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The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (2014)- Recensione

 

 

The Wolf of Wall Street

di Martin Scorsese (2014)

 

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The Wolf of Wall Street di Martin Scorsese (2014)

Ascesa e caduta di Jordan Belfort, agente di Borsa che debutta a Wall Street nel lunedì nero del 19 Ottobre 1987.

Scorsese porta sul grande schermo il ritratto di un inferno amorale, cinico, irreversibilmente grottesco negli eccessi di cui si nutre senza sosta, nel culto onanistico del denaro che si impadronisce dell’identità umana.

Sesso con prostitute divise con metodo accurato per fasce di prezzo, orge in ufficio al suono della campanella di fine contrattazioni, nani imbracati lanciati come freccette contro un bersaglio carico di dollari, droghe consumate fino a sfinimento per non esaurire il propellente del delirio.

Il film non ha ricevuto consensi unanimi perché l’epopea illegale che vi è rappresentata è sembrata ad alcuni un’apologia dell’arrivismo corrotto che ha messo in croce la società contemporanea, in realtà lo sguardo di Scorsese è impietoso pure se passa da un’ironia leggera nei tratti.

Uno straordinario Di Caprio ha dato luce e movenze ad un personaggio talmente surreale da arrivare allo spettatore in tutta la verità della sua irreparabile idiozia, e gli eccessi che riempiono molte scene del film sono il pietoso tentativo di un sistema indifendibile di autolegittimarsi attraverso il potere del lusso, il prestigio della sopraffazione, l’estasi del plateale e dell’effimero.

Non solo non vi è alcuna giustificazione del ladrocinio perpetrato da Jordan Belfort prima ai danni di poveri disperati cui vende azioni di nessun valore, poi nei confronti di ricchi inetti trascinati verso affari catastrofici, ma la raffigurazione dello sfascio morale ha il pregio di avvenire da dentro, senza doversi nobilitare di princìpi necessari: come dire, sono i personaggi stessi a distruggersi, è sufficiente mostrarli senza aggiungere nulla e l’abisso in cui precipita la loro dignità contiene in sé le domande e le risposte.

Pur affaticato nel finale dal vizio inguaribile delle opere di Scorsese, una durata infinita che costituisce un pericolo e non un’estensione per il valore contenutistico, The Wolf of Wall Street riesce a staccarsi radicalmente dagli altri film che negli ultimi anni hanno affrontato il tema delle truffe globalizzate condotte dall’alta finanza; la parola viene data al lupo e l’obiettivo del lupo, il suo bisogno non è essere un duro, sbranare gli affari, bensì portare sempre più in alto il tendone del circo, lo scempio di una vita che se non può essere vissuta per dei valori accettabili – e il protagonista ne soffre ma soffre il proprio degradante e ignobile vuoto, non certo la condanna di un destino che invero si è scelto e ha perseguito con tutte le forze disponibili – deve essere ipertrofica nella sua sconsolante inutilità.

Gli affari sono un mezzo per sostenere l’edonismo da teatro dell’assurdo, l’epica ostentazione di ciò che fa vibrare gli organi meno coscienti del corpo, e negli occhi di Jordan, che dallo yacht di 52 metri accompagnano il mastino dell’Fbi capace di lì a poco di far aprire la cella di una prigione, passa un’ombra fugace, pesante come un macigno, la consapevolezza dell’impotenza di fronte a quello che non si può comprare.

L’ironia più riuscita di The Wolf of Wall Street è la scelta degli eroi, uomini di ridicola incapacità che trasformano le loro vite imparando il mestiere della truffa ma rimangono gli stessi figuranti inaccessibili al bello e al degno, solo con molti più soldi, con una quantità di soldi che permette loro di teorizzare il nulla.

Un ricco stupido è un ricco, un povero stupido è uno stupido, sembra dirci Scorsese non senza un’evidente considerazione sul genere umano, o almeno su una fetta delle umanità possibili; saper vendere una penna, far sentire al compratore il bisogno di quella penna così da inchiodarlo alle sue stesse indeterminatezze, è il valico che separa un uomo di successo da un rassegnato padre di famiglia della provincia americana oppresso dai debiti, e che insieme fissa il confine tra il diritto all’onnipotenza e l’ergastolo dell’infelicità.

E’ un gioco, tremendo e inarrestabile, come le smorfie dei cortigiani di Jordan assiepati alle sue spalle per seguire con eccitazione da maschi sborniati da libido il raggiro telefonico che il loro dioscuro porta a termine, o l’ebbrezza drogata del suo più fidato consigliere che si masturba in pubblico durante una festa perché i capricci di un milionario sono godimento e indifferenza. The Wolf of Wall Street fa centro, come i nani imbracati: allo spettatore l’onore e l’onere di un piacere da uomo comune.

TRAILER:

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I pericoli dell’attaccamento a un sogno rigido – Psicologia di Sogni e Aspirazioni

PIANO DEL SOGNO PT. 3

Il sogno rigido.

Psicologia di Sogni e Aspirazioni

Immagine: Il sogno rigido - Bonsai your partner – © 2014 Costanza Prinetti
Immagine: Il sogno rigido – Bonsai your partner – © 2014 Costanza Prinetti

 

MONOGRAFIA PIANO DEL SOGNO

Il rigido sogno ideale può avere un impatto deleterio quando viene trasportato nel mondo delle relazioni affettive. Lì il sogno assume i contorni della coppia ideale. Ancora una volta si chiede al mondo che diventi più simile al nostro sogno piuttosto che cercare un livello di buon adattamento tra le aspirazioni e la realtà entro un moderato grado di tolleranza delle frustrazioni.

In aggiunta, questo tipo di rigido sogno si attacca a un’altra persona che ne viene contagiata, spesso controvoglia o senza accorgersene. Prendiamo l’impatto dell’attaccamento a un rigido sogno di coppia ideale che ha in mente Maria nella sua relazione con Marco.

Il primo rischio di Maria è quello di puntare costantemente l’occhio su ciò che non torna, sulla discrepanza tra il comportamento di Marco e il suo ideale (come un partner dovrebbe essere). Maria è costantemente insoddisfatta e un po’ critica. Marco finisce nella posizione di quello che non va mai bene, si sente irritato e sotto costante attacco, evita e si allontana per non essere criticato oppure reagisce rabbioso. Naturalmente sia il distacco che la lite sono cose che non rientrano nel sogno di una coppia serena di Maria, con conseguente incremento dei decibel e dei piatti rotti in cucina.

Non è detto che Maria continui con la recriminazione litigiosa, potrebbe anche cercare di fare la maestra: “se mi ama piano piano capirà, cambierà e costruiremo assieme questo sogno”. Questo quale? Quello di Maria, perché Marco in tali considerazioni non è contemplato. Maria quindi inizia la sua opera di graduale addestramento con sacrificio, sforzo e tante frustrazioni da sopportare. Marco dal canto suo si sente privo di voce, controllato e non riconosciuto, senza spazio di manovra e di espressione del proprio punto di vista. Manca la condivisione emotiva e la negoziazione (dove ciascuno cede qualcosa) verso un progetto comune. Maria ha fatto il suo carretto e lo guida verso la sua strada, Marco è un passeggero che può starsene buono a carico per evitare ogni perturbazione (e talvolta anche non occuparsi dei problemi quotidiani) oppure ribellarsi.

Infine, quando Marco non rispetta il piano dettato dal sogno non v’è solo la recriminazione. Maria può reagire anche in un altro modo: sviluppare la malattia autoimmune del sogno. Questa si traduce in una serie di giustificazioni e di minimizzazioni (“è stanco, è un periodo, devo solo reggere e lui cambierà, se mi impegno di più lui capirà ecc…“).

Se Marco la picchia, è stressato, non un violento. La realtà viene letta per salvare il sogno e l’investimento e così non s’impara che anche Marco esiste e che forse, nel bene e nel male, è diverso da come lei lo vuole o lo ha costruito.

Tutto questo ha una serie di costi per Maria: fatica (il sacrificio insoddisfatto stancherebbe chiunque), solitudine (non sento Marco vicino a me in questo progetto), rabbia (perché Marco nonostante gli sforzi non capisce e non aiuta). E intanto Marco potrebbe stancarsi e mollare tutto o anche solo rompere drasticamente il sogno.

Per esempio può esserci un tradimento del sogno, non necessariamente di natura sessuale. Un trauma improvviso e ingiusto per Maria che ora si sente senza nulla in mano dopo aver investito tanto. Una doccia fredda non contemplata perché le autoimmunizzazioni hanno intanto velato i segnali premonitori. Si apre il baratro di una separazione traumatica, ad andar bene un disturbo dell’adattamento.

Maria può iniziare a ruminare sulle proprie mancanze e su ciò che non ha visto, si arrabbia, sente l’ingiustizia subita. Infine può cadere nel vortice di “chi ha perso tempo inutilmente” e ha seguito una strategia che l’ha lasciata “senza nulla in mano“, ma soprattutto visto che anche la faticosa e impegnata perseveranza ha fallito, emerge anche la sensazione di essere persi, senza punti di riferimento. L’attaccamento al sogno ha reso impossibile sviluppare altri modi di relazionarsi. Maria non sa ora come può gestire diversamente un rapporto. Può attribuire il fallimento a sé (“non sono stata abbastanza brava“) o all’altro (“ho capito che era uno stronzo“).

Più difficile è vedere come il piano di attaccamento rigido al sogno abbia minato tutto il percorso e non ha mai concesso loro di stare veramente vicini. Pausa e distinguo: non poniamo certo tutto il carico di responsabilità su Maria, c’erano mille cose che Marco poteva fare per far sentire la sua voce, ma oggi scriviamo del problema di attaccamento al sogno ideale.

PIANO DEL SOGNO: PARTE 1 – PARTE 2

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Esame di realtà: cosa succede nei Sogni e nel Delirio – Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Sogni e deliri hanno un legame comune: un difetto nell’esame di realta’ dei sistemi cognitivi di ordine superiore.

Una nuova ricerca dell’Università di Adelaide ha approfondito le ragioni per cui alcune persone non sono in grado di liberarsi delle loro illusioni, nonostante prove schiaccianti dimostrino che l’illusione non è reale.

Secondo questo studio sogni e deliri hanno un legame comune: un difetto nell’esame di realtà dei sistemi cognitivi di ordine superiore.

Normalmente l’ “esame di realtà”  (reality testing) controlla il sistema di “narrazione” (storytelling), che genera un racconto dell’esperienza soggettiva; pensiamo, ad esempio, a una persona che quando ha mal di testa pensa subito che potrebbe avere un tumore al cervello, poi congeda quel pensiero bizzarro e va oltre; grazie all’esame di realtà, la storia “potrei avere il cancro al cervello” viene rapidamente valutata e respinta. Ma a chi ha un deficit nell’esame di realtà questa storia potrebbe sembrare possibile e potrebbe anche essere elaborata e tradotta in azione.

La capacità di confutare i pensieri dipende dall’attività del circuito prefrontale dorsolaterale destro. Quando l’attività in quei circuiti è assente o compromessa le persone sono meno propense a fare questo tipo di correzione. Questa sembra essere la causa di alcuni deliri da misidentificazione. Confrontare il modo in cui la mente risponde all’esperienza di iperfamiliarità in condizioni diverse (ad esempio nel delirio, nei sogni, nel déjà vu patologico e non) fornisce un modo per capire in che cosa delirio e sogno sono entrambi stati caratterizzati da un deficit dell’esame di realtà.

Nell’articolo viene spiegato come nelle sindromi deliranti da misidentificazione l’illusione possa essere innescata sia da sentimenti di familiarità che di non familiarità; un esempio è il “delirio di Capgras“,  in cui una persona non è in grado di provare senso di familiarità per persone familiari e vive nella ferma convinzione che le persone a lui care siano state rimpiazzate impostori a loro identici.

Nel “delirio di Fregoli (o fregolismo)”  le persone pensano invece di essere seguite da qualcuno che conoscono che però si presenta sotto mentite spoglie; questo sarebbe un modo di gestire il senso di familiarità evocata nel vedere un estraneo.
Le persone sperimentano anche sentimenti di familiarità e non familiarità nei deja vu e nei jamais vu, tuttavia in questo caso l’esame di realtà rimane intatto.

Ma qual è la differenza tra un sogno, un delirio e allucinazione ? Gerrans spiega:

Sogno: le immagini, sensazioni e pensieri che sperimentiamo durante il sonno.  Nei sogni viviamo delle esperienze ma non abbiamo idee in proposito perchè il sistema dell’esame di realtà non è attivo.

Delirio: una credenza irrazionale in contrasto con la realtà mantenuta di fronte alle prove evidenti e al ragionamento logico contrari.

Allucinazione: l’apparente percezione di un oggetto non effettivamente presente.

Déjà vu: la sensazione di aver vissuto una situazione precedente che è in realtà sconosciuta . È causato da un erroneo “senso di familiarità”.

Jamais vu: la sensazione che una situazione familiare non è mai stato sperimentato prima . È causato dalla perdita fugace del “senso di familiarità”.

Esame di realtà: la capacità di determinare se un pensiero o una percezione rappresenta fedelmente la realtà. In gran parte assente nei sogni e compromessa in delirio.

Secondo Gerrans una migliore comprensione del sistema dell’esame di realtà permetterebbe di migliorare i risultati nel trattamento di questi deficit.

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BIBLIOGRAFIA:

 

Polytechnique di Denis Villeneuve (2009) – Psicologia Film Festival – PFF

 

5° PSICOLOGIA FILM FESTIVAL – PFF

Presenta: 

Polytechnique

di Denis Villeneuve (2009)

Presenta l’Associazione Psychetius

polytechnique facebook - piccolo

 

Il Collettivo di Psicologia, in collaborazione con le Officine Corsare e l’Associazione Psychetius, presenta il

7° Appuntamento del Psicologia Film Festival

Martedì 4 Marzo ore 21,00

presso il Cubo, via Pallavicino 35

con la proiezione del film

POLYTECHNIQUE

di Denis Villeneuve (2009)

presenta l’Associazione Psychetius

Ingresso libero con tessera Arci

Il Film

Polytechnique è un affresco cubista che raffigura con distacco il massacro consumatosi il 6 dicembre 1989 nell’omonima scuola di Montréal: una strage in cui un giovane armato di fucile e fermamente determinato “A mandare al Creatore le femministe che mi hanno sempre rovinato la vita” ha sterminato quattordici donne.

Aperto da un incipit esplosivo e sostanzialmente diviso in tre parti (il prima, il durante e il dopo della carneficina), il film non si crogiola nella retorica lacrimogena, ma predilige le atmosfere sospese e l’osservazione fenomenologica, evitando accuratamente di indagare i perché del massacro, concentrandosi invece sul come. Una scelta che elimina radicalmente la questione delle cause, mettendoci di fronte a un soggetto misogino pienamente formato e altrettanto pienamente consapevole delle proprie decisioni.

Spesso la camera si blocca senza seguire le traiettorie dei personaggi ripresi, lasciandoli allontanare di spalle. In questo gesto si indovina un duplice significato: l’inconsapevole fatalità dei loro percorsi e l’impotenza di uno sguardo che non può far altro che assistere passivamente alla tragedia incombente.  A smorzare l’effetto shock provvede un sonoro che rimpiazza il frastuono delle detonazioni e delle grida di panico con un commento musicale sibilante e rarefatto.

L’École Polytechnique si tramuta nel teatro di un’assurda, meccanica ecatombe: ispirandosi figurativamente a Guernica, la cinepresa si contorce in rotazioni destabilizzanti, in prospettive rovesciate, si innalza verticalmente fino a trasfigurare il luogo della tragedia in astrazione insensata. Una rappresentazione della follia umana di geometrica, inarginabile (s)compostezza.

 

Il regista

Denis Villeneuve realizza nel 1994 il suo primo cortometraggio, REW-FFWD. Esordisce alla regia di un lungometraggio nel 1998 con Un 32 août sur terre, presentato a Cannes nella sezione Un Certain Regard, e scelto come rappresentante del Canada per l’Oscar al miglior film straniero. Con la sua opera seconda, Maelström (2000), raccoglie premi in molti festival internazionali, tra cui il Premio FIPRESCI per la sezione Panorama al Festival di Berlino e il premio per il miglior film canadese al Montreal World Film Festival. Con Polytechnique conquista ben 9 Premi Génie. Nel 2010, gira La donna che canta.

 

Associazione Psychetius

L’associazione si occupa di promuovere e realizzare l’attività di ricerca in psicologia e criminologia, di facilitare la diffusione delle conoscenze scientifiche mediante l’organizzazione di riunioni, congressi e seminari, di assistere e aiutare detenuti, ex detenuti e loro familiari, accrescendo il benessere dei soggetti destinatari, favorendone l’inclusione sociale, l’integrazione e salvaguardandone i diritti.

 

Vi aspettiamo numerosi

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ARTICOLI SU CINEMA & PSICOLOGIA

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

 

A proposito di Davis dei fratelli Coen (2013) – Recensione

A proposito di Davis

di Joel & Ethan Coen

(2013)

 

“Se non è mai stata nuova e non invecchia mai allora è una canzone folk”.

 

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A proposito di Davis

L’idea che ha di sé? Immobile e indefinita, tra il sogno di raggiungere la perfezione artistica e la totale assenza di una strategia per perseguirla.

Sa molto bene invece quello che non vuole: rinunciare, vendersi, diventare commerciale, prendere responsabilità.

ATTENZIONE! NELL’ARTICOLO VENGONO RIVELATE PARTI DELLA TRAMA

Llewyn Davis è un cantante folk, vive in una New York anni 60 e la sua vita ruota intorno al Greenwich Village, tra i divani degli amici che lo ospitano e i locali in cui suona saltuariamente aspettando il concerto che gli cambierà la vita. Llewyn (Oscar Isaac) ha un animo blues, malinconico, pessimista, indifferente a tutto, rude e capace di esprimere pochissime e volubili emozioni.

Il profilo è di un irresistibile perdente: immerso nella vuota ciclicità delle sue giornate, in fuga dal destino di marinaio che già fu del padre, ma dotato di indubbio talento e capacità di mettersi in gioco nelle situazioni più bizzarre che la vita gli presenta. Unico tragico difetto: trasformare le vie di fuga in vicoli ciechi… ed è li che lo conosciamo nei primissimi minuti della pellicola.

Quello che gli altri vedono in lui dipende da chi sono gli altri: per i suoi amici dei quartieri ricchi è un famoso musicista folk e viveur del  Village, per l’amica Jean (Carey Mulligan) è un buono a nulla capace solo di distruggere quello che ha intorno, è un cattivo investimento per i discografici, uno scapestrato senza valori per la sorella e forse semplicemente un parassita per tutti gli altri.

L’idea che ha di sé? Immobile e indefinita, tra il sogno di raggiungere la perfezione artistica e la totale assenza di una strategia per perseguirla. Sa molto bene invece quello che non vuole: rinunciare, vendersi, diventare commerciale, prendere responsabilità.

In questo scenario il futuro non è mai preso davvero in considerazione, mentre il presente spinge con i rimproveri crudeli di Jean, con il freddo dell’inverno newyorkese – decisamente insopportabile per chi, come lui, non ha un cappotto! – e le grottesche disavventure che scandiscono le giornate.

Llewyn appare incastrato in quello che potremmo definire il “loop dell’auto-sabotaggio: i buoni propositi con cui si sveglia ogni giorno – sul divano di qualcun altro! – vengono letteralmente spazzati via da dimenticanze, superficialità e peccati di ingenuità, che lo fanno sentire per tutto il giorno in balia di eventi incontrollabili, finché alla sera ci appare di nuovo una vittima della sfortuna, del caso – o forse di se stesso – ma soprattutto di nuovo bisognoso di una cena e di un divano su cui passare la notte.

La consapevolezza di Llewyn è fuggevole, dura solo pochi attimi, mentre non riesce a vedere da fuori la ciclicità del suo agire, unica chiave di lettura che potrebbe forse aiutarlo a spezzare quel loop.

Persino il gatto che lo accompagna nell’odissea delle sue giornate, non a caso Ulisse, ci appare più scaltro e intelligente di lui: quando Llewyn non sa cosa fare, è Ulisse a scegliere per lui.. e quando finalmente riuscirà da solo a tornare a casa, Ulisse sarà per Llewyn lo specchio del suo scarso valore, come cantautore e forse anche come essere umano.

Il realtà, come spesso accade, la ciclicità dei fallimenti ha a tratti un sapore rassicurante: è in fondo prevedibile, familiare e protegge da emozioni ben peggiori e distruttive. Sullo sfondo c’è infatti il dolore per la perdita del suo amico ed ex socio, solo raramente ricordato, e la paralisi che segue il terrore e la disperazione vissuti di fronte ad eventi incomprensibili. Tutto si ferma da lì in poi.

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Alla fine sembra che sia proprio la struggente comicità del personaggio a permetterci di sentire empatia e autentica simpatia per lui: pur osservando i suoi grossolani errori, nessuno sembra riuscire a giudicarlo in modo definitivamente negativo. Gli si vuole bene, nonostante tutto.

La canzone che apre e chiude il film “Hang me” (di Dave Van Ronk) ci introduce subito all’umore nero che dominerà la scena e come al solito i fratelli Coen riescono a dare il ritmo perfetto a sorrisi e lacrime, queste ultime mai davvero liberate dalla morsa dell’ironia.

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Psicoterapia Sistemico-Relazionale: Intervista con Matteo Selvini

 

LE INTERVISTE AI GRANDI CLINICI ITALIANI

State of Mind intervista:

Matteo Selvini

Psicologo e Psicoterapeuta.

Responsabile della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Sistemico-Relazionale Mara Selvini Palazzoli.

 

State of Mind intervista Matteo Selvini,  Psicologo e Psicoterapeuta. Responsabile della Scuola di Specializzazione in Psicoterapia Sistemico-Relazionale Mara Selvini Palazzoli. Questa intervista fa parte di un ciclo di interviste ai grandi clinici italiani, che ha lo scopo di realizzare una panoramica dello stato dell’arte della psicoterapia (ricerca e clinica) in Italia.

I GRANDI CLINICI ITALIANI

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TUTTI GLI ARTICOLI SU: PSICOTERAPIA SISTEMICO-RELAZIONALE – VEDI IL PROFILO DI MATTEO SELVINI

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Coinvolgere adolescenti riluttanti: l’efficacia di un primo incontro familiare

 

Graham Davey sul rapporto tra Psicologia Sperimentale e Clinica – Rome Workshop on Experimental Psychopathology

Experimental Psychopathology Rome 2014

Si è tenuto in questi giorni il primo Rome Workshop on Experimental Psychopathology organizzato dall’Associazione di Psicoterapia Cognitiva e Scuola di Psicoterapia Cognitiva in collaborazione con Università Sapienza di Roma e con la Società Italiana di Terapia Comportamentale e Cognitiva (SITCC).

Si è trattato di un evento scientifico nuovo che aspira ad essere il primo di future opportunità di incontro tra il mondo della psicologia sperimentale e quello della psicologia clinica.

La prima lettura magistrale traccia la linea culturale dell’evento. Graham Davey ci racconta quali sono le ragioni per cui la psicologia clinica ha bisogno della psicologia sperimentale. Si tratta di due mondi che un po’ si parlano è un po’ si ignorano. Davey è dichiaratamente schierato in sostegno della sperimentazione e come conseguenza di questo imposta il suo discorso partendo proprio da alcuni errori, compiuti soprattutto dagli psicologi clinici.

Il primo è la volontà di difendere il proprio territorio. Il secondo, la tendenza dei journal a rifiutare ricerche sperimentali sui meccanismi psicopatologi che sono effettuate su soggetti non clinici. Il terzo la tendenza a credere che la psicologia sperimentale voglia spiegare tutto. Il velo provocatorio è tangibile:

molti clinici dicono che i modelli sperimentali non si applicano alle popolazioni cliniche ma non mi hanno mai spiegato perchè“.

Certo questo taglio appare ingeneroso, forse anche lamentoso. Ci sono molteplici altri misunderstanding che si muovono in direzione opposta, per esempio il rischio di applicare modelli sperimentali senza considerare l’impatto dell’interazione tra processi in mutuo rapporto. Isolarli in terapia non è esattamente come isolarli in laboratorio. Insomma, esistonomi rischi anche sul versante opposto. Tuttavia oltre le provocazioni Davey coglie un punto centrale, se la psicologia clinica e la psicologia sperimentale non si parlano tra loro per sostenere i modelli psicologici con evidenze, corrono il rischio di essere fagocitate dalla psicobiologia e dalle neuroscienze.

 

Nella seconda parte della sua lettura Davey mostra alcuni esempi di contributi della psicologia sperimentale alla psicologia clinica. Questo sia per applicare alla psicopatologia i modelli che riguardano processi cognitivi, affettivi o comportamentali. Ma anche per identificare quali sono esattamente gli agenti attivi che producono un cambiamento nel corso della psicoterapia. Molte cose accadono in terapia, molte sono utili o possono fare stare meglio il paziente, ma solo alcune, non sempre chiare, rappresentano gli ingredienti attivi di un cambiamento stabile. Il grande contributo della sperimentazione hard è proprio questo: individuare evidenze di relazioni causali, sia nell’ambito psicopatologico che in quello psicoterapeutico.

Al di là delle provocazioni, la psicologia sperimentale è un interlocutore se non un governante, cui guardare per non scivolare nel rischio di “stare a reinventare la ruota”.

 

TUTTI I REPORTAGES DAI CONGRESSI

La Grande Bellezza vince l’Oscar 2014 per Miglior Film straniero

La Grande Bellezza, di Paolo Sorrentino, vince agli Oscar 2014 il premio come miglior film straniero.
Non succedeva dal 1999 quando a ricevere la statuetta fu Benigni per La vita è bella.

Ecco le due recensioni di State of Mind del film di Sorrentino

La Grande Bellezza: del vuoto esistenziale e narrativo. RecensioneConsigliato dalla Redazione

La Grande Bellezza: Ciò che non convince de “La grande bellezza” è la ridondanza del contenuto, che si dipana in assenza di un\’autentica trama e piuttosto affidandosi a una sequela talora estenuante di frammenti dal medesimo significato, riempiti da individui che replicano se stessi nel compimento di azioni patetiche, bizzarre, amorali. (…)

Tratto da: State of Mind

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

LEGGI ANCHE LA RECENSIONE DE LA GRANDE BELLEZZA DI SIMONA NOVIELLO


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Disturbo Borderline di Personalità: quando l’Amigdala si infiamma – SOPSI 2014

 

 

SOPSI 2014 

Report dal Simposio: Psicologia del patologico e Patologia dello Psicologico nell’arco della vita.

Intervento di Mario Rossi Monti: Borderline quando l’Amigdala si infiamma.

 

SOPSI 2014 - Disturbo Borderline quando Amigdala di infiammaL’amigdala, chiamata anche mandorla delle emozioni (dal greco amygdálì che significa mandorla), è oggetto di indagini per il suo importante ruolo nella risposta al pericolo. Numerosi dati sostengono che sia responsabile della rilevazione, della generazione e del mantenimento delle emozioni correlate alla paura.

Studi sperimentali condotti da Benedetti F. et al. (2010) hanno evidenziato che l’amigdala svolge un ruolo importante nell’elaborazione di stimoli minacciosi. Attraverso l’espressione facciale dell’altro ci permette di decidere in 100 millisecondi se ci possiamo o meno fidare della persona che abbiamo davanti.

Il dato più interessante riguarda l’osservazione che questa regione celebrale si attiva anche quando l’espressione minacciosa dell’altro non viene percepita in modo consapevole. Nei pazienti con Disturbo Borderline di Personalità troviamo un’iperattivazione dell’amigdala: essi sono molto sensibili alle emozioni espresse dal volto dell’altro.

Questa popolazione di pazienti ha un’elevata sensibilità nel cogliere le emozioni dell’altro, pur mostrando difficoltà nell’orientarsi all’interno del proprio mondo emozionale.

Ma come facciamo a definire l’inaffidabilità dell’altro? Possiamo fare riferimento a due dimensioni:

Ambiguità: indifferenziazione (a questa è molto sensibile l’amigdala)

Imprevedibilità

Dunque se cogliamo nel volto dell’altro espressioni indifferenziate o imprevedibili avremo un’attivazione dell’amigdala e, conseguentemente, una percezione di inaffidabilità.

Nel caso specifico dei pazienti borderline troviamo una ipertrofia nel cogliere la minaccia nell’espressione facciale dell’altro.

Come Linehan M. (1993) sottolinea, in questi pazienti c’è una difficoltà nel leggere le facce neutrali ed una tendenza a credere che non ci si possa fidare dell’altro. A causa del loro funzionamento dicotomico hanno l’urgenza di collocare l’espressione facciale della persona che hanno di fronte in una categoria (buoni/cattivi) e pertanto tendono a trasformare l’ambiguità in ambivalenza. A cosa serve questa operazione?

Il paziente borderline “disambigua” forzando sul negativo allo scopo di suscitare nell’altro qualche emozione. Questa strategia permette di uscire da quella ambiguità intollerabile, ma di fatto suscita un’emozione (negativa) nell’altro che lo porta a confermare l’aspettativa di inaffidabilità.

 

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Alimentazione: l’Influenza dell’Umore sulla scelta di ciò che mangiamo

 

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Quattro esperimenti di laboratorio per verificare se le persone in uno stato d’animo positivo preferiscano gli alimenti sani, che hanno benefici a lungo termine sulla salute, e se invece quelle in uno stato d’animo negativo preferiscano cibo spazzatura per un immediato ed edonico vantaggio nella regolazione del tono dell’umore.

Meryl Gardner, professore associato dell’Università del Delaware si è chiesta “Perché quando siamo di cattivo umore scegliamo di mangiare “male” e quando siamo di buon umore facciamo scelte alimentari più sane?

Nel cercare di rispondere a questa domanda Gardner e il suo team hanno scoperto che molto dipende dalla nostra prospettiva del tempo.

I ricercatori hanno sposato le teorie di regolazione affettiva (come le persone reagiscono ai loro stati d’animo e le emozioni) e la prospettiva del tempo per spiegare la scelta degli alimenti.

Hanno condotto quattro esperimenti di laboratorio per verificare se le persone in uno stato d’animo positivo preferiscono gli alimenti sani che hanno benefici a lungo termine sulla salute e se invece quelle in uno stato d’animo negativo preferiscono cibo spazzatura per un immediato ed edonico vantaggio nella regolazione del tono dell’umore.

Nel primo studio i ricercatori hanno studiato l’effetto dell’umore sulla valutazione di cibi sani e non sani in 211 soggetti. I risultati indicano che gli individui in uno stato d’animo positivo, rispetto ai controlli del gruppo con un umore neutro, valutavano i cibi sani più favorevolmente rispetto a quelli non sani.

In un secondo studio condotto su 315 studenti universitari i ricercatori hanno trovato invece supporto alla loro ipotesi che gli individui in uno stato d’animo negativo preferiscono cibi malsani rispetto a quelli sani.

Secondo Gardner il fatto che le persone in uno stato d’animo positivo abbiano apprezzato le opzioni alimentari più sane e l’idea di essere in salute in età avanzata è coerente con l’ipotesi che la prospettiva del tempo è importante. Cioè che uno stato d’animo positivo rende la gente più propensa a pensare al futuro e che pensare al futuro ci fa pensare più in astratto.

I ricercatori hanno poi condotto uno studio per escludere il raggiungimento degli obiettivi come una spiegazione alternativa ai risultati ottenuti nei due studi precedenti .

Per avere un quadro più chiaro del processo sottostante, il quarto studio si è concentrato sui pensieri relativi alla scelta degli alimenti e sull’orientamento verso benefici concreti (sapore / gusto) vs astratti (alimentazione / salute).

In definitiva, i risultati di tutti gli studi combinati dimostrano che gli individui possono scegliere cibi sani o meno sani a seconda del loro stato d’animo.

I risultati mostrano anche l’aspetto integrante dell’orizzonte temporale: le persone in uno stato d’animo positivo che fanno scelte alimentari più sane stanno spesso pensando ai benefici futuri per la salute; chi invece è in uno stato d’animo negativo, si concentra più sul gusto immediato e sull’esperienza sensoriale.

Infine, il risultato più interessante riguarda gli individui che anche a fronte di stati d’animo negativi continuano a fare scelte alimentari influenzate dalla prospettiva temporale: questo risultato sostiene la tesi che provare a concentrarsi su qualcosa di diverso dal presente permetta di ridurre il consumo di alimenti poco salutari.

Insomma la prossima volta che fai uno spuntino pensa al futuro…potresti scegliere di mangiare meglio.

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ALIMENTAZIONEDISTURBI DELL’UMORE

 

 

 

BIBLIOGRAFIA: 

 

PROFILO NEUROPSICOLOGICO E STILE DI RISPOSTA JUMPING TO CONCLUSIONS – SOPSI 2014


SOPSI 2014 

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

La Psicopatologia e le età della vita – Torino 12-15 Febbraio 2014

 

PROFILO NEUROPSICOLOGICO E STILE DI RISPOSTA JUMPING TO CONCLUSIONS:

UNO STUDIO CASO-CONTROLLO

Tripoli G.1, Sartorio C.1, Sideli L.1, La Cascia C.1,2, Seminerio F. 2, Marinaro AM. 2, La Barbera D. 1,2

1Dipartimento di Biomedicina Sperimentale e Neuroscienze Cliniche, Sez. di Psichiatria, Università di Palermo

2U.O. Psichiatria, A.O.U.P. Paolo Giaccone, Palermo 

 

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Il disegno della figura umana in ambito clinico e giuridico peritale. Recensione

 

Il disegno della figura umana in ambito clinico e giuridico peritale

Guida Pratica All’interpretazione  (2013)

di Leonardo Roberti Franco Angeli Edizioni

 

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Il disegno della figura umana “Il Disegno Della Figura Umana In Ambito Clinico E Giuridico Peritale. Guida Pratica All’interpretazione” (ediz. FrancoAngeli) è un libro pensato per tutti i professionisti che vogliono affinare il loro utilizzo del test del Disegno della Figura Umana (DFU), estendendolo magari in altri ambiti di indagine quale quello giuridico.

La somministrazione e la valutazione dei test psicologici è parte integrante della nostra pratica professionale, in qualsiasi campo si operi. Tra i test utilizzati, di quanti, però, possiamo affermare di conoscerne effettivamente i vari aspetti di attendibilità e validità? E, se lo stesso test venisse usato in campi diversi da quello clinico, potremmo dirci davvero in grado di conoscerne il corretto utilizzo?

Il Disegno Della Figura Umana In Ambito Clinico E Giuridico Peritale. Guida Pratica All’interpretazione” (ediz. FrancoAngeli) è un libro pensato per tutti i professionisti che vogliono affinare il loro utilizzo del test del Disegno della Figura Umana (DFU), estendendolo magari in altri ambiti di indagine quale quello giuridico, o per i tanti interessati al test ma non ancora pronti per una corretta somministrazione e interpretazione.

L’esperienza dell’autore Leonardo Roberti (psicologo, psicoterapeuta, esperto in Psicodiagnostica Clinica e Forense) emerge sin dalle prime righe e viene così offerta ai lettori, i quali saranno sorpresi dal taglio assolutamente pratico del libro.

All’autore si deve anche l’introduzione di alcune novità tra cui una revisione degli indici interpretativi, in accordo anche con una visione olistica e non classificatoria della persona e la presentazione di una metodologia di somministrazione e valutazione applicabile nei vari contesti di azione dello psicologo.

Nei primi capitoli si legge del grafismo infantile, della storia del test e del suo oggetto d’ indagine, nonché degli ambiti applicativi e delle validità e attendibilità del DFU. A partire dal quarto capitolo, l’impostazione diventa totalmente pratica, offrendo al lettore una guida alla somministrazione e all’ interpretazione. Trattando del test del DFU non soltanto in ambito clinico e dell’età evolutiva ma anche in campo giuridico peritale, i primi due appendici si mostrano di grande utilità, in quanto riguardanti il testing e le linee guida per la psicodiagnosi in tale campo. Segue poi la presentazione di alcuni casi clinici, con annesse relazioni diagnostiche, ed alcuni esempi clinici di disegni.

Il Disegno Della Figura Umana In Ambito Clinico E Giuridico Peritale. Guida Pratica All’interpretazione” è un libro di piacevole lettura, da conservare assolutamente nella propria libreria. Oltre ai professionisti, consiglio la lettura anche agli studenti e non soltanto per la praticità del libro, ma soprattutto perché, leggendo della storia di un test, delle sue qualità psicometriche, di come dalla teoria sia possibile risalire ad una efficace applicabilità, aiuta davvero a riflettere meglio su ciò che si studia, rendendo il tutto più interessante e piacevole. 

Cosa dirvi di più? …Buona lettura!

 

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Psicologia del Benessere: esercizi di Mindfulness e Binge Eating

 

 

 

Mindfulness e binge eating disorder. - Immagine: © valeriy555 - Fotolia.comMangiare “Mindfulness” significa innanzitutto sviluppare un buon rapporto con il cibo, cercare di non sentirsi in colpa per avere o non avere cibo, e apprendere la capacità di perdonarsi ed essere compassionevoli verso sé stessi.

Può capitare a tutti di ritrovarsi a mangiare più del dovuto, specialmente a cena, senza sapere cosa fare per evitare di eccedere con il cibo. Di fronte al proprio piatto preferito, si può arrivare a trovare anche 100 motivi che giustifichino anche la seconda, terza porzione, o il perché per un altro spuntino, e poi quasi sempre pentirsene, chiedendosi perché non ci si è fermati prima.

Molte persone potrebbero ritrovarsi in comportamenti simili a quello descritto, e di parlarne con i propri amici o familiari: anche qui, è frequente sentirsi dire che è superfluo stare troppo a soppesare il cibo, che ci si dovrebbe divertire lasciando perdere la dieta.

Frustantemente, ci si potrebbe trovare nella situazione in cui si mangia in maniera sana, si fa regolare esercizio fisico, non si contano le calorie, si è del peso e della taglia giusta, si ha un BMI regolare. Eppure, anche in questo caso, spesso ci si ritrova regolarmente gonfi di cibo e rammarico, con il bisogno di riesaminare il perché si attuano tali comportamenti, di trovare i trigger che li attivano, di avere un miglior rapporto con il proprio corpo e con la dieta.

A Londra la clinica Willbraham Prace Practice, collabora alla realizzazione del progetto “The Mindfulness Project”, il primo del suo genere nella Capitale del Regno Unito: attraverso percorsi di gruppo o individuali di mindfulness, gli psicologi aiutano i pazienti a raggiungere lo stato di benessere desiderato. E’ lì che ho incontrato la Dott.ssa Cinzia Pezzolesi (Psicologa e Terapista Mindfulness, formatasi presso l’Università di Bangor-North Wales-UK, specializzata in Mindful Eating a Boston con la Dott.ssa Kristeller, e docente di “Salute Mentale e Benessere” presso l’Università di Hertfordshire) italianissima e terapeuta della clinica, che gentilmente mi spiega come fare a mangiare consapevolmente con la mindfulness, invitandomi ad una prova pratica.

Secondo la Dott.ssa Pezzolesi, mangiare “Mindfulness” significa innanzitutto sviluppare un buon rapporto con il cibo, cercare di non sentirsi in colpa per avere o non avere cibo, e apprendere la capacità di perdonarsi ed essere compassionevoli verso sé stessi. Per arrivare a ciò, è necessario mettere insieme diversi componenti: il primo viene chiamato Saggezza Interiore, si sviluppa aiutando le persone a prendere coscienza dei segnali che il corpo c’invia. A volte, quando si mangia troppo a lungo, ci si dimentica che il corpo sa quello che vuole. Quindi la prima parte del mangiare consapevole è imparare ad autoregolarsi. 

Un altro elemento è diventare consapevoli dei pensieri e delle emozioni che sono legati al nostro comportamento alimentare. Ad esempio, dovremmo mangiare quando abbiamo fame, ma questo non accade regolarmente. A volte si mangia per festeggiare, o perché si è tristi, o stressati. Inoltre le persone imparano a distinguere tra ciò che è la fame e quali sono i fattori scatenanti.

Dopo le prime sedute, si inizia a sviluppare qualcosa chiamata Saggezza Esterna. Questo, mi spiega la Dott.ssa Pezzolesi, è imparare a fare il miglior uso della vostra conoscenza sul cibo. Significa diventare consapevoli di calorie e attività fisica, anche se non ogni regola è rilevante per tutti allo stesso modo. Si ha bisogno di adeguare le proprie abitudini alimentari in piccoli passi in modo che le modifiche siano permanenti. “Perché il problema che abbiamo con le diete è che devi limitare te stesso, ma non possiamo continuare a farlo per sempre in modo da tornare frequentemente al punto di partenza“.
Altro elemento mindfulness è la compassione: la Dott.ssa Pezzolesi mi dice che questo è necessario quando abbiamo rimproverato noi stessi perché ci siamo allontanati dalle nostre intenzioni alimentari sane. Si è mangiato qualcosa di proibito, e mentre si sta mangiando, ci si inizia a sentire davvero in colpa. Questa sensazione potrebbe andare avanti per ore, addirittura giorni. La Mindfulness aiuta a quanto pare con questo, aiutando a nutrire compassione per i nostri eccessi saltuari.
Abbiamo quindi ordinato antipasti in un elegante ristorante di Queensway per testare la pratica: ordino del pollo, che arriva in due terrine su un delicato letto di foglie di insalata e un pennello di salsa scura.
In un tono calmo – simile a un insegnante di yoga che m’istruisce sulla respirazione – la Dott.ssa Pezzolesi mi chiede di prendere un paio di respiri profondi per centrare me stesso. Poi mi chiede di guardare il piatto, concentrandomi su ogni dettaglio. Questo può sembrare super-semplicistico – ma quando è stata l’ultima volta che si è veramente guardato il proprio cibo? Quando faccio questo, ho notato le linee minuscoli sulle foglie di insalata, il buio della salsa e i tagli del pollo. Mi sembrava abbastanza surreale.
Poi la Dott.ssa Pezzolesi mi chiede molto lentamente, di prendere una piccola porzione, di guardare il cibo sulla nostra forchetta e poi di sentirne l’odore.  Non ho mai mangiato così lentamente – mi è quasi insopportabile. La mia famiglia ed io abbiamo un modo di mangiare vorace e rapido.
Annusare il cibo, però, mi getta in conflitto. Scopro che in realtà non mi piace l’odore di pollo, anche se nella mia mente, ne amo il gusto; non cucino molto a casa, ma quando lo vedo in un menu lo ordino senza troppe riflessioni. Rallentando ogni processo però, sono spinto a pensare: in realtà non volevo questo, quello che volevo era un antipasto semplice.
Vengo poi invitato a sentirne la consistenza dapprima con le labbra, e poi a metterlo in bocca e a masticare molto, molto lentamente. Ho poi ingoiato, e quando ciò accade, senza pensare, si inizia ad essere consapevoli di questo cammino lungo l’esofago.
Dopo un paio di morsi – approssimativamente quando siamo a metà del pasto – la Dott.ssa Pezzolesi  mi chiede di fare un ‘check-in‘ con il livello di fame del mio stomaco. Per me, questa è la lezione più rivelatrice dalla sessione. Normalmente, avrei continuato a mangiare: le dimensioni della porzione non sono grandi, e di solito trovo difficile lasciare del cibo nel piatto, mi fa sentire in colpa. Ma la verità è che controllando lo stato di fame del mio stomaco, mi sono protetto dall’eccesso di cibo. Guardo il cibo rimanente sentendomi un po’ confuso da tutto questo, ma quando il piatto viene portato via, non mi ritrovo a pensarci.

Questo metodo di autoregolazione potrebbe cambiare il nostro modo di mangiare; ma è facile da mettere in pratica quando si è con gli altri nella vita di tutti i giorni? La Dott.ssa Pezzolesi  risponde suggerendo che è necessario del tempo e della pratica, e che ci sono parti di mindful eating che si possono utilizzare senza che sia troppo evidente . Per esempio, si può sentire che è troppo “Mindful” odorare ogni forchettata; ma si può comunque mangiare più lentamente .
Trovo che il check-in con la mia pancia sia l’approccio migliore per non prendere più di quanto ho bisogno, e per evitare di sprecare il cibo, prendo meno piuttosto che di più per iniziare.
Quello che ho imparato mi sembra prezioso e fragile , e mi fa temere che dovrò ritornare alla mie vecchie abitudini. Ma ho avuto la netta percezione di  come la mia mente e il corpo stavano avendo una vera e propria conversazione, e riuscivo a guardare il cibo in un modo nuovo.
Continuerò ad abbuffarmi di tanto in tanto? Probabilmente. Ma imparare a non mangiare troppo la maggior parte del tempo è incredibilmente potente, e sembra una strategia più duratura e sana di qualsiasi dieta restrittiva.

 

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PTSD e la risposta immunitaria allo Stress – Psicologia

 

 

 

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Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I monociti potrebbero essere il bersaglio di farmaci per il trattamento di disturbi dell’umore, tra cui l’ansia da stress che è una caratteristica del PTSD.

Nei topi, l‘ansia e l’infiammazione prodotte dallo stress cronico inducono il sistema immunitario a combattere per un periodo prolungato: nonostante un lungo intervallo di riposo, a settimane di distanza, questo sovraccarico di lavoro è causa nell’animale di reazioni biologiche e comportamentali eccessive in risposta a fattori di stress isolati e acuti.  È quanto emerge da una ricerca pubblicata su Biological Psychiatry, secondo la quale una comunicazione bidirezionale tra il sistema nervoso centrale e il resto del corpo sottende i meccanismi cellulari alla base della risposta allo stress.

In questo modello di stress, topi maschi vivono insieme per il tempo necessario a stabilire una gerarchia, poi un maschio aggressivo viene aggiunto al gruppo per due ore alla volta. Lo stress attiva il sistema nervoso simpatico, cioè la risposta di lotta-o-fuga (fight-or-flight response). Se una risposta pronta è importante per la sopravvivenza, l’attivazione prolungata del sistema simpatico può invece provocare effetti negativi sulla salute: i topi residenti vengono ripetutamente sconfitti e in sei giorni la sconfitta sociale porta a una risposta immunitaria infiammatoria e sintomi d’ansia comportamentali.

Dopo aver sottoposto i topi a questo stress cronico, i ricercatori hanno analizzato le caratteristiche biologiche e comportamentali della risposta allo stress in due diversi momenti, 14 ore e otto giorni dopo la fine del periodo di sensibilizzazione. In entrambi i momenti, i topi stressati mostravano livelli più elevati di proteine infiammatorie nel sangue e di accumulo di monociti nel cervello, rispetto al gruppo di controllo. Gli scienziati avevano inoltre precedentemente scoperto che nei topi con stress cronico le cellule del sistema immunitario, i monociti, si accumulavano nel cervello scatenando sintomi ansiosi.

Dato che un tipo di cellula immunitaria persisteva nella milza , i ricercatori hanno rimosso la milza dei topi dopo la sensibilizzazione alla sconfitta sociale: dopo la rimozione della milza i topi sensibilizzati allo stress non erano più sensibili al fattore di stress acuto e alla riacutizzazione dell’ansia. Questo risultato indica la milza come fonte di cellule immunitarie che rispondono alla stress acuto.

Gli scienziati stanno ora testando i campioni di sangue per i biomarcatori di pazienti con PTSD: le cellule immunitarie o le proteine ​​infiammatorie potrebbero indicare che i pazienti sono in uno stato di sensibilizzazione allo stress.

Il passo successivo sarà confrontare i profili di cellule immunitarie che migrano al cervello con quelle della milza durante la risposta allo stress.

I monociti potrebbero essere il bersaglio di farmaci per il trattamento di disturbi dell’umore, tra cui l’ansia da stress che è una caratteristica del PTSD.

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BIBLIOGRAFIA:

 

SOPSI 2014. Fernandez-Aranda sdogana le nuove tecnologie nel trattamento dei DCA

Piergiuseppe Vinai.

 

SOPSI 2014 

Fernandez-Aranda sdogana le nuove tecnologie nel trattamento dei Disturbi Alimentari

 

SOPSI 2014 - Disturbi dell'alimentazioneL’idea non è certo di ridurre la terapia ad una sorta di comportamentismo tecnologico, ma di supportare il paziente di fronte a tematiche specifiche che non si riescano ad affrontare efficacemente con le metodiche tradizionali.

Le nuove tecnologie stanno avendo un ruolo sempre più ampio nella vita quotidiana ma stentano a prendere piede nel trattamento psicoterapico.

Le obiezioni più frequenti al loro utilizzo si basano sul fatto  che in fondo, come recitava Montale, l’animo dell’uomo non cambia e per arrivare al suo cuore le parole di Catullo o di Dante sono efficaci oggi come secoli fa. Questo è senz’altro vero ma nessuno si sognerebbe di fare serenate notturne davanti al grattacielo dell’amata (specialmente se abita al 30° piano) ed anche “Odi et Amo” o i versi di Paolo e Francesca vengono postati su Facebook.

Un’altra obiezione è che il paziente ne può restare sconcertato, non attendendosi un così profondo cambiamento nel setting terapeutico. Anche qui non si capisce come faccia lo stesso soggetto a tollerare il fatto di dover usare il telefono cellulare e non un messo a cavallo, per contattare il terapeuta, o come possa sopportare di doversi sottoporre ad una risonanza magnetica per il mal di schiena anziché ad un rito sciamanico, ma tant’è!

Quando si entra nello studio dello psicoterapeuta si suppone che il paziente abbia una regressione e si attenda modelli archetipici di terapia per cui possa tollerare unicamente terapeuti in marsina su una sedia Thonet e l’uso di carta, (a mano), penne d’oca o almeno in bachelite con pennino ottocentesco, per annotare le sue parole.

La ricerca non ha ancora stabilito a quanti anni debba ammontare questa regressione per non intaccare la relazione, o se il setting debba adattarsi alle competenze tecnologiche del paziente per cui parte considerevole dell’assesment dovrebbe essrere dedicata alla valutazione delle sue competenze in ambito tecologico. Chi avesse la sfortuna di avere pazienti a basso indice di tecnologizzazione ed uno studio al terzo piano per essere efficace dovrebbe munirsi di servitori in portantina che accompagnino i pazienti fino alla porta del suo studio.

A questo proposito recenti studi indicano però che l’inizio della regressione coincide con l’inizio della seduta e termina con la stessa salvo ripresentarsi la settimana successiva alla stessa ora. Per il pagamento possono essere usati senza rischio i moderni mezzi tecnologici e non è richiesto l’uso dei dobloni. Si narra di soggetti che avendo dovuto rinunciare ad una seduta in quell’ora abbiano dimostrato una totale incapacità di usare il pc il telefonino e qualsiasi altro mezzo tecnologico, configurando così i primi casi di  una grave sindrome da carenza d deprivazione tecnologica. Stranamente anche il computer utilizzato dal terapeuta all’interno del setting è visto da qualcuno come una possibile causa di vulnus alla relazione, senza chiedersi come possano nascere storie d’amore o di sesso basate proprio sull’utilizzo del PC e di quello strumento così poco empatico che è  Internet.

In barba a tutte queste considerazioni ed ignorando i gravi rischi cui si potrebbero esporre i pazienti, a margine di un intervento, sulle politiche a sostegno della prevenzione e la cura dei disturbi alimentari, il Prof. Fernandez-Aranda dell’Università di Barcellona ha sdoganato l’utilizzo delle nuove tecnologie nella prevenzione e nella terapia dei disturbi alimentari. Ha illustrato una metodica basata sull’utilizzo di un video game collegato ad un sistema di bio feed back  per aiutare i pazienti a  modificare il proprio rapporto con il cibo.

Attraverso dei sensori che misurano la variazione della conduttanza cutanea si valuta la variazione dello stato emotivo del soggetto alla visione del cibo, in questo modo egli può iniziare ad essere più consapevole delle sue emozioni.

L’idea non è certo di ridurre la terapia ad una sorta di comportamentismo tecnologico, ma di supportare il paziente di fronte a tematiche specifiche che non si riescano ad affrontare efficacemente con le metodiche tradizionali.

Questa tecnologia ha il vantaggio di essere a basso costo e di poter essere usata dai pazienti anche al di fuori del setting offrendo un supporto alla terapia nell’intervallo tra le sedute.

 

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L’importanza delle emozioni positive – Psicologia Positiva

 

 

L’importanza delle emozioni positive - Psicologia Positiva. -Immagine: © James Thew - Fotolia.comLe emozioni positive non solo incrementano le risorse fisiche, intellettive e sociali, ma sono anche implicate nel migliorare lo stato di benessere della persona.

Per esempio, se le esperienze emotive positive ampliano gli scopi del sistema cognitivo e favoriscono un modello di pensiero più creativo e flessibile, allo stesso tempo facilitano la capacità di far fronte agli stress e alle avversità della vita quotidiana.

La psicologia ingenua talvolta scambia, erroneamente, alcune forme di piacere sensorio come la soddisfazione sessuale o la sazietà della fame, per emozioni positive, poiché con queste hanno in comune la sensazione di un piacere soggettivo e perché spesso emozioni e piaceri co-occorrono. Ad esempio la gratificazione sessuale è spesso racchiusa in una relazione d’amore. Tuttavia, le emozioni differiscono dai piaceri in quanto le prime richiedono una valutazione cognitiva del significato attribuito agli eventi perché possano avere inizio.

Ma a che cosa servono le emozioni positive?

La funzione principale di tutte le emozioni positive è stata identificata nel facilitare i comportamenti di avvicinamento (Cacioppo, Priester & Berntson, 1993; Davidson, 1993; Frijda, 1994) e nel aumentare il livello di motivazione a portare a termine un’azione (Carver & Scheier, 1990; Clore, 1994). L’esperienza emotiva positiva è dunque utile, in quanto sprona a impegnarsi e a prendere parte a delle attività, la maggior parte delle quali sono evolutivamente adattive per l’individuo, per la sua specie o per entrambi.

Secondo Fredrickson (1998; 2001), invece, le emozioni positive possiedono una duplice funzione: a breve termine contribuirebbero ad ampliare il repertorio del pensiero finalizzato all’azione, aumentando l’elenco delle possibili azioni o dei possibili pensieri e, a lungo termine, costruirebbero e rafforzerebbero le proprie risorse personali. La gioia, ad esempio, è un’emozione che crea il bisogno di ridurre i limiti, di ‘giocare’ e di essere creativi, esigenze che non riguardano solo i comportamenti sociali o fisici, ma anche quelli intellettuali e artistici. L’emozione positiva dell’interesse, invece, crea la spinta a esplorare, a raccogliere informazioni e a fare nuove esperienze. La contentezza, a sua volta, crea l’esigenza di rilassarsi e di gustarsi le circostanze della propria vita, integrandole con una nuova visione del sé e del mondo (Fredrickson, 2002).

In contrasto con le emozioni negative, che portano immediati e diretti benefici all’adattamento alle diverse situazioni che minacciano la sopravvivenza, l’ampliamento nel repertorio dei pensieri e delle azioni attivato dalle emozioni positive produce benefici in altre modalità. In particolare il nuovo repertorio allargato avvia dei benefici indirettamente e a lungo termine, poiché è in grado di costruire delle risorse personali durature.

Ad esempio, il gioco, a cui si è spinti dall’emozione della gioia, permette innanzitutto la costruzione di risorse fisiche durature (Boulton & Smith, 1992; Caro, 1988), rende inoltre possibile l’ampliamento delle risorse sociali e della propria rete di sostegno (Lee, 1983; Simons, McCluskey-Fawcett & Papini, 1986) e costruisce infine anche risorse intellettive, incrementando i livelli di creatività e alimentando lo sviluppo cerebrale (Sherrod & Singer, 1989; Panksepp, 1998).

Quel che ne risulta è che le risorse personali che insorgono grazie agli stati emotivi positivi, sono durevoli e, di conseguenza, anche gli effetti incidentali delle emozioni positive contribuiscono a incrementare le risorse personali di chi le prova. Dunque, attraverso le esperienze emotive positive, le persone trasformano sé stesse, divenendo più creative, maggiormente informate, resilienti, socialmente integrate e in buona salute (Fredrickson, 2002).

Da alcune ricerche (Basso, Schefft, Ris & Dember, 1996) condotte in laboratorio, poi, è emerso che i tratti legati alle emozioni negative, come ansia e depressione, predicono una tendenza locale coerente con un fuoco attentivo ristretto, mentre i tratti emotivi positivi, come il benessere soggettivo e l’ottimismo predicono una tendenza globale connessa con un fuoco attentivo allargato.

Testando gli effetti degli stati positivi sugli aspetti di natura cognitiva, è emerso che le emozioni positive producono modelli di pensiero che sono flessibili (Isen & Daubman, 1984), non usuali (Isen, Johnson, Mertz & Robbinson, 1985), creativi (Isen, Daubman & Nowicki, 1987) e ricettivi (Estrada, Isen & Young, 1997), comportamenti maggiormente creativi (Isen et al., 1987) e azioni più varie (Kahn & Isen, 1993).

Inoltre, le emozioni positive non solo incrementano le risorse fisiche, intellettive e sociali, ma sono anche implicate nel migliorare lo stato di benessere della persona. Per esempio, se le esperienze emotive positive ampliano gli scopi del sistema cognitivo e favoriscono un modello di pensiero più creativo e flessibile, allo stesso tempo facilitano la capacità di far fronte agli stress e alle avversità della vita quotidiana.

Infatti, si è riscontrato che le persone che hanno provato emozioni positive durante un lutto sono riuscite più facilmente a sviluppare programmi e obiettivi da raggiungere a lungo termine, che per di più prevedevano un benessere psicologico maggiore un anno dopo il lutto (Stein, Folkman, Trabasso & Richards, 1997). Questi riscontri hanno confermato, ancora una volta, che le emozioni positive non solo fanno stare bene le persone nel momento contingente, ma incrementano anche la probabilità che le persone stiano bene in futuro.

Infine, occorre concludere che gli effetti delle emozioni positive consisterebbero non solo nella creazione di una condizione di benessere, di sicurezza e di adattamento, ma servirebbero anche ad inibire gli effetti nefasti prodotti dalle emozioni negative.

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BIBLIOGRAFIA:

  • Basso, M. R., Schefft, B. K., Ris, M. D., & Dember, W. N. (1996). Mood and global-local visual processing. Journal of International Neuropsychological Society, 2, 249-255.
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A proposito di Davis (2013) di Joel & Ethan Coen – Recensione

A proposito di Davis (2013)

di Joel & Ethan Coen

 

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A proposito di Davis“A proposito di Davis” è il ritratto errabondo di un perdente, un loser per usare un pessimo gergo discriminatorio, che cercando la propria identità finisce per trovare sempre qualcos’altro.

Il ritorno dei fratelli Coen è un gioiello luccicante, la storia di un cantante folk nel Greenwich Village del ’61 alle prese con divani di amici e sconosciuti da occupare per non trascorrere la notte nel freddo newyorkese, una giacca di velluto malinconicamente elegante come unico baluardo ai rigori del clima e della precarietà esistenziale, e insieme la ricerca di una dimensione artistica che elevi lo spirito a ciò che chiede per sé.

A proposito di Davis” è un’odissea alla Joyce lungo iperboli gentili e potenti autenticamente vere ancorché surreali, con richiami discreti alla letteratura americana di Kerouac e Capote, lo sfondo del viaggio inteso alla maniera beat come percorso ineludibile di emancipazione solitaria attraverso euforia e frustrazione, silenzi e scoperte improvvide.

Musica folk immarcescibile per gli amanti del genere – “se non l’avete mai sentita e non è mai stata nuova, è una canzone folk” esordisce Llewyn Davis -, umorismo ruvido nella miglior vena dei Coen che si irrora su personaggi e conflitti ora infantili ora disperati ma sempre apparentemente insanabili, “A proposito di Davis” è il ritratto errabondo di un perdente, un loser per usare un pessimo gergo discriminatorio, che cercando la propria identità finisce per trovare sempre qualcos’altro, un gatto da riportare al padrone, un secondo gatto sosia del primo, una ragazza da mettere incinta che accidentalmente è anche la donna del suo miglior amico, un’altra lasciata all’oblìo che disobbedendo a un aborto già concordato lo rende padre a sua insaputa.

Ogni sveglia è un duello privato per pochi dollari e una cena rimediata interpretando le smorfie del dannato di passaggio, ogni speranza di un destino comprensivo entra con lui nell’auto che salpa direzione Chicago con due improbabili manifestazioni dell’umanità kafkiana mirabilmente animata dai Coen; l’approdo è un produttore discografico che al nostro menestrello dirà “non ci vedo molti soldi” e indica la sua musica, l’aspirazione autarchica a proteggere l’intimità delle note affusolate nella chitarra, nella voce.

In una galleria di immagini ispirate al flusso cinico e tormentato dei due cineasti di Minneapolis trovano spazio versi di cinema che si espandono nei più sottili riflessi, negli occhi della giovane amante che mentre umilia il perdente, o si prova a farlo con le parole più dure che possano colpire un’arte senza scopo e senza premio, non sa estinguere la delicata indulgenza con cui si preoccupa per lui, la tenerezza complice prima che rassegnata con cui guarda l’uomo dell’impossibile condivisione.

A proposito di Davis” riporta i Coen alle loro pennellate primigenie e coinvolge il pubblico nella ricerca introspettiva di un senso ai margini, per i figli di un cammino diverso, come la musica folk permette di fare sussurrando accordi lontani, storie di povera gente alle prese con la frontiera spoglia della lotta e della sopravvivenza. Eroi comuni liberi dalla condanna del lieto fine la cui vita è il racconto della vita.

Gli sforzi di Llewyn Davis non sono vani per la sua epopea incastonata nel reale, solo inutili per l’universo che lo respinge; nel movimento ininterrotto di un microcosmo dalla poetica universale che di lì a poco sarà abbagliato dall’irruzione di Dylan – e fra le ultime scene la chioma del giovane Bob si affaccia sul suo primo palco -, nelle strade del Village popolate di fermenti che come l’architettura newyorkese non si rassegnano alle definizioni del tempo e dello spazio, “A proposito di Davis” esplora un’America crepuscolare in cui il sogno ha il colore della pioggia, l’odore del fumo nei locali, dei vicoli sul retro. Se ne sentiva il bisogno.

 

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– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

I risultati mostrano che quando i partecipanti si sentono più bassi accresce il loro senso di inferiorità, debolezza ed incompetenza e ciò comporta una serie di sensazioni di maggiore vulnerabilità e idee di diffidenza e sospetto nei confronti degli altri.

Quanto influisce l’altezza sulla nostra visione del mondo, l’autostima, lo stile di vita? A quanto pare parecchio. Se chiedessimo a qualcuno alto 177,8 cm quale sia la sua altezza, questo qualcuno ci risponderebbe: 180 cm! Il motivo è comprensibile: la nostra cultura tende a valorizzare le persone alte, per cui c’è la tendenza ad essere, o perlomeno a voler apparire, più alti di quel che si è.

Le persone alte sembrano possedere una serie di vantaggi: una buona altezza sembra, infatti, essere associata sia al successo sul piano lavorativo che a gratificazioni sul versante sentimentale.

Alcuni studi anglosassoni, ad esempio, hanno trovato che una persona alta circa 180 cm ha maggiori probabilità di guadagnare 100,000 dollari in più, nel corso di 30 anni di attività lavorativa, rispetto al collega che si aggira intorno ai 164 cm. Come se non bastasse, l’altezza aiuta anche negli affari di cuori sia per quanto riguarda la frequenza degli appuntamenti amorosi, sia nella durata delle relazioni sentimentali.

Numerose  ricerche hanno poi cercato di approfondire il legame tra altezza e fattori psicologici: questi studi mostrano che l’altezza può comportare maggiore felicità  e livelli più elevati di autostima, oltre a ridurre il rischio di atti suicidari, nonostante l’effetto risulti modesto.

 

Questi vantaggi psicologici originano dalla tendenza ad associare l’altezza con il potere, il che comporta anche una maggiore spinta verso l’abilità alla leadership, ad esempio in ambito politico e maggiori successi personali in questo settore, nonostante il legame tra altezza e potere non sia lineare.

All’interno di questo panorama Daniel Freeman (Dipartimento di Psichiatria-Università di Oxford) ha tentato di indagare il legame tra la bassa statura e l’autostima, e gli effetti sul senso di vulnerabilità personale e la paranoia: in che modo l’altezza, o la bassezza, può cambiare il modo in cui interpretiamo le intenzioni degli altri nei nostri confronti? L’esperimento prevedeva che i partecipanti fossero i protagonisti di un viaggio in metropolitana in una realtà virtuale. Vengono perciò muniti di cuffie per sentire i normali rumori presenti in questa situazione, come il rumore del treno e le voci dei passeggeri, e sono circondati da avatar, in modo da essere completamente immersi nella realtà simulata. Il loro corpo, infatti, risponde allo scenario come se fosse reale. Il campione sperimentale è rappresentato da 60 donne reclutate dalla popolazione generale, le quali hanno precedentemente sperimentato dei pensieri paranoici in assenza però di una storia di disturbo mentale.

Aspetto  fondamentale è rappresentato dal fatto che gli avatar, essendo neutrali, non posso influenzare in nessun modo l’esordio di pensieri paranoici nei soggetti, per cui, qualunque forma di diffidenza origina dal partecipante stesso. Il disegno sperimentale prevede che ogni soggetto entri nella realtà virtuale due volte: la prima con la propria altezza, la seconda come se stesse osservando l’ambiente da un’altezza inferiore. I partecipanti non vengono informati di questa differenza tra le due situazioni.

I risultati mostrano che quando i partecipanti si sentono più bassi accresce il loro senso di inferiorità, debolezza ed incompetenza e ciò comporta una serie di sensazioni di maggiore vulnerabilità e idee di diffidenza e sospetto nei confronti degli altri.Mi sono sentita in modo diverso nelle due situazioni, ma non so perché! Nella seconda situazione mi sono sentita più vulnerabile e le gambe dell’uomo a lato del corridoio erano posizionate in modo ostile verso di me, rispetto alla prima volta, anche se la posizione era la stessa”, riferisce una partecipante.

Sentimenti di incompetenza ed inferiorità, quindi, risultano in stretta relazione con dubbi paranoici, dal momento che più ci sentiamo vulnerabili più abbiamo probabilità di interpretare come pericolosi e malevoli gli atteggiamenti degli altri. Se la bassa statura si lega a bassi livelli di autostima e dubbi paranoici, anche l’opposto può essere vero.

La procedura basata sulla realtà virtuale può aiutare a trattare pensieri paranoici attraverso la simulazione di una realtà in cui la nostra altezza appare maggiore. Se non possiamo essere realmente più alti, infatti, possiamo fare qualcosa per sentirci più grandi.

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