionari sono dovuti al tipo di domande che abbiamo utilizzato.
Rispetto a quelle usate da Botvinich e Cohen, che erano più lunghe e vaghe e quindi era più facile che i soggetti dessero delle risposte più vicine alla media, le nostre erano più mirate e dirette, ciò potrebbe aver spinto i soggetti a dare risposte più estreme (soprattutto nel questionario dell’Agency).
La nostra ricerca rappresenta un lavoro preliminare sulla relazione che lega il senso di Body Ownership ed Agency, il nostro gruppo di ricerca sta pensando di svolgere ulteriori studi sull’argomento.
Uno di questi sarà l’utilizzo dei Pinprick, gli stimolatori tattili presentati in precedenza, come strumenti volti alla misurazione della Sensory Suppression (Foo & Mason, 2005).
La Sensory Suppression è un fenomeno sensoriale per cui quando compiamo dei movimenti auto-generati e volontari verso una parte del
nostro corpo la nostra soglia sensoriale di attivazione si abbassa, mentre si alza quando subiamo dei movimenti dall’esterno. Utilizzando la Sensory Suppression, secondo noi, sarebbe possibile misurare indirettamente l’embodiment del movimento compiuto dalla mano altrui.
Questo si potrebbe verificare usando i Pinprick ed andando a confrontare i rating sensoriali dei soggetti prima e dopo la RHI, se la nostra ipotesi è vera, si dovrebbe riscontrare una diminuzione dei giudizi di rating dopo l’illusione perché in seguito all’embodiment della mano altrui si dovrebbe manifestare la Sensory Suppression.
Un altro futuro sviluppo di questo lavoro potrebbe essere rivolgerlo anche ai pazienti E+, i pazienti emiplegici con disturbo del Body Ownership per studiare ulteriormente i loro deficit. Il rapporto tra Body Ownership e il senso di Agency rimane da indagare a fondo, la nostra ricerca rappresenta l’inizio di una serie di studi che in futuro verranno svolti sull’argomento.
È importante svolgere delle ricerche su questo argomento in quanto potrebbero essere d’aiuto per lo sviluppo di nuove tecniche riabilitative in campo.
Figura 1- Setting sperimentale e Pinprick.Figura 2- confronto tra STIMOLAZIONE x DOMANDA- è significativo per le domande reali rispetto di controllo e anche durante la stimolazione sincrona rispetto all’asincrona.
Figura 3- Effetto STIMOLAZIONE per DOMANDA- le domande reali (linea blu) determinano una riduzione dell’effetto nella stimolazione asincrona (2) rispetto alle domande di controllo (linea rossa).
AUTORE:
Dott.ssa Chiara Brandimarte, Laureata in Scienze della Mente presso l’Università degli Studi di Torino.
Questo articolo, tratto dalla tesi di laurea magistrale, ha partecipato al Premio State of Mind 2013 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia
Gli interventi psicoterapeutici nelle età della vita: lo stato dell’arte – SOPSI 2014
Gli interventi psicoterapeutici nelle età della vita: lo stato dell’arte
Nell’ambito del congresso SOPSI si è svolto il Simposio “Gli interventi psicoterapici nelle età della vita: lo stato dell’arte”, a cura della Società Italiana Psicoterapia Medica (SIPM).
Il Prof. Secondo Fassino, moderatore della sessione, ha sottolineato come la letteratura scientifica degli ultimi anni evidenzi sempre di più l’efficacia degli interventi psicoterapici, a diverso orientamento, anche psicodinamico, in termini di modifiche e di stabilizzazione dei risultati nel lungo termine e per i cambiamenti neurobiologici che inducono, registrati dalle tecniche di neuroimaging. Tali evidenze prendono origine dalle scoperte del Premio Nobel Eric Kandel e dagli studi più recenti di Georg Northoff e di Vittorio Gallese.
“Nella relazione psicoterapica si innescano profonde interazioni, al di là del consapevole, che portano all’attivazione delle reti neuronali del paziente e del terapeuta”.
Il Dott. Andrea Ferrero, Responsabile del Centro Integrato per la Prevenzione e Cura dei Disturbi di Personalità dell’Adolescenza, Dipartimento di Salute Mentale, ASL TO4 Settimo Torinese, affronta il tema della specificità degli interventi di psicoterapia in adolescenza. Il primo quesito proposto dal relatore è: “esiste una specificità delle psicoterapie in adolescenza?”.
Premessa fondamentale è innanzitutto la valutazione della specificità alle indicazioni alla psicoterapia, ossia la capacità clinica del terapeuta di comprendere quali vissuti, comportamenti e relazioni, in un momento di profondo cambiamento e così carico di significati quale l’adolescenza, siano inquadrabili nella sfera della normalità o della patologia.
In adolescenza, infatti, sono indicatori di normalità rispetto agli adulti: un valido rapporto con la realtà, anche in presenza di progettualità indeterminata; un’attitudine soddisfacente alla conoscenza e all’apprendimento, differenziata per età; riconoscere e integrare rappresentazioni e affetti, pur con limiti di capacità narrativa; un buon controllo dell’aggressività, anche se le emozioni sono esasperate; un’immagine di sé coesa, anche se sono presenti aspetti proiettivi idealizzati; l’utilizzo degli altri (in particolare del gruppo dei coetanei), come supporto a tollerare la perdita dell’identità infantile e come fonte temporanea di nuovi modelli identitari (Ferrero e Peloso, 2010).
L’interpretazione semeiologica degli aspetti del linguaggio del corpo e del comportamento agito in adolescenza possono acquisire, invece, un valore specifico quali possibili indicatori di patologia. Inoltre in adolescenza anche aspetti di ordine biologico, psicologico e sociale possono influire sull’espressione di sintomi analoghi senza configurare quadri psicopatologici: l’adolescenza infatti è un momento di cambiamento biologico-endocrinologico, di evoluzione della personalità e di cambiamenti esistenziali con vulnerabilità e sensibilità rispetto ai modelli socio-culturali.
Il secondo quesito discusso dal relatore è: “ esiste una psicopatologia specifica in adolescenza?” Bisogna valutare le interazioni tra la vulnerabilità biologica e psicosociale, il significato simbolico dei life-events e la diagnosi di struttura dell’individuo (Adler 1907, 1912; Rovera 1992; Fassino et al. 2007; Ferrero 2009, 2012; Zubin & Spring,1977; Ciompi 1982; Livesley 2008; Svrakić et al. 2009; Goldberg 2009; Paris 2011). Per quanto riguarda la vulnerabilità biologica i processi di maturazione del cervello in adolescenza presentano delle differenza relative al genere: in particolare per i processi cognitivi nei maschi la maturazione delle regioni prefrontali è ritardata rispetto alle regioni limbiche e questo comporta una iper-reattività (novelty seeking) di fronte ad uno stimolo incongruo; nei maschi e nelle femmine sono carenti (in crescita) le funzione esecutiva e working memory (Raznahan et al., 2010; Andrews-Hanna et al., 2011).
Per quanto riguarda i processi socioemotivi caratteristica del genere femminile è un’accentuazione del funzionamento delle regioni orbito-frontali, del gyrus cinguli e dell’amigdala con conseguente eccessiva influenza dei fattori emotivi (Bava-Tapert, 2010).
Il significato dei life-events in adolescenza è da mettere in relazione al delicato momento di rivisitazione dell’identità e del sé con tutte le tematiche sull’autonomia; nella sfera della socializzazione l’adolescente è impegnato nel processo di autonomizzazione ed indipendenza emotiva dai genitori ed altri adulti, di acquisizione di un ruolo sociale, femminile o maschile, e di un comportamento socialmente responsabile e di preparazione al ruolo professionale futuro. Sulla dimensione identitaria nell’adolescente si costruisce l’immagine mentale del proprio corpo, dei valori di identità di genere e sessuale.
Per quanto riguarda l’organizzazione di personalità in adolescenza alcuni meccanismi di difesa appartenenti alla costellazione borderline o nevrotica (Kernberg, 1975) possono non assumere una connotazione psicopatologica ma essere “normali”, transitori e funzionali.
Sulla questione dei disturbi di personalitàin adolescenza il Dott. Ferrero fa riferimento all’autore Caspi (1998) secondo cui la personalità mostra una sostanziale continuità dai 3 anni all’adolescenza e all’età adulta, al “Modello del disturbo basato sulla clinica” (Olbrich, 1990) secondo cui i problemi emotivi, familiari, relazionali, sociali sono “normali” ed al “Modello della continuità basato sull’epidemiologia” (Offer et al., 1998) secondo il quale tra gli adolescenti: il 20% sono patologici, il 20% a rischio ed il 60% normali. Viene poi passata in rassegna la letteratura più recente (Laurenssen, 2013) sul tema della specificità delle tecniche psicoterapiche in adolescenza, in particolare per il trattamento dei disturbi borderline di personalità (DBP).
Il Centro Integrato per la Prevenzione e Cura dei Disturbi di Personalità dell’Adolescenza (DPA), Dipartimento di Salute Mentale, dell’ ASL TO4 di Settimo Torinese può accogliere pazienti adolescenti provenienti non solo dall’area di pertinenza territoriale. Gli interventi di psicoterapia sono a breve termine, per una vasta gamma di disturbi, specifici per psicopatologia, e si pongono in continuità con un processo integrato di cura. Il modello psicoterapico applicato per il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità è la SB-APP: Psicoterapia Psicodinamica Adleriana Breve Sequenziale strutturata secondo moduli di 40 sedute con frequenza settimanale, sequenziali e ripetibili; ogni modulo viene condotto da un terapeuta differente: il razionale di questa scelta prevede che, iniziando un nuovo modulo sequenziale della SB-APP, si dovrebbe prevedere di lavorare sul distacco dal terapeuta precedente, valutando eventuali idealizzazioni o svalutazioni. La scelta del trattamento secondo la SB-APP deve tener conto di tutte quelle considerazioni sovraespresse inerenti gli aspetti specifici dell’adolescenza.
Prosegue il simposio il Prof. Abbate Daga con l’intervento “Psicoterapia dei disturbi alimentari dai sintomi alla cura del se’”. Le psicoterapie dei DCA si devono interessare sia dei sintomi che delle aree psicopatologiche non direttamente connesse ai sintomi: la dicotomia mente-corpo va recuperata nella cura. Le emozioni nei disturbi alimentarisono state spesso trascurate e sembrano rispecchiare le difficoltà stesse di queste pazienti caratterizzate da condotte di evitamento e controllo emotivo (Treasure, 2012). Come affermava la Bruch non si possono trattare questi disturbi se non si comprende la traiettoria evolutiva della costruzione del sé (recupero dell’identità corporea) (Skarderud, 2009); è assolutamente fondamentale recuperare i significati consci ed inconsci dei sintomi.
Il relatore passa in rassegna lo stato dell’arte dei trattamenti psicoterapici nei disturbi del comportamento alimentare:
Modelli CBT (Fairburn): attenzione ad individualizzare i trattamenti ed a recuperare gli aspetti di personalità;
Modello Cognitivo-Interpersonale (Ulrike Schnidt e Janet Treasure);
Terapia Interpersonale;
Modello che evidenzia l’ansia di tipo sociale che conduce all’utilizzo del cibo come “gestione emotiva” nella bulimia e come evitamento del giudizio nell’anoressia;
Modelli psicodinamici.
Il Prof. Abbate-Daga evidenzia un recente studio sul Lancet (2013) che dimostra che le terapie psicodinamiche controllate con quelle di Fairburn e con interventi pubblici di tipo ambulatoriale (40 sedute) funzionano tutte sul sintomo; a distanza di un anno dal trattamento le terapie psicodinamiche, che agiscono sui significati e la ristrutturazione del sé, mostrano una maggiore efficiacia. Viene enfatizzata dal relatore l’importanza dell’utilizzo della relazione terapeutica rispetto all’interpretazione; la relazione infatti fa emergere le proprie sensazioni, il pensiero e l’emozionalità.
Il relatore quindi conclude: i disturbi alimentari sono disturbi dell’identità corporea connessi al deficit dello sviluppo del sé; la cura del corpo e la cura del sé non possono essere disgiunte; le psicoterapie psicodinamiche rappresentano uno strumento di cura efficace e duraturo nel tempo.
(Si ringrazia il Dott. Ferrero per aver fornito il materiale del proprio intervento).
Capita talvolta che il sogno ideale non sia realmente desiderato. Pare una contraddizione. Forse sarebbe meglio dire che esistono sogni desiderati senza che si conoscano a pieno le implicazioni della loro realizzazione.
Come dire: vengono desiderati perché è giusto e normale desiderarli, desiderarli è un dovere.
D’altronde la nostra mente produce sogni idilliaci. Pensiamo al sogno di diventare una rock star. La gloria, il denaro, il riconoscimento non racconta nulla di quanto ci si possa sentire soli, dello sballottamento da una città all’altra, perdita dei propri riferimenti e del danno per le relazioni e la vita personale. Qualcuno amerebbe questa vita e i suoi costi. Per altri potrebbe essere un inferno di viaggi e di finti sorrisi. Il sogno è irreale in quanto non ne sono contemplate le implicazioni e confrontate con ciò che noi gustiamo della vita.
C’è anche un’altra opzione simile e in parte sovrapposta a quest’ultima: fare propri i sogni altrui. Accade talvolta che il sogno a cui siamo attaccati appartenga alla nostra cultura o alla nostra famiglia, persone che abbracciano ciò che i genitori hanno innanzitutto sognato per loro fin quasi a imporselo. Il successo (la vetta) è un sollievo dalla lotta per non essere una delusione e finalmente essere libero dalle aspettative altrui. Le difficoltà, la naturale demotivazione alzano i livelli di stress, di ruminazione mentale e conseguente riconoscimento innanzi allo specchio di essere stati una reale delusione per standard che poi neanche si voleva veramente raggiungere.
Forse in fondo quel campo da gioco lo si è sempre mal sopportato. Oppure si riesce. E allora ci si accorge che la vetta non offre la soddisfazione attesa da tanto tempo, immaginata virtualmente. Subentra il vuoto e il grigiore per cui ‘ora dovrei essere felice e non lo sono’ o a volte la tristezza ‘ho investito così tanto per qualcosa che ora mi sembra così superficiale’ oppure ancora la confusione ‘che cosa voglio realmente’. Allora s’apre una soluzione estrema: la ricerca di un nuovo sogno in cui infilarsi che garantisca, non riposo (poiché di una seconda erculea fatica si tratta) ma almeno energia, motivazione e vitalità.
Il sogno come malattia autoimmune
Certe prospettive mentali agiscono come malattie autoimmuni. Le malattie autoimmuni attaccano il normale funzionamento dell’organismo fino a danneggiarlo. Una delle funzioni mentali di adattamento alla realtà è la capacità di apprendere e di modificare il nostro comportamento, mentale e motorio, in relazione alle risposte dell’ambiente.
Il sogno è una spinta necessaria per iniziare grandi opere. Il rifugio costante nel sogno o la sua indiscriminata perseveranza può trasformarsi in un cronico volger le spalle alla realtà. Come dire, l’esperienza insegna salvo malattie autoimmuni che glielo impediscano. Queste ultime possono contribuire a una lettura distorta della realtà che salvaguardi la nostra visione.
Risultato apparente: immunità alla frustrazione. Risultato reale: danno alle nostre facoltà di apprendimento e adattamento. La frustrazione, per quanto spiacevole, favorisce l’apprendimento di nuove strategie e la flessibilità del sistema. In sintesi, aiuta a evolversi.
Questa malattia autoimmune tende a essere degenerativa. Con il passar del tempo e degli attacchi frustranti operati dalla realtà, l’autoinganno è sempre più arduo, e l’illusione più fragile. Così, perché il sogno regga è necessario esagerare, in sostanza raccontarsela sempre più grande, aumentare gli strati di prosciutto innanzi agli occhi. L’ipotetica frustrazione è percepita come sempre più intollerabile perché sempre meno conosciuta. Un esempio. Il ragazzo che a 14 anni inizia ad anellare una serie di due di picche nei primi approcci con il gentil sesso ma continua a osare senza fuggire imbarazzo e vergogna, forse a trenta avrà appreso che queste bastonate poi non sono così tremende e saprà anche evitarne le forme più eclatanti. Ma se lo stesso ragazzo a 14 anni inizia a ritirarsi dal rischio perché ‘meglio sprecare le proprie energie per la ragazza giusta, ideale, quella per cui vale la pena’ allora la caccia al difetto dell’altra sarà sempre un’ottima scusa a portata di mano per dire ‘non è quella giusta, non ci esponiamo’. Se anche osa e viene rifiutato, questo non è occasione per capire cosa fare meglio alla prossima occasione, ma la prova che l’altra ‘è solo una sciocca, che mi ha deluso e che non è ciò che cerco’.
Quando poi la realtà si fa troppo evidente allora la fuga nel sogno si può trasformare in fuga dalla coscienza: non riesco più a raccontarmela, quindi trovo un modo che mi impedisca di pensare. A questo punto attività fortemente distraenti e capaci di annullare ogni riflessione o ruminazione sulla realtà come il gioco, l’alcool o il cibo divengono l’estrema ratio. L’alternativa all’immersione in stati alterati di coscienza è un doloroso bagno di realtà. E quando accade magari di anni se ne hanno 35, con l’abilità di fronteggiare le frustrazioni di un giovane quattordicenne, con l’aggiunta di non avere lo stesso supporto sociale, e di sentirsi ancor più inadeguati in un mondo dove le persone intorno nel frattempo han fatto parecchi passi avanti.
In sintesi, conviene porre attenzione che il sogno rimanga una spinta motivante e non il modo di togliere lo sguardo dalla realtà.
Videogames violenti: come GTA influenza Alimentazione e Tendenze antisociali
Un recente studio mostra come gli adolescenti che giocano a videogames violenti mangiano più cioccolato e sono più propensi a rubare biglietti della lotteria durante un esperimento rispetto a ragazzi che giocano a videogiochi non violenti.
Questi risultati si sono rivelati più forti tra gli adolescenti che avevano ottenuto un punteggio molto alto in un test di disimpegno morale, in cui si valutava la capacità di convincere se stessi che le norme etiche si possono non applicare in certe situazioni.
Quando le persone giocano a videogiochi violenti mostrano meno autocontrollo, mangiano di più e imbrogliano di più” afferma il dottor Brad Bushman, co-autore di questo studio e professore di Psicologia e Comunicazione all’Università dell’Ohio, “Non si tratta solo di aggressione, anche se questa aumenta quando le persone giocano a Grand Theft Auto (abbreviato GTA, videogioco in cui si interpreta un criminale).
Videogames violenti vs videogames non violenti: l’esperimento
Lo studio comprende 172 studenti italiani delle scuole superiori, di età compresa tra i 13 e i 19 anni, che hanno giocato o ad un videogame violento (GTA III O GTA:SAN ANDREAS) o ad un videogame non violento (Pinball o MiniGolf) per 35 minuti.
Effetti dei videgames violenti su alimentazione e impulsività
Durante lo studio, è stata posta accanto ai ragazzi una scatola di cioccolatini M&M’s e gli è stato detto che potevano mangiarli liberamente, ma sono stati anche avvertiti del fatto che mangiare tanti cioccolatini in poco tempo non era salutare.
E’ interessante notare che i ragazzi che hanno giocato a videogames violenti hanno mangiato tre volte di più di cioccolatini rispetto a quelli che avevano giocato a videogames non violenti.
“hanno semplicemente mostrato meno moderazione nel loro mangiare” afferma Bushman.
Videogames violenti e comportamenti antisociali
Dopo aver giocato, i ragazzi si sono cimentati in un test di logica in cui si poteva vincere un biglietto della lotteria per ogni risposta corretta. Dopo aver comunicato ai ragazzi il loro numero di risposte corrette, sono stati invitati a prendere il numero corrispondente di biglietti della lotteria da una busta, senza nessuna supervisione. All’insaputa dei ragazzi, i ricercatori erano al corrente del numero di biglietti presenti nella busta in modo da poter successivamente stabilire se un giocatore prendeva il numero corretto di biglietti che gli spettava.
I risultati hanno mostrato che i ragazzi che hanno giocato ai videogames violenti hanno imbrogliato molto di più rispetto ai ragazzi che avevano giocato ai videogames non violenti, prendendo più biglietti di quanti, in realtà, gliene spettassero.
Ai giocatori era stato anche detto che erano in competizione con una controparte non visibile e che se avessero vinto potevano spaventare questo partner con un forte suono all’interno delle sue cuffie (in realtà non c’era nessuna controparte). I ragazzi che avevano giocato a videogames violenti hanno scelto di spaventare la propria controparte con suoni molto più forti e che duravano molto più a lungo rispetto agli altri ragazzi che avevano giocato a videogames non violenti.
Infine, Bushman conclude dicendo:
Uno dei principali fattori di rischio per il comportamento antisociale è semplicemente essere maschi. Anche le ragazze erano più propense a mangiare più cioccolato, ad imbrogliare e ad agire in modo aggressivo quando giocavano a GTA, ma non raggiungevano mai i livelli dei maschi.
Marsha Linehan vince il James McKeen Award 2014, premio della APS, Association for Psychological Science
La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Marsha Linehan, Direttrice del Behavioral Research and Therapy Clinics dell’università di Washington ha vinto il premio 2014 APS James McKeen Cattell Award assegnato dalla Association for Psychological Science (APS).
Linehan’s research focuses on employing behavioral models to study patients who develop suicidal behaviors, substance abuse issues, or borderline personality disorder. She also developed Dialectical Behavior Therapy (DBT), originally used to treat suicidal tendencies and later modified to include the treatment of mental disorders and borderline personality disorder.
APS Fellow Marsha M. Linehan, director of the Behavioral Research and Therapy Clinics at the University of Washington, is the recipient of a 2014 APS James McKeen Cattell Award. Linehan will give an award address at the 27th APS Annual Convention in 2015 in New York City, New York, USA. (…)
'DBT skills nelle scuole' vuole istruire gli insegnanti a riconoscere e gestire la disregolazione emotiva prevenendo così comportamenti a rischio futuri
La terapia dialettico comportamentale è un trattamento di stampo cognitivo comportamentale, sviluppato da Marsha Linehan, specifico per pazienti borderline
Report della lezione magistrale “Il trattamento del trauma con la DBT-PE (Prolonged Exposure)” tenuta dal Prof Cesare Maffei durante il Congresso CBT-Italia
"Affrontare il cancro. Come gestire le emozioni con la DBT" pone il focus sull'accettazione profonda della realtà, presupposto chiave della mindfulness
Un detenuto sofferente in carcere -anziché in una REMS- vede aumentare il suo rischio di suicidio. Bisogna moltiplicare le REMS e i mezzi di cura necessari
Adolescenti con emozioni intense fornisce concetti teorici e pratici, proponendo ai genitori strumenti e strategie per se stessi, per i figli e per entrambi
Un libro chiaro e scorrevole, che fornisce alle figure genitoriali risposte pratiche agli interrogativi che sorgono di fronte alle sfide dell’adolescenza
'Una vita degna di essere vissuta', insieme al racconto del tormento, dei ricoveri, dei recuperi, descrive il resoconto di un nuovo modo per trattare il BPD
"Una vita degna di essere vissuta" un libro che contiene esperienze cliniche, insegnamenti e confessioni di Marsha Linehan - Recensione di G. M. Ruggiero
Ottavo episodio della webserie “Angoli Clinici”. Tema dell’incontro: Radical Open DBT per i disturbi dell'ipercontrollo, ospite la Dr.ssa Alessia Offredi
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Neuropsychological and Social Cognition deficits in Bipolar Disorder and Schizophrenia: Preliminary Data
Psicopatologia e gravidanza. Trattare o non trattare: questo è il dilemma
Una donna depressa non trattata è maggiormente esposta a rischio di suicidio e a sviluppo di depressione post partum che in circa il 40% ha radici nel’antepartum con un rischio di depressione post partum tre volte superiore rispetto alla norma.
Apre il simposio il Prof Cesario Bellantuono, direttore della clinica e della scuola di specializzazione di psichiatria di Ancona e del Centro Degra, con una relazione dal titolo “Ansia e depressione in gravidanza: i rischi del non trattamento” rovesciando la classica prospettiva della sicurezza dell’uso dei farmaci in gravidanza e chiedendosi invece quali siano i rischi per la salute della mamma e del bambino quando non vengono utilizzati trattamenti farmacologici.
Alla provocazione iniziale segue un’attenta e particolareggiata disamina della letteratura disponibile sull’argomento. Se una donna presenta una patologia depressiva o la sviluppa durante la gravidanza i rischi connessi alla salute derivanti da tale diagnosi possono essere anche molto gravi.
Una donna depressa non trattata è maggiormente esposta a rischio di suicidio e a sviluppo di depressione post partum che in circa il 40% ha radici nel’antepartum con un rischio di depressione post partum tre volte superiore rispetto alla norma (Sutter Dallay AL, 2004 e Skouteris, 2009).
Inoltre una psicopatologia non trattata in gravidanza si ripercuote negativamente su adesione ai controlli medici, stile di vita sano (assunzione regolare di vitamine, fumo, alcol, sostanze) e può portare all’utilizzo di farmaci d’abuso.
Le ripercussioni di una depressione non trattata sono simili alle variabili già implicate negli effetti collaterali dei trattamenti farmacologici: maggior presenza di parto pre termine, aborti spontanei, maggior numero di feti nati morti, basso peso alla nascita punteggio apgar inferiore, elevati livelli di cortisolo in relazione a ansia e depressione materna, maggior numero di accessi alle unità di terapia intensiva pediatrica, alterazioni nel processo di attaccamento materno fetale e aumentato rischio di disturbi psicologici in adolescenza (correlato ad alti livelli di cortisolo materno in gravidanza).
Questi dati sono segnalati anche dall’American Association of Obstetrics and Gynaecology a conferma del fatto che l’attenzione alla gravità di queste situazioni psicopatologiche è posta anche in ambienti non prettamente psichiatrici.
In una metànalisi pubblicata su Archives of General Psichiatry viene segnalato un rischio aumentato di parto pre termine e basso peso alla nascita in figli di madri con depressione in gravidanza. Tuttavia questo è un dato che ricorre anche nelle donne che durante la gravidanza assumono farmaci antidepressivi.
E quindi cosa fare???
In un grosso studio USA su 238 donne gravide comprendenti un gruppo di controllo esente da patologia depressiva, un gruppo con diagnosi di depressione non trattata farmacologicamente ed un gruppo con depressione trattata farmacologicamente è stato dimostrato che il rischio di parto pre termine è aumentato del 20 % circa per i due gruppi di donne depresse versus i controlli senza differenze significative tra i due gruppi con o senza farmaci, mentre non si evidenziavano aumenti di teratogenicitá tra il gruppo delle donne trattate e quelle non trattate. Da ciò se ne deriverebbe quindi un segnale favorevole all’utilizzo di farmaci antidepressivi ove necessari.
Infine è utile ricordare le ripercussioni di una depressione materna, e particolarmente una depressione presente durante la gravidanza, sulla salute psicologica dei figli anche a lungo termine. La depressione in gravidanza può generare una compromissione dell’attaccamento materno fetale (valutabile con il “maternal fetus attachment scale score distribution”) e dell’allattamento.
Uno studio nord europeo su 127 donne con follow up a 16 anni delle madri e dei figli ha dimostrato che nei figli di madri con episodio depressivo il rischio di avere un episodio depressivo era aumentato di 20 volte ma questo era ulteriormente più alto se la depressione materna era presente in gravidanza, rispetto ai figli di madri che avevano avuto un episodio depressivo non in gravidanza.
Quindi la depressione antepartum e più grave della depressione in altre fasi della vita con un verosimile pattern di trasmissione trans generazionale della psicopatologia (Pawlby et al, 2009).
In conclusione un trattamento di successo nei genitori può migliorare l’outcome dei figli e il rischio per la coppia materno fetale di donne depresse non trattate sembrerebbe maggiore di quello delle donne trattate.
Dopo questa riflessione, che porta l’attenzione sulle conseguenze di una depressione non trattata, è il momento del Prof Balestrieri, direttore della clinica universitaria di psichiatria di Udine, che si assume l’arduo compito di approfondire il complesso discorso legato alle terapie farmacologiche in gravidanza: opportunità, rischi, eventuali effetti collaterali (ad esclusione di quelli teratogeni), aspetti del processo decisionale. Gli studi e le metanalisi sul tema esaminano le associazioni dei trattamenti antidepressivi in gravidanza con:
• basso peso alla nascita (LBW)
• parto pretermine (PTB)
• ipertensione polmonare persistente (PPHN)
• scarso adattamento del neonato (PNAS)
• autismo
• emorragie post partum
• allungamento del QTc
• enterocolite necrotizzante
In una metanalisi pubblicata nel 2013 su Journal of American Psychiatry (Ross et al, 2013) gli autori segnalano che gli antidepressivi in gravidanza non correlano con aborto spontaneo mentre c’è un’associazione significativa tra antidepressivi in gravidanza e parto pretermine (sia versus tutte le donne non trattate sia verso le sole donne depresse non trattate).
Inoltre i trattamenti antidepressivi in gravidanza risultavano significativamente associati con basso peso alla nascita ma solo nel confronto con madri non depresse, mentre versus madri depresse non trattate si perdeva la significatività statistica. Infine i farmaci antidepressivi in gravidanza risultavano associati significativamente con Apgar minore rispetto al gruppo delle donne non trattate o sane.
In conclusione, nonostante fosse stato possibile individuare delle associazioni statisticamente significative tra l’esposizione a antidepressivi in gravidanza e esiti del parto, le differenze erano piccole e i punteggi nel gruppo delle madri trattate restavano comunque all’interno di un range di oscillazione normale per cui la decisione se iniziare o se proseguire un trattamento antidepressivo secondo gli autori andrebbe presa in relazione alla gravità del quadro clinico materno.
Il Prof Balestrieri ha proseguito con una disamina dei principali e più recenti studi condotti in Italia e all’estero sull’uso degli antidepressivi in gravidanza e i loro effetti collaterali non teratogeni sempre con l’obiettivo di acquisire maggiori informazioni possibili per scegliere se trattare o meno le pazienti e con quale farmaco. I farmaci triciclici parrebbero sovrapponibili per profilo di sicurezza agli SSRI nella prima parte della gravidanza, mentre risulterebbero meno problematici nella seconda metà della gravidanza (ad eccezione della clomipramina) e non correlati a enterocolite, ipertensione polmonare e aumento del QTc.
In realtà anche in questo caso bisognerebbe tenere conto di fattori diversi quali i rischi e gli effetti collaterali propri della classe dei farmaci triciclici e, sottolinea in ultimo il Prof Di Sciascio nel dibattito finale, il fatto che ci sono meno studi sui TCA e che alcune variabili di outcome potrebbero non risultare associate al loro uso in quanto non indagate.
In conclusione Balestrieri evidenzia:
• PPHN (ipertensione polmonare) sembra correlare con uso SSRI utilizzati nell’ultima parte della gravidanza (incidenza < 1%), legato ad un problema di tossicità.
• PNAS (neonatal adaptation): sono stati evidenziati vari effetti di alterazione dell’adattamento neonatale, da tremori a aumentata sudorazione, nasal stifness, maggior incidenza di coliti etc . Questi sintomi paiono correlati ad una problematica di astinenza e correlano maggiormente con l’uso di SSRI a fine gravidanza.
• APGAR a 1 e a 5 minuti più basso associato all’uso di SSRI nell’ultima parte della gravidanza
• Nella maggior parte dei casi i sintomi sono transitori
• Non è chiaro quanto pesi il fattore confondente dovuto alla depressione stessa e il rischio di svilupparla
• In un grande studio svolto in Danimarca su tutti i bambini nati vivi dal 1996 al 2006 non è stato notato un legame con presenza di autismo.
• Non si è evidenziato un aumento delle emorragie nel post partum
• Per quanto riguarda il rischio aumentato di enterocoliti necrotizzanti viene citato solo un case report legato all’uso di venlafaxina e in un bambino prematuro.
• Il tratto QTc infine risulterebbe aumentato in pazienti trattate con SSRI ma con effetto transitorio a breve termine.
• Sia i sintomi depressivi sia l’uso di farmaci antidepressivi correlano con parto pretermine e basso peso alla nascita ma i vari studi non sono riusciti a estrapolare l’effetto dei soli sintomi depressivi su queste stesse variabili di outcome per un confronto più “pulito”.
Indubbiamente, in una situazione così complessa dove il non trattare comporta dei rischi, e il trattare farmacologicamente comporta altrettanti rischi che, pur essendo dimostrati e correlati all’uso dei farmaci antidepressivi, tuttavia non si discostano molto dai normali range di incidenza dei vari outcome al parto, diventa fondamentale un’informazione il più possibile dettagliata al fine di aiutare le donne nella scelta ponderata del rapporto rischi-benefici con grande specificità caso per caso.
Chiude questo interessante e utilissimo simposio il Prof Di Sciascio, del Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Università di Bari, che affronta il tema dell’uso in gravidanza di farmaci antipsicotici e benzodiazepine.
E importante distinguere tra le pazienti che devono iniziare un trattamento perché sviluppano una patologia in gravidanza e quelle che stanno già seguendo una cura. E’ necessario effettuare un accurato assesment per valutare il rapporto rischio beneficio che tenga conto dei rischi legati a episodi di acuzie o ricadute.
Secondo la classificazione dell’FDA per la sicurezza dei farmaci in gravidanza e i rischi teratogeni, solo la Clozapina, tra gli antipsicotici di seconda generazione, si trova in classe B (Studi sulla riproduzione animale non sono riusciti a dimostrare un rischio per il feto e non si è in possesso di studi adeguati e ben controllati su donne in gravidanza oppure gli studi su animali hanno dimostrato un effetto avverso ma studi adeguati e ben controllati sulle donne in gravidanza non sono riusciti a dimostrate un rischio per il feto in nessun trimestre.)
Per tutti gli altri farmaci non sono ancora disponibili studi sufficienti a escludere possibili effetti teratogeni. Sia gli AP di prima generazione (FGA) sia quelli di seconda generazione (SGA) paiono essere associati a maggiori complicazioni neonatali. Inoltre gli SGA sembrano aumentare il rischio di complicazioni metaboliche gestazionali e neonatali con peso alla nascita aumentato rispetto ai neonati esposti all’uso di FGA.
Nonostante ciò, in una review del 2010 (Gentile S., 2010) pubblicata sullo Schizophrenia Bullettin, si consiglia l’uso di FGA, giustificato dalla minor presenza di effetti collaterali sui neonati, nelle pazienti drug-naive, mentre dovrebbe prevalere il proseguimento della terapia in corso per i pazienti già in cura con SGA per evitare i rischi connessi di uno switch farmacologico in un momento così delicato come la gravidanza. A questi trattamenti andrebbero inoltre associate una sorveglianza ginecologica e endocrinologica (per monitorare gli aspetti dismetabolici già delicati in gravidanza) ed una stretta collaborazione tra i diversi specialisti.
Per quanto riguarda l’allattamento è molto complesso valutare il passaggio del farmaco nel latte che va considerato in rapporto al plasma (si considera alto un rapporto farmaco/plasma >1). Per FGA il rapporto è tendenzialmente < 1. Questo dato pare valere anche per Risperidone e Olanzapina mentre la Clozapina lo supera ed è quindi sconsigliata in allattamento.
Pertanto è necessario tenere presente la gravità della patologia materna, il rischio e il beneficio legato ad una sospensione o prosecuzione delle cure farmacologiche in corso ed infine il tipo di cura da iniziare in pazienti drug-naive.
Infine viene affrontato il capitolo delle benzodiazepine (BDZ), anche in considerazione del fatto che il periodo della gravidanza può di per sé comportare la presenza di una sintomatologia ansiosa anche in donne non affette da un conclamato disturbo d’ansia e che tale sintomatologia spesso viene trattata con questo tipo di farmaci.
Due sono i problemi studiati relativamente all’uso di BDZ in gravidanza:
Per quanto riguarda gli effetti teratogeni alcuni studi avevano evidenziato un aumentato rischio di palatoschisi e alcuni casi di malformazioni cardiache nei figli di donne che assumevano BDZ in gravidanza, ma tali studi risulterebbero essere piuttosto datati e non replicati. Secondo una review del 2013 (Bellantuono et al 2013) i dati pubblicati negli ultimi 10 anni non indicavano un’assoluta controindicazione all’uso di BDZ in gravidanza durante il primo trimestre gestazionale ed inoltre gli studi disponibili risultavano gravati da un certo numero di limitazioni metodologiche legate ai molti fattori confondenti etc.
Il Prof Di Sciascio ha indicato come più utilizzati il diazepam e il clordiazepossido nel primo trimestre perché sono i più studiati e per i quali pare non essere stato segnalato un chiaro rischio teratogeno.
Il problema dell’astinenza secondaria a brusca sospensione (floppy infant syndrome), caratterizzata da basso indice di Apgar, tremori, bradicardia, ipertonia, iperreflessia, diarrea, vomito, tachipnea, cianosi, pianto irrefrenabile, può insorgere subito dopo il parto o anche a distanza di alcune settimane ed è generalmente transitoria e risolvibile ma richiede l’intervento del neonatologo. Per evitarla è sempre consigliata la scelta della monoterapia alla “dose minima efficace”, da suddividere in più somministrazioni quotidiane e per il minor tempo possibile.
Inoltre è necessario procedere ad una graduale sospensione del farmaco in previsione del parto tenendo presente che è auspicabile un periodo di sospensione di almeno una settimana.
Con quest’ultimo intervento si è chiuso un simposio molto interessante, ricco di informazioni utili per chi si occupa di clinica e denso di spunti pratici che hanno stimolato la discussione ed il dibattito tra gli uditori molto numerosi che hanno affollato la sala.
Vuoi mangiare meno? Aiutati con i piatti rossi – Psicologia e Alimentazione
Claudia Corsini.
Alimentazione: sulla rivista Appetite è stata recentemente pubblicata una ricerca svolta a Parma che ha dimostrato come gli esseri umani siano propensi a mangiare meno e a testare meno crema idratante sulle mani quando tali prodotti vengono presentati su piatti di plastica di colore rosso.
Risultati analoghi erano già stati ottenuti nel 2012 da Oliver Genschow, ricercatore presso la Facoltà di Psicologia di Basilea. Tuttavia, l’esperimento svizzero non consentiva di definire se la quantità di cibo mangiata in relazione al colore del piatto fosse originata dal contrasto tra piatto e alimento piuttosto che dal colore del piatto di per sé. A questo proposito, un’altra ricerca nel campo dell’alimentazione (van Ittersum e Wansink, 2012) dimostrava, in effetti, come un contrasto abbastanza elevato tra piatto e pietanza (ad esempio pasta condita al pomodoro servita su piatto bianco) potesse indurre le persone a collocare nel piatto quantità più misurate di cibo rispetto a quando il contrasto tra i due era inferiore (ad esempio pasta in bianco su piatto bianco).
Lo studio italiano conferma, invece, come sia effettivamente il colore del piatto e non la variazione di luminanza e contrasto a modificare il comportamento di consumo. Questa ipotesi è stata dimostrata attraverso tre esperimenti che hanno coinvolto un totale di 240 volontari. Nel primo esperimento sono stati serviti popcorns in piatti rossi, blu e bianchi a tre gruppi indipendenti di partecipanti.
Nel secondo caso i piatti sono stati riempiti con una quantità costante di gocce di cioccolato fondente, cromaticamente quindi opposte al popcorn. Sia nel caso dei popcorns che in quello della cioccolata i soggetti appartenenti ai gruppi con i piatti rossi hanno consumato in media significativamente meno rispetto a quelli con il piatto bianco e blu. Cosa è avvenuto quando, anziché un alimento, è stata presentata una dose di crema idratante da testare sulle mani? Anche in questo caso il gruppo con i piatti rossi ha provato sulle proprie mani un quantitativo di prodotto significativamente inferiore rispetto agli altri due. Tutti e tre gli esperimenti prevedevano poi la compilazione di un questionario fittizio riguardante aspetti sensoriali e il livello di gradimento/piacevolezza del prodotto. Curiosamente, dall’analisi delle risposte fornite dai volontari è emerso come la diminuzione di consumo con il piatto rosso non sia correlata ad un’altrettanta riduzione dell’appeal dei cibi e della crema posati su di esso. Le persone pur consumando meno con il piatto rosso esprimono un giudizio di gradimento comunque positivo, non dissimile da quello espresso per gli altri piatti.
Le ragioni all’origine di questo fenomeno non si comprendono ancora, verosimilmente questa tendenza all’evitamento degli stimoli di colore rosso potrebbe essere ricondotta, nell’uomo, sia a fattori biologici che culturali (segnale di divieto e pericolo). Per ora rimangono solo ipotesi.
Non si dispone ancora di conoscenze certe e sufficienti per iniziare a riflettere su di una reale applicabilità di queste scoperte, in ogni modo, questi nuovi dati di ricerca hanno permesso di dimostrare la robustezza dell’effetto del rosso sui consumi in virtù della sua replicabilità e di chiarire che le variazioni rilevate non dipendano dal contrasto bensì dal colore rosso di per sé.
Ancora, l’influenza del colore rosso sembra estendersi similmente al consumo di crema trascinando, in questo modo, anche il sistema sensoriale visuo-tattile all’interno della discussione. Diventa sempre più evidente come possano essere molti e subdoli gli stimoli ambientali e situazionali in grado di modificare i nostri comportamenti.
Al di là degli aspetti negativi, l’altro lato della medaglia del gossip sta proprio nell’esclusione di individui inaffidabili che non agiscono in modo cooperativo per il fine comune di un gruppo, fungendo in qualche misura da regolatore sociale.
Secondo la psicologia ingenua il gossip – e i conseguenti rischi di esclusione sociale- sarebbero univocamente negativi minando la fiducia nei gruppi. In realtà condividere qualche forma di informazione sulla reputazione degli altri può presentare anche aspetti funzionali per la collettività.
In un nuovo studio pubblicato su Psychological Science, alcuni studiosi della Stanford University e della University of California–Berkeley hanno studiato la natura del gossip e dell’ostracismo, sottolineandone gli aspetti positivi con funzione normativa rispetto ai bulli, di deterrenza da comportamenti egoistici, e di promozione della cooperazione.
I ricercatori hanno coinvolto 216 soggetti dividendoli in gruppi e chiedendo loro di impegnarsi in un gioco in cui dovevano effettuare scelte economiche per favorire la propria squadra. In questi tipi di gioco è possibile osservare la tendenza ad attuare scelte individualistiche e non cooperative a discapito del benessere del gruppo.
La procedura prevedeva dunque il passaggio a un successivo gioco con un’altra squadra, prima del quale i partecipanti avevano la possibilità di letteralmente spettegolare riguardo i loro precedenti compagni di gioco. Quindi, prima di iniziare un nuovo gioco i partecipanti ricevevano informazioni sul precedente comportamento di altri giocatori, e di conseguenza potevano decidere di escludere- ostracizzare un sospetto partecipante a tutela del fine comune.
I ricercatori hanno scoperto che nel momento in cui le persone apprendono qualcosa riguardo il comportamento di altri attraverso le dinamiche del gossip, utilizzano queste informazioni per allinearsi con coloro che invece hanno una buona reputazione di individui cooperativi.
In questo modo, i soggetti più cooperativi possono ampiamente investire per il bene comune del gruppo limitando possibili danni di scelte egoistiche e individualistiche.
D’altro canto il gossip può essere utile anche per gli “emarginati” oggetto di gossip: dai dati emerge che la persona vittima di gossip – una volta a conoscenza del fenomeno, e venendo conseguentemente escluso dal gruppo – tende ad apprendere dall’esperienza e a redimersi dai comportamenti individualistici cooperando in misura maggiore nelle successive partite di gioco.
Dunque al di là degli aspetti negativi, l’altro lato della medaglia del gossip sta proprio nell’esclusione di individui inaffidabili che non agiscono in modo cooperativo per il fine comune di un gruppo fungendo in qualche misura da regolatore sociale.
I pugni in tasca: la famiglia protagonista di questo film vive un profondo disagio, angoscianti e malsane situazioni, in una simbiosi che porta i personaggi a non esistere senza relazionarsi gli uni agli altri.
Info
Diretto da Marco Bellocchio, con Lou Castel, Paola Pitagora. Drammatico. Italia 1965.
Trama
È la storia di una famiglia composta da una madre cieca, dal fratello minore Leone, affetto da ritardo mentale ed epilessia, da Augusto il fratello maggiore cinico e spietato che pur di raggiungere il benessere economico è disposto a tutto, da Giulia, unica sorella, tanto curiosa nei confronti della vita da vivere un rapporto incestuoso con il fratello Alessandro, protagonista principale del film. La famiglia vive un profondo disagio, angoscianti e malsane situazioni, in una simbiosi che porta i personaggi a non esistere senza relazionarsi gli uni agli altri.
Alessandro cerca di risolvere a suo modo l’insostenibile situazione. Narcisista ed evitante non sa costruirsi un rapporto al di fuori della famiglia e tanto è ossessionato da essa da decidere di uccidere i suoi componenti.
Motivi di interesse
Alessandro, non è uno psicopatico o un folle assassino. Il suo scopo è il bene della sua famiglia, vuole liberarla e liberarsi da un peso. Nel protagonista del film ritroviamo gli stati di vuoto e di evitamento delle relazioni che si riscontrano nel narcisista e nell’evitante, il senso di diversità e l’incapacità di decentrare. Ritiene la madre cieca e il fratello con ritardo mentale un peso per se stessi e per la famiglia. Non riesce a comprendere ciò che sentono, ciò che pensano, ha un atteggiamento tutt’altro che empatico nei loro confronti.
Sono presenti in lui stati di vuoto devitalizzato e difficoltà di coping degli stati mentali dolorosi.
Una scena del film in cui Alessandro partecipa ad una festa dà il senso di non appartenza, l’evitamento delle relazioni, il suo senso d’estraneità, probabilmente legato ad una sua visione degli altri non disponibili.La mancanza di rimorso, il rifiuto delle regole sociali, l’utilizzo a fini strumentali dei fratelli tratteggiano la sua antisocialità.
È duro, crudele, la morte ai suoi occhi perde di drammaticità, diventa un avvenimento normale, persino igienico, se consente di eliminare la zavorra. La morte del protagonista colpito da un malore mentre ascolta la Traviata sembra la didascalica figurazione del ciclo competitivo del narcisista a seguito della rottura di un ciclo idealizzante.
Giulia, presente alla scena, non muove un dito per soccorrere il fratello, si ribella dopo averlo ammirato, ma naturalmente anche se Alessandro può sentirsi tradito non può diventare rivendicativo e la sua morte è il momento definitivo della disgregazione della famiglia.
Indicazioni per l’utilizzo
La narrazione filmica è un’ottima traccia per potersi confrontare con i pazienti sugli stati mentali e i cicli interpersonali disfunzionali. L’utilizzazione a fini didattici è consigliata.
I disordini del comportamento alimentare nelle diverse età della vita: aspetti psichici e fisici.
Intervento della Dr.ssa F. Brambilla
Nei disordini del comportamento alimentare sono compromessi tanto gli aspetti psichici quanto quelli fisici, per avere un miglioramento dal punto di vista psichico è necessario che ci sia un recupero delle alterazioni fisiche.
• Cute distrofica, secca, fredda, colorito giallognolo e bruno sporco
• Sottile peluria, capelli fragili e cadenti
• Segno di Russel
• Petecche ed emorragie congiuntivali
• Edema periferico benigno
• Edema severo da abuso di lassativi e perdita di proteine.
ALTERAZIONI GASTROENTERICHE IN ANORESSIA:
• Atonia e Atrofia Gastrica
• Ritardo nello svuotamento gastrico
• Stipsi dovuta a drastica restrizione alimentare
• Compromissione della funzionalità epatica
• Alterazioni pancreatiche
ALTERAZIONI GASTROENTERICHE IN BULIMIA:
• Disfagia, lesioni infiammatorie dell’esofago
• Rotture esofagee secondarie a ingestione di massive quantità di cibo
• Aumento di capacità gastrica in relazione alla cronicità delle abbuffate
ALTERAZIONI CARDIOVASCOLARI IN ANORESSIA:
• Meccanismi adattivi: Bradicardia (ipertono vagale) e ipertensione arteriosa
• Secondari alla malnutrizione: riduzione del volume del cuore senza modificazione della sua forma
• Da alterazioni idroelettrolitiche: aritmie severe
ALTERAZIONI DELL’APPARATO RESPIRATORIO IN ANORESSIA E BULIMIA:
• Ipoglicemia con alterata sensibilità all’insulina
• Ipercolesterolemia
• Chetosi
• Iperazotemia
• Riduzioni del livello di zinco
• Ipoproteinemia
ALTERAZIONI EMATOLOGICHE IN ANORESSIA:
• Ipoplasia
• Anemia normocitica, macrocitica, microcitica
ALTERAZIONI OSSEE IN ANORESSIA:
• Osteopenia
• Osteoporosi
• Fratture e deformazioni ossee
ALTERAZIONI MUSCOLARI IN ANORESSIA:
• Ipotrofia muscolare
• Miopatia
• Aumento della creatina
ALTERAZIONI MORFOFUZIONALI DEL CERVELLO IN ANORESSIA:
• Ampliamento degli spazi extracorticali e dei ventricoli cerebrali con reversibilità dopo il recupero del peso
ALTERAZIONI MORFOFUZIONALI DEL CERVELLO IN BULIMIA:
• Ampliamento dei solchi corticali
– Intervento della Dr.ssa C. Segura Garcia –
La letteratura internazionale dimostra che i tassi di Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa sono molto bassi negli uomini. Questo dato è in parte spiegato dal ruolo del testosterone che funge da fattore protettivo.
Infatti i risultati di alcuni studi sui gemelli dimostrano che le coppie di gemelli femmina-femmina risultano molto più a rischio rispetto a quelle femmina-maschio e maschio-maschio. Sembrerebbe che il solo fatto di aver convissuto in utero con un maschio aumenti il livello di testosterone nelle donne e che ciò le protegga maggiormente dal rischio di sviluppare in seguito un disturbo alimentare.
Eppure, i maschi con AN esistono! E allora come mai ne arrivano così pochi in terapia e il campione scientifico è così esiguo?
Prima di tutto diventa difficile poter fare diagnosi utilizzando test pensati per le donne, ovvero che indagano criteri validi per loro ma non per gli uomini (ad esempio l’attenzione per la larghezza dei fianchi).
In secondo luogo, gli uomini sono molto più reticenti a chiedere aiuto soprattutto se si tratta di un disturbo che viene riconosciuto socialmente come femminile. Inoltre, spiega Garcia, “i disturbi alimentari sono molto presenti nei maschi con problemi di identità di genere che molte volte tendono a mascherare”.
Così come per le bambine, anche per i bambini il peso e il corpo non rappresentano un problema finchè qualcuno non glielo fa notare. A tal proposito, uno studio sulla stigmatizzazione con metodo costruttivista evidenzia come nelle classi elementari i bambini a cui vengono associati meno termini positivi quali “buono” o “amico” sono proprio i bambini obesi.
Questo risultato fa riflettere da un lato sull’alta probabilità per i bambini obesi di essere vittime di bullismo, dall’altro sul fatto che il bullismo sia considerato un fattore di rischio per lo sviluppo di un disturbo alimentare.
Spesso capita che giovani adolescenti con grave sovrappeso dall’infanzia comincino una dieta e che ci sia un viraggio verso l’anoressia. Nella maggior parte dei casi questi pazienti non vengono considerati come Disturbi Alimentari.
Inoltre, per questi giovani ragazzi dimagrire non basta: è necessario fare molta attività fisica! Ecco come ci si sposta verso la vigoressia che, secondo Garcia, corrisponde all’equivalente maschile dell’anoressia: “se le donne vogliono essere magre, gli uomini vogliono essere muscolosi”.
Infatti sembrerebbe che negli uomini ci sia una doppia tendenza: per alcuni l’obiettivo è diminuire il BMI, per altri è aumentarlo. Dato non riscontrabile nelle donne per le quali l’unico obiettivo è dimagrare.
I Disturbi del Comportamento Alimentare partono da problematiche legate alla bassa autostima che però si sviluppano in modo diverso tra donne e uomini. Questi ultimi infatti “rinforzano il corpo per rinforzare l’autostima!” , conclude Garcia.