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La ricerca delle basi genetiche nel disturbo bipolare – Psicologia

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Lo spessore della sostanza grigia nelle regioni temporali e prefrontali, strutture cerebrali in cui sono localizzate le funzioni linguistiche e altre funzioni di ordine superiore come il self-control e il problem-solving, sarebbe il candidato più promettente per il mappaggio genetico, sulla base sia delle forti basi genetiche che dell’associazione con il disturbo.

Il disturbo bipolare ha una diffusione dell’1-2% ed è caratterizzato da variazioni importanti e inusuali sia dell’umore che delle energie che interferiscono con la vita quotidiana e sono altamente invalidanti. Coloro che hanno questo disturbo esperiscono infatti livelli estremamente elevati, caratterizzati da iperattività, insonnia, condotte pericolose, che si alternano a livelli estremamente bassi, in cui non hanno le energie per uscire dal letto.

La ricerca delle basi genetiche del disturbo bipolare ha portato alla scoperta del coinvolgimento di svariati geni, che interagiscono tra loro in modo complesso, ma non è ancora stato compreso quali siano i geni direttamente responsabili e con quale meccanismo portino alla patologia.

A questo scopo i ricercatori dell’UCLA hanno tentato un nuovo approccio: invece di utilizzare soltanto le interviste cliniche standardizzate per verificare se i pazienti raggiungano i criteri per la diagnosi clinica del disturbo bipolare, hanno combinato i risultati di neuroimaging, valutazione cognitiva e una serie di misure del temperamento e del comportamento. Mediante questo metodo hanno identificato circa 50 cervelli e misure comportamentali che sono controllate geneticamente e si associano al disturbo bipolare.

Per questo studio sono stati reclutati 738 soggetti adulti appartenenti a famiglie numerose della Colombia, provenienti da una popolazione fondata circa 400 anni fa dagli europei e dai nativi indiani d’America, che fino ad allora era stata isolata e quindi rappresenta una campione “ideale” da sottoporre a studi genetici rispetto alla popolazione generale. Questa popolazione è inoltre caratterizzata da un’alta incidenza del disturbo bipolare e sono stati reclutati sia individui diagnosticati come bipolari che i loro familiari, non affetti dal disturbo. Tra i pazienti bipolari inoltre, 181 erano caratterizzati da un disturbo bipolare grave.

I ricercatori hanno utilizzato delle immagini in 3D ad alta definizione, questionari di valutazione del temperamento e dei tratti di personalità e un’estensiva batteria di test neuropsicologici indaganti la memoria a lungo termine, l’attenzione, il controllo inibitorio e altra funzioni cognitive. Approssimativamente 50 di queste misure hanno dimostrato di avere un’influenza genetica. In particolare questi ricercatori hanno scoperto che lo spessore della sostanza grigia nelle regioni temporali e prefrontali, strutture cerebrali in cui sono localizzate le funzioni linguistiche e altre funzioni di ordine superiore come il self-control e il problem-solving, sarebbe il candidato più promettente per il mappaggio genetico, sulla base sia delle forti basi genetiche che dell’associazione con il disturbo.

Il fatto che queste scoperte siano in linea con quelle precedenti, provenienti da studi minori, effettuati su popolazioni differenti, è stata una sorpresa anche per i ricercatori coinvolti in questo studio, visto il background genetico unico e l’ambiente dei soggetti da loro reclutati.

Il prossimo passo di questi ricercatori sarà utilizzare il genoma raccolto da queste famiglie per iniziare a identificare i geni specifici responsabili del rischio di sviluppare il disturbo bipolare, ed estendere il reclutamento anche ai bambini e agli adolescenti di questa popolazione, poiché ipotizzano che la maggior parte delle differenze cerebrali e comportamentali  riscontrate negli adulti bipolari abbia origine nei processi di neurosviluppo in adolescenza.

ARGOMENTI CORRELATO:

DISTURBO BIPOLARE 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

  • S. C. Fears, S. K. Service, B. Kremeyer, C. Araya, X. Araya, J. Bejarano, M. Ramirez, G. Castrillón, J. Gomez-Franco, M. C. Lopez, G. Montoya, P. Montoya, I. Aldana, T. M. Teshiba, Z. Abaryan, N. B. Al-Sharif, M. Ericson, M. Jalbrzikowski, J. J. Luykx, L. Navarro, T.  A. Tishler, L. Altshuler, G. Bartzokis, J. Escobar, D. C. Glahn, J. Ospina-Duque, N. Risch, A. Ruiz-Linares, P. M. Thompson, R. M. Cantor, C. Lopez-Jaramillo, G. Macaya, J. Molina, V. I. Reus, C. Sabatti, N. B. Freimer, C. E. Bearden. Multisystem Component Phenotypes of Bipolar Disorder for Genetic Investigations of Extended Pedigrees. JAMA Psychiatry, 2014; DOI: 10.1001/jamapsychiatry.2013.4100

 

Rubber Hand Illusion ed esperienza soggettiva: quale rapporto tra Body Ownership ed Agency?

Rubber Hand Illusion ed esperienza soggettiva: quale rapporto tra Body Ownership ed Agency?

Setting sperimentale e Pinprick

Chiara Brandimarte

 

In questo articolo viene presentato un lavoro di Rubber Hand Illusion svolto su soggetti sani per indagare la relazione tra questi due sensi legati alla rappresentazione corporea basandosi sull’esperienza soggettiva diretta dei soggetti grazie all’utilizzo di due questionari.

 

ABSTRACT

Il senso di Body Ownership, l’autoconsapevolezza del proprio corpo, ed il senso di Agency, la consapevolezza di compiere dei movimenti legati al proprio corpo, sono legati tra loro? Quale relazione c’è tra i due? In questo articolo viene presentato un lavoro di Rubber Hand Illusion svolto su soggetti sani per indagare la relazione tra questi due sensi legati alla rappresentazione corporea basandosi sull’esperienza soggettiva diretta dei soggetti grazie all’utilizzo di due questionari.

Body Ownership, self-awareness of own body, and sense of Agency, awareness to make the movements related to own body, are related? What kind of relationship is there? In this article we present a work of Rubber Hand Illusion done on healthy subjects to investigate the relationship between these two senses related to the body representation based on the subjective experience thanks to the use of two questionnaires.

PAROLE CHIAVE: Body Ownership, Agency, Rubber Hand Illusion, Mano altrui, Questionari

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INTRODUZIONE

La rappresentazione corporea è composta da due elementi fondamentali: il senso di Body Ownership e il senso di Agency.

Il senso di Ownership è la sensazione di appartenenza del nostro corpo che è sempre presente e che è indipendente dal fatto che le azioni compiute siano volontarie o involontarie. Il senso di Agency, invece, è la sensazione di aver causato o generato un’azione.

Nelle azioni volontarie il senso di Ownership e di Agency coincidono, quindi io riconosco che è stato il mio corpo a muoversi e che ho voluto io quel movimento.

In caso di azioni involontarie è quasi sempre possibile distinguere il senso di Ownership da quello di Agency, un esempio potrebbe essere quando ad una visita medica il dottore muove il mio braccio, in questo caso il senso di Ownership è presente perché sono consapevole che il braccio mosso è il mio, ma il senso di Agency non esiste perché non sento di essere stato io a causare quel movimento o quell’azione (Gallagher, 2000).

Il presente lavoro è nato dalla volontà di indagare quale rapporto lega il Body Ownership e il senso di Agency ed eventualmente studiare questa relazione.

Per fare ciò abbiamo utilizzato come protocollo sperimentale la Rubber Hand Illusion (RHI) che è una procedura sperimentale, solitamente usata per indagare il senso di Ownership,  tramite cui una mano di gomma può entrare a far parte o meno del nostro schema corporeo.

La RHI è stata utilizzata per la prima volta da Botvinick e Cohen nel 1998 e consiste nell’attribuzione errata di sensazioni tattili ad una mano di gomma o aliena posta davanti al soggetto.

Nell’esperimento di Botvinick e Cohen sono stati testati 10 soggetti, ognuno di loro sedeva davanti ad una scrivania sulla quale in corrispondenza del braccio sinistro si trovava una mano di gomma di dimensioni reali e molto simile a quella vera mentre la mano vera veniva nascosta dietro ad un pannello.

Gli sperimentatori toccavano con due pennelli identici la mano vera e quella di gomma nel modo più sincrono possibile, durante la stimolazione al soggetto veniva chiesto di tenere lo sguardo fisso sulla mano di gomma.

Dopo dieci minuti ai partecipanti veniva fatto compilare un questionario, composto da 9 item, volto ad indagare l’esperienza diretta dei soggetti (Botvinick & Cohen, 1998).

Le risposte rilevarono che durante la stimolazione i soggetti riportavano di sentire il pennello sulla mano di gomma.

Botvinick e Cohen avanzarono l’ipotesi secondo cui l’illusione creava un conflitto multisensoriale che veniva risolto dal nostro cervello attraverso “l’embodiment” della mano di gomma.

Per invalidare ulteriormente i loro risultati, Botvinick e Cohen fecero un altro esperimento in cui ai soggetti, dopo aver indotto l’illusione, veniva chiesto di far scorrere il proprio dito destro sul bordo della scatola nel punto dove percepivano il loro dito sinistro, ciò veniva fatto con gli occhi chiusi.

In questo secondo caso però i soggetti erano divisi in gruppo sperimentale e di controllo, nel primo gruppo la stimolazione col pennello era sincrona mentre in quello di controllo la stimolazione veniva fatto in modo asincrono.

I risultati mostrarono che effettivamente i soggetti sperimentali dopo l’illusione riportavano un errato posizionamento della mano sinistra spostata verso la mano di gomma; questo bias non era presente nel soggetti del gruppo di controllo.

La spiegazione dei dati appena descritti è che l’illusione crea un conflitto multisensoriale tra sistema propriocettivo e visivo, ed è quest’ultimo che vince sul primo ed induce la “ricalibrazione” del braccio.

La RHI è una metodica utilizzata per studiare oltre all’integrazione sensoriale tra tatto, vista e propriocezione anche il nostro modo di percepire il corpo.

Sappiamo che alla base ci sono due principali componenti:

  1. 1. Un processo bottom-up di integrazione sincronizzata degli oggetti percepiti con il tatto e con la vista per produrre la RHI
  2. 2. Il cambiamento fenomenologico della rappresentazione del corpo che scaturisce da questo processo che è persistente.

Questi due concetti hanno indotto Tsakiris e Haggard (2005) a pensare che la RHI coinvolgesse un’ interazione generale tra le rappresentazioni dello schema corporeo e le integrazioni visuo-tattili degli stimoli.

Questi motivi li spinsero a condurre una serie di esperimenti volti ad indagare le situazioni in cui la RHI non era presente; qui di seguito ne riporterò solo uno per non dilungarmi troppo sull’argomento.

I soggetti erano tenuti a discriminare degli stimoli vibro-tattili dati sul dito indice oppure sul pollice della loro vera mano mentre guardavano la rubber hand che si poteva trovare in tre modi differenti: in posizione congrua, posizione non congrua (ruotata di -90°) oppure al posto di essa poteva esserci un ramo.

I risultati mostrarono che la RHI era presente nelle situazioni in cui la stimolazione era sincrona, ma soprattutto quando era posizionata in modo congruo con la posizione del soggetto (Tsakiris & Haggard, 2005).

Nei casi in cui la mano di gomma era posizionata in modo non congruo oppure era un ramo la RHI non avveniva, ciò dimostra che il fatto di vedere e sentire uno stimolo nello stesso posto non basta per causare l’illusione.

Tsakiris e Haggard suggerirono che a livello in cui viene costruita l’illusione il processo bottom-up non è sufficiente bisogna aggiungere ad esso i processi top-down che influenzano la rappresentazione del proprio corpo (Tsakiris & Haggard, The Rubber Hand Illusion: Visuotactile Integration and Self-Attribution, 2005).

Riassumendo per indurre la RHI è necessario che:

  1. 1. L’oggetto utilizzato per l’illusione sia una mano e non un oggetto neutrale
  2. 2. La mano di gomma deve essere messa in modo plausibile rispetto alla postura del corpo
  3. 3. Deve essere il più simile possibile alla mano vera del soggetto

Il nostro disegno sperimentale è nato a partire da alcuni studi condotti da Garbarini et al. nel 2012 sull’effetto di accoppiamento bimanuale in alcuni pazienti.

il loro studio è nato a partire da uno lavoro di Franz e collaboratori i cui risultati mostravano che nei soggetti normali esiste un effetto di accoppiamento bimanuale quando le due mani compiono movimenti diversi (Franz, Zelaznik, & Mccabe, 1991).

Quando la mano sinistra deve disegnare dei cerchi e la mano destra delle righe, la traiettoria della mano che disegna righe tende ad ovalizzarsi mentre l’altra mano disegna dei cerchi, ciò significa che il programma motorio della mano che disegna cerchi influenza quello dell’altra mano e produce l’effetto di accoppiamento bimanuale.

A partire da questi risultati Garbarini et al. applicarono tale paradigma ai pazienti con Anosogonsia per l’Emiplegia per verificare se anche in loro fosse presente questo effetto, dato che sono in grado di sviluppare un programma motorio per la mano plegica (Garbarini & al., 2012).

I partecipanti all’esperimento erano pazienti anosognosici, pazienti emiplegici, pazienti con motor neglect e soggetti sani.

I partecipanti dovevano compiere tre compiti:

  1. 1 Linee-Unimanuale: i soggetti dovevano disegnare delle righe con la mano destra
  2. 2 Cerchi-Righe Bimanuale: i soggetti dovevano disegnare cerchi e righe simultaneamente con le due mani
  3. 3 Cerchi-Righe Immaginarie: i soggetti dovevano tracciare delle righe con la mano destra ed immagianare di fare dei cerchi con la mano sinistra

Per determinare se effettivamente era presente l’effetto di accopiamento bimanuale veniva calcolato l’Indice di Ovalizzazione per la traiettoria della mano destra, un valore che indica quanto essa era deviata rispetto a quella originale.

Le previsioni erano che l’effetto di accoppiamento bimanuale fosse presente nei soggetti sani e nei pazienti anosognosici, mentre fosse assente nei pazienti emiplegici senza Anosognosia e Motor Neglect.

I risultati confermarono le previsioni; le performance dei pazienti anosognosici erano simili a quelle dei soggetti normali, mentre nei pazienti emiplegici e motor neglect l’effetto era assente.

Successivo a questo lavoro Garbarini et al. ne svolsero un altro simile, esso riguarda l’applicazione del paradigma Cerchi-Righe ad una particolare categoria di pazienti, denominati E+.

I pazienti E+ sono emiplegici ed affetti da una specie di Emisomatoagnosia, per cui non riconoscono come appartenenti a loro il braccio plegico (un chiaro disturbo di Ownership); allo stesso tempo riconoscono come loro però la mano dello sperimentatore ed i movimenti che essa compie, alla condizione che essa sia messa in coordinate egocentriche affianco alla loro vera mano (Garbarini & al., 2013).

La situazione appena descritta è molto simile alla RHI, con l’unica differenza che in questi pazienti non c’è bisogno di nessun tipo di stimolazione per indurre l’embodiment della mano dello speriementatore, detta anche mano aliena.

In questo esperimento veniva chiesto ai pazienti, il gruppo sperimentale di E+ ed un gruppo di controllo E-, di tracciare delle linee con la mano destra e dei cerchi con la mano sinistra in tre condizioni: in assenza della mano aliena, in concomitanza con la mano aliena sinistra che faceva dei cerchi in prospettiva egocentrica oppure con la mano aliena in prospettiva allocentrica.

L’effetto di accopiamento bimanuale era presente nei pazienti E+ nella condizione in cui la mano aliena disegna i cerchi, ciò dimostra che questi pazienti mostrano anche un disturbo del senso di Agency. Garbarini et al. hanno ipotizzato che questi pazienti assimilino completamente il movimento della mano aliena nella loro rappresentazione motoria, per questo motivo credono di aver realizzato il movimento e mostrano l’effetto di accoppiamento bimanuale. (Garbarini & al., 2013).

I risultati appena descritti hanno portato a pensare che probabilmente oltre alla mano aliena viene embodizzato anche il movimento che questa mano compie, per il momento però ciò è stato dimostrato solo per i pazienti definiti E+, cioè pazienti emiplegici anosognosici che riconoscono come propria la mano dello sperimentatore quando questa è collocata in una posizione coerente.

La nostra ipotesi di ricerca è partita proprio da questi risultati, abbiamo voluto indagare se è possibile riscontrare anche in soggetti normali l’embodiment di una mano altrui e del suo movimento.

Precedentemente ho parlato di “mano aliena” per indicare la mano dello sperimentatore che viene embodizzata, questo termine è al centro di una diatriba lessicale in quanto tende a categorizzare a priori la mano.

Per questo motivo per la parte che riguarda la ricerca svolta parlerò di “mano altrui” o “mano di qualcun altro” perché mi sembra un termine neutro ed adatto alla situazione.

 

PARTECIPANTI

Il campione sperimentali era formato da 32 soggetti sani, 16 femmine e 16 maschi, con età compresa tra i 18 e 30 anni (età media 25,1 anni).

Tutti i soggetti al test di manualità Edimburgh Handedness Inventory sono risultati destrorsi (media= 91,82), il grado di scolarità media era di 16,5 anni.

Abbiamo scelto tutti soggetti destrorsi e li abbiamo sottoposti alla stimolazione di una sola mano dato che in letteratura non sono presenti studi che dimostrino differenze significative tra mano sinistra e mano destra (Ocklenburg & al., 2011); inoltre abbiamo deciso di stimolare solo una mano per volta per ogni soggetto sperimentale anche per ridurre i tempi degli esperimenti che altrimenti si sarebbero dilungati troppo.

Per quest’ultima scelta il disegno sperimentale è stato bilanciato in modo da ottenere un disegno within subject, inoltre tutti i soggetti riportarono di non aver avuto nessun disturbo neurologico, neuropsicologico o comportamentale.

 

METODI

Per gli esperimenti non abbiamo utilizzato la classica scatola utilizzata negli esperimenti di RHI, ma abbiamo ideato una struttura idonea alle nostre esigenze sperimentali (Figura 1)

Questa struttura permette il libero movimento sia della mano del soggetto che quella altrui e soprattutto è stato possibile adattarla a qualsiasi soggetto grazie alla sua flessibilità.

Prima della stimolazione ai partecipanti veniva fatto indossare un telo che copriva gli avambracci, ciò serviva per non far riconoscere la propria mano al soggetto distinguendone avambracci e polsi.

La mano di qualcun altro veniva posto in modo congruo rispetto alla posizione del soggetto ed in linea con la sua spalla affinché potesse realizzarsi l’illusione, come sostenuto da Tsakiris e Haggard (Tsakiris & Haggard, 2005).

L’esperimento prevedeva due tipi di stimolazione:

  1. 1 STIMOLAZIONE SINCRONA: in cui il dito indice del soggetto e quello della mano altrui venivano stimolati simultaneamente
  2. 2 STIMOLAZIONE ASINCRONA: in cui il dito indice del soggetto e quello della mano altrui venivano stimolati alternatamente.

Entrambi le stimolazione, per ogni condizione sperimentale duravano 120 secondi; abbiamo scelto questo tempo di stimolazione a differenza di altre ricerche di RHI (Ehrsson & al., 2005) perché in letteratura è il tempo indicato affinché si instauri l’illusione (Botvinick & Cohen, 1998).

Per la nostra ricerca abbiamo utilizzato come strumento per compiere il movimento i Pinprick.

I Pinprick sono degli stimolatori tattili dotati di una punta retrattile in modo da esercitare sempre la stessa forza su di una superficie indipendentemente dalla potenza con cui vengono usati; ne abbiamo usati di diverse intensità per evitare che i soggetti si adattassero e non si creassero delle aspettative sul tipo di risposta da dare.

Dopo ogni stimolazione la mano del soggetto o la mano altrui pungeva la mano non stimolata del soggetto con il Pinprick; al seguito di ogni stimolazione il partecipante doveva fornire un rating soggettivo per indicare l’intensità dello stimolo da 1 a 5, dove 1 indicava la minima intensità e 5 massima intensità.

Non abbiamo preso in considerazione i dati relativi ai rating soggettivi delle stimolazioni con i Pinprick perché sono ancora in fase di elaborazione, per questo studio abbiamo utilizzato i Pinprick solo per dare un senso al movimento che veniva fatto.

Nella prima parte degli esperimenti abbiamo dovuto valutare quanto era forte la RHI nei soggetti sperimentali, per fare ciò abbiamo selezionato e tradotto  quattro affermazioni del questionario elaborato da Kalckert ed Ehrsson (Kalckert & Ehrsson, 2012):

  1. 1. Mi sembrava di guardare la mia stessa mano
  2. 2. Sentivo la mano altrui come fosse parte del mio corpo
  3. 3. Sentivo come se avessi più di una mano destra/sinistra
  4. 4. Sembrava che la mano altrui si stesse spostando verso la mia vera mano.

I partecipanti a queste frasi dovevano rispondere con una Scala Likert che variava da -3 a +3: dove -3 indica completo disaccordo, 0 non so e +3 completo accordo.

Abbiamo deciso di utilizzare come metro di giudizio solo le risposte date alle affermazioni sopra elencate tralasciando il drift propriocettivo perché ci interessava indagare solo l’esperienza diretta e soggettiva.

Successivamente abbiamo dovuto indagare il senso di Agency legato al movimento fatto in seguito alla stimolazione, per fare ciò abbiamo selezionato e tradotto altre quattro affermazioni del questionarrio elaborato da Kalckert e Ehrsson (Kalckert & Ehrsson, 2012):

  1. 1. Sentivo come se stessi controllando i movimenti della mano altrui
  2. 2. Sentivo come se stessi causando il movimento che ho visto
  3. 3. Sembrava che la mano altrui avesse una propria volontà
  4. 4. Sentivo come se la mano altrui stesse controllando i miei movimenti.

Come nel caso precedente anche a queste affermazioni i soggetti dovevano rispondere con una Scala Likert che variava da -3 a +3.

Sia le domande relative al questionario dell’Ownership che quelle dell’Agency erano suddivise in due gruppi:

  • – Le domande 1 e 2 erano domande reali
  • – Le domande 3 e 4 erano domande di controllo, che servivano per mantenere sotto controllo la conformità, la suggestionabilità e l’effetto del compito. Queste domande sono state create per essere simili a quelle reali, ma che differiscono per il fatto che non catturano l’esperienza fenomenologica dell’Ownership e dell’Agency (Kalckert & Ehrsson, 2012).

Abbiamo scelto queste domande anziché quelle proposte da Botvinich e Cohen, che vengono solitamente utilizzate nei paradigmi di RHI, perché secondo noi sono più immediate e specifiche.

L’utilizzo di domande più dirette si è reso necessario soprattutto nel caso del questionario sul movimento, che forse era più difficile da valutare rispetto al Body Ownership.

Alla fine dell’esperimento ad ogni soggetto abbiamo fatto compilare il test di manualità Edimburgh Handedness Inventory.

 

PROCEDURE

Il soggetto veniva fatto sedere ad una scrivania di fronte allo sperimentatore, veniva fatto sedere il più vicino possibile alla scrivania con i gomiti appoggiati ad essa.

Gli veniva fatto indossare il telo per nascondere gli avambracci, a seconda del bilanciamento la sua mano destra/sinistra veniva sistemata sotto alla struttura precedentemente illustrata in modo tale che se il soggetto teneva fisso lo sguardo sul dito indice della mano altrui non vedessa la propria mano.

Dopo la condizione baseline, durante la quale a caso la mano altrui o quella del soggetto andava a stimolare l’altra mano del soggetto con il Pinprick; questa fase ci è servita per far si che i soggetti sperimentali prendessero confidenza con i Pinprick e per avere a disposizione una situazione pre-stimolazione, eseguivamo la fase di Rubber Hand Illusion in cui i soggetti dovevano tenere lo sguardo fisso sul dito indice della mano altrui per 2 minuti senza muoversi.

Per due minuti lo sperimentatore procedeva con la stimolazione, sincrona o asincrona, tramite i pennelli; al termine di ogni stimolazione veniva sottoposto il questionario precedentemente presentato:

  1. 1. Mi sembrava di guardare la mia stessa mano
  2. 2. Sentivo la mano altrui come fosse parte del mio corpo
  3. 3. Sentivo come se avessi più di una mano destra/sinistra
  4. 4. Sembrava che la mano altrui si stesse spostando verso la mia vera mano.

Alla fase di RHI seguiva quella sperimentale vera e proprio, in cui dopo la stimolazione con i pennelli veniva fatta quella con i Pinprick.

Questa condizione era composta da 5 trials, abbiamo scelto questo numero di prove in modo da ottenere un’illusione più forte ed in più utilizzare i diversi Pinprick.

Dopo ogni stimolazione il soggetto dava il rating sensoriale e alla fine di tutte le prove veniva sottoposto il questionario relativo all’Agency:

  1. 5. Sentivo come se stessi controllando i movimenti della mano altrui
  2. 6. Sentivo come se stessi causando il movimento che ho visto
  3. 7. Sembrava che la mano altrui avesse una propria volontà
  4. 8. Sentivo come se la mano altrui stesse controllando i miei movimenti.

Per concludere la nostra previsione era che dopo aver embodizzato la mano altrui i soggetti sperimentali embodizzassero anche il movimento fatto da essa, per indagare ciò abbiamo preso in considerazioni solo le risposte date al questionario relativo al senso di Agency.

 

RISULTATI

Per l’analisi dei dati sono state calcolate le medie delle risposte dei soggetti alle domande del questionari sia di  Body Ownership che di Agency.

Per ogni questionario sono stati divisi i dati in base alla mano stimolata, alle domande(reali o di controllo) ed al tipo di stimolazione(sicrona/asincrona).

 

ANALISI STATISTICA QUESTIONARIO DEL BODY OWNERSHIP

È stata fatta un ANOVA a misure ripetute con 2 fattori:

  1. 1. STIMOLAZIONE a due livelli: sincrona e asincrona
  2. 2. DOMANDA a due livelli: reali e di controllo.

Il fattore MANO non è stato preso in considerazione in quanto non sono stati trovati dati in letteratura che potessero confermare l’ipotesi di una differenza significativa tra mano destra e mano sinistra (Ocklenburg & al., 2011).

Il fattore principale STIMOLAZIONE è risultato significativo [F(1, 30)=18,819, p=,00015] in quanto c’è differenza significativa tra stimolazione sincrona e asincrona come confermato ai confronti post hoc con la correzione di Duncan: la stimolazione sincrona determina una risposta ai questionari leggermente positiva (mean=0,15625); all’interno di questo dato bisogna tenere presente la distinzione tra domande reali (ossia quelle che valutavano realmente la riuscita della RHI) e di controllo (quelle che servivano per mantenere sotto controllo la conformità, la suggestionabilità e l’effetto del compito).

È importante notare che il solo effetto della stimolazione abbiamo un effetto significativo, ciò è stato fondamentale per la riuscita della RHI e di conseguenza dell’embodiment della mano altrui. Il solo fattore DOMANDA ha un effetto significativo [F(1, 30)=49,287, p=,00000], quindi alle domande reali (1 e 2) i soggetti hanno dato risposte significativamente positive rispetto a quelle di controllo (3 e 4).

L’effetto del confronto tra STIMOLAZIONE x DOMANDA è risultato significativo [F(1, 30)=27,995, p=,00001] (Figura 2), questo indica che le domande reali con la stimolazione sincrona sono significativamente positive (media: 1,67) rispetto alle domande di controllo nella stessa condizione (media= -1,36).

Anche nella condizione della stimolazione asincrona è così: le domande reali durante la stimolazione asincrona sono più positive (media= -0,68) rispetto a quelle di controllo (media= -1,53).

La differenza tra stimolazione sincrona e asincrona è molto maggiore nelle domande reali rispetto a quelle di controllo, nelle quali la differenza non è significativa.

 

ANALISI STATISTICA QUESTIONARIO DELL’AGENCY

Anche in questo caso è stata fatta un ANOVA a misure ripetute con 2 fattori:

1. STIMOLAZIONE a due livelli: sincrona e asincrona

2. DOMANDA a due livelli: reali e di controllo.

L’effetto STIMOLAZIONE x DOMANDA è risultato significativo anche in questo caso [F(1, 30)=11,959, p=,00165] (Figura 3).

In questo caso, a differenza del questionario sul body Ownership, le domande reali (1 e 2) determinano una riduzione dell’effetto nella stimolazione asincrona addirittura inferiore alle domande di controllo (3 e 4).

Rispetto al questionario del Body Ownership le domande reali (1 e 2) nella condizione di stimolazione sincrona risultano essere vicino allo 0, ma comunque diventano estremamente negative nella condizione di stimolazione asincrona.

Le domande di controllo (3 e 4) nella condizione di stimolazione sincrona hanno risultati simili a quelli relativi al questionario sul Body Ownership, mentre nella condizione di stimolazione asincrona le domande di controllo determinano delle risposte più positive.

 

DISCUSSIONE 

Questa ricerca è nata per convalidare la nostra ipotesi secondo cui tramite il paradigma della RHI è possibile embodizzare, oltre alla mano altrui, anche il movimento che la mano altrui compie come è stato dimostrato in alcuni pazienti emiplegici (Garbarini & al., 2012).

Per quanto riguarda la RHI dai dati è emerso che effettivamente era presente nei nostri soggetti, ciò lo deduciamo dalle differenze di risposte date al questionario dai soggetti tra stimolazione sincrona e asincrona.

La stimolazione sincrona ha determinato delle risposte positive alle domande del questionario reali che con la stimolazione asincrona sono state negative; ciò conferma ulteriormente che la stimolazione asincrona si configura come situazione sperimentale di controllo in cui l’illusione non si crea (Botvinick & Cohen, 1998).

Per quanto riguarda il movimento abbiamo visto che l’effetto stimolazione per domanda è risultato significativo.

La stimolazione sincrona ha prodotto un effetto leggermente positivo nelle risposte alle domande reali del questionario (media=0,078).

La stimolazione asincrona ha determinato risposte negative alle stesse domande (media=1,380), tranne nel caso della domanda 3 in cui le risposte sono state positive, ma questo potrebbe dipendere dal fatto che la domanda risultava troppo controversa.

Possiamo affermare che in seguito alla stimolazione sincrona i soggetti hanno provato, seppur in minima parte, la sensazione di “possedere” il movimento fatto dalla mano altrui.

Questi dati confermano la nostra ipotesi, cioè in soggetti sani in seguito all’embodiment di una mano altrui si può embodizzare anche il movimento compiuto da essa.

I dati relativi al Body Ownership sono molto positivi, c’è stata una forte sensazione da parte dei soggetti di possedere la mano altrui.

Questo ci suggerisce l’idea che magari aumentando l’embodiment della mano altrui potrebbe anche aumentare l’effetto relativo al movimento, ad esempio si potrebbe aumentare il tempo delle stimolazioni o forse introdurre delle misure oggettive oltre a quelle soggettive.

Un altro dato che è emerso dalla nostra ricerca è la differenza tra mano sinistra e mano destra, in relazione alla domanda 1 del questionario dell’Agency c’è una discrepanza tra mano sinistra (che mostra risultati positivi) e mano destra (che mostra risultati negativi).

Questo dato non era stato previsto poiché non rientrava nella nostra ipotesi di ricerca; come detto in precedenza in letteratura non ci sono casi che dimostrino la presenza di lateralità nella RHI (Ocklenburg & al., 2011).

È noto che l’emisfero destro è dominante nelle abilità visuo-spaziali, mentre quello sinistro lo è per il linguaggio; Ockenburg et al. Hanno svolto uno studio per verificare se la sensazione della RHI fosse più forte in soggetti destrimani piuttosto che mancini, assumendo a priori che l’emisfero destro fosse dominante per il senso di Body Ownership basandosi sul fatto che tutti i deficit di rappresentazione corporea riguardassero pazienti con danni cerebrali destri (Ocklenburg & al., 2011).

I risultati mostrano che la vivacità della RHI non era modulata dalla manualità del soggetto, perché nei soggetti mancini non erano presenti diminuzioni o dati opposti rispetto ai destrimani; questi dati mostrano quindi che non vi è lateralizzazione per quanto riguarda la RHI, tuttavia potrebbe essere interessante svolgere altri studi riguardanti  ciò (Ocklenburg & al., 2011).

Probabilmente i risultati che abbiamo ottenuto alle domande dei questionari sono dovuti al tipo di domande che abbiamo utilizzato.

Rispetto a quelle usate da Botvinich e Cohen, che erano più lunghe e vaghe e quindi era più facile che i soggetti dessero delle risposte più vicine alla media, le nostre erano più mirate e dirette, ciò potrebbe aver spinto i soggetti a dare risposte più estreme (soprattutto nel questionario dell’Agency).

La nostra ricerca rappresenta un lavoro preliminare sulla relazione che lega il senso di Body Ownership ed Agency, il nostro gruppo di ricerca sta pensando di svolgere ulteriori studi sull’argomento.

Uno di questi sarà l’utilizzo dei Pinprick, gli stimolatori tattili presentati in precedenza, come strumenti volti alla misurazione della Sensory Suppression (Foo & Mason, 2005).

La Sensory Suppression è un fenomeno sensoriale per cui quando compiamo dei movimenti auto-generati e volontari verso una parte del

nostro corpo la nostra soglia sensoriale di attivazione si abbassa, mentre si alza quando subiamo dei movimenti dall’esterno. Utilizzando la Sensory Suppression, secondo noi, sarebbe possibile misurare indirettamente l’embodiment del movimento compiuto dalla mano altrui.

Questo si potrebbe verificare usando i Pinprick ed andando a confrontare i rating sensoriali dei soggetti prima e dopo la RHI, se la nostra ipotesi è vera, si dovrebbe riscontrare una diminuzione dei giudizi di rating dopo l’illusione perché in seguito all’embodiment della mano altrui si dovrebbe manifestare la Sensory Suppression.

Un altro futuro sviluppo di questo lavoro potrebbe essere rivolgerlo anche ai pazienti E+, i pazienti emiplegici con disturbo del Body Ownership per studiare ulteriormente i loro deficit. Il rapporto tra Body Ownership e il senso di Agency rimane da indagare a  fondo, la nostra ricerca rappresenta l’inizio di una serie di studi che in futuro verranno svolti sull’argomento.

È importante svolgere delle ricerche su questo argomento in quanto potrebbero essere d’aiuto per lo sviluppo di nuove tecniche riabilitative in campo.

Figura 1- Setting sperimentale e Pinprick.
Figura 1- Setting sperimentale e Pinprick.
Figura 2- confronto tra STIMOLAZIONE x DOMANDA- è significativo per le domande reali rispetto di controllo e anche durante la stimolazione sincrona rispetto all’asincrona.
Figura 2- confronto tra STIMOLAZIONE x DOMANDA- è significativo per le domande reali rispetto di controllo e anche durante la stimolazione sincrona rispetto all’asincrona.

 

Figura 3- Effetto STIMOLAZIONE per DOMANDA- le domande reali (linea blu) determinano una riduzione dell’effetto nella stimolazione asincrona (2) rispetto alle domande di controllo (linea rossa).
Figura 3- Effetto STIMOLAZIONE per DOMANDA- le domande reali (linea blu) determinano una riduzione dell’effetto nella stimolazione asincrona (2) rispetto alle domande di controllo (linea rossa).

 

AUTORE: 

Dott.ssa Chiara Brandimarte, Laureata in Scienze della Mente presso l’Università degli Studi di Torino.
Questo articolo, tratto dalla tesi di laurea magistrale, ha partecipato al Premio State of Mind 2013 per la Ricerca in Psicologia e Psicoterapia

Gli interventi psicoterapeutici nelle età della vita: lo stato dell’arte – SOPSI 2014

Loriana Murciano, Psichiatra e psicoterapeuta.

SOPSI 2014  

Report dalla Sesssione Plenaria:

Gli interventi psicoterapeutici nelle età della vita: lo stato dell’arte

 

Interventi psicoterapeutici nelle età della vita - SOPSI 2014Nell’ambito del congresso SOPSI si è svolto il Simposio “Gli interventi psicoterapici nelle età della vita: lo stato dell’arte”, a cura della Società Italiana Psicoterapia Medica (SIPM).

Il Prof. Secondo Fassino, moderatore della sessione, ha sottolineato come la letteratura scientifica degli ultimi anni evidenzi sempre di più l’efficacia degli interventi psicoterapici, a diverso orientamento, anche psicodinamico, in termini di  modifiche e di stabilizzazione dei risultati nel lungo termine e per i cambiamenti neurobiologici che inducono, registrati dalle tecniche di neuroimaging. Tali evidenze prendono origine dalle scoperte del Premio Nobel Eric Kandel e dagli studi più recenti di Georg Northoff e di Vittorio Gallese.

Nella relazione psicoterapica si innescano profonde interazioni, al di là del consapevole, che portano all’attivazione delle reti neuronali del paziente e del terapeuta”.

Il Dott. Andrea Ferrero, Responsabile del Centro Integrato per la Prevenzione e Cura dei Disturbi di Personalità dell’Adolescenza, Dipartimento di Salute Mentale, ASL TO4  Settimo Torinese, affronta il tema della specificità degli interventi di psicoterapia in adolescenza. Il primo quesito proposto dal relatore è: “esiste una specificità delle psicoterapie in adolescenza?”.

Premessa fondamentale è innanzitutto la valutazione della specificità alle indicazioni alla psicoterapia, ossia la capacità clinica del terapeuta di comprendere quali vissuti, comportamenti e relazioni, in un momento di profondo cambiamento e così carico di significati quale l’adolescenza, siano inquadrabili nella sfera della normalità o della patologia.

In adolescenza, infatti, sono indicatori di normalità rispetto agli adulti: un valido rapporto con la realtà, anche in presenza di progettualità indeterminata; un’attitudine soddisfacente alla conoscenza e all’apprendimento, differenziata  per età; riconoscere e integrare rappresentazioni e affetti, pur con limiti di capacità narrativa; un buon controllo dell’aggressività, anche se le emozioni sono esasperate; un’immagine di sé coesa, anche se sono presenti aspetti proiettivi idealizzati; l’utilizzo degli altri (in particolare del gruppo dei coetanei), come supporto a tollerare la perdita dell’identità infantile e come  fonte temporanea di nuovi modelli identitari (Ferrero e Peloso, 2010).

L’interpretazione semeiologica degli aspetti del linguaggio del corpo e del comportamento agito in adolescenza possono acquisire, invece, un valore specifico quali possibili indicatori di patologia. Inoltre in adolescenza anche aspetti di ordine biologico, psicologico e sociale possono influire sull’espressione di sintomi analoghi senza configurare quadri psicopatologici: l’adolescenza infatti è un momento di cambiamento biologico-endocrinologico, di evoluzione della personalità e di cambiamenti esistenziali con vulnerabilità e sensibilità rispetto ai modelli socio-culturali.

Il secondo quesito discusso dal relatore è: “ esiste una psicopatologia specifica in adolescenza?Bisogna valutare le interazioni tra la vulnerabilità biologica e psicosociale, il significato simbolico dei life-events e la diagnosi di struttura dell’individuo (Adler 1907, 1912; Rovera 1992; Fassino et al. 2007;  Ferrero 2009, 2012; Zubin  & Spring,1977; Ciompi 1982; Livesley 2008; Svrakić et al. 2009; Goldberg 2009; Paris 2011). Per quanto riguarda la vulnerabilità biologica i processi di maturazione del cervello in adolescenza presentano delle differenza relative al genere: in particolare per i processi cognitivi nei maschi la maturazione delle regioni prefrontali è ritardata rispetto alle regioni limbiche e questo comporta una iper-reattività (novelty seeking) di fronte ad uno stimolo incongruo; nei maschi e nelle femmine sono carenti (in crescita) le funzione esecutiva e working memory (Raznahan et al., 2010; Andrews-Hanna et al., 2011).

Per quanto riguarda i processi socioemotivi caratteristica del genere femminile è un’accentuazione del funzionamento delle regioni orbito-frontali, del gyrus cinguli e dell’amigdala con conseguente eccessiva influenza dei fattori emotivi (Bava-Tapert, 2010).

Il significato dei life-events in adolescenza è da mettere in relazione al delicato momento di rivisitazione dell’identità e del sé con tutte le tematiche sull’autonomia; nella sfera della socializzazione l’adolescente è impegnato nel processo di autonomizzazione ed indipendenza emotiva dai genitori ed altri adulti, di acquisizione di un ruolo sociale, femminile o maschile, e di un comportamento socialmente responsabile e di preparazione al ruolo professionale futuro. Sulla dimensione identitaria nell’adolescente si costruisce l’immagine mentale del proprio corpo, dei valori di identità di genere e sessuale.

Per quanto riguarda l’organizzazione di personalità in adolescenza alcuni meccanismi di difesa appartenenti alla costellazione borderline o nevrotica (Kernberg, 1975) possono non assumere una connotazione psicopatologica ma essere “normali”, transitori e funzionali.

Sulla questione dei disturbi di personalità in adolescenza il Dott. Ferrero fa riferimento all’autore Caspi (1998) secondo cui la personalità mostra una sostanziale continuità dai 3 anni all’adolescenza e all’età adulta, al  “Modello del disturbo basato sulla clinica” (Olbrich, 1990) secondo cui i problemi emotivi, familiari, relazionali, sociali sono “normali” ed al  “Modello della continuità basato sull’epidemiologia” (Offer et al., 1998) secondo il quale tra gli adolescenti: il 20% sono patologici, il 20% a rischio ed il 60% normali. Viene poi passata in rassegna la letteratura più recente (Laurenssen, 2013) sul tema della specificità delle tecniche psicoterapiche in adolescenza, in particolare per il trattamento dei disturbi borderline di personalità (DBP).

Il Centro Integrato per la Prevenzione e Cura dei Disturbi di Personalità dell’Adolescenza (DPA), Dipartimento di Salute Mentale, dell’ ASL TO4 di Settimo Torinese può accogliere pazienti adolescenti provenienti non solo dall’area di pertinenza territoriale. Gli interventi di psicoterapia sono a breve termine, per una vasta gamma di disturbi, specifici per psicopatologia, e si pongono in continuità con un processo integrato di cura. Il modello psicoterapico applicato per il trattamento del Disturbo Borderline di Personalità è la SB-APP: Psicoterapia Psicodinamica Adleriana Breve Sequenziale strutturata secondo moduli  di 40 sedute con frequenza settimanale, sequenziali e ripetibili; ogni modulo viene condotto da un terapeuta differente: il razionale di questa scelta prevede che, iniziando un nuovo modulo sequenziale della SB-APP, si dovrebbe prevedere di lavorare sul distacco dal terapeuta precedente, valutando eventuali idealizzazioni o svalutazioni. La scelta del trattamento secondo la SB-APP deve tener conto di tutte quelle considerazioni sovraespresse inerenti gli aspetti specifici dell’adolescenza.

Prosegue il simposio il Prof. Abbate Daga con l’intervento “Psicoterapia dei disturbi alimentari dai sintomi alla cura del se’”. Le psicoterapie dei DCA si devono interessare sia dei sintomi che delle aree psicopatologiche non direttamente connesse ai sintomi: la dicotomia mente-corpo va recuperata nella cura. Le emozioni nei disturbi alimentari sono state spesso trascurate e sembrano rispecchiare le difficoltà stesse di queste pazienti caratterizzate da condotte di evitamento e controllo emotivo (Treasure, 2012). Come affermava la Bruch non si possono trattare questi disturbi se non si comprende la traiettoria evolutiva della costruzione del sé (recupero dell’identità corporea) (Skarderud, 2009); è assolutamente fondamentale recuperare i significati consci ed inconsci dei sintomi.

Il relatore passa in rassegna lo stato dell’arte dei trattamenti psicoterapici nei disturbi del comportamento alimentare:

Modelli CBT (Fairburn): attenzione ad individualizzare i trattamenti ed a recuperare gli aspetti di personalità;

Modello Cognitivo-Interpersonale (Ulrike Schnidt e Janet Treasure);

Terapia Interpersonale;

Modello che evidenzia l’ansia di tipo sociale che conduce all’utilizzo del cibo come “gestione emotiva” nella bulimia e come evitamento del giudizio nell’anoressia;

Modelli psicodinamici.

Il Prof. Abbate-Daga evidenzia un recente studio sul Lancet (2013) che dimostra che le terapie psicodinamiche controllate con quelle di Fairburn e con interventi pubblici di tipo ambulatoriale (40 sedute) funzionano tutte sul sintomo; a distanza di un anno dal trattamento  le terapie psicodinamiche, che agiscono sui significati e la ristrutturazione del sé, mostrano una maggiore efficiacia. Viene enfatizzata dal relatore l’importanza dell’utilizzo della relazione terapeutica rispetto all’interpretazione; la relazione infatti fa emergere le proprie sensazioni, il pensiero e l’emozionalità.

Il relatore quindi conclude: i disturbi alimentari sono disturbi dell’identità corporea connessi al deficit dello sviluppo del sé; la cura del corpo e la cura del sé non possono essere disgiunte; le psicoterapie psicodinamiche rappresentano uno strumento di cura efficace e duraturo nel tempo.

(Si ringrazia il Dott. Ferrero per aver fornito il materiale del proprio intervento).

 

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ADOLESCENTIDISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED – RELAZIONE TERAPEUTICA

ARTICOLI CONSIGLIATI:

CONGRESSO SOPSI 2014

 

BIBLIOGRAFIA:

 

AUTORE:

Dott.ssa Loriana Murciano, Psichiatra e Psicoterapeuta.

Stay hungry or stay angry? That is the question. – Psicologia di Sogni e Aspirazioni

 

PIANO DEL SOGNO PT. 2

Stay hungry or stay angry? That is the question.

Psicologia di Sogni e Aspirazioni

MONOGRAFIA PIANO DEL SOGNO 

Piano del sogno 2. - Immagine: © Piumadaquila - Fotolia.comCapita talvolta che il sogno ideale non sia realmente desiderato. Pare una contraddizione. Forse sarebbe meglio dire che esistono sogni desiderati senza che si conoscano a pieno le implicazioni della loro realizzazione.

Come dire: vengono desiderati perché è giusto e normale desiderarli, desiderarli è un dovere.

D’altronde la nostra mente produce sogni idilliaci. Pensiamo al sogno di diventare una rock star. La gloria, il denaro, il riconoscimento non racconta nulla di quanto ci si possa sentire soli, dello sballottamento da una città all’altra, perdita dei propri riferimenti e del danno per le relazioni e la vita personale. Qualcuno amerebbe questa vita e i suoi costi. Per altri potrebbe essere un inferno di viaggi e di finti sorrisi. Il sogno è irreale in quanto non ne sono contemplate le implicazioni e confrontate con ciò che noi gustiamo della vita.

C’è anche un’altra opzione simile e in parte sovrapposta a quest’ultima: fare propri i sogni altrui. Accade talvolta che il sogno a cui siamo attaccati appartenga alla nostra cultura o alla nostra famiglia, persone che abbracciano ciò che i genitori hanno innanzitutto sognato per loro fin quasi a imporselo. Il successo (la vetta) è un sollievo dalla lotta per non essere una delusione e finalmente essere libero dalle aspettative altrui. Le difficoltà, la naturale demotivazione alzano i livelli di stress, di ruminazione mentale e conseguente riconoscimento innanzi allo specchio di essere stati una reale delusione per standard che poi neanche si voleva veramente raggiungere.

Forse in fondo quel campo da gioco lo si è sempre mal sopportato. Oppure si riesce. E allora ci si accorge che la vetta non offre la soddisfazione attesa da tanto tempo, immaginata virtualmente. Subentra il vuoto e il grigiore per cui ‘ora dovrei essere felice e non lo sono’ o a volte la tristezza ‘ho investito così tanto per qualcosa che ora mi sembra così superficiale’ oppure ancora la confusione ‘che cosa voglio realmente’. Allora s’apre una soluzione estrema: la ricerca di un nuovo sogno in cui infilarsi che garantisca, non riposo (poiché di una seconda erculea fatica si tratta) ma almeno energia, motivazione e vitalità.

Il sogno come malattia autoimmune

Certe prospettive mentali agiscono come malattie autoimmuni. Le malattie autoimmuni attaccano il normale funzionamento dell’organismo fino a danneggiarlo. Una delle funzioni mentali di adattamento alla realtà è la capacità di apprendere e di modificare il nostro comportamento, mentale e motorio, in relazione alle risposte dell’ambiente.

Il sogno è una spinta necessaria per iniziare grandi opere. Il rifugio costante nel sogno o la sua indiscriminata perseveranza può trasformarsi in un cronico volger le spalle alla realtà. Come dire, l’esperienza insegna salvo malattie autoimmuni che glielo impediscano. Queste ultime possono contribuire a una lettura distorta della realtà che salvaguardi la nostra visione.

Risultato apparente: immunità alla frustrazione. Risultato reale: danno alle nostre facoltà di apprendimento e adattamento. La frustrazione, per quanto spiacevole, favorisce l’apprendimento di nuove strategie e la flessibilità del sistema. In sintesi, aiuta a evolversi. 

Questa malattia autoimmune tende a essere degenerativa. Con il passar del tempo e degli attacchi frustranti operati dalla realtà, l’autoinganno è sempre più arduo, e l’illusione più fragile. Così, perché il sogno regga è necessario esagerare, in sostanza raccontarsela sempre più grande, aumentare gli strati di prosciutto innanzi agli occhi. L’ipotetica frustrazione è percepita come sempre più intollerabile perché sempre meno conosciuta. Un esempio. Il ragazzo che a 14 anni inizia ad anellare una serie di due di picche nei primi approcci con il gentil sesso ma continua a osare senza fuggire imbarazzo e vergogna,  forse a trenta avrà appreso che queste bastonate poi non sono così tremende e saprà anche evitarne le forme più eclatanti. Ma se lo stesso ragazzo a 14 anni inizia a ritirarsi dal rischio perché ‘meglio sprecare le proprie energie per la ragazza giusta, ideale, quella per cui vale la pena’ allora la caccia al difetto dell’altra sarà sempre un’ottima scusa a portata di mano per dire ‘non è quella giusta, non ci esponiamo’. Se anche osa e viene rifiutato, questo non è occasione per capire cosa fare meglio alla prossima occasione, ma la prova che l’altra ‘è solo una sciocca, che mi ha deluso e che non è ciò che cerco’.

Quando poi la realtà si fa  troppo evidente allora la fuga nel sogno si può trasformare in fuga dalla coscienza: non riesco più a raccontarmela, quindi trovo un modo che mi impedisca di pensare. A questo punto attività fortemente distraenti e capaci di annullare ogni riflessione o ruminazione sulla realtà come il gioco, l’alcool o il cibo divengono l’estrema ratio. L’alternativa all’immersione in stati alterati di coscienza è un doloroso bagno di realtà. E quando accade magari di anni se ne hanno 35, con l’abilità di fronteggiare le frustrazioni di un giovane quattordicenne, con l’aggiunta di non avere lo stesso supporto sociale, e di sentirsi ancor più inadeguati in un mondo dove le persone intorno nel frattempo han fatto parecchi passi avanti.

In sintesi, conviene porre attenzione che il sogno rimanga una spinta motivante e non il modo di togliere lo sguardo dalla realtà.

 

PIANO DEL SOGNO PARTE 1

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SOGNI – SCOPI ESISTENZIALI – DISSOCIAZIONE

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BIBLIOGRAFIA:

Videogames violenti: come GTA influenza Alimentazione e Tendenze antisociali

Un recente studio mostra come gli adolescenti che giocano a videogames violenti mangiano più cioccolato e sono più propensi a rubare biglietti della lotteria durante un esperimento rispetto a ragazzi che giocano a videogiochi non violenti.

Questi risultati si sono rivelati più forti tra gli adolescenti che avevano ottenuto un punteggio molto alto in un test di disimpegno morale, in cui si valutava la capacità di convincere se stessi che le norme etiche si possono non applicare in certe situazioni.

Quando le persone giocano a videogiochi violenti mostrano meno autocontrollo, mangiano di più e imbrogliano di più” afferma il dottor Brad Bushman, co-autore di questo studio e professore di Psicologia e Comunicazione all’Università dell’Ohio, “Non si tratta solo di aggressione, anche se questa aumenta quando le persone giocano a Grand Theft Auto (abbreviato GTA, videogioco in cui si interpreta un criminale).

 

Videogames violenti vs videogames non violenti: l’esperimento

Lo studio comprende 172 studenti italiani delle scuole superiori, di età compresa tra i 13 e i 19 anni, che hanno giocato o ad un videogame violento (GTA III O GTA:SAN ANDREAS) o ad un videogame non violento (Pinball o MiniGolf) per 35 minuti.

 

Effetti dei videgames violenti su alimentazione e impulsività

Durante lo studio, è stata posta accanto ai ragazzi una scatola di cioccolatini M&M’s e gli è stato detto che potevano mangiarli liberamente, ma sono stati anche avvertiti del fatto che mangiare tanti cioccolatini in poco tempo non era salutare.

E’ interessante notare che i ragazzi che hanno giocato a videogames violenti hanno mangiato tre volte di più di cioccolatini rispetto a quelli che avevano giocato a videogames non violenti.

hanno semplicemente mostrato meno moderazione nel loro mangiare” afferma Bushman.

 

Videogames violenti e comportamenti antisociali

Dopo aver giocato, i ragazzi si sono cimentati in un test di logica in cui si poteva vincere un biglietto della lotteria per ogni risposta corretta. Dopo aver comunicato ai ragazzi il loro numero di risposte corrette, sono stati invitati a prendere il numero corrispondente di biglietti della lotteria da una busta, senza nessuna supervisione. All’insaputa dei ragazzi, i ricercatori erano al corrente del numero di biglietti presenti nella busta in modo da poter successivamente stabilire se un giocatore prendeva il numero corretto di biglietti che gli spettava.

I risultati hanno mostrato che i ragazzi che hanno giocato ai videogames violenti hanno imbrogliato molto di più rispetto ai ragazzi che avevano giocato ai videogames non violenti, prendendo più biglietti di quanti, in realtà, gliene spettassero.

Ai giocatori era stato anche detto che erano in competizione con una controparte non visibile e che se avessero vinto potevano spaventare questo partner con un forte suono all’interno delle sue cuffie (in realtà non c’era nessuna controparte). I ragazzi che avevano giocato a videogames violenti hanno scelto di spaventare la propria controparte con suoni molto più forti e che duravano molto più a lungo rispetto agli altri ragazzi che avevano giocato a videogames non violenti.

Infine, Bushman conclude dicendo:

Uno dei principali fattori di rischio per il comportamento antisociale è semplicemente essere maschi. Anche le ragazze erano più propense a mangiare più cioccolato, ad imbrogliare e ad agire in modo aggressivo quando giocavano a GTA, ma non raggiungevano mai i livelli dei maschi.

Marsha Linehan vince il James McKeen Award 2014, premio della APS, Association for Psychological Science

La Redazione di State of Mind consiglia la lettura di questo contenuto:

Marsha Linehan, Direttrice del Behavioral Research and Therapy Clinics dell’università di Washington ha vinto il premio 2014 APS James McKeen Cattell Award assegnato dalla Association for Psychological Science (APS).

 

Linehan’s research focuses on employing behavioral models to study patients who develop suicidal behaviors, substance abuse issues, or borderline personality disorder. She also developed Dialectical Behavior Therapy (DBT), originally used to treat suicidal tendencies and later modified to include the treatment of mental disorders and borderline personality disorder.

Making Mindfulness Work for Patients – Association for Psychological ScienceConsigliato dalla Redazione

APS Fellow Marsha M. Linehan, director of the Behavioral Research and Therapy Clinics at the University of Washington, is the recipient of a 2014 APS James McKeen Cattell Award. Linehan will give an award address at the 27th APS Annual Convention in 2015 in New York City, New York, USA. (…)

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

VEDI TUTTI GLI ARTICOLI IN CUI E’ CITATA L’AUTRICE MARSHA LINEHAN


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Neuropsychological and Social Cognition deficits in Bipolar Disorder and Schizophrenia: Preliminary Data


SOPSI 2014 

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

La Psicopatologia e le età della vita – Torino 12-15 Febbraio 2014

 

Neuropsychological and Social Cognition deficits

in Bipolar Disorder and Schizophrenia: Preliminary Data

Caldiroli A1, Serati M1, Caletti E1, Zugno E1, Cigliobianco M1, Orsenigo G1, Fiorentini A1, Paoli RA1, Grillo P2, Consonni D2, Zago S3, Altamura AC1. 

1Department of Psychiatry,University of Milan,Fondazione IRCCSCa‘Granda Ospedale Maggiore Policlinico

2 Epidemiology Unit, Department of Preventive Medicine, University of Milan, Fondazione IRCCS Ca’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico

3 Department of Neurology, University of Milan, Fondazione IRCCSCa’ Granda Ospedale Maggiore Policlinico, Milan

 

TUTTI I POSTER DEL CONGRESSO SOPSI 2014
I REPORTAGES DAL CONGRESSO SOPSI 2014

Psicopatologia e gravidanza. Trattare o non trattare: questo è il dilemma – SOPSI 2014

 

 

SOPSI 2014

Report del simposio:

Psicopatologia e gravidanza. Trattare o non trattare: questo è il dilemma

 

SOPSI 2014 - Psicopatologia e GravidanzaUna donna depressa non trattata è maggiormente esposta a rischio di suicidio e a sviluppo di depressione post partum che in circa il 40% ha radici nel’antepartum con un rischio di depressione post partum tre volte superiore rispetto alla norma.

Apre il simposio il Prof Cesario Bellantuono, direttore della clinica e della scuola di specializzazione di psichiatria di Ancona e del Centro Degra, con una relazione dal titolo “Ansia e depressione in gravidanza: i rischi del non trattamento” rovesciando la classica prospettiva della sicurezza dell’uso dei farmaci in gravidanza e chiedendosi invece quali siano i rischi per la salute della mamma e del bambino quando non vengono utilizzati trattamenti farmacologici.

Alla provocazione iniziale segue un’attenta e particolareggiata disamina della letteratura disponibile sull’argomento. Se una donna presenta una patologia depressiva o la sviluppa durante la gravidanza i rischi connessi alla salute derivanti da tale diagnosi possono essere anche molto gravi.

Una donna depressa non trattata è maggiormente esposta a rischio di suicidio e a sviluppo di depressione post partum che in circa il 40% ha radici nel’antepartum con un rischio di depressione post partum tre volte superiore rispetto alla norma (Sutter Dallay AL, 2004 e Skouteris, 2009).

Inoltre una psicopatologia non trattata in gravidanza si ripercuote negativamente su adesione ai controlli medici, stile di vita sano (assunzione regolare di vitamine, fumo, alcol, sostanze) e può portare all’utilizzo di farmaci d’abuso.

Le ripercussioni di una depressione non trattata sono simili alle variabili già implicate negli effetti collaterali dei trattamenti farmacologici: maggior presenza di parto pre termine, aborti spontanei, maggior numero di feti nati morti, basso peso alla nascita punteggio apgar inferiore, elevati livelli di cortisolo in relazione a ansia e depressione materna, maggior numero di accessi alle unità di terapia intensiva pediatrica, alterazioni nel processo di attaccamento materno fetale e aumentato rischio di disturbi psicologici in adolescenza (correlato ad alti livelli di cortisolo materno in gravidanza).

Questi dati sono segnalati anche dall’American Association of Obstetrics and Gynaecology a conferma del fatto che l’attenzione alla gravità di queste situazioni psicopatologiche è posta anche in ambienti non prettamente psichiatrici.

In una metànalisi pubblicata su Archives of General Psichiatry viene segnalato un rischio aumentato di parto pre termine e basso peso alla nascita in figli di madri con depressione in gravidanza. Tuttavia questo è un dato che ricorre anche nelle donne che durante la gravidanza assumono farmaci antidepressivi.

E quindi cosa fare???
In un grosso studio USA su 238 donne gravide comprendenti un gruppo di controllo esente da patologia depressiva, un gruppo con diagnosi di depressione non trattata farmacologicamente ed un gruppo con depressione trattata farmacologicamente è stato dimostrato che il rischio di parto pre termine è aumentato del 20 % circa per i due gruppi di donne depresse versus i controlli senza differenze significative tra i due gruppi con o senza farmaci, mentre non si evidenziavano aumenti di teratogenicitá tra il gruppo delle donne trattate e quelle non trattate. Da ciò se ne deriverebbe quindi un segnale favorevole all’utilizzo di farmaci antidepressivi ove necessari.

Infine è utile ricordare le ripercussioni di una depressione materna, e particolarmente una depressione presente durante la gravidanza, sulla salute psicologica dei figli anche a lungo termine. La depressione in gravidanza può generare una compromissione dell’attaccamento materno fetale (valutabile con il “maternal fetus attachment scale score distribution”) e dell’allattamento.

Uno studio nord europeo su 127 donne con follow up a 16 anni delle madri e dei figli ha dimostrato che nei figli di madri con episodio depressivo il rischio di avere un episodio depressivo era aumentato di 20 volte ma questo era ulteriormente più alto se la depressione materna era presente in gravidanza, rispetto ai figli di madri che avevano avuto un episodio depressivo non in gravidanza.

Quindi la depressione antepartum e più grave della depressione in altre fasi della vita con un verosimile pattern di trasmissione trans generazionale della psicopatologia (Pawlby et al, 2009).

In conclusione un trattamento di successo nei genitori può migliorare l’outcome dei figli e il rischio per la coppia materno fetale di donne depresse non trattate sembrerebbe maggiore di quello delle donne trattate.

Dopo questa riflessione, che porta l’attenzione sulle conseguenze di una depressione non trattata, è il momento del Prof Balestrieri, direttore della clinica universitaria di psichiatria di Udine, che si assume l’arduo compito di approfondire il complesso discorso legato alle terapie farmacologiche in gravidanza: opportunità, rischi, eventuali effetti collaterali (ad esclusione di quelli teratogeni), aspetti del processo decisionale. Gli studi e le metanalisi sul tema esaminano le associazioni dei trattamenti antidepressivi in gravidanza con:

• basso peso alla nascita (LBW)

• parto pretermine (PTB)

• ipertensione polmonare persistente (PPHN)

• scarso adattamento del neonato (PNAS)

• autismo

• emorragie post partum

• allungamento del QTc

• enterocolite necrotizzante

In una metanalisi pubblicata nel 2013 su Journal of American Psychiatry (Ross et al, 2013) gli autori segnalano che gli antidepressivi in gravidanza non correlano con aborto spontaneo mentre c’è un’associazione significativa tra antidepressivi in gravidanza e parto pretermine (sia versus tutte le donne non trattate sia verso le sole donne depresse non trattate).

Inoltre i trattamenti antidepressivi in gravidanza risultavano significativamente associati con basso peso alla nascita ma solo nel confronto con madri non depresse, mentre versus madri depresse non trattate si perdeva la significatività statistica. Infine i farmaci antidepressivi in gravidanza risultavano associati significativamente con Apgar minore rispetto al gruppo delle donne non trattate o sane.

In conclusione, nonostante fosse stato possibile individuare delle associazioni statisticamente significative tra l’esposizione a antidepressivi in gravidanza e esiti del parto, le differenze erano piccole e i punteggi nel gruppo delle madri trattate restavano comunque all’interno di un range di oscillazione normale per cui la decisione se iniziare o se proseguire un trattamento antidepressivo secondo gli autori andrebbe presa in relazione alla gravità del quadro clinico materno.

Il Prof Balestrieri ha proseguito con una disamina dei principali e più recenti studi condotti in Italia e all’estero sull’uso degli antidepressivi in gravidanza e i loro effetti collaterali non teratogeni sempre con l’obiettivo di acquisire maggiori informazioni possibili per scegliere se trattare o meno le pazienti e con quale farmaco. I farmaci triciclici parrebbero sovrapponibili per profilo di sicurezza agli SSRI nella prima parte della gravidanza, mentre risulterebbero meno problematici nella seconda metà della gravidanza (ad eccezione della clomipramina) e non correlati a enterocolite, ipertensione polmonare e aumento del QTc.

In realtà anche in questo caso bisognerebbe tenere conto di fattori diversi quali i rischi e gli effetti collaterali propri della classe dei farmaci triciclici e, sottolinea in ultimo il Prof Di Sciascio nel dibattito finale, il fatto che ci sono meno studi sui TCA e che alcune variabili di outcome potrebbero non risultare associate al loro uso in quanto non indagate.

In conclusione Balestrieri evidenzia:

• PPHN (ipertensione polmonare) sembra correlare con uso SSRI utilizzati nell’ultima parte della gravidanza (incidenza < 1%), legato ad un problema di tossicità.

• PNAS (neonatal adaptation): sono stati evidenziati vari effetti di alterazione dell’adattamento neonatale, da tremori a aumentata sudorazione, nasal stifness, maggior incidenza di coliti etc . Questi sintomi paiono correlati ad una problematica di astinenza e correlano maggiormente con l’uso di SSRI a fine gravidanza.

• APGAR a 1 e a 5 minuti più basso associato all’uso di SSRI  nell’ultima parte della gravidanza

• Nella maggior parte dei casi i sintomi sono transitori

• Non è chiaro quanto pesi il fattore confondente dovuto alla depressione stessa e il rischio di svilupparla

• In un grande studio svolto in Danimarca su tutti i bambini nati vivi dal 1996 al 2006 non è stato notato un legame con presenza di autismo.

• Non si è evidenziato un aumento delle emorragie nel post partum

• Per quanto riguarda il rischio aumentato di enterocoliti necrotizzanti viene citato solo un case report legato all’uso di venlafaxina e in un bambino prematuro.

• Il tratto QTc infine risulterebbe aumentato in pazienti trattate con SSRI ma con effetto transitorio a breve termine.

• Sia i sintomi depressivi sia l’uso di farmaci antidepressivi correlano con parto pretermine e basso peso alla nascita ma i vari studi non sono riusciti a estrapolare l’effetto dei soli sintomi depressivi su queste stesse variabili di outcome per un confronto più “pulito”.

Indubbiamente, in una situazione così complessa dove il non trattare comporta dei rischi, e il trattare farmacologicamente comporta altrettanti rischi che, pur essendo dimostrati e correlati all’uso dei farmaci antidepressivi, tuttavia non si discostano molto dai normali range di incidenza dei vari outcome al parto, diventa fondamentale un’informazione il più possibile dettagliata al fine di aiutare le donne nella scelta ponderata del rapporto rischi-benefici con grande specificità caso per caso.

Chiude questo interessante e utilissimo simposio il Prof Di Sciascio, del Dipartimento di Scienze Neurologiche e Psichiatriche, Università di Bari, che affronta il tema dell’uso in gravidanza di farmaci antipsicotici e benzodiazepine.

E importante distinguere tra le pazienti che devono iniziare un trattamento perché sviluppano una patologia in gravidanza e quelle che stanno già seguendo una cura. E’ necessario effettuare un accurato assesment per valutare il rapporto rischio beneficio che tenga conto dei rischi legati a episodi di acuzie o ricadute.

Secondo la classificazione dell’FDA per la sicurezza dei farmaci in gravidanza e i rischi teratogeni, solo la Clozapina, tra gli antipsicotici di seconda generazione, si trova in classe B (Studi sulla riproduzione animale non sono riusciti a dimostrare un rischio per il feto e non si è in possesso di studi adeguati e ben controllati su donne in gravidanza oppure gli studi su animali hanno dimostrato un effetto avverso ma studi adeguati e ben controllati sulle donne in gravidanza non sono riusciti a dimostrate un rischio per il feto in nessun trimestre.)

Per tutti gli altri farmaci non sono ancora disponibili studi sufficienti a escludere possibili effetti teratogeni. Sia gli AP di prima generazione (FGA) sia quelli di seconda generazione (SGA) paiono essere associati a maggiori complicazioni neonatali. Inoltre gli SGA sembrano aumentare il rischio di complicazioni metaboliche gestazionali e neonatali con peso alla nascita aumentato rispetto ai neonati esposti all’uso di FGA.

Nonostante ciò, in una review del 2010 (Gentile S., 2010) pubblicata sullo Schizophrenia Bullettin, si consiglia l’uso di FGA, giustificato dalla minor presenza di effetti collaterali sui neonati, nelle pazienti drug-naive, mentre dovrebbe prevalere il proseguimento della terapia in corso per i pazienti già in cura con SGA per evitare i rischi connessi di uno switch farmacologico in un momento così delicato come la gravidanza. A questi trattamenti andrebbero inoltre associate una sorveglianza ginecologica e endocrinologica (per monitorare gli aspetti dismetabolici già delicati in gravidanza) ed una stretta collaborazione tra i diversi specialisti.

Per quanto riguarda l’allattamento è molto complesso valutare il passaggio del farmaco nel latte che va considerato in rapporto al plasma (si considera alto un rapporto farmaco/plasma >1). Per FGA il rapporto è tendenzialmente < 1. Questo dato pare valere anche per Risperidone e Olanzapina mentre la Clozapina lo supera ed è quindi sconsigliata in allattamento.

Pertanto è necessario tenere presente la gravità della patologia materna, il rischio e il beneficio legato ad una sospensione o prosecuzione delle cure farmacologiche in corso ed infine il tipo di cura da iniziare in pazienti drug-naive.

Infine viene affrontato il capitolo delle benzodiazepine (BDZ), anche in considerazione del fatto che il periodo della gravidanza può di per sé comportare la presenza di una sintomatologia ansiosa anche in donne non affette da un conclamato disturbo d’ansia e che tale sintomatologia spesso viene trattata con questo tipo di farmaci.

Due sono i problemi studiati relativamente all’uso di BDZ in gravidanza:

1. rischi teratogeni

2. rischio di sintomi legati all’astinenza neonatale ( Floppy Infant Syndrome)

Per quanto riguarda gli effetti teratogeni  alcuni studi avevano evidenziato un aumentato rischio di palatoschisi e alcuni casi di malformazioni cardiache nei figli di donne che assumevano BDZ in gravidanza, ma tali studi risulterebbero essere piuttosto datati e non replicati. Secondo una review del 2013 (Bellantuono et al 2013) i dati pubblicati negli ultimi 10 anni non indicavano un’assoluta controindicazione all’uso di BDZ in gravidanza durante il primo trimestre gestazionale ed inoltre gli studi disponibili risultavano gravati da un certo numero di limitazioni metodologiche legate ai molti fattori confondenti etc.

Il Prof Di Sciascio ha indicato come più utilizzati il diazepam e il clordiazepossido nel primo trimestre perché sono i più studiati e per i quali pare non essere stato segnalato un chiaro rischio teratogeno.

Il problema dell’astinenza secondaria a brusca sospensione (floppy infant syndrome), caratterizzata da basso indice di Apgar, tremori, bradicardia, ipertonia, iperreflessia, diarrea, vomito, tachipnea, cianosi, pianto irrefrenabile, può insorgere subito dopo il parto o anche a distanza di alcune settimane ed è generalmente transitoria e risolvibile ma richiede l’intervento del neonatologo. Per evitarla è sempre consigliata la scelta della monoterapia alla “dose minima efficace”, da suddividere in più somministrazioni quotidiane e per il minor tempo possibile.

Inoltre è necessario procedere ad una graduale sospensione del farmaco in previsione del parto tenendo presente che è auspicabile un periodo di sospensione di almeno una settimana.

Con quest’ultimo intervento si è chiuso un simposio molto interessante, ricco di informazioni utili per chi si occupa di clinica e denso di spunti pratici che hanno stimolato la discussione ed il dibattito tra gli uditori molto numerosi che hanno affollato la sala.

TUTTI I REPORTAGES DAL CONVEGNO SOPSI 2014

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GRAVIDANZA – GENITORIALITA’FARMACI – FARMACOLOGIA

DEPRESSIONE ANSIA PSICOPATOLOGIA POST PARTUM – PERINATALE

 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Vuoi mangiare meno? Aiutati con i piatti rossi – Psicologia e Alimentazione

Claudia Corsini.

 

 

Piatti rossi. - Immagine: © jalcaraz - Fotolia.comAlimentazione: sulla rivista Appetite è stata recentemente pubblicata una ricerca svolta a Parma che ha dimostrato come gli esseri umani siano propensi a mangiare meno e a testare meno crema idratante sulle mani quando tali prodotti vengono presentati su piatti di plastica di colore rosso.

Risultati analoghi erano già stati ottenuti nel 2012 da Oliver Genschow, ricercatore presso la Facoltà di Psicologia di Basilea. Tuttavia, l’esperimento svizzero non consentiva di definire se la quantità di cibo mangiata in relazione al colore del piatto fosse originata dal contrasto tra piatto e alimento piuttosto che dal colore del piatto di per sé. A questo proposito, un’altra ricerca nel campo dell’alimentazione (van Ittersum e Wansink, 2012) dimostrava, in effetti, come un contrasto abbastanza elevato tra piatto e pietanza (ad esempio pasta condita al pomodoro servita su piatto bianco) potesse indurre le persone a collocare nel piatto quantità più misurate di cibo rispetto a quando il contrasto tra i due era inferiore (ad esempio pasta in bianco su piatto bianco).

Lo studio italiano conferma, invece, come sia effettivamente il colore del piatto e non la variazione di luminanza e contrasto a modificare il comportamento di consumo. Questa ipotesi è stata dimostrata attraverso tre esperimenti che hanno coinvolto un totale di 240 volontari. Nel primo esperimento sono stati serviti popcorns in piatti rossi, blu e bianchi a tre gruppi indipendenti di partecipanti.

Disegno 1

Nel secondo caso i piatti sono stati riempiti con una quantità costante di gocce di cioccolato fondente, cromaticamente quindi opposte al popcorn. Sia nel caso dei popcorns che in quello della cioccolata  i soggetti appartenenti ai gruppi con i piatti rossi hanno consumato in media significativamente meno rispetto a quelli con il piatto bianco e blu. Cosa è avvenuto quando, anziché un alimento, è stata presentata una dose di crema idratante da testare sulle mani?  Anche in questo caso il gruppo con i piatti rossi ha provato sulle proprie mani un quantitativo di prodotto significativamente inferiore rispetto agli altri due. Tutti e tre gli esperimenti prevedevano poi la compilazione di un questionario fittizio riguardante aspetti sensoriali e il livello di gradimento/piacevolezza del prodotto. Curiosamente, dall’analisi delle risposte fornite dai volontari è emerso come la diminuzione di consumo con il piatto rosso non sia correlata ad un’altrettanta riduzione dell’appeal dei cibi e della crema posati su di esso. Le persone pur consumando meno con il piatto rosso esprimono un giudizio di gradimento comunque positivo, non dissimile da quello espresso per gli altri piatti.

Le ragioni all’origine di questo fenomeno non si comprendono ancora, verosimilmente questa tendenza all’evitamento degli stimoli di colore rosso potrebbe essere ricondotta, nell’uomo, sia a fattori biologici che culturali (segnale di divieto e pericolo). Per ora rimangono solo ipotesi.

Non si dispone ancora di conoscenze certe e sufficienti per iniziare a riflettere su di una reale applicabilità di queste scoperte, in ogni modo, questi nuovi dati di ricerca hanno permesso di dimostrare la robustezza dell’effetto del rosso sui consumi in virtù della sua replicabilità e di chiarire che le variazioni rilevate non dipendano dal contrasto bensì dal colore rosso di per sé.

Ancora, l’influenza del colore rosso sembra estendersi similmente al consumo di crema trascinando, in questo modo, anche il sistema sensoriale visuo-tattile all’interno della discussione. Diventa sempre più evidente come possano essere molti e subdoli gli stimoli ambientali e situazionali in grado di modificare  i nostri comportamenti.

 

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ARTICOLO CONSIGLIATO: ALIMENTAZIONE: LA DIMENSIONE SOCIALE DEI PASTI – PSICOLOGIA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Stanford studia gli effetti positivi del Gossip – Psicologia Sociale

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Al di là degli aspetti negativi, l’altro lato della medaglia del gossip sta proprio nell’esclusione di individui inaffidabili che non agiscono in modo cooperativo per il fine comune di un gruppo, fungendo in qualche misura da regolatore sociale.

Secondo la psicologia ingenua il gossip – e i conseguenti rischi di esclusione sociale- sarebbero univocamente negativi minando la fiducia nei gruppi. In realtà condividere qualche forma di informazione sulla reputazione degli altri può presentare anche aspetti funzionali per la collettività.

In un nuovo studio pubblicato su Psychological Science, alcuni studiosi della Stanford University e della University of California–Berkeley hanno studiato la natura del gossip e dell’ostracismo, sottolineandone gli aspetti positivi con funzione normativa rispetto ai bulli, di deterrenza da comportamenti egoistici, e di promozione della cooperazione.

I ricercatori hanno coinvolto 216 soggetti dividendoli in gruppi e chiedendo loro di impegnarsi in un gioco in cui dovevano effettuare scelte economiche per favorire la propria squadra. In questi tipi di gioco è possibile osservare la tendenza ad attuare scelte individualistiche e non cooperative a discapito del benessere del gruppo.

La procedura prevedeva dunque il passaggio a un successivo gioco con un’altra squadra, prima del quale i partecipanti avevano la possibilità di letteralmente spettegolare riguardo i loro precedenti compagni di gioco. Quindi, prima di iniziare un nuovo gioco i partecipanti ricevevano informazioni sul precedente comportamento di altri giocatori, e di conseguenza potevano decidere di escludere- ostracizzare un sospetto partecipante a tutela del fine comune.

I ricercatori hanno scoperto che nel momento in cui le persone apprendono qualcosa riguardo il comportamento di altri attraverso le dinamiche del gossip, utilizzano queste informazioni per allinearsi con coloro che invece hanno una buona reputazione di individui cooperativi. 

In questo modo, i soggetti più cooperativi possono ampiamente investire per il bene comune del gruppo limitando possibili danni di scelte egoistiche e individualistiche. 

D’altro canto il gossip può essere utile anche per gli “emarginati” oggetto di gossip: dai dati emerge che la persona vittima di gossip – una volta a conoscenza del fenomeno, e venendo conseguentemente escluso dal gruppo – tende ad apprendere dall’esperienza e a redimersi dai comportamenti individualistici cooperando in misura maggiore nelle successive partite di gioco. 

Dunque al di là degli aspetti negativi, l’altro lato della medaglia del gossip sta proprio nell’esclusione di individui inaffidabili che non agiscono in modo cooperativo per il fine comune di un gruppo fungendo in qualche misura da regolatore sociale.

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PSICOLOGIA SOCIALE RAPPORTI INTERPERSONALI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

I pugni in tasca di Marco Bellocchio (1965) – Cinema & Psicoterapia nr.19

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #19

I pugni in tasca (1965)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

 

I pugni in tascaI pugni in tasca: la famiglia protagonista di questo film vive un pro­fondo disagio, angoscianti e malsane situazioni, in una simbiosi che porta i personaggi a non esistere senza relazionarsi gli uni agli altri.

Info

Diretto da Marco Bellocchio, con Lou Castel, Paola Pitagora. Drammatico. Italia 1965.

Trama

È la storia di una famiglia composta da una madre cieca, dal fratello minore Leone, affetto da ritardo mentale ed epilessia, da Augusto il fra­tello maggiore cinico e spietato che pur di raggiungere il benessere eco­nomico è disposto a tutto, da Giulia, unica sorella, tanto curiosa nei confronti della vita da vivere un rapporto incestuoso con il fratello Alessandro, protagonista principale del film. La famiglia vive un pro­fondo disagio, angoscianti e malsane situazioni, in una simbiosi che porta i personaggi a non esistere senza relazionarsi gli uni agli altri.

Alessandro cerca di risolvere a suo modo l’insostenibile situazione. Narcisista ed evitante non sa costruirsi un rapporto al di fuori della famiglia e tanto è ossessionato da essa da decidere di uccidere i suoi componenti.

Motivi di interesse

Alessandro, non è uno psicopatico o un folle assassino. Il suo scopo è il bene della sua famiglia, vuole liberarla e liberarsi da un peso. Nel protagonista del film ritroviamo gli stati di vuoto e di evitamento delle relazioni che si riscontrano nel narcisista e nell’evitante, il senso di diversità e l’incapacità di decentrare. Ritiene la madre cieca e il fratello con ritardo mentale un peso per se stessi e per la famiglia. Non riesce a comprendere ciò che sentono, ciò che pensano, ha un atteggiamento tutt’altro che empatico nei loro confronti.

Sono presenti in lui stati di vuoto devitalizzato e difficoltà di coping degli stati mentali dolorosi.

Una scena del film in cui Alessandro partecipa ad una festa dà il senso di non appartenza, l’evitamento delle relazioni, il suo senso d’e­straneità, probabilmente legato ad una sua visione degli altri non dispo­nibili. La mancanza di rimorso, il rifiuto delle regole sociali, l’utilizzo a fini strumentali dei fratelli tratteggiano la sua antisocialità.

È duro, cru­dele, la morte ai suoi occhi perde di drammaticità, diventa un avveni­mento normale, persino igienico, se consente di eliminare la zavorra. La morte del protagonista colpito da un malore mentre ascolta la Traviata sembra la didascalica figurazione del ciclo competitivo del narcisista a seguito della rottura di un ciclo idealizzante.

Giulia, presente alla scena, non muove un dito per soccorrere il fratello, si ribella dopo averlo ammirato, ma naturalmente anche se Alessandro può sentirsi tradito non può diventare rivendicativo e la sua morte è il momento definitivo della disgregazione della famiglia.

Indicazioni per l’utilizzo

La narrazione filmica è un’ottima traccia per potersi confrontare con i pazienti sugli stati mentali e i cicli interpersonali disfunzionali. L’utilizzazione a fini didattici è consigliata.

 

Trailer

 

 

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RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

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BIBLIOGRAFIA:

 

I disordini del comportamento alimentare nelle diverse età della vita – SOPSI 2014

Roberta Dalena. Studi Cognitivi Milano

 

SOPSI 2014

Report dal corso ECM: 

I disordini del comportamento alimentare nelle diverse età della vita: aspetti psichici e fisici.

Intervento della Dr.ssa F. Brambilla

 

SOPSI 2014 - Disordini del Comportamento AlimentareNei disordini del comportamento alimentare sono compromessi tanto gli aspetti psichici quanto quelli fisici, per avere un miglioramento dal punto di vista psichico è necessario che ci sia un recupero delle alterazioni fisiche.

La Dr.ssa Brambilla illustra in dettaglio quelle che sono le compromissioni nei diversi disturbi del comportamento alimentare. Eccone alcune:

 

ALTERAZIONI DELLA CUTE IN ANORESSIA:

• Cute distrofica, secca, fredda, colorito giallognolo e bruno sporco

• Sottile peluria, capelli fragili e cadenti

• Segno di Russel

• Petecche ed emorragie congiuntivali

• Edema periferico benigno

• Edema severo da abuso di lassativi e perdita di proteine.

 

ALTERAZIONI GASTROENTERICHE IN ANORESSIA:

• Atonia e Atrofia Gastrica

• Ritardo nello svuotamento gastrico

• Stipsi dovuta a drastica restrizione alimentare

• Compromissione della funzionalità epatica

• Alterazioni pancreatiche

 

ALTERAZIONI GASTROENTERICHE IN BULIMIA:

• Disfagia, lesioni infiammatorie dell’esofago

• Rotture esofagee secondarie a ingestione di massive quantità di cibo

• Aumento di capacità gastrica in relazione alla cronicità delle abbuffate

 

ALTERAZIONI CARDIOVASCOLARI IN ANORESSIA:

• Meccanismi adattivi: Bradicardia (ipertono vagale) e ipertensione arteriosa

• Secondari alla malnutrizione: riduzione del volume del cuore senza modificazione della sua forma

• Da alterazioni idroelettrolitiche: aritmie severe

 

ALTERAZIONI DELL’APPARATO RESPIRATORIO IN ANORESSIA E BULIMIA:

• Ipoglicemia con alterata sensibilità all’insulina

• Ipercolesterolemia

• Chetosi

• Iperazotemia

• Riduzioni del livello di zinco

• Ipoproteinemia

 

ALTERAZIONI EMATOLOGICHE IN ANORESSIA:

• Ipoplasia

• Anemia normocitica, macrocitica, microcitica

 

ALTERAZIONI OSSEE IN ANORESSIA:

• Osteopenia

• Osteoporosi

• Fratture e deformazioni ossee

 

ALTERAZIONI MUSCOLARI IN ANORESSIA:

• Ipotrofia muscolare

• Miopatia

• Aumento della creatina

 

ALTERAZIONI MORFOFUZIONALI DEL CERVELLO IN ANORESSIA:

• Ampliamento degli spazi extracorticali e dei ventricoli cerebrali con reversibilità dopo il recupero del peso

 

ALTERAZIONI MORFOFUZIONALI DEL CERVELLO IN BULIMIA:

• Ampliamento dei solchi corticali

 

– Intervento della Dr.ssa C. Segura Garcia –

 

La letteratura internazionale dimostra che i tassi di Anoressia Nervosa e Bulimia Nervosa sono molto bassi negli uomini. Questo dato è in parte spiegato dal ruolo del testosterone che funge da fattore protettivo.

Infatti i risultati di alcuni studi sui gemelli dimostrano che le coppie di gemelli femmina-femmina risultano molto più a rischio rispetto a quelle femmina-maschio e maschio-maschio. Sembrerebbe che il solo fatto di aver convissuto in utero con un maschio aumenti il livello di testosterone nelle donne e che ciò le protegga maggiormente dal rischio di sviluppare in seguito un disturbo alimentare.

Eppure, i maschi con AN esistono! E allora come mai ne arrivano così pochi in terapia e il campione scientifico è così esiguo?

Prima di tutto diventa difficile poter fare diagnosi utilizzando test pensati per le donne, ovvero che indagano criteri validi per loro ma non per gli uomini (ad esempio l’attenzione per la larghezza dei fianchi).

In secondo luogo, gli uomini sono molto più reticenti a chiedere aiuto soprattutto se si tratta di un disturbo che viene riconosciuto socialmente come femminile. Inoltre, spiega Garcia, “i disturbi alimentari sono molto presenti nei maschi con problemi di identità di genere che molte volte tendono a mascherare”.

Così come per le bambine, anche per i bambini il peso e il corpo non rappresentano un problema finchè qualcuno non glielo fa notare. A tal proposito, uno studio sulla stigmatizzazione con metodo costruttivista evidenzia come nelle classi elementari i bambini a cui vengono associati meno termini positivi quali “buono” o “amico” sono proprio i bambini obesi.

Questo risultato fa riflettere da un lato sull’alta probabilità per i bambini obesi di essere vittime di bullismo, dall’altro sul fatto che il bullismo sia considerato un fattore di rischio per lo sviluppo di un disturbo alimentare.

Spesso capita che giovani adolescenti con grave sovrappeso dall’infanzia comincino una dieta e che ci sia un viraggio verso l’anoressia. Nella maggior parte dei casi questi pazienti non vengono considerati come Disturbi Alimentari.

Inoltre, per questi giovani ragazzi dimagrire non basta: è necessario fare molta attività fisica! Ecco come ci si sposta verso la vigoressia che, secondo Garcia, corrisponde all’equivalente maschile dell’anoressia: “se le donne vogliono essere magre, gli uomini vogliono essere muscolosi”.

Infatti sembrerebbe che negli uomini ci sia una doppia tendenza: per alcuni l’obiettivo è diminuire il BMI, per altri è aumentarlo. Dato non riscontrabile nelle donne per le quali l’unico obiettivo è dimagrare.

I Disturbi del Comportamento Alimentare partono da problematiche legate alla bassa autostima che però si sviluppano in modo diverso tra donne e uomini. Questi ultimi infatti “rinforzano il corpo per rinforzare l’autostima!” , conclude Garcia.

 

 

TUTTI I REPORTAGES DAL CONVEGNO SOPSI 2014

ARGOMENTI CORRELATI: DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED

ANORESSIA NERVOSA – AN – BULIMIA NERVOSA – BN

VIGORESSIA – DISMORFIA MUSCOLARE – GENDER STUDIES

 

 

A letto con Lacan: Del buon uso erotico della collera (2013). di Gerard Pommier

A letto con Lacan: una recensione di

“Del buon uso erotico della collera e di qualche sua conseguenza”

di Gerard Pommier

 

 

DEL BUON USO EROTICO DELLA COLLERA. -Immagine: copertinaPommier dimostra in queste storie cliniche la capacità di cogliere la microscopia della sessualità, di esplorare il coito non solo nella meccanica più o meno disfunzionale dimostrata dai vari pazienti, ma nella multiforme fenomenologia del vissuto, conscio ed inconscio.

Lo confesso, il titolo mi ha suscitato un minimo di disagio. Quando, dopo un’attesa un po’ lunga, ho potuto dare un occhio alla copertina, i miei dubbi si sono fatti più consistenti. Una coppia impegnata in un coito sul pavimento. L’uomo, il torace possente nudo, schiaccia la compagna. Ma che libri mi manda la redazione di State of Mind??. Quando ho nascosto il libro nella borsa per l’evidente timore che finisse nelle mani dei miei figli, mi sono reso conto che il disagio nasceva da una sottile eccitazione.

Del resto Pommier è ben consapevole del potere attrattivo della forza esercitata nel contesto delle relazioni sessuali. Con ironia racconta come uno dei suoi libri sulla natura dell’inconscio sia stato pubblicato con una copertina decisamente osé da una casa editrice cattolica.

Nell’immaginario sessuale la violenza, o almeno la forza (bruta) rappresenta un elemento eccitante. La pornografia, ma anche la pratica quotidiana della sessualità, fanno largo uso di metafore o prassi violente od autoritarie. I – troppo frequenti – eventi di cronaca in cui la disponibilità sessuale della donna o di minori viene estorta con la violenza sono causa di un interesse in cui l’indignazione è solo una componente secondaria. Il quesito se la donna desideri essere violata o comunque forzata, l’idealizzazione di una virilità autoritaria, circolano sui giornali, così come nelle conversazioni.

Ma il lettore non si spaventi: l’interesse di questo testo sulla vita sessuale non è certo quello di un facile voyeurismo. Al contrario, Pommier va al nocciolo della questione e cerca, nella sua prospettiva squisitamente Lacaniana, di comprendere fino in fondo l’enigmatica relazione tra aggressività ed erotismo.

Pommier parte da una costatazione che può essere comune. Così spesso nelle coppie uno scontro, un violento litigio, ma anche uno stato di conflittualità più sottile, sono seguiti da un momento di intimità più accesa.

Nella prospettiva Lacaniana i comportamenti umani sono condizionati permanentemente dai residui adulti della configurazione edipica. La sessualità dell’adulto lo mette dunque in inevitabile concorrenza con il padre, immaginato come autoritario, o comunque superiore ed inaccessibile. Ecco quindi il maschio gravato dal senso di colpa o costretto a sedurre le mogli di amici, colleghi, vicini di casa in una coazione senza fine. Ecco la donna che può giungere al godimento solo quando tradisce, o comunque castra il partner ufficiale, “paterno”.

Certo, per chi è abituato a una prospettiva più relazionale, a comprendere le fantasie inconsce nel contesto di una rete relazionale reale, nell’attualità della vita affettiva del paziente, il testo risulta a prima vista riduttivo.

Pommier costruisce una sorta di meccanica edipica implacabile, in cui i partner sono del tutto intercambiabili. Nei racconti clinici le separazioni non si contano, mentre l’autore sembra non percepire la grave immaturità relazionale di alcuni pazienti, l’incapacità di radicarsi affettivamente nel partner, di costruire legami profondi. 

Oggi gli studi sull’attaccamento hanno ampiamente dimostrato come il legame tra umani, inclusi gli adulti, sia giocato solo in parte sulla dinamica pulsionale. Anche nell’amore la componente preedipica, le aree di pura fusionalità così come spazi di più adulta interattività reciproca, giocano un ruolo fondamentale.

Del resto la ricerca antropologica ha dimostrato che la sessualità umana non è solo lo strumento della riproduzione della specie. Anzi è il cemento della famiglia monogamica, predispone il terreno specificamente umano per la crescita  e l’educazione dei figli (Diamond, 2006). Il racconto biblico contiene insomma una verità innegabile: maschio e femmina sono strutturati in maniera tale da avere bisogno l’uno dell’altra.

Se il paradigma edipico della sessualità umana suona oggi un po’ obsoleto, il valore più vero del testo non è – credo – quello teorico. Il tesoro sono i casi clinici, innumerevoli, le storie umane vive e vere che incontriamo pagina dopo pagina.

Pommier dimostra qui una straordinaria capacità narrativa. Molti lettori finiranno per saltare le disquisizioni teoriche, ma resteranno avvinti alle pagine cliniche come ad un romanzo. Soprattutto Pommier dimostra in queste storie cliniche la capacità di cogliere la microscopia della sessualità, di esplorare il coito non solo nella meccanica più o meno disfunzionale dimostrata dai vari pazienti, ma nella multiforme fenomenologia del vissuto, conscio ed inconscio.

In fondo, per la maggior parte degli umani, in almeno qualche fase della vita, la sessualità è un’esperienza importantissima, ma necessariamente taciuta, spesso anche al compagno della vita.

Insomma il lettore non potrà che specchiarsi – o confrontarsi – in questi racconti e finirà inevitabilmente per interrogare la prioria vita sessuale in modo nuovo. Sono convinto che la lettura di Del buon uso erotico della collera lascerà qualche traccia nella vostra vita sessuale quotidiana. O almeno settimanale.

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SESSO – SESSUALITA’AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALILETTERATURARECENSIONI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

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Schema Therapy: efficace per i disturbi di personalità

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La Schema Therapy, rivolgendosi direttamente e in modo più focalizzato alle parti più vulnerabili del paziente (Mode del Bambino), sembra portare a una risposta terapeutica positiva più rapida (confrontata con le terapie più incentrate sulla parte adulta) e, secondo i ricercatori, è proprio questo l’elemento determinante i bassissimi livelli di drop out.

Già in passato, diversi studi avevano dimostrato l’efficacia della Schema Therapy nel trattamento del Disturbo Borderline di Personalità. L’International Socety of Schema Therapy ha recentemente reso pubblici alcuni dati da cui emergerebbe la possibilità di considerare la Schema Therapy come trattamento da preferire anche nella cura dei Disturbi di Personalità Paranoide, Istrionico, Narcisista e del Cluster C.

Ciò che principalmente contraddistingue la Schema Therapy dagli altri approcci, è la focalizzazione sullo Schema mal adattivo precoce (definibile come tema costituito dai ricordi, emozioni e sensazioni del paziente, che viene elaborato nel corso della vita e porta alla generazione dei comportamenti disfunzionali).

Riassumendo brevemente la teoria di Young, è dai qui che si svilupperebbero i diversi Mode del paziente (Young ne individua quattro: Mode del Bambino, Mode di Coping Disfunzionale, Mode dei Genitori Disfunzionali, Mode dell’Adulto Sano). Secondo quanto emerso fino ad ora, la Schema Therapy, rivolgendosi direttamente e in modo più focalizzato alle parti più vulnerabili del paziente (Mode del Bambino), sembra portare a una risposta terapeutica positiva più rapida (confrontata con le terapie più incentrate sulla parte adulta) e, secondo i ricercatori, è proprio questo l’elemento determinante i bassissimi livelli di drop out.

Nel recente studio di Bamelis, Evers, Spinhoven e Arntz, condotto dal 2006 al 2011 in dodici istituti di salute mentale oldandesi, 323 pazienti con disturbi di personalità sono stati assegnati casualmente a tre gruppi terapeutici diversi (Schema Therapy, psicoterapia insight-oriented e psicoterapia clarification-oriented).

Al follow up di tre anni, il maggior numero di pazienti con outcome positivo proveniva dal gruppo Schema Therapy (80% di outcome positivo dei pazienti sottoposti a Schema Therapy vs il 60% dei pazienti insight-oriented e il 50% dei pazienti clarification-oriented), con una significativa diminuzione della sintomatologia depressiva e un elevato miglioramento del funzionamento personale e sociale. Anche i livelli di drop-out sono risultati particolarmente bassi in questo gruppo, suggerendo agli autori una rapida accettazione di questa terapia da parte dei pazienti.

I ricercatori sottolineano anche che nessuno dei terapeuti del gruppo Schema Therapy presentava una consolidata conoscenza di questo approccio e che la maggior parte era stata formata attraverso un corso di  quattro giorni, dimostrando così la possibilità di inserire la Schema Therapy all’interno della metodologia standard da usare in ambito clinico. In rapporto alla formazione dei terapeuti, al follow up è emerso un ulteriore dati interessante, per cui i terapeuti formati attraverso un training più pratico avevano “fatto meglio” dei terapeuti che avevano ricevuto una formazione più teorica.

ARGOMENTI CORRELATI:

SCHEMA THERAPY – DISTURBI DI PERSONALITA’ 

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

“Medicina Personalizzata in psichiatria”: un modello di prescrizione individualizzata esteso alle strutture territoriali – SOPSI 2014


SOPSI 2014 

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

La Psicopatologia e le età della vita – Torino 12-15 Febbraio 2014

 

“Medicina Personalizzata in psichiatria”: un modello di

prescrizione individualizzata esteso alle strutture territoriali

Claro A.E.1, Curto M.1, Santamaria F.2, Simmaco M.2, Leccisi D.3, Ferracuti S.1, Girardi P.1 e Fiori Nastro P.4

1 NESMOS (Dipartimento di Neuroscienze, Salute Mentale e Organi di Senso), U.O.C. di Psichiatria, Facoltà di Medicina e Psicologia, “Sapienza” Università di Roma.
2 NESMOS (Dipartimento di Neuroscienze, Salute Mentale e Organi di Senso), Servizio di Diagnostica Molecolare Avanzata, Facoltà di Medicina e Psicologia,“Sapienza” Università di Roma.
3 Dipartimento di Salute Mentale ASL RMH, B.go Garibaldi 12, 00041, Albano Laziale, Roma
4 Dipartimento di Neurologia e Psichiatria, “Sapienza” Università di Roma, Facoltà di Medicina e Odontoiatria, Roma 

TUTTI I POSTER DEL CONGRESSO SOPSI 2014
I REPORTAGES DAL CONGRESSO SOPSI 2014

Il Piccolo Principe, un magico trattato di Psicologia umana – Sulla relazione Pt.2

 

Il Piccolo Principe

Un magico trattato di Psicologia umana

Pt. 2: sulla Relazione

 

 

LEGGI LA PRIMA PARTE: Il Piccolo Principe, un magico trattato di Psicologia umana – I Pensieri dei Grandi

Il Piccolo Principe“Il Piccolo Principe” racconta con parole spiazzanti cosa significa stare in relazione, cosa significa condividere realmente un affetto autentico.

E’ una descrizione capace di arrivare all’ascolto di un bambino libero da sovrastrutture e di penetrare con la stessa forza nella consapevolezza di un adulto persuaso della propria complessità.

La parola all’opera.

Non posso giocare con te“, disse la volpe, “non sono addomesticata

Che cosa vuol dire ‘addomesticare’?”

E’ una cosa da molto dimenticata. Vuol dire ‘creare dei legami’…

Creare dei legami?

Certo“, disse la volpe. “Tu, fino ad ora, per me, non sei che un ragazzino uguale a centomila ragazzini. E non ho bisogno di te. E neppure tu hai bisogno di me. Io non sono per te che una volpe uguale a centomila volpi. Ma se tu mi addomestichi, noi avremo bisogno l’uno dell’altro. Tu sarai per me unico al mondo, e io sarò per te unica al mondo

…”La mia vita è monotona. Io do la caccia alle galline, e gli uomini danno la caccia a me. Tutte le galline si assomigliano, e tutti gli uomini si assomigliano. E io mi annoio perciò. Ma se tu mi addomestichi, la mia vita sarà come illuminata. Conoscerò un rumore di passi che sarà diverso da tutti gli altri. Gli altri passi mi fanno nascondere sotto terra. Il tuo, mi farà uscire dalla tana, come una musica. E poi, guarda! Vedi, laggiù in fondo, dei campi di grano? Io non mangio il pane e il grano, per me è inutile. I campi di grano non mi ricordano nulla. E questo è triste! Ma tu hai dei capelli color dell’oro. Allora sarà meraviglioso quando mi avrai addomesticato. Il grano, che è dorato, mi farà pensare a te. E amerò il rumore del vento nel grano…

…”Non si conoscono che le cose che si addomesticano. Gli uomini non hanno più tempo per conoscere nulla. Comprano dai mercanti le cose già fatte. Ma siccome non esistono mercanti di amici, gli uomini non hanno più amici. Se tu vuoi un amico addomesticami!”

…”Se tu vieni, per esempio, tutti i pomeriggi alle quattro, dalle tre io comincerò ad essere felice. Col passare dell’ora aumenterà la mia felicità. Quando saranno le quattro, incomincerò ad agitarmi e ad inquietarmi; scoprirò il prezzo della felicità! Ma se tu vieni non si sa quando, io non saprò mai a che ora prepararmi il cuore…Ci vogliono i riti. Anche questa è una cosa da tempo dimenticata

…E quando l’ora della partenza fu vicina:

Ah!“, disse la volpe, “…piangerò

La colpa è tua“, disse il piccolo principe, “io non ti volevo far del male, ma tu hai voluto che ti addomesticassi…

E’ vero“, disse la volpe.

Ma piangerai!“…”Ma allora che ci guadagni?

Ci guadagno“, disse la volpe, “il colore del grano

…”Addio“, disse la volpe. “Ecco il mio segreto. E’ molto semplice: non si vede bene che col cuore. L’essenziale è invisibile agli occhi“.

In poche righe, gli elementi fondamentali di ciò che la relazione rappresenta per l’essere umano. Pardon, di ciò che dovrebbe rappresentare per l’adulto se fosse compresa appieno. E di ciò che rappresenta per un bambino, che appieno la comprende.

 

 

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BAMBINI – RAPPORTI INTERPERSONALI – LETTERATURA

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BIBLIOGRAFIA:

Il Programma Mindfulness di Bob Stahl & Elisha Goldstein – Recensione

 

 

Il Programma Mindfulness (2013)

di Bob Stahl & Elisha Goldstein

Essere Felici Edizioni

 

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Il Programma MindfulnessIl Programma Mindfulness di Stahl & Goldstein è un ottimo volume pratico, concreto e centrato sul quotidiano, per iniziare ad avvicinarsi al mondo scientificamente affascinante della pratica di consapevolezza.

Il volume di Bob Strahl e Elisha Goldstein che ho tra le mani mi colpisce molto. La sensazione che si ha nel momento in cui si sfogliano le pagine è che sia un libro molto “visuale”, molto concreto e pratico.

I due autori, Bob Strahl, instruttore MBSR della Bay Area di San Francisco e Elisha Goldstein, psicologo clinico che svolge la professione a Santa Monica, presentano un volume molto concreto, ricco di schede, tabelle, box informativi e altro, che permettono a chi lo legge di farsi accompagnare passo dopo passo all’interno delle basi della meditazione di consapevolezza.

Il volume, nell’edizione italiana, nonostante a tratti abbia qualche difficoltà di traduzione, sembra una raccolta di pratiche e di meditazione basate sul programma MBSR.

Gli elogi da parte di autori e professionisti di primo rilievo non mancano. Nelle prime pagine leggiamo commenti entusiastici di colleghi del calibro di Daniel Siegel, Marion Solomon, Shauna Shapiro e molti altri.

Il libro è un vero e proprio workbook, in puro stile americano, diretto in prima persona al lettore che non ha come obiettivo quello di fornire informazioni complete e dettagliate sulla mindfulness bensì quello di diventare un “alleato” alla pratica per il lettore.

Lo stesso Jon Kabat-Zinn, autore della premessa, scrive che questo andrebbe considerato “come un “playbook”, un manuale ludico, perché la mindfulness in realtà dovrebbe essere abbracciata sia in spirito ludico che con l’atteggiamento interiore che di solito si riserva al duro lavoro”.  E di lavoro da svolgere in queste pagine se ne trova davvero molto: Schede di riflessione sulla pratica formale, box con Frequently Asked Questions, Schede di esplorazione e di approfondimento delle emozioni, delle sensazioni fisiche, Schede con i disegni delle posizioni delle due sessioni di yoga previste nel protocollo MBSR.

In particolare, una serie di box intitolati “fallo e basta!” è un invito deciso e intenzionale di fermare la lettura e di praticare proprio in quel momento. Gli autori invitano spesso il lettore a non accontentarsi della lettura cognitiva del manuale ma di prenderlo sul serio, così come va fatto con la pratica di meditazione, e di portare le esperienze e i suggerimenti letti nel libro nella propria pratica quotidiana, nell’esatto momento in cui si sta leggendo. Questo riduce, in parte, il rischio di tutti i manuali di mindfulness, che siano una descrizione di cosa sia la pratica di meditazione e non un’esperienza della pratica di meditazione, aspetto centrale e più efficace di tutto il sistema complesso che noi occidentali chiamiamo mindfulness.

I capitoli del libro seguono una strada gradualmente in salita che porta verso aspetti più avanzati della pratica di meditazione. Dopo una breve introduzione su cosa sia la mindfulness, gli autori si addentrano velocemente negli aspetti pratici della mindfulness, cogliendo a pieno il senso della pratica, che poco ha di mistico e tanto si concentra sulla quotidianità, sull’intenzione alla pratica e sulla decisione deliberata di coltivare, giorno dopo giorno, un atteggiamento osservativo e pienamente partecipatorio verso la propria esperienza personale, qualsiasi sia la tonalità emotiva del momento.

Alle brevi indicazioni su come svolgere la pratica, seguono i capitoli dedicati ai vari “oggetti” su cui imparare a focalizzare l’attenzione e su cui pratica: la piena coscienza del corpo, lo yoga, le meditazioni sui pensieri, una breve introduzione alle pratica Metta (sull’amorevolezza) fino ad arrivare a capitoli dedicati ai rapporti interpersonali e a suggerimenti su come mantenere viva e costante la pratica.

Ho apprezzato molto il workbook, meno la traduzione. Ci sono alcuni termini, che hanno una traduzione italiana “ufficiale” che a volte sembra sia stata trascurata, a mio parere. Ad esempio, l’introduzione inizia con “benvenuti ne il programma mindfulness in base alla mindfuless”. Credo sia una traduzione di “Programma per la riduzione dello stress basato sulla mindfulness”. Quest’ultima è la traduzione più diffusa della traduzione italiana di Mindfulness Based Stress Reduction Program.

Inoltre, il titolo inglese del volume di Strahl & Goldstein è “A Mindfulness Based Stress Reduction Workbook”. La traduzione italiana è “Il Programma Mindfulness: un metodo pratico e clinicamente testato per superare stess, ansia, panico, depressione, dolore cronico… e altri problemi di salute“. Trovo che in questo titolo vi sia un grandissimo rischio, quello di “banalizzare”, “sminuire” una pratica di meditazione di consapevolezza millenaria…

Il Programma MSBR è il programma basato sulla mindfulness per il quale, ad oggi, esistono il maggior numero di studi di efficacia. È un programma ideato da Jon Kabat-Zinn nel 1979 e portato nella sua forma originaria e strutturata circa dieci anni dopo, periodo in cui Kabat-Zinn, durante il suo percorso di meditazione, ha ideato un programma che nasce e origina dalla sua pratica personale e dalle sue conoscenze di biologo molecolare (per chi di voi non lo sapesse, Kabat-Zinn è un biologo molecolare, che ha ricevuto il suo Ph.D. in Biologia Molecolare nel 1971 al MIT (Massachussets Institute of Technology) dove studiò con Salvador Luria, Nobel per la Medicina nel 1969.

Questo solo per dire che l’MBSR ha un’origine scientifica, che a sua volta proviene e trae spunto da tradizioni millenarie di meditazione (Buddhismo Theravada, Birmana, Zazen etc…).

Il volume è sicuramente una buona e ricca introduzione alla pratica di consapevolezza solo se è un libro letto durante un arco di tempo di mesi o anni, meditato, sperimentato e lasciando che le pratiche non solo vengano fatte una volta come per “fare un po’ di mindfulness” ma che vengano interiorizzate come “un modo di vivere” (Kabat-Zinn, 2003).

Ciò non toglie che il libro di Stahl & Goldstein sia un ottimo volume pratico, concreto e centrato sul quotidiano, per iniziare ad avvicinarsi al mondo scientificamente affascinante della pratica di consapevolezza.

 

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BIBLIOGRAFIA:

 

 

Social Behavior, Separation Anxiety and Adult psychopathology – SOPSI 2014

 

 

 

SOPSI 2014

Report dalla sessione plenaria:

Social Behavior, Separation Anxiety and Adult psychopathology

Heinrichs M., Abelli M., Banti S., Troisi A.

SOPSI 2014 - Simposio Social BehaviorAll’interno del Cogresso SOPSI, dove ampio risalto è dato alle età della vita, si inserisce il contributo di questo simposio dedicato al rapporto tra primarie esperienze relazionali, ansia da separazione e psicopatologia nell’adulto.

Heinrichs, prendendo le mosse dalle interazioni sociali positive come fattori protettivi per il benessere dell’individuo, si focalizza sui mediatori definiti “social neuropeptides”, in particolare sul ruolo dell’ossitocina. Quest’ultima, come diversi studi dimostrano, influenza fortemente il comportamento dell’uomo e risulta essere un mediatore del comportamento sociale di attaccamento.

E’ stato osservato che, mentre nelle specie in cui la cura della prole risulta scarsamente importante per la sopravvivenza troviamo bassi livelli di ossitocina, viceversa, in specie dove la sopravvivenza è assicurata dalla presenza di un caregiver troviamo livelli significativamente più alti di ossitocina. Un ruolo importante rivestito da questo peptide (ossitocina) è quello di azione nella risposta autonomica della paura in cui l’amigdala ha un ruolo centrale. Le ricerche in questo ambito evidenziano che l’attivazione dell’amigdala diminuisce per effetto dell’aumento dei livelli di ossitocina. Questo dato ha suggerito vari filoni di ricerca. Una delle ricerche più interessanti, in tal senso, ha confrontato due gruppi di soggetti con diagnosi di Fobia Sociale, ad un gruppo veniva somministrata una dose di ossitocina attraverso uno spray nasale, al gruppo di controllo veniva somministrato un placebo.

Come noto, i soggetti con fobia sociale hanno un’elevata attivazione dell’amigdala come risposta alla paura di esporsi a situazioni temute. Entrambi i gruppi venivano esposti ad una situazione attivante. Dai risultati emerge che i soggetti trattati mostravano livelli di attivazione dell’amigdala significativamente più bassi, all’incirca della metà, dei soggetti ai quali era stato somministrato un placebo. Gli studi in questo campo sono tutt’ora in evoluzione e uno degli sviluppi futuri sarà quello di indagare le differenze di genere nelle risposte dell’ossitocina.

Spostando l’attenzione sull’ambito più prettamente diagnostico, la Dott.ssa Abelli si focalizza sul Disturbo d’Ansia da Separazione nell’Adulto (ASAD) che entra nel DSM V (2013) a pieno titolo nel grande gruppo diagnostico dei Disturbi d’Ansia. Questo disturbo che nella nosografia veniva inscritto solo nei disturbi infantili diventa una diagnosi a tutti gli effetti anche nella popolazione adulta. Nello specifico i criteri diagnostici prevedono:

A. Ansia inappropriata rispetto al livello di sviluppo ed eccessiva che riguarda la separazione da coloro cui il soggetto è attaccato, come evidenziato da almeno tre dei seguenti elementi:

1. malessere eccessivo ricorrente quando avviene la separazione da casa o dai principali personaggi di attaccamento o quando essa è anticipata col pensiero

2. persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo alla perdita dei principali personaggi di attaccamento, o alla possibilità che accada loro qualche cosa di dannoso (come una malattia, un danno, una calamità o la morte)

3. persistente ed eccessiva preoccupazione riguardo al fatto che un evento spiacevole comporti separazione dai principali personaggi di attaccamento (per es. essere smarrito, essere rapito, avere un incidente, ammalarsi)

4. persistente riluttanza o rifiuto di uscire, per andare lontano da casa, di andare a scuola, al lavoro o altrove per la paura della separazione

5. persistente ed eccessiva paura o riluttanza a stare solo o senza i principali personaggi di attaccamento a casa, oppure di qualsiasi altro posto (situazioni)

6. persistente riluttanza o rifiuto di dormire fuori casa e di andare a dormire senza avere vicino uno dei personaggi principali di attaccamento.

7. ripetuti incubi sul tema della separazione

8. ripetute lamentele di sintomi fisici (es. mal di testa) quando avviene o è anticipata col pensiero la separazione dai principali personaggi di attaccamento

Rispetto al criterio B, relativo alla durata, si può fare diagnosi di Disturbo d’Ansia da Separazione nell’adulto se i suddetti sintomi sono presenti da almeno 6 mesi dall’esordio della sintomatologia.

L’epidemiologia di questo quadro clinico oscilla nella popolazione generale tra 0.9 e 1.9% negli adulti e si attesta intorno al 4% nei bambini (APA, 2013). Secondo uno studio australiano (Silove, 2010) il Disturbo d’Ansia da Separazione nell’adulto ha una prevalenza del 23% nella popolazione normale di riferimento. Nel Disturbo d’Ansia da Separazione nell’adulto troviamo un elevato pattern di comorbilità con gli altri Disturbi d’Ansia (Silove et al., 2010):

– Agorafobia e Disturbo di Panico (20.6%)

PTSD (23.7%)

Disturbo Bipolare (19.4%)

Depressione (40.8%)

L’esordio da ASAD precede quello del disturbo in comorbilità nel 75% dei casi. In merito alla diagnosi differenziale, mentre i soggetti con Disturbo Dipendente di Personalità (a causa della pervasiva tendenza a dipendere dagli altri) sviluppano ansia per paura di non essere in grado di far fronte ad un abbandono, i pazienti con ASAD fanno riferimento ad una serie limitata di preoccupazioni, relative alla sicurezza delle figure di riferimento ed al mantenimento di prossimità con esse.

La diagnosi differenziale con il Disturbo Borderline di Personalità evidenzia che, pur presentando paura dell’abbandono, in questa popolazione di pazienti troviamo una pervasiva instabilità dell’umore, delle relazioni interpersonali, dell’immagine di sé, nei comportamenti, marcata impulsività, sentimenti di rabbia e di vuoto che non si riscontrano nei soggetti con ASAD.

Ad oggi non sono disponibili in letteratura studi relativi al trattamento dell’ASAD, in quanto non abbiamo protocolli di intervento per questo disturbo. Grazie all’introduzione nel DSM V sarà possibile definire specifici interventi terapeutici per questo disturbo. Possiamo, infine, chiederci se esiste una relazione tra Disturbo d’Ansia da Separazione nell’adulto e stili di attaccamento ed, in merito a questo,  Silove e Mamane (2010) affermano che mentre ASAD è una categoria diagnostica, ovvero un costrutto nomotetico basato sulla coesistenza di sintomi operazionali, l’attaccamento ansioso è un costrutto idiografico il cui significato deriva dalla sua funzione esplicativa all’interno della teoria dell’attaccamento

Sull’attaccamento si sono sviluppati vari filoni di indagine come quello promosso dal Prof. Troisi su “Social Attachment and OPRM1 polymorphism: a translation approach”. Nello studio delle variabili che influenzano le risposte individuali agli oppiacei sono emerse evidenze che suggeriscono una interazione tra alcuni geni e diversi stili di attaccamento.

Dall’indagine sulla variabilità di risposta agli oppiacei si è giunti ad identificare degli specifici circuiti legati al piacere/rinforzo e al dolore. Entrambi questi circuiti vedono coinvolti gli oppiacei e si attivano rispettivamente a seguito di piacere o dolore fisico. Ma gli studiosi hanno riscontrato che questi sistemi vengono attivati anche da esperienze relazionali. Nello specifico il circuito del piacere si attiva anche quando avviene un atto di cooperazione sociale e quello del dolore in seguito ad un lutto o ad un rifiuto sociale. Lo studio di questo polimorfismo ha portato ad individuare particolari geni (A118G) che sembrano essere correlati con la predisposizione all’anedonia sociale. I risultati evidenziano che sia le precoci esperienze relazionali che le variabili genetiche giocano un ruolo fondamentale nella sensibilità al rifiuto sociale.

In questo senso Troisi et al. stanno portando avanti ricerche atte a indagare come le precoci cure del caregiver interagiscano sulle variabili genetiche nello sviluppo di tratti di personalità strettamente correlati alla sensibilità al rifiuto.

In conclusione, Troisi sottolinea come l’interazione tra variabili genetiche e ambiente dovrebbe essere intesa più come suscettibilità che come vulnerabilità. La suscettibilità, infatti, prende in considerazione sia la variabilità genetica che le precoci esperienze nella relazione di attaccamento.

A sintesi dei diversi interventi del simposio chiudiamo con la citazione di Thomas R. Insel (Director NIMH, USA): “We are, by nature, a highly affiliative species craving social contact. When social experience becomes a source of anxiety rather than a source of confort, we have lost something fundamental – whatever we call it”.

 

TUTTI I REPORTAGES DAL CONVEGNO SOPSI 2014

ARGOMENTI CORRELATI:

ANSIAATTACCAMENTO

 

BIBLIOGRAFIA:

 

 

AUTORE: 

Maria Sansone. Psicologa Psicoterapeuta – Scuola Cognitiva di Firenze

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