La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:
Sono giorni di polemica sulla scelta dei ministri e soprattutto dei sottosegretari. Lasciando da parte le controversie più politiche, e limitandoci a esaminare i CV dei neonominati alla ricerca scientifica e a quella sanitaria (elenco dei nuovi sottosegretari) non possiamo non osservare scarse competenze ed esperienze maturate in questo ambito.
Che peso ha la ricerca scientifica nel governo Renzi e in Parlamento? Sono giorni di polemica sulla scelta dei ministri e soprattutto dei sottosegretari. Lasciando da parte le controversie più (…)
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C.M.M. – La Gestione Coordinata dei Significati applicata alla violenza nella coppia. Psicoterapia Sistemica
Laura D’Aniello. Psicologa-Psicoterapeuta Sistemico-Relazionale
La Teoria della Gestione Coordinata dei Significati (Coordinated Management of Meaning – C.M.M.): gli eventi sociali vengono creati e ricreati attraverso i processi della comunicazione umana ed in cui laviolenza nella coppia è descritta attraverso il modo in cui è creata, sostenuta ed interrotta, attraverso la comunicazione dei partner.
Una visione sistemica della dinamica di coppia alla base di una relazione di tipo violento, può essere utile per comprendere la complessità delle interazioni che caratterizzano un fenomeno ormai dilagante. A tal proposito un approccio interessante sembra quello che si interroga su quali siano gli effetti pragmatici della comunicazione umana e cioè come e quali realtà vengano create attraverso di essa e come tale punto di vista possa essere applicato alla violenza nella coppia.
Un recente articolo (Sundarajan & Spano, 2004) sottolinea come raramente la violenza nelle relazioni di coppia sia stata analizzata come il risultato della co-costruzione della comunicazione all’interno di essa e propone di esaminarla alla luce della prospettiva della teoria della Gestione Coordinata dei Significati (Coordinated Management of Meaning – C.M.M.), sottolineandone la tesi centrale secondo la quale gli eventi sociali vengono creati e ricreati attraverso i processi della comunicazione umana ed in cui la violenza nella coppia è descritta attraverso il modo in cui è creata, sostenuta ed interrotta, attraverso la comunicazione dei partner.
Su questa base, a differenza di quanto proposto dalle ricerche precedenti sulla violenza nella coppia, focalizzate per lo più sulle ragioni che spingono l’uomo ad essere violento e la donna a rimanere in una relazione abusante (Gondolf, 1999), la violenza viene trattata come un pattern di interazioni sociali che si sviluppa in e attraverso processi comunicativi chiedendosi come le relazioni divengano abusanti e, influenzando fisicamente ed emotivamente la donna, è importante comprendere il processo mediante il quale essa diventi una parte “normale” di alcune relazioni.
Lettura consigliata: La Relazione di Coppia, Psicoterapia Sistemico-Relazionale. Monografia a cura di Serena Mancioppi
Nei casi di violenza di coppia ha senso ipotizzare che, almeno all’inizio, sia l’uomo che la donna sanzionino l’abuso. Ad esempio, la maggior parte degli uomini coinvolti in una relazione intima non abuserebbero, né fisicamente né emotivamente, la donna che amano e la maggior parte delle donne non tollererebbe o giustificherebbe la violenza. Quindi, come mai la violenza diventa una parte “normale” di alcune relazioni?
I significati che ogni individuo porta nelle relazioni, lo guidano ad interpretare un evento in un certo modo, ad osservare alcune cose e a sottovalutarne altre e questo determina il modo di comportarsi e di interpretare gli eventi. Ciò accade quando una persona agisce in un certo modo perché sente che è l’unica scelta possibile per quella situazione.
L’articolo propone l’ipotesi secondo la quale le donne pongano la relazione come contesto per la propria definizione di sé e che, come risultato, neghino i propri desideri, le proprie richieste ed i propri bisogni con lo scopo di assicurare la supremazia della relazione mentre l’uomo porrebbe come contesto dominante il Sé.
Come conseguenza, la coppia intraprende scambi linguistici che fanno in modo che il Sé della donna venga continuamente svalutato mentre quello dell’uomo acquisisca un’importanza sempre maggiore. La donna sembrerebbe “costretta” a sottostare a determinate situazioni, a scapito del suo benessere, per sostenere la relazione, abbandonando gradualmente il proprio potere di agente autonomo a beneficio dell’uomo. Ogni episodio che diminuisce l’importanza del Sé della donna mentre accresce il Sé del partner, aiuta nella co-costruzione degli episodi successivi che creano un pattern in cui l’uomo detiene più potere della donna.
Nei successivi scambi linguistici, la sua posizione di non potere all’interno della relazione consentirebbe all’uomo di mostrare la sua rabbia, negandole di fare altrettanto per paura di compromettere la relazione, il suo contesto dominante. La partner tollera le azioni violente, e invece di farsi valere, inizia ad avere paura degli scoppi d’ira dell’uomo, tentando di placarli, con l’unico scopo di non mettere a repentaglio il contesto che ha un peso maggiore nella sua attribuzione di significati.
Questi episodi, nel tempo, fortificano il pattern precedentemente stabilito, mantenendolo e confermandolo. Episodi come questi spesso si concludono con l’uomo che apostrofa la donna con nomi offensivi oppure l’accusa di aver fatto o non fatto qualcosa. Accettando divieti e regole, la donna “autorizza” il comportamento dell’uomo, il quale si sente giustificato a fare richieste sempre più assurde che, quando non soddisfatte, lo “legittimano” a reagire punendola. Un pattern di violenza verbale, e fisica, diviene così stabile nella relazione e in ogni occasione la tendenza è verso una maggiore intensità ed escalation (Berry, 2000).
Ormai la relazione si è evoluta in modo tale che le comunicazioni quasi “richiedano” la sottomissione della donna all’uomo e lei si trovi con poche scelte (se non nessuna) tranne quella di cedere alle richieste di lui, il che indebolisce ulteriormente la sua posizione nella relazione. Da questo punto in poi, basta un piccolo passo per l’abuso fisico, che di solito accade pochi mesi dopo il primo abuso verbale.
Molte delle donne coinvolte in relazioni di tipo violento, sono cresciute credendo di dover rispettare e servire gli altri, in primo luogo il partner: una “vera” donna non mette le proprie esigenze al primo posto e, in questa logica, chi è stato maltrattato pensa di aver fatto qualcosa per meritarlo. Per cui, quando accade “l’incidente”, tipicamente la donna sente di aver provocato il partner perché la coppia sta agendo in un contesto che legittima l’abuso.
A questo punto della relazione, la donna è tipicamente isolata dalla famiglia e dagli amici e si basa esclusivamente sul partner per l’affermazione di sé e per la sua percezione della realtà.
Parallelamente, si sviluppano senso di colpa e vergogna dove il primo sembra avere una funzione correttiva (Galante, 2012) nella misura in cui, una persona concentrandosi sui propri difetti e vedendosi come sbagliata, concentra i tentativi di cambiamento su di sé, pensando di poterli controllare meglio e, contemporaneamente, lascia aperta la strada del perdono dell’altro.
Per quanto riguarda la vergogna, invece, la persona sente di avere un difetto fondamentale che nessuna azione può correggere che, nei casi di violenza, risulta particolarmente dannoso perché blocca l’uscita dalla relazione: ammettere i maltrattamenti e chiuderla significherebbe anche ammettere pubblicamente il proprio fallimento come donna, madre e figlia. Significherebbe confermare di essere incapace di tenersi un uomo e perciò di non valere nulla, idea che affonda le radici nella famiglia d’origine. Siamo nel livello della biografia personale intrecciata alla cultura. Quando il partner nega la conferma delle percezioni della partner, la donna comincia a dubitare della sua sanità mentale ed è costretta a riconoscere la concezione della realtà del partner a spese della propria per non compromettere la relazione. In aggiunta alla confusione in merito alle proprie percezioni della realtà, la violenza è mantenuta nella relazione da un uomo che costantemente nega e minimizza le sue azioni violente e minacciose.
Una volta che la violenza è stata “sancita” dai partecipanti come una caratteristica continua della loro relazione, diviene sempre più difficile rompere il circolo vizioso a meno che l’ordine gerarchico dei contesti non cambi in modo fondamentale. Questo cambiamento in genere si verifica quando la donna è seriamente spaventata per la sua vita o per quella dei figli, o intensamente arrabbiata per la propria condizione. La presenza di intensa rabbia e paura crea la forza implicativa che consente alla donna di cambiare il contesto gerarchico dei significati nel tentativo di interrompere la violenza o la relazione. Tale cambiamento può avvenire quando la donna è in grado di bloccare, riformulare o uscire da episodi di violenza ridefinendo la relazione con il partner non più come dominante nella propria gerarchia di contesti e di significati.
In quest’ottica, la violenza si sviluppa attraverso pattern comunicativi interni alla coppia e non è semplicemente causata, in una logica lineare, da una cultura basata sul dominio maschile e sulla sottomissione femminile.
La cultura ed il background familiare della coppia forniscono il “materiale” per una relazione di tipo violento in termini di significati che le persone portano nella relazione. In che misura tali significati vengano espressi attraverso le azioni, e siano riflessivamente co-costruiti dalla coppia, determinerà se la violenza emergerà o meno nella relazione intima.
Alcuni giochi, come RisiKo!, Monopoli, Lego, continuano a impegnare le nostre giornate, malgrado la concorrenza spietata dei videogame. Li ricordiamo nella nostra infanzia. I figli ce li chiedono. Ci giochiamo insieme. Mi chiedo: cosa ha permesso loro di resistere nel tempo? Di mantenere tenacemente il loro posto nell’immaginario? Di ampliarlo anche.
Il messaggio è giunto. Invaderò il Congo. Ho l’Africa Orientale, ma voglio espandermi, le mie risorse di coltan sono insufficienti. Mi braccano, sveleranno presto le mie intenzioni. Fingo di attaccare la Scandinavia. Lì sono ricchi, hanno civiltà, servizi sociali che funzionano. Che io voglia conquistarla è credibile. La strategia paga. Gli avversari ci cascano. Presto avrò quello in cui altri – miseri – hanno fallito: possedere Nord America e l’Africa tutta.
L’adrenalina pompa, ho bisogno di ingrandirmi. Sono pronto all’azione. A carri armati schierati, tiro i dadi. Il mio volto è impassibile. Formo alleanze mute, destinate da lì a poco a rompersi. Tradirò, sarò tradito, me lo aspetto. Giocare a RisiKo! ti fa ragionare così. Ti prende quella voglia di invadere paesi e dominare il mondo. Per inciso, se sapete cos’è il coltan, o fabbricate cellulari, o siete ricercati dalla polizia, o avete letto Il leopardo di Jo Nesbø.
Sabato pomeriggio. Mio figlio protesta. Ritiene le pressioni della sorella maggiore a cederle Largo Colombo ingiuste, prepotenti. Mia figlia, testarda, insiste. Cerca di blandirlo, lo accusa di immaturità ma lui niente, non vende. Intervengo. Non per interesse personale. Che mia figlia non acquisti Largo Colombo conviene anche a me, ma non è questo ad influire sulla mia decisione. Semplicemente, disapprovo che forzi la volontà del fratello, mi schiero apertamente con lui. Costruisco la seconda casa su Viale Giulio Cesare.
Ora, avete diritto di pensare che: uno, chi scrive sia un pessimo genitore (possibile). Due, sia patriarca di una famiglia di palazzinari. Entrambe le vostre ipotesi però dimostrano irrefutabilmente che: avete vissuto fuori dal mondo e non conoscete il Monopoli. Vi manca quindi la consuetudine con la sensazione inebriante di possedere case, alberghi, quartieri interi. Accumulare denaro. Il piacere di incassare pacchi di soldi quando gli altri passano da Parco della Vittoria con tre case già su.
Papi, prendi la pedana. Sì, amore. Quella verde. Sì amore, quella verde. Costruiamo un recinto. Mattoncini gialli e blu diventano un lago. Un elefante beve, tranquillo malgrado i leoni. La zebra passeggia. Amore, ma la zebra dovrebbe essere preoccupata. No, papi, il leone ha già mangiato ed è buono, mi dai la parete? Quella con la finestra? Sì. Mia figlia aveva due anni. Con i Lego abbiamo costruito uno zoo in Africa – della quale ormai sono proprietario –. La casa del guardiano è pronta, gli animali parlottano. Pochi anni dopo. Il progetto si fa difficile, alta ingegneria. L’astronave di Star Wars. Ci sono i pezzi trasparenti, vetri di plastica azzurra. Da piccolo me li sarei sognati. Qui c’è meno da inventare. I pezzi sono per dita da bambino, ma riesco a maneggiarli. Mio figlio mi fa lavorare. Ogni tanto mette un pezzo lui. È soddisfatto. Un anno dopo c’è da tirare su la stazione di polizia. Caso mai passasse Harry Hole (Avete letto Nesbø? Sapete chi è). Le cose sono cambiate. Segue lui le istruzioni. Non devo interferire, ma mi vuole lì. Ogni tanto mi chiede una mano, poi riprende il comando. Vorremmo mandare un’email in Danimarca e chiedere perché manca quel pezzo. Che in realtà c’è, minuscolo, e non lo avevamo visto.
Dove voglio arrivare? Alcuni giochi, come RisiKo!, Monopoli, Lego, continuano a impegnare le nostre giornate, malgrado la concorrenza spietata dei videogame. Li ricordiamo nella nostra infanzia. I figli ce li chiedono. Ci giochiamo insieme. Mi chiedo: cosa ha permesso loro di resistere nel tempo? Di mantenere tenacemente il loro posto nell’immaginario? Di ampliarlo anche.
Domenica scorsa abbiamo visto Lego Movie. Ha già incassato 300 milioni di dollari (soldi veri, non del Monopoli).
Per rispondere mi appello a Darwin e agli psicologi evoluzionisti. Gli umani agiscono guidati da motivazioni primarie, che hanno permesso sopravvivenza, adattamento alla nicchia ambientale e consolidamento della società. Motivazioni arcaiche quali: sessualità, rilevare i pericoli, difendere il territorio, reagire con attacco/fuga/congelamento all’aggressione. Poi motivazioni sociali, da mammiferi evoluti.
John Bowlby ha descritto l’attaccamento: il bisogno di rivolgersi a figure forti solide e rassicuranti in momenti di paura, fragilità, fame, freddo, sonno. La motivazione complementare: prestare cure a chi, in difficoltà, chiede aiuto con segnali chiari e riconoscibili (pianto, occhioni sgranati).
Studiosi come gli psicoterapeuti cognitivisti Paul Gilbert, Università di Derby, e Giovanni Liotti di Roma, Joseph Lichtenberg, psicoanalista a Washington, e lo psicobiologo Jaak Panksepp, università di Washington, includono tra le motivazioni sociali:
1) agonismo e bisogno di mantenere e accrescere la propria posizione nel rango sociale. La posizione nella gerarchia garantisce priorità di accesso alle risorse limitate – cibo, partner per l’accoppiamento – o quantomeno sicurezza che verrà il nostro turno;
2) esplorazione autonoma del territorio e formazione di un senso di efficacia personale;
3) appartenenza al gruppo;
4) cooperazione tra pari per il raggiungimento di scopi condivisi;
5) giocare!
Vediamo se funziona. I giochi che resistono alla competizione con i videogame (oltre che ben fatti) attivano, nella modalità del gioco di finzione, queste motivazioni primarie. RisiKo!: difesa del territorio ed esplorazione oltre il confine, definizione del rango, accesso a risorse limitate. Formazione di alleanze per raggiungere lo stesso obiettivo (fare fuori un altro avversario). Monopoli: in altra forma tocca più o meno le stesse corde.
Per il Lego è diverso. All’interno di interazioni cooperative con l’adulto, quei mattoncini costruiscono le basi di agency, il senso di iniziare con successo un’azione nata da un motore interno, e autonomia.
Michael Tomasello, co-direttore del Max Planck Institute, direbbe che giocando a Lego con i figli consolidiamo l’intenzionalità condivisa, un processo partito già dalle primissime fasi di vita.Funziona così: il bambino ha una meta. Mettere il leone lì. Coinvolge l’adulto. L’adulto esegue, ma introduce una variazione minima. Il bambino discute, ci si accorda. Vicino al leone: una palma che piace a entrambi. Si è formata una rappresentazione cognitiva dialogica che include: il proprio scopo, quello dell’altro e il processo di negoziazione per sintonizzarsi e raggiungere l’obiettivo comune. Se l’interazione ha successo il bambino è contento e si sente capace, attivo. Capisce meglio la mente dell’altro.
Quali giochi innescano attaccamento e accudimento? Facile. Barbie. Polly. Credo che Cicciobello sia in salute. Ancora: l’appartenenza al gruppo? In edicola. Figurine dei calciatori. Infine, per verificare se l’ipotesi darwiniana tiene, mi chiedo: cosa mancava ai giochi estinti? Le ipotesi alternative sono molte.
Mentre tento una risposta accendiamo la Wii. Super Mario. I miei figli mi battono spietatamente. Ma anche il loro Mario, saltando da un dado all’altro tra le nuvole, cade nel vuoto. Non celo un sorriso di soddisfazione.
John Bowlby. Attaccamento e perdita. Bollati Boringhieri.
Paul Gilbert. La terapia focalizzata sulla compassione. Franco Angeli.
Joseph Lichtenberg. Psicoanalisi e sistemi motivazionali. Raffaello Cortina
Giovanni Liotti e Fabio Monticelli. I sistemi motivazionali nel dialogo clinico. Raffaello Cortina.
Michael Tomasello. Le origini della comunicazione umana. Raffaello Cortina
La rimozione nel cervello: alterazione della consapevolezza dopo lesione dell’emisfero destro
Claudio Bivacqua.
La rimozione nel cervello: L’area parieto-temporale dell’emisfero destro ha il compito di elaborare le informazioni relative a noi stessi e a ciò che ci circonda, a rivolgere l’attenzione ai nostri vissuti in relazione al nostro contesto, quando questo ponte di collegamento viene interrotto la persona tende ad avere un funzionamento di tipo narcisistico che in situazioni gravi risulta essere nettamente evidente.
Uno dei più ambiziosi ma irragiungibili obiettivi di Freud fu quello di spiegare attraverso i correlati neurobiologici le funzioni inconsce degli esseri umani. Oggi, grazie alle moderne tecnologie e al progresso neuroscientifico, dopo più di 100 anni dalla formulazione delle sue teorie possiamo in parte confermare quanto detto dallo psicoanalista viennese e indirizzare le future ricerche verso la comprensione di concetti qualiinconscio, meccanismi di difesa e transfert.
Grazie al lavoro di importanti neuroscienziati e psicoanalisti che hanno trattato e descritto curiosi casi clinici, possiamo allora integrare i modelli astratti della psicologia dinamica con la pragmaticità dei modelli neuroscientifici.
Un caso clinico che ha messo in luce il funzionamento della rimozione delle esperienze coscienti, riguarda una paziente del neuroscienziato indiano Ramachandran , il caso della signora M.
Questa paziente soffriva di una grava eminegligenza spaziale unilaterale (che porta a trascurare la parte sinistra dell’ambiente e del proprio corpo) e una profonda anosognosia ( la mancata consapevolezza dei propri deficit) causate da un ictus parieto-occipitale all’emisfero destro.
La signora M, nonostante la paralisi della parte sinistra del corpo, negava con insistenza tale deficit attribuendo l’immobilità del suo braccio alla mancata voglia di muoverlo.
Questi sintomi sono dovuti al mancato equilibrio di eccitabilità dei due emisferi, in cui l’emisfero destro, essendo lesionato non permette all’individuo di rivolgere l’attenzione al campo visivo controlesionale portando alla negazione della parte sinistra dell’ambiente e del corpo.
Durante una seduta di riabilitazione, il dottor Ramachandran decise allora di indagare sui sintomi anosognosici e attraverso una stimolazione termica dell’apparato vestibolare (versando un po’ d’acqua fredda nell’orecchio sinistro della paziente) tentò di ristabilire momentaneamente l’equilibrio interemisferico, dopo di che le ha domandato:
Dottor R: Si sente bene?
Signora M: Il mio orecchio è molto freddo ma a parte questo, sto bene.
Dottor R: Può usare le sue mani?
Signora M: posso usare il mio braccio destro ma non quello sinistro. Voglio muoverlo ma non si muove.
Dottor R: Signora M, da quanto tempo il suo braccio è stato paralizzato? E’ iniziato ora o in precedenza?
Signora M: E’ stato così da diversi giorni a questa parte.
(Tratto da Neuropsicoanalisi di Karen Solms-Solms)
Oltre a riconoscere la sua paralisi, la signora M sostiene di essere stata paralizzata tutto il tempo, questo dà prova di una dissociazione dell’esperienza causata da un alterazione dell’eccitabilità interemisferica. Infatti dopo otto ore, quando l’effetto della stimolazione vestibolare fu terminato, il dottor Ramachandran le domandò
Dottor R: Signora M lei può alzare il braccio sinistro?
Signora M: Sì
Dottor R: Questa mattina due dottori le hanno fatto qualcosa, ricorda?
Signora M. Sì, mi hanno messo dell’acqua molto fredda.
Dottor R: Si ricorda cosa le ha detto? Provi a ricordare
Signora M: Ho detto che entrambe le mie braccia erano a posto.
(Tratto da Neuropsicoanalisi di Karen Solms-Solms)
Questo caso clinico è un chiaro esempio di come le memorie possono essere selettivamente rimosse e riprese in situazioni in cui la consapevolezza è alterata. Nel caso di soggetti normali ciò viene causato da esperienze traumatiche in cui l’io non permette l’intrusione di tali contenuti per evitare vissuti emotivi troppo dolorosi e frustranti.
In questo caso clinico il meccanismo della rimozione avviene proprio perchè un’area cerebrale danneggiata non permette una normale consapevolezza della relazione con il proprio corpo e di conseguenza la paziente fallisce il processo normale di lutto che porterebbe all’accettazione della paralisi. Invece il risultato di questa alterazione è l’arricchimento della sua esperienza cosciente di contenuti narcisistici escludendo quindi gli aspetti frustranti di sé stessa e dell’ambiente circostante.
Inoltre è curioso notare come l’informazione relativa alla paralisi veniva continuamente trasmessa al cervello cioè “ la negazione non preveniva la memorizzazione” ad un livello più profondo la paziente manteneva l’esperienza di paralisi ma l’io cosciente respingeva la realtà clinica.
L’area parieto-temporale dell’emisfero destro ha il compito di elaborare le informazioni relative a noi stessi e a ciò che ci circonda, a rivolgere l’attenzione ai nostri vissuti in relazione al nostro contesto, quando questo ponte di collegamento viene interrotto (come nel caso della signora M) la persona tende ad avere un funzionamento di tipo narcisistico che in situazioni gravi come in tali quadri clinici risulta essere nettamente evidente.
La paziente utilizzava pervasivamente come meccanismo di difesa narcisistico la rimozione di esperienze frustranti una fra tutte la paralisi, la coscienza era protetta da questa dolorosissima verità e ciò le portava uno stato alterato di consapevolezza.
La riabilitazione prevede allora la disillusione progressiva di questa fantasia narcisistica e l’elaborazione della perdita di questa onnipotenza narcisistica, allora sorge spontaneo un classico dilemma di natura Socratica: Meglio sapere di non sapere?
Se lo studio di Shaun Davenport e colleghi (2014) ha dimostrato che tra gli studenti che hanno in media 20 anni essere narcisisti (misurato attraverso il Narcissistic Personality Inventory) non è correlato con il numero di updates dello status, di post, e di amici su Facebook questo non sembra essere vero per una popolazione più matura in termini di età.
E’ proprio tra gli adulti (media di età di 32 anni) punteggi più alti nella variabile narcisismo sarebbero associati a un maggior uso di Facebook (numerosità di amici e di updates in un dato lasso di tempo).
I ricercatori si spiegano questo fenomeno considerando che i ventenni odierni sono di fatto una generazione di nativi digitali, che cresciuti con Facebook si sono appropriati di questo social network in quanto pratica comune routinizzata – magari fin dall’infanzia.
La generazione degli ex-giovani trentaduenni (tra l’altro età media, dunque sono compresi nel campione anche soggetti di età maggiore) non è una generazione di nativi digitali, bensì del digitale hanno appreso le pratiche nella prima giovinezza, e dunque secondo gli autori è sensato che “postare continuamente il proprio status” su Facebook non sia parte delle norme sociali e relazionali ma sia invece più legato a spinte narcisistiche.
Attenzione però: i giovanissimi di venti anni che peccano di narcisismo sarebbero più propensi invece nell’uso attivo di Twitter: punteggi più elevati sulla scala del narcisismo sono positivamente correlati a specifiche motivazioni di utilizzo di Twitter (più recente anche per i ventenni).
Gli studenti più narcisisti riportano maggiori motivazioni legate al desiderio di attrarre followers e guadagnarsi ammirazione attraverso il social network che tra l’altro nello stesso meccanismo di accumulo di followers non richiede reciprocità: posso essere seguito da qualcuno senza diventarne follower a mia volta.
Questo libro rappresenta uno strumento molto valido per aiutare l’adulto, sia che si tratti di educatore che di genitore, a trovare le parole: nel linguaggio universale della narrazione condivisa viene regalato al bambino il “c’era una volta” della sua vita, una storia di emozione e di poesia, “la storia della notte in cui mamma e papà ti han fatto nascere sia nel corpo che nel cuore”.
Come nascono i bambini? Non una domanda tra le tante, bensì “la domanda”. Quando un bambino rivolge a noi adulti la domanda fatidica abbiamo una grande responsabilità: qual è il modo più adatto per trattare un argomento così importante?
Ancora oggi molti adulti tendono a non parlare esplicitamente di sessualità e sentimenti con i bambini; di conseguenza il bambino viene lasciato a se stesso, in balia della propria confusione, e nel momento in cui viene a contatto, spesso tramite i media, con immagini e contenuti che evocano la sessualità non è in grado di riconoscere e vivere serenamente le sensazioni e le emozioni che nascono in lui.
È molto importante che il bambino possa, piuttosto che cercare risposte approssimative in rete o negli scambi con i coetanei, trovare negli adulti significativi degli interlocutori competenti con i quali sia possibile confrontarsi apertamente, per evitare di far nascere la convinzione che sessualità e sentimenti siano realtà sbagliate o pericolose.
Questo libro rappresenta uno strumento molto valido per aiutare l’adulto, sia che si tratti di educatore che di genitore, a trovare le parole: nel linguaggio universale della narrazione condivisa viene regalato al bambino il “c’era una volta” della sua vita, una storia di emozione e di poesia, “la storia della notte in cui mamma e papà ti han fatto nascere sia nel corpo che nel cuore”.
La mamma racconta in prima persona al bimbo come tutto è iniziato: gli parla del fatto che, prima ancora di essere concepito, egli è nato nelle fantasie e nei desideri dei suoi genitori; di quando lei e il papà lo hanno concepito attraverso il loro amore e l’unione dei loro corpi; del modo in cui, da piccolissimo che era, è cresciuto mese dopo mese nella pancia della mamma; di quando lei, con fatica ed emozione, lo ha aiutato a venire al mondo.
Il bambino viene accompagnato passo per passo nella scoperta del mistero della vita, soddisfacendo la naturale curiosità infantile con l’offerta di nozioni veritiere, che creino i presupposti per un’educazione sessuale e sentimentale valida non solo sul piano cognitivo, ma anche sul piano affettivo e relazionale.
Questa è, in effetti, la sfida: riuscire a parlare in modo emotivamente coinvolgente, sano e rispettoso di sessualità, sentimenti ed affetto; sarebbe, infatti, riduttivo limitarsi a fornire informazioni asettiche relative solo ai dati biologici. È, importante, invece, che l’adulto trasmetta al bambino la consapevolezza che la sessualità e i sentimenti sono quanto di più naturale possa esistere e sono alla base della sua storia e di quella di tutti noi.
Il libro è disponibile in due versioni, una rivolta ai bambini più piccoli, dai 4 ai 7 anni, l’altra destinata ai bambini dai 7 ai 10 anni; i contenuti del racconto sono gli stessi, la narrazione in rima e bei disegni che animano il testo, a differenziarsi è la seconda parte del volume, ossia i materiali educativi ed interattivi.
Nel primo caso si tratta di stimoli ludici, che offrono spunti per creare tra adulto e bambino un dialogo in cui si intrecciano ricordi ed emozioni a partire da frammenti biografici. Il testo pensato per i bambini più grandi è strutturato in forma di domanda e risposta ed entra nel merito di come avviene il concepimento durante il rapporto sessuale, descrivendo poi la gravidanza e il parto; si crea, inoltre, un confronto su domande che chiamano in causa la natura dei sentimenti quali: “Come si fa a capire che due persone si amano? Cosa vuol dire fare l’amore?”.
L’obiettivo del libro è accompagnare l’adulto e il bambino nel percorso di educazione sessuale, affettiva e sentimentale attraverso l’utilizzo di un approccio sensibile e poetico, emotivamente ricco, in modo da tramettere le informazioni necessarie associandole ad emozioni positive; in questo modo il bimbo si sentirà rassicurato e avvertirà di potersi fidare dell’adulto, il quale diventerà un punto di riferimento rispetto al tema della sessualità.
Ciò renderà il bambino più sereno non solo nel presente ma anche nel futuro dato che, come afferma l’autore “ciò che diciamo o non diciamo ai bambini intorno alla sessualità rappresenta l’impalcatura su cui essi stessi costruiranno il loro sapere, saper fare e saper essere relativi a questa dimensione”. Il bambino sereno, consapevole e appagato di oggi sarà l’adulto sereno, consapevole e appagato di domani.
“Un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”.
Riveliamo le nostre debolezze e, per chi ha la necessità di essere forte, è uno smacco. Possiamo perdere il controllo, fino nei casi più gravi alla perdita dei confini del sé.
Info:
Diretto dal regista Garry Marshall. Interpretato da Al Pacino e Michelle Pfeiffer. Drammatico. USA 1991.
Trama:
Il film narra la storia d’amore tra Johnny e Frankie. Al Pacino è un cuoco che si è fatto qualche anno di galera, Michelle Pfeiffer è una cameriera sola e disillusa. Johnny si innamora e corteggia Frankie, ma la paura di coinvolgersi impedisce a lei di amare. Dopo ripetute insistenze cede e passa una splendida notte di tenerezze e d’amore con l’uomo. Lui coinvolto dalla storia inizia a parlare di matrimonio e figli, lei si distanzia sempre di più, finché non arrivano a litigare. Seguirà una riconciliazione e i due si daranno la possibilità di costruire una relazione.
Motivi di interesse:
La paura di innamorarsi, la paura del legame, la paura dell’intimità sono i temi principali del film. Può manifestarsi con sintomi d’ansia: dispnea, sudorazione, tachicardia. Nel film Frankie cerca spesso di portarsi vicino ad una finestra o ad una porta per uscire, per respirare, come se potesse vincere così il senso di costrizione che avverte. Non ama per non soffrire. Passate delusioni sentimentali hanno segnato la sua vita.
Scrive Cesare Pavese ne “Il mestiere di vivere”: “Un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”. Riveliamo le nostre debolezze e, per chi ha la necessità di essere forte, è uno smacco. Possiamo perdere il controllo, fino nei casi più gravi alla perdita dei confini del sé.
La paura d’amare è una limitazione del comportamento esploratorio. Michelle Pfeiffer rappresenta in modo sublime i processi e i costrutti implicati in questo tipo di disturbo:
evita, tenendosi lontano da chi la corteggia, in modo coattivo e disfunzionale, per preservarsi da accadimenti spiacevoli (la delusione) e restringendo i confini dell’esperienza;
ha accesso facilitato ai ricordi negativi di esperienze precedenti ed è attenta a ciò che potrebbe confermare le proprie convinzioni;
sovrastima il rischio dell’evento negativo (mi deluderà);
ha bisogno di controllare affinchè ciò che teme non si verifichi;
teme di sbagliare lasciandosi coinvolgere sentimentalmente;
è intollerante verso l’incertezza di legarsi ad un uomo che potrebbe essere sbagliato;
immagina scenari catastrofici e drammatici che possono derivare da un suo possibile errore.
Soprattutto si priva di una delle esperienze più belle della vita, forse di una parte ontologica dell’essere umano.
Indicazioni per l’utilizzo:
Offre ottimi spunti per intervenire sui processi e i costrutti implicati nei disturbi d’ansia. Consente un’evoluzione funzionale del sistema cognitivo.
Saggezza, grandiosità… ma cosa caratterizza davvero un buon leader?
Sicuramente tratti narcisistici aumentano il magnetismo del leader, il suo carisma. Però verrebbe anche da pensare che il narcisista è un leader solo, un buon promotore di se stesso, che per la carenza di empatia e di considerazione delle caratteristiche degli altri può da una parte non rispettarli, e dall’altra essere incapace a ottimizzarli.
Un “capo tronfio”, un “superiore spocchioso”, un “pallone gonfiato”.
Capita di trovarsi a pensare che le persone che ricoprono ruoli superiori in realtà siano solo persone che si fanno buona pubblicità, che credono di avere doti speciali (e dando uno sguardo alla situazione politica in Italia, se è possibile riscontrare una costanza, probabilmente è proprio questa).
Buoni leader come buoni venditori di sé, ma anche come ”approfittatori” dei sottoposti. In una parola, leader narcisisti. Sicuramente tratti narcisistici aumentano il magnetismo del leader, il suo carisma. Però verrebbe anche da pensare che il narcisista è un leader solo, un buon promotore di se stesso, che per la carenza di empatia e di considerazione delle caratteristiche degli altri può da una parte non rispettarli, e dall’altra essere incapace a ottimizzarli.
Quindi, a partire dalle teorie sul leader carismatico, abbiamo versioni contrastanti. Quale è la relazione tra narcisismo e capacità di leadership? Quando si passa il segno, quando si tira troppo la corda? Quanto la mancanza di empatia è un problema?
Uno studio tuttora in pubblicazione sul Leadership & Organization Development Journal (Greaves, Zacher, McKenna, Rooney, in press) ha esplorato la relazione tra narcisismo, capacità di leadership (valutate dai colleghi/sottoposti) e “saggezza” in un gruppo di 77 impiegati in una scuola superiore australiana.
La saggezza è stata definita come “la visione più profonda della condizione umana e dello scopo della vita” (Baltes & Staudinger, 2000), e le persone sagge sono state descritte come “bilanciate, competenti nelle relazioni, impegnate per il proprio benessere come per quello degli altri e della società, con conoscenza, giudizio e capacità superiori di dare consigli” (Ardelt, 2004; Baltes & Staudinger, 2000; Sternberg, 1990).
Da un punto di vista psicologico, la saggezza è un costrutto che comprende diverse sfaccettature. Nel paradigma di Berlino (Baltes & Staudinger, 2000; Staudinger, Smith, & Baltes, 1994), il metodo più comunemente utilizzato per misurare la saggezza, viene richiesto alla persona di “pensare a voce alta”, rispetto al modo in cui risolverebbe un problema assegnato. In particolare, sono state identificate 5 componenti della saggezza: conoscenza sui contenuti della vita, conoscenza procedurale sulla vita, collocazione temporale rispetto al corso della vita, relativismo di valori e priorità e riconoscimento e gestione dell’incertezza.
La capacità di leadership è stata valutata secondo i punteggi che i colleghi attribuivano ai partecipanti in quanto a capacità di essere modello di ideali e comportamento, capacità di motivare i sottoposti, di stimolarli a pensare in modi nuovi e di considerare le loro necessità individuali.
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I risultati delle analisi hanno mostrato che le persone con alti livelli di narcisismo vengono valutati dai colleghi come peggiori leader. Rispetto alla saggezza, invece, le uniche dimensioni che si sono mostrate rilevanti a determinare un buon leader sono la capacità di gestire le situazioni incerte e il relativismo di valori e priorità. Mentre la gestione dell’incertezza è stata correlata a buone capacità di leadership, però, sembra che quello che viene apprezzato in un buon leader sia la rigidità di valori, anziché un relativismo.
In questo senso, i colleghi possono aver valutato la flessibilità come indecisione e incapacità a prendere una strada determinata. Nello stesso senso, infatti, sembra che questi abbiano premiato chi in mezzo all’incertezza sa destreggiarsi bene. È interessante anche notare come le due componenti di esperienza all’interno del costrutto di saggezza non si siano rivelate cruciali nella valutazione di un buon leader.
Sembra allora che, almeno con riferimento al campione che questa ricerca ha preso in considerazione, la caratteristica che più viene apprezzata nelle persone che dovrebbero tenere il timone della nave sia la fermezza, sia nella linea di azione che davanti a possibili imprevisti: sapere che qualcuno ha presente in modo stabile la linea da seguire e che sa destreggiarsi con abilità nell’incertezza probabilmente abbassa i livelli di sconosciuto e permette di esplorare il terreno conosciuto con una minore ansia.
Staudinger, U. M., Smith, J., & Baltes, P. B. (1994). Manual for the assessment of wisdom-related knowledge. Berlin: Max Planck Institute for Human Development and Education.
Intersoggettività e corpi in relazione: tra psicopatologia e neuroscienze
G. Northoff, V. Gallese e M. di Giannantonio
Sempre più attuale e di validità euristica è l’integrazione tra le evidenze provenienti dalle neuroscienze con i dati emergenti dall’attività clinica. Fin dalla nascita della psicanalisi si ipotizzava un’integrazione in tal senso: “…tutte le nostre idee psicologiche un giorno saranno presumibilmente basate su substrati organici…” (“Progetto per una psicologia Scientifica” S. Freud 1898).
Il dialogo tra psicopatologia, psicoterapia, psichiatria e neuroscienze ha degli antenati illustri: Spitz (1946) ha indagato le reazioni dei bambini ospedalizzati, i coniugi Harlow (1958) hanno studiato la deprivazione affettiva dei primati, Kandel (2011) ha indagato, in diverse specie animali, come la mancanza di un “imprinting affettivo” porti ad alterazioni nello sviluppo del sistema infiammatorio. Recenti ricerche neuroscientifche hanno evidenziato una particolare costellazione neurologica e di relazione tra aree del nostro cervello identificata nel Default Mode Network (DMN). Quest’ultimo è definito resting mode cioè “cervello che non funziona”, che non agisce e che, verosimilmente, è un precursore della consapevolezza interna. Il resting mode è uno stato in cui il soggetto è ad occhi chiusi, è vigile ma non dorme e non è sottoposto a performance.
Il Default Mode Network ha due funzioni: mind wandering (mente che vaga e riflette su se stessa) e self-protection (auto protezione). Quando il cervello è attivo su task specifiche l’attivazione del DMN diminuisce e torna a livelli normali quando il task è terminato. Un sottoinsieme di task specifici incrementano l’attività del DMN: introspezione, riflessione soggettiva, attivazione della memoria, recupero della memoria episodica.
Il Default Mode Network è in antitesi a External Control Network (Boly et al., 2007; Uddin et al., 2009) ovvero una costellazione neuronale relativa al controllo esecutivo implicato con la presa di coscienza dell’ambiente esterno. Il Default Mode Network gioca un ruolo importante nei meccanismi specifici della memoria, nell’integrazione delle informazioni, nell’attenzione. Sono emerse evidenze che mettono in relazione il DMN con specifiche patologie psichiatriche. In particolare, nel caso della Schizofrenia troviamo una minore attivazione dei task esterni ed una minore de-attivazione del Default Mode Network durante la ricezione di nuovi stimoli (Sjoerd J. H. et al, 2013).
Una prospettiva neuroscientifica sul rapporto tra corpo e intersoggettività viene introdotta dal Prof. Gallese per far luce sugli aspetti fenomenici di alcune condizioni psicopatologiche, in particolare per ciò che concerne la psicosi schizofrenica. Per studiare l’impatto della psicopatologia sul concetto di sé dobbiamo fare riferimento a vari livelli di complessità. Il concetto di sé è un correlativo ovvero, per essere definito, implica la necessità di confrontarsi con qualcosa che è altro da sé. Questo introduce come elemento fondamentale cioè la relazione come necessaria allo sviluppo fisiologico del sé. Dunque un disturbo della costituzione del sé ha come conseguenza necessaria anche un disturbo della relazione con l’altro. Uno degli interrogativi che guidano le ricerche di Gallese è: come costruiamo l’evidenza naturale del mondo degli altri? Nello studio delle variabili implicate nella costruzione del sé ci si è sempre focalizzati sugli aspetti più sofisticati dell’intersoggettività, quelli legati al mezzo linguistico. L’ipotesi è che uno dei meccanismi di base sia il meccanismo di simulazione volto a mappare il comportamento, le emozioni e le sensazioni dell’altro, direttamente sulle proprie rappresentazioni in formato corporeo (simulazione incarnata).
L’intensità con la quale si attiva il meccanismo di rispecchiamento è significativamente superiore quando avviene durante l’esecuzione dell’azione rispetto a quando l’esecuzione della stessa è osservata. Il meccanismo quindi è sensibile alla soggettività in quanto si attiva diversamente se l’atto è eseguito o osservato. Il sistema mirror non viene ritrovato solo nell’area premotoria frontale o parietale posteriore, ma anche nella corteccia somatosensoriale e nell’insula. Quindi, anche per le emozioni o per le sensazioni, gli stessi siti corticali che si attivano per l’esperienza soggettiva si attivano anche quando assistiamo all’espressione di queste emozioni o sensazioni nel corpo degli altri. La simulazione incarnata è un tentativo di descrivere a livello funzionale tutti questi meccanismi diversificati che caratterizzano circuiti diversi del nostro cervello ma che condividono questa stessa modalità di funzionamento.
L’ipotesi dunque è che questo meccanismo funzionale di base non sia confinato al dominio dell’azione ma comprenda altri aspetti della intersoggettività come emozioni e sensazioni. Il nostro cervello “riusa” risorse per mappare le azioni altrui sulle nostre rappresentazioni motorie così come lo facciamo per mappare le emozioni e sensazioni altrui sulle nostre rappresentazioni viscero-motorie e somatosensoriali. Il fatto che venga implicato un formato corporeo, non proposizionale, in questa mappatura porta a definire questa operazione: simulazione incarnata. Sé e altro da sé appaiono, dunque, correlati a livello del corpo. Questi meccanismi ci connettono implicitamente nella relazione con l’altro. Come accennato prima, il sé si può studiare a vari livelli e un modo per concepirlo è quello di partire dagli aspetti più germinali, ovvero legati alla corporeità intesa come potenzialità di azione. Noi sappiamo che il sistema motorio del nostro cervello si attiva sia quando mettiamo in atto un’azione ma anche quando pensiamo di mettere in atto un movimento, quando osserviamo gli altri agire, quando osserviamo oggetti manipolabili o quando ascoltiamo la descrizione verbale di un’azione.
Secondo Gallese e collaboratori il sistema motorio svolge, dunque, un ruolo nell’integrazione delle informazioni multimodali relative al sé. Si ipotizza che a livello del sistema motorio corticale avvenga la prima integrazione degli stimoli tattili, acustici e visivi che avvengono a contatto o in prossimità delle parti corporee che quella stessa parte del sistema motorio controlla in termini di movimento. Questa integrazione multimodale operata dal sistema motorio potrebbe svolgere un ruolo fondamentale nel promuovere la formazione di questo primo livello di base del sé (il livello più basso è definito da Parnas come ipseità).
E’ possibile attribuire ai disturbi del sé un ruolo cruciale per comprendere la Schizofrenia. Sappiamo, infatti, che i pazienti schizofrenici mostrano problemi nel discriminare tra la voce propria e altrui, difficoltà nel discriminare tra stimoli tattili autoprodotti o provenienti dall’esterno ed un’alterata percezione del proprio corpo. In un esperimento sono state indagate le rappresentazioni delle proprie parti corporee e, nello specifico, si è andati ad indagare il riconoscimento di foto di parti del proprio corpo (es. mano, piede) e di oggetti personali (telefono, scarpa), in soggetti ad esordio psicotico e in soggetti sani.
I pazienti sani mostrano un vantaggio nel riconoscimento sia delle proprie parti corporee che dei propri oggetti, mentre gli schizofrenici non hanno lo stesso vantaggio a causa di questa anomala esperienza del sé. Gallese sottolinea come il sé sia il risultato di un processo che verosimilmente comprende in maniera funzionale, fisiologica e connessa l’attività della totalità del cervello. Tuttavia sottolinea come non sia un caso che le aree del Default Mode Network siano sistematicamente coinvolte quando qualsiasi attività mentale o la sua assenza abbia una forte connotazione autoriferita. Quindi insieme al Prof. Northoff sono andati a studiare nei pazienti con esordio psicotico le aree dell’insula e della corteccia premotoria. In queste regioni hanno osservato un anomalo incremento della connettività funzionale tra corteccia premotoria e una componente del DMN (corteccia cingolata posteriore).
I confini del sé corporeo appaiono più sfumati nel paziente con esordio psicotico, e un aspetto di questa minore nitidezza del confine corporeo è testimoniata da un’alterata funzionalità a livello dell’insula posteriore e delle cortecce premotorie.
Secondo una recente ricerca dell’Università di Warwick, i bambini che soffrono di incubi frequenti o di spaventi notturni presentano un maggior rischio di avere esperienze psicotiche durante l’adolescenza.
Lo studio, pubblicato sulla rivista Sleep, mostra che i bambini che riferiscono di avere incubi notturni frequenti prima dei 12 anni hanno tre volte in più di probabilità di soffrire di esperienze psicotiche durante la prima adolescenza. Allo stesso modo, anche i bambini che fanno esperienza di terrori notturni raddoppiano il rischio di presentare allucinazioni e deliri nell’adolescenza. Anche bambini più piccoli, tra 2 e 9 anni, che mostrano frequenti incubi notturni segnalati dai genitori presentano il doppio di rischio di sviluppare esperienze psicotiche.
Gli incubi sono comuni nei bambini, ma la loro incidenza decresce con l’aumentare dell’età del bambino. Essi di solito compaiono durante il sonno REM, ovvero la seconda parte del sonno. Coloro che ne hanno fatto esperienza, hanno familiarità con la sensazione di svegliarsi improvvisamente con un senso di paura, preoccupazione e palpitazioni.
I terrori notturni, che sono un disturbo del sonno, differiscono dagli incubi e si verificano durante il sonno non-REM. Quando un individuo sperimenta un terrore notturno si ritrova seduto sul letto urlando, in uno stato di panico, senza alcuna motivazione particolare e senza aver compiuto un’azione volontaria. Nei casi più estremi vi sono testimonianze di ematomi sugli arti e di rapidi movimenti involontari del corpo. I bambini, comunque, si svegliano alla mattina ignari della loro “attività” durante la notte.
Il Professor Dieter Wolke ha spiegato: “Non vogliamo certamente preoccupare i genitori con questa notizia, poiché 3 bambini su 4 sperimentano incubi in giovane età. Tuttavia, la presenza di incubi per un periodo prolungato di tempo o di attacchi di terrori notturni, può essere un indice precoce di qualcosa di più significativo durante la maggiore età.”
Il campione è stato valutato 6 volte dai 2 ai 9 anni. La probabilità di vivere esperienze psicotiche durante l’adolescenza aumenta con l’aumentare dell’incidenza degli incubi. Coloro che hanno riportato un solo periodo di incubi ricorrenti presenta solo un 16% di rischio, mentre quelli che hanno riportato 3 o più periodi prolungati di incubi durante lo studio presenta un rischio del 56%.
Al contrario, problemi legati all’addormentamento, frequenti risvegli notturni o insonnia non presentano alcun legame con esperienze psicotiche più tardive.
La Dottoressa Helen Fisher ha aggiunto: “Il miglior consiglio è quello di cercare di mantenere uno stile di vita sano che promuova il benessere del sonno del bambino, creando un ambiente che permetta la migliore qualità del sonno.Una sana alimentazione è un parte fondamentale di questo, ad esempio evitare le bevande zuccherate prima di andare a dormire; inoltre è importante eliminare eventuali stimoli inopportuni dalla camera da letto, che si tratti di televisione, videogiochi o altro. Questo è il cambiamento più pratico che si possa fare”.
Lucie Russell, direttore della campagna YoungMinds, afferma infine: “Questo è uno studio molto importante perché tutto ciò che possiamo fare per promuovere l’identificazione precoce di segni di malattia mentale è fondamentale per aiutare i migliaia di bambini che soffrono. L’intervento precoce è fondamentale per aiutare i bambini a non sviluppare una malattia mentale radicata quando raggiungono l’età adulta”.
Il Rome Workshop on Experimental Psychopatology ha avuto come filo conduttore la ricerca scientifica su popolazione clinica, dimostrando come sia necessario portare nuove evidenze in campo psicologico anche in situazioni e con campioni non sempre facilmente raggiungibili.
Tra i vari e interessanti interventi presentati, quello della dr.ssa Platt, ha sicuramente il merito di essere il frutto di una ricerca complessa, mirata a creare un nuovo paradigma relativo al reappraisal cognitivo, testarlo con un training creato ad hoc e misurare al contempo la risposta neurale del campione testato in una situazione realistica di stress.
Il presupposto teorico della ricerca è costituito dal Diathesis – stress Model, teoria psicologica che sottolinea l’effetto di variabili sia biologiche sia ambientali, quali stress psicosociali, nell’insorgere di problematiche psicologiche (Lazarus, 1993). Nel modello presentato, in particolare, si evidenziano gli effetti di fattori genetici e contestuali sulla disregolazione emotiva, causa della depressione in età adolescenziale.
Il paradigma del reappraisal cognitivo, elaborato grazie ad uno studio pilota, è centrato sugli effetti di tale strategia di regolazione sull’interpretazione degli eventi (maggiormente neutrale e meno negativa) e sul tono umorale, a sua volta meno compromesso.
Nella ricerca presentata, il campione dello studio era costituito da trenta adolescenti, 15 soggetti sani e 15 con diagnosi di depressione. Il compito, fortemente ecologico, consisteva nella presentazione della foto di un coetaneo attraverso una chatroom. Il soggetto, dopo aver eseguito il training sul reappraisal, dichiarava se fosse interessato o meno a iniziare una conversazione con lo sconosciuto e successivamente riceveva a sua volta un feedback (positivo o negativo) dal compagno virtuale. A feedback negativo, gli veniva chiesto di applicare le strategie di reappraisal apprese o, in alternativa, il soggetto non riceveva alcuna istruzione.
I risultati hanno dimostrato che l’umore deflesso e le credenze negative si riducevano in entrambi i gruppi: questo dimostra che il training risulta efficace, probabilmente però al netto del disagio psicologico, visto che non sono state evidenziate differenze tra i due campioni. Dal punto di vista funzionale, inoltre, gli adolescenti del campione clinico hanno mostrato un’attivazione migliore delle aree collegate alla regolazione emotiva (giro frontale superiore sinistro, amigdala sinistra e ippocampo, lobo parietale inferiore destro): tale dato è stato interpretato dalla ricercatrice come una conseguenza della grande plasticità neuronale che caratterizza la fascia d’età testata.
Le implicazioni cliniche di tale ricerca sono rilevanti; innanzitutto è stato sviluppato un nuovo strumento utile a rinforzare le strategie di reappraisal cognitivo in età adolescenziale. In secondo luogo, i dati funzionali ottenuti incoraggiano l’applicazione di tecniche di neurofeedback e possono essere d’aiuto nell’ottimizzazione dei trattamenti attualmente applicati. In generale, la ricerca conferma l’efficacia clinica di trattamenti di ristrutturazione cognitiva anche per adolescenti con disturbi depressivi.
Nonostante la ricerca presenti alcune limitazioni, quali la numerosità del campione o l’assenza di adeguate misurazioni alla baseline, i risultati presentati, ma soprattutto la metodologia seguita dal gruppo di Oxford mostrano risvolti e prospettive utili per future ricerche, da svolgersi con una procedura che garantisca, come in questo caso, validità ecologica alla procedura.
Si è compreso quanto la Disforia di Genere sia una patologia dall’eziologia, dall’inquadramento e dalla valutazione estremamente complessi.
L’esempio del C.I.D.I.Ge.M. e di molti centri simili insegna tuttavia come un approccio multidisciplinare, nel quale lavorano in sinergia psicologi, psichiatri, endocrinologi, urologi, medici chirurghi, possa portare a un sensibile e significativo miglioramento della qualità di vita della persona transessuale.
All’interno del Presidio Ospedaliero “Molinette” di Torino è presente, dal 2005, il centro C.I.D.I.Ge.M (Centro Interdipartimentale Disturbi dell’Identità di Genere – Molinette) che si occupa della valutazione e del trattamento dei Disturbi dell’Identità di Genere. Si è strutturato come polo d’eccellenza riconosciuto dalla Facoltà di Medicina e come punto di riferimento per l’intera regione Piemonte.
Nel primo intervento (Dott.ssa C. Baietto ) è stata messa in luce la difficoltà che comporta una diagnosi in età pediatrica di Disforia di Genere.
I criteri del DSM-V per DIG (Disturbo dell’Identità di Genere) in età infantile sono rigidi. Il DIG è una condizione poco conosciuta e dall’eziologia incerta: si applica uno modello interpretativo bio-psico-sociale. Pochi sono gli studi che si sono occupati di indagarne l’insorgenza trattandola in alcuni casi come una sindrome molto rara, in altri come frequente, con un’incidenza che si aggira attorno al 2-3% della popolazione pediatrica.
Nella fascia di bambini che va dai 2 ai 12 anni vi è un’incidenza doppia nei maschi rispetto alle femmine, mentre in adolescenza il divario si appiana. L’insorgenza può essere molto precoce (intorno ai 2 anni), oppure tardiva (9-10 anni), con caratteristiche differenti.
I bambini del primo gruppo possono esprimere con molta forza i propri comportamenti crossgender e si arrabbiano molto se ostacolati. Col passaggio all’età puberale, tuttavia, si è stimato come in circa l’80% dei soggetti con diagnosi accertata vi sia una graduale accettazione del proprio sesso biologico e una strutturazione omosessuale nell’orientamento di genere.
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Diversa è la situazione per i bambini con un’insorgenza tardiva, per i quali vi sarebbe una tendenza a mantenere nel tempo le caratteristiche della disforia e a rinforzarle al momento della comparsa dei caratteri sessuali secondari.
Seguono gli interventi della Dott.ssa G. Zullo (psicologa) e della Dott.ssa A. Gualerzi (psichiatra) nei quali è stato illustrato il lungo percorso di valutazione diagnostica e presa in carico del soggetto adulto con Disturbo dell’Identità di Genere.
Sono stati innanzitutto declinati i significati di sesso, genere e identità sessuale:
Sesso: rimanda a criteri biologici, ovvero tutte quelle caratteristiche anatomiche e fisiologiche che indicano se si è maschi o se si è femmine;
Genere: costrutto psicologico che cambia e si modifica a seconda delle epoche e dei contesti culturali;
Identità sessuale:
− identità di genere – continuo e persistente senso di sé come maschi o femmine
− ruolo di genere – espressione esteriore dell’identità di genere, ovvero tutto ciò che facciamo per comunicare agli altri la mascolinità o femminilità
− orientamento sessuale – modalità di risposta agli stimoli sessuali: può essere eterosessuale, omosessuale, bisessuale.
Nel caso di un DIG i tre costrutti sopra elencati non coincidono e il soggetto transessuale può esperire una grande sofferenza e un disagio, al punto da desiderare di modificare il proprio corpo per rientrare nel genere desiderato.
Presso il centro C.I.D.I.Ge.M. il percorso di transizione si enuclea in diversi step:
− valutazione psicodiagnostica – durata 6 mesi:
i soggetti che afferiscono al servizio sono sottoposti a colloqui di accoglienza nei quali vengono specificati l’iter di adeguamento e prenotate le prime visite. In un secondo momento iniziano la valutazione psicologica, psichiatrica ed endocrinologica per l’accertamento dell’idoneità al percorso di riassegnazione del sesso. Concludono questa prima fase un’accurata anamnesi (con particolare attenzione al periodo infantile, all’esordio, ai giochi, all’abbigliamento, ecc.), un’esplorazione dell’area della sessualità e una somministrazione di reattivi psicologici (Rorschach, MMPI II, test di livello come WAIS-R e Matrici di Raven)
− Real Life Experience (RLE) – durata 12 mesi:
inizia con l’assunzione della terapia ormonale e la persona comincia a sperimentarsi nel ruolo di genere verso cui si orienta. Durante questo periodo vengono effettuati colloqui individuali espressivo-supportivi volti all’esplorazione dei vissuti del transessualismo e di sostegno in merito ai cambiamenti corporei.
Le modificazioni corporee comportano un cambiamento nella propria identità fisica con un forte investimento sul corpo, per il cui esito vi è incertezza. Vi è, inoltre, una ridefinizione del proprio ruolo di maschi e di femmine a seguito della comparsa dei caratteri sessuali secondari femminili nelle MtF e maschili nei FtM.
Presso il Centro, da maggio 2005 a dicembre 2013, vi sono stati circa 400 ingressi. Ci sono stati 39 drop-out e 47 dimissioni per non congruità con i criteri diagnostici di Disforia di Genere. Attualmente in psicodiagnosi ci sono 21 pazienti (con prevalenza di FtM), mentre in Real Life Experience il numero sale a 70 con prevalenza di pazienti MtF.
Durante il dibattito sono emerse alcune questioni interessanti relative alla valutazione e all’inquadramento psichiatrico del Disturbo dell’Identità di Genere:
1. deve essere utilizzata una certa cautela diagnostica poiché, a differenza degli altri disturbi, questi pazienti non arrivano all’attenzione con dei sintomi specifici quanto piuttosto con una diagnosi autoriferita;
2. si tratta di uno sviluppo psicologico atipico oppure di uno sviluppo in senso psicopatologico? E come si spiega il fatto che sia l’unico disturbo sul quale si interviene chirurgicamente? Si è di fronte a una condizione medica o psichiatrica? Il dibattito in tal senso è ancora aperto ma ci si sta confrontando su una eventuale depatologizzazione della Disforia di Genere;
3. è assente una testistica specifica e l’obiettivo del clinico e dell’equipe non è la guarigione o la remissione dei sintomi, ma l’adeguamento del sesso al fine di un miglioramento della qualità di vita del paziente.
Segue, infine, l’intervento della dott.ssa C. Manieri, endocrinologa, che affronta la disforia di genere da un punto di vista medico.
L’obiettivo del paziente è quello di acquisire le sembianze del sesso desiderato attenuando quelle del sesso di appartenenza: ciò è possibile grazie all’assunzione della terapia ormonale a base di testosterone per i pazienti FtM (Female to Male)e a base di antiandrogeni ed estradiolo per le MtF (Male to Female).
I pazienti iniziano la terapia ormonale prima dell’intervento chirurgico nel periodo della Real Life Experience per poi assumerla in dosi ridotte ma costanti per tutto il resto della vita.
I cambiamenti negli FtM e nelle MtF sono progressivi: negli FtM già dal primo mese si assiste alla scomparsa del ciclo mestruale con possibili spotting successivi dei quali è importante informare i pazienti. Il peso corporeo, in condizioni alimentari corrette, aumenta solitamente di 1 o 2 kg., si assiste a un aumento della massa magra e della peluria, all’abbassamento del tono della voce e a una distribuzione del grasso corporeo in senso maschile. Già nei primi 6 mesi la cute diventa più seborroica e il clitoride aumenta considerevolmente di volume.
Nelle MtF, invece, i cambiamenti vanno nella direzione di una riduzione nella crescita dei peli e della barba, di una scomparsa delle erezioni e del blocco della spermatogenesi; si assiste anche a una riduzione del peso corporeo e a una ridistribuzione dell’adipe in senso femminile. L’unica modificazione sulla quale gli ormoni hanno un’azione relativa è il tono della voce.
Mentre per i cambiamenti sopra citati la tempistica è di circa 6 mesi, per l’aumento del volume della mammella i pazienti dovranno attendere l’anno.
A conclusione del simposio si è compreso quanto la Disforia di Genere sia una patologia dall’eziologia, dall’inquadramento e dalla valutazione estremamente complessi.
L’esempio del C.I.D.I.Ge.M. e di molti centri simili insegna tuttavia come un approccio multidisciplinare, nel quale lavorano in sinergia psicologi, psichiatri, endocrinologi, urologi, medici chirurghi, possa portare a un sensibile e significativo miglioramento della qualità di vita della persona transessuale.
La Funzione Riflessiva nel terapeuta per il trattamento di pazienti borderline
La mentalizzazione, costrutto simile a quello della metacognizione (Semerari et al., 2003), è definita come capacità di concepire gli stati mentali altrui come spiegazioni del comportamento (Fonagy, Target, 2006). I disturbi dove è presente una difficoltà nella mentalizzazione sono in particolare la schizofrenia e il Disturbo Borderline di Personalità
La mentalizzazione è una capacità adattiva che permette agli esseri umani di intessere legami sociali e affiliativi importanti (Brüne, Brüne-Cohrs, 2006; Fonagy, Target, 2006) ed ha un substrato neurologico ben preciso (Brüne e Brüne-Cohrs 2006).
Uno degli obiettivi della terapia con pazienti con difficoltà nella mentalizzazione è quello di comprendere gli stati emotivi del paziente nonché le reazioni interpersonali che li hanno generati.In questo modo sarà possibile tracciare i cicli interpersonali disfunzionali che si vengono a creare tra il paziente e gli altri con cui intesse relazioni sociali e che, prima o poi, si riproporranno in terapia tra paziente e terapeuta. Il terapeuta in grado di mentalizzare sarà capace di riconoscere che sta cadendo in un ciclo interpersonale disfunzionale attraverso la comprensione del proprio stato mentale e di quello del paziente e di validarne lo stato emotivo piuttosto che allarmarsi come potrebbe accadere ad esempio con un paziente con DBP che minaccia un acting-out.
Quanto detto suggerisce l’idea che la mentalizzazione sia un’abilità clinica che il terapeuta deve necessariamente possedere, senza la quale non può esserci una genuina comprensione del paziente.
Recentemente c’è stato interesse riguardo la comprensione della mentalizzazione e del suo ruolo nel setting terapeutico: una ricerca ne chiarisce l’importanza.
Ensink et al. (2013) hanno cercato di comprendere se un training specifico possa aumentare la Funzione Riflessiva di terapeuti all’inizio della loro attività clinica nel lavoro con pazienti con Disturbo Borderline di Personalità.
La ricerca ha coinvolto 48 studenti di psicologia clinica che sono stati assegnati casualmente o al training per la mentalizzazione o al training didattico.
Il gruppo sul training didattico è stato condotto da un professore di psicologia clinica utilizzando lo stesso metodo formativo seguito nel corso di specializzazione post-lauream in psicologia clinica. Gli obiettivi della formazione didattica erano: formulare una diagnosi in base ai criteri del DSM tenendo presente i sintomi e i comportamenti riferiti dal paziente, rintracciare modelli eziologici e infine elaborare un piano di intervento.
Il training sulla mentalizzazione è stato tenuto da un professore esperto nelle abilità di mentalizzazione. Durante il training gli studenti venivano incoraggiati ad esprimere loro impressioni ed emozioni nei confronti del caso clinico presentato: in una prima fase gli studenti imparavano a riconoscere e a differenziare le loro reazioni, in particolare quelle reazioni che li allontanavano da una reale comprensione degli stati emotivi del paziente; in una seconda fase sono stati incoraggiati ad esplorare le emozioni che hanno sperimentato mettendosi nei panni del paziente, a descriverle, per poi giungere ad una comprensione dei sintomi come conseguenza delle dinamiche comportamentali.
I risultati dello studio hanno importanti implicazioni per la formazione post-lauream degli studenti di psicologia clinica: infatti hanno evidenziato che un breve training per la mentalizzazione produce un incremento della Funzione Riflessiva (FR) in terapeuti impegnati nel lavoro con pazienti con DBP; la sola formazione didattica ha invece prodotto un peggioramento della Funzione Riflessiva del terapeuta allontanandolo dalla comprensione degli stati mentali e dei comportamenti del paziente con DBP.
Lo studio ha avuto il merito di evidenziare che un training per la mentalizzazione è in grado di produrre un miglioramento nella FR del terapeuta ma non chiarisce al momento quali siano le implicazioni per il paziente e per l’esito della terapia.
Il lato vivo di The Walking Dead – Psicologia e TV series
The Walking Dead è sicuramente una serie che si presta a molte riflessioni… sulla vita e sulla morte, sulla capacità dell’uomo di affrontare entrambe, anche se a fatica, per poi essere annientato da una via di mezzo, sconosciuta, per la quale (per ora) non ha trovato soluzioni praticabili e risorse spendibili.
SPOILER ALERT! ATTENZIONE, VENGONO SVELATE PARTI DELLA TRAMA
Per quei pochi di voi che non la conoscono, The Walking Dead è una serie televisiva americana di enorme successo, a dire il vero la più vista di sempre, che narra le avventure di un gruppo di sopravvissuti a un’epidemia letale… o quasi. L’intero genere umano è infatti affetto da una malattia che trasforma i morti in non morti, esseri incapaci di parlare o pensare e privi di qualsiasi volontà, se non quella di nutrirsi selvaggiamente di carne umana.
Detta così suona un po’ come uno di quegli horror splatter americani, girati con poco budget e altrettanta scarsa fantasia, in realtà ci ritroviamo nel mezzo di una narrazione che, tra colpi di scena e psicologia non troppo spiccia, tiene incollati allo schermo.
The Walking Dead è sicuramente una serie che, come fu anni fa per Lost, si presta a molte riflessioni… sulla vita e sulla morte, sulla capacità dell’uomo di affrontare entrambe, anche se a fatica, per poi essere annientato da una via di mezzo, sconosciuta, per la quale (per ora) non ha trovato soluzioni praticabili e risorse spendibili.
Tuttavia, nonostante i protagonisti appaiano effettivamente senza speranza, il tema della resilienza, la capacità dell’essere umano di riprendersi da un traumao da traumi cumulativi, si impone al telespettatore dalla prima puntata. Rick, il protagonista, si sveglia da solo in una stanza di ospedale, i fiori appassiti sul comodino, un silenzio surreale nei corridoi, una porta sprangata sulla quale qualcuno segnala “non aprite, morti all’interno”.
Già solo per questo alcuni di noi mollerebbero la spugna, aprirebbero la suddetta porta, e getterebbero al vento il proprio istinto di sopravvivenza. Ma non Rick, e come lui molti altri, vedovi, vedove, madri senza figli e figli senza madri, persone rimaste sole al mondo, che continuano a lottare, a sopravvivere.
Ed è qui che nasce in me la prima di tante domande: cosa fa la differenza tra quelli che decidono di resistere e quelli che si sparano un colpo in testa e la fanno finita subito? Seppure nel mio piccolo, penso che una parte della risposta possa trovarsi in quelle che Ellis chiamerebbe tolleranza alla frustrazione e all’incertezza , ovvero le capacità che ci permettono di sopportare e gestire sentimenti negativi e disturbanti e di accettare il rischio che deriva dall’assenza di controllo.
Detto in soldoni, mi viene da pensare che se tu, umano post-apocalittico, tolleri di avere costantemente paura, di doverti guardare giorno e notte le spalle, di poter perdere tutto da un momento all’altro e di non sapere se arriverai fino a domani… beh, sopravvivi.
The Walking Dead fa riflettere sull’umanità delle persone, che si dividono in pietosi e spietati, quelli che ti salvano e quelli che ti uccidono, a seconda, nella maggior parte dei casi, della via più sicura per la sopravvivenza.
Ci fa pensare poi ad una società, quella americana ovviamente, che, nonostante infarcita di idee di appartenenza e condivisione, di invincibilità e “yes we can”, si sgretola e perde la sua identità poche settimane dopo il contagio. La società post-apocalittica che The Walking Dead descrive è fatta di piccoli gruppi, uniti solo dal bisogno di sopravvivere e dalle stesse idee sul come farlo, o, al massimo, di rari e superficiali tentativi di aggregazione, guidati e puntualmente portati al fallimento da singole identità, fattesi troppo forti o troppo disturbate per lasciare spazio ad altro e ad altri.
In questo scenario, probabilmente solo per esigenze narrative, si ricava uno spazio l’amore, che risorge più forte di prima e al quale i protagonisti si aggrappano, forse per mantenere in vita la speranza, forse per crearne di nuova quando tutto è perduto. A questa forza i protagonisti non sanno resistere, nonostante significhi mettere in gioco sentimenti tanto forti quanto la morte li rende fragili, dimostrando che, sebbene sicuramente “NON bastiamo a noi stessi”, in due possiamo fare già qualcosa.
Tra questi piccoli spunti di riflessione, frutto della mia passione ormai pluriennale per il telefilm, ne sorge ora un ultimo e più recente. Esistono ancora gli eroi? La società che ha partorito Spiderman, Superman, Batman e tanti altri, può pensare un telefilm privo di eroi, proprio quando ce ne sarebbe tanto bisogno? Ormai alla quarta stagione, il telefilm non presenta a tutti gli effetti questa figura. È vero, c’è Rick, ma la sua missione non è salvare l’umanità, bensì portare al sicuro il suo ristretto gruppo di amici, che spesso si sgretola senza troppi problemi.
E al genere umano, quindi, chi ci pensa? In “Io sono leggenda”, film per molti versi simile a questa serie tv, Will Smith si rintana in casa finchè non trova una cura e riesce a farla arrivare, tra mille peripezie e al costo della vita, al centro di accoglienza in cui, ordinatamente, la società americana resiste.
The Walking Dead ci presenta uno spaccato di vita molto diverso, in cui l’obiettivo è semplicemente sopravvivere, piuttosto che tornare a vivere, e questo, a dirla tutta, ci deprime un po’, perché si sa che, in fondo, i sogni sono più affascinanti della cruda realtà.
Nonostante tutto questo, nella puntata del 24 febbraio si apre una speranza: il Sergente Ford, apparso di recente nella trama, ha la missione, forse altruistica, di portare in salvo un medico che conosce le cause del contagio. Che altro dire, quindi, se non “Forza Sergente Ford”!?!
Genitorialità & Felicità: un matrimonio felice, un conto in banca sicuro e buon sonno possono rendere felici le mamme e i papà.
Essere giovane, single, avere un bambino con problemi comportamentali o di sviluppo, o essere il genitore non affidatario sono tutti collegati a minore felicità dei genitori, anche se tutti i genitori, anche quelli giovani e i single, dichiarano di avere una vita più ricca di significato e scopo rispetto a quelli senza bambini.
Chi è più felice: i genitori o non genitori ?
Domanda sbagliata.
La vera questione, dicono i ricercatori in psicologia sociale, è : quando i figli rendono i genitori felici e quando non lo fanno? E ancora, quali sono i genitori più felici?
La questione genitorialità è stata affrontata la scorsa settimana in occasione della riunione annuale della Society for Personality and Social Psychology ad Austin, Texas.
Complessivamente è emerso che diventare un genitore in età più avanzata è collegato con la felicità , così come lo è (prevedibilmente) la sicurezza finanziaria .
Gli studi che tentano di confrontare i genitori e non genitori hanno raccolto risultati diversi: che i bambini rendono le persone più felici, ma che i bambini rendono le persone meno soddisfatte del loro matrimonio; che i genitori sono i meno felici, ma mentono riguardo a se stessi.
La sfida più grande nel rispondere alla domanda sta nel fatto che le persone che scelgono di avere figli e quelle che scelgono di non averne sono diverse fin dall’inizio: i ricercatori non possono assegnare casualmente alcune persone a una condizione o all’altra per vedere cosa succede! Inoltre anche i fattori esterni possano influenzare la felicità.
Ad esempio, a 45 anni, l’86% delle donne e l’84% degli uomini hanno dei bambini, rendendo i non-genitori una minoranza: questi non-genitori potrebbero dover affrontare giudizio o critiche per il fatto di non avere figli e questo potrebbe ridurre i loro livelli di felicità .
Uno studio pubblicato sulla rivista Psychological Science nel gennaio 2013 , rivela che i genitori , in media , erano solo un po’ più felici rispetto ai non -genitori.
Ma le differenze nella felicità erano piccole, così che i ricercatori si sono rivolti alle ricerche precedenti per scoprire cosa fa la differenza tra un genitore felice e uno meno felice. Hanno esaminato studi che comparavano genitori e non genitori, studi che hanno seguito non genitori mentre sono diventati genitori, e studi che hanno comparato la felicità dei genitori nella genitorialità con quella nel fare altre cose.
I risultati , presentati ad Austin, ci dicono che un matrimonio felice, un conto in banca sicuro e buon sonno possono rendere felici le mamme e i papà.
Essere giovane, single, avere un bambino con problemi comportamentali o di sviluppo, o essere il genitore non affidatario sono tutti collegati a minore felicità dei genitori, anche se tutti i genitori, anche quelli giovani e i single, dichiarano di avere una vita più ricca di significato e scopo rispetto a quelli senza bambini.
Inoltre non c’è un’età ideale per avere figli che garantisca una perfetta felicità, anche se alcuni studi segnalano i 30 come età di beatitudine finanziaria e coniugale.
Tra le letture magistrali alla quali abbiamo assistito durante il Workshop a Roma molto interessante è risultata alle nostre orecchie quella tenuta da David Clark, il quale ha esposto dei risultati sull’efficacia di diverse terapie in particolare per quanto riguarda il trattamento della Fobia Sociale.
Infatti è stato esposto il modello di Clark e Wells (1995) che si focalizza su tre principali punti della fobia sociale: il focus interno dell’attenzione, l’utilizzo di informazioni interne per dedurre come si appare agli altri ed infine i comportamenti di sicurezza utilizzati dai pazienti.
L’intervento proposto da Clark prevede un protocollo specifico personalizzabile in base al paziente che abbiamo di fronte. Il protocollo prevede:
– esercizi esperienziali per dimostrare gli effetti contrari dell’attenzione focalizzata su di sé e dei comportamenti di sicurezza;
– l’utilizzo di video come feedback per correggere l’idea negativa della propria immagine;
– esperimenti comportamentali per testare le predizioni temute nelle situazioni sociali, in particolare nel momento in cui non si mettono in atto comportamenti di sicurezza o non ci sono i risultati temuti;
– indagine per scoprire il punto di vista degli altri sui risultati temuti;
– infine lavori di memorizzazione per ridurre l’impatto di un possibile trauma sociale.
All’interno del protocollo mancano quelli che sono dei punti fondamentali della terapia Cognitivo-Comportamentale come l’esposizione graduale, la valutazione dell’ansia nelle situazioni temute, la registrazione dei pensieri fatti dai pazienti o l’utilizzo di social skills training.
Clark riporta però dei dati (Clark, Ehlers et al. 2006) di studi sull’efficacia del trattamento della Psicoterapia Cognitiva che mostrano come l’intervento da lui esposto sembra avere dei risultati migliori nel trattamento della Fobia Sociale, rispetto ad un trattamento basato sull’esposizione del paziente alle situazioni temute. Inoltre la Terapia Cognitiva sembra essere superiore non solo all’utilizzo dell’esposizione, ma anche a due diversi tipi di gruppi CBT testati, alla psicoterapia interpersonale, alla psicoterapia psicodinamica e ad altri trattamenti anche di tipo medico.
I risultati portati da Clark sembrano portare degli ottimi spunti per un trattamento della Fobia Sociale e per l’utilizzo di tecniche diverse dall’esposizione graduale spesso utilizzata.