expand_lessAPRI WIDGET

Paura d’amare (Frankie and Johnny) – Cinema & Psicoterapia nr.20

Antonio Scarinci.
Psicologo Psicoterapeuta. Socio Didatta SITCC

 

 

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA  #19

Paura d’amare (Frankie and Johnny)(1991)

Proposte di visione e lettura (CorattiLorenziniScarinciSegre, 2012)

 

 

Paura d'amare (1991). - Immagine: locandinaUn amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”. 

Riveliamo le nostre debolezze e, per chi ha la necessità di essere forte, è uno smacco. Possiamo perdere il controllo, fino nei casi più gravi alla perdita dei confini del sé.

Info:

Diretto dal regista Garry Marshall. Interpretato da Al Pacino e Michelle Pfeiffer. Drammatico. USA 1991.

Trama: 

Il film narra la storia d’amore tra Johnny e Frankie. Al Pacino è un cuoco che si è fatto qualche anno di galera, Michelle Pfeiffer è una cameriera sola e disillusa. Johnny si innamora e corteggia Frankie, ma la paura di coinvolgersi impedisce a lei di amare. Dopo ripetute insistenze cede e passa una splendida notte di tenerezze e d’amore con l’uomo. Lui coinvolto dalla storia inizia a parlare di matrimonio e figli, lei si distanzia sempre di più, finché non arrivano a litigare. Seguirà una riconciliazione e i due si daranno la possibilità di costruire una relazione.

Motivi di interesse:

La paura di innamorarsi, la paura del legame, la paura dell’intimità sono i temi principali del film. Può manifestarsi con sintomi d’ansia: dispnea, sudorazione, tachicardia. Nel film Frankie cerca spesso di portarsi vicino ad una finestra o ad una porta per uscire, per respirare, come se potesse vincere così il senso di costrizione che avverte. Non ama per non soffrire. Passate delusioni sentimentali hanno segnato la sua vita.

Scrive Cesare Pavese ne “Il mestiere di vivere”:Un amore, qualunque amore, ci rivela nella nostra nudità, miseria, inermità, nulla”. Riveliamo le nostre debolezze e, per chi ha la necessità di essere forte, è uno smacco. Possiamo perdere il controllo, fino nei casi più gravi alla perdita dei confini del sé. 

La paura d’amare è una limitazione del comportamento esploratorio. Michelle Pfeiffer rappresenta in modo sublime i processi e i costrutti implicati in questo tipo di disturbo:

 

  • evita, tenendosi lontano da chi la corteggia, in modo coattivo e disfunzionale, per preservarsi da accadimenti spiacevoli (la delusione) e restringendo i confini dell’esperienza;
  • ha accesso facilitato ai ricordi negativi di esperienze precedenti ed è attenta a ciò che potrebbe confermare le proprie convinzioni;
  • sovrastima il rischio dell’evento negativo (mi deluderà);
  •  ha bisogno di controllare affinchè ciò che teme non si verifichi;
  • teme di sbagliare lasciandosi coinvolgere sentimentalmente;
  • è intollerante verso l’incertezza di legarsi ad un uomo che potrebbe essere sbagliato;
  • immagina scenari catastrofici e drammatici che possono derivare da un suo possibile errore.

Soprattutto si priva di una delle esperienze più belle della vita, forse di una parte ontologica dell’essere umano.

Indicazioni per l’utilizzo: 

Offre ottimi spunti per intervenire sui processi e i costrutti implicati nei disturbi d’ansia. Consente un’evoluzione funzionale del sistema cognitivo.

Può essere utilizzato anche a fini didattici.

Trailer:

 LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

RUBRICA CINEMA & PSICOTERAPIA

ARGOMENTI CORRELATI: CINEMA – AMORE & RELAZIONI SENTIMENTALI ANSIA

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Il cervello degli innamorati, Helen Fischer – Neuroscienze

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Saggezza, grandiosità… ma cosa caratterizza davvero un buon leader?

 

 

Saggezza, grandiosità… ma cosa caratterizza davvero un buon leader?. -Immagine:© Minerva Studio - Fotolia.com

Sicuramente tratti narcisistici aumentano il magnetismo del leader, il suo carisma. Però verrebbe anche da pensare che il narcisista è un leader solo, un buon promotore di se stesso, che per la carenza di empatia e di considerazione delle caratteristiche degli altri può da una parte non rispettarli, e dall’altra essere incapace a ottimizzarli.

Un “capo tronfio”, un “superiore spocchioso”, un “pallone gonfiato”.

Capita di trovarsi a pensare che le persone che ricoprono ruoli superiori in realtà siano solo persone che si fanno buona pubblicità, che credono di avere doti speciali (e dando uno sguardo alla situazione politica in Italia, se è possibile riscontrare una costanza, probabilmente è proprio questa).

Buoni leader come buoni venditori di sé, ma anche come ”approfittatori” dei sottoposti. In una parola, leader narcisisti. Sicuramente tratti narcisistici aumentano il magnetismo del leader, il suo carisma. Però verrebbe anche da pensare che il narcisista è un leader solo, un buon promotore di se stesso, che per la carenza di empatia e di considerazione delle caratteristiche degli altri può da una parte non rispettarli, e dall’altra essere incapace a ottimizzarli.

Quindi, a partire dalle teorie sul leader carismatico, abbiamo versioni contrastanti. Quale è la relazione tra narcisismo e capacità di leadership? Quando si passa il segno, quando si tira troppo la corda? Quanto la mancanza di empatia è un problema?

Uno studio tuttora in pubblicazione sul Leadership & Organization Development Journal (Greaves, Zacher, McKenna, Rooney, in press) ha esplorato la relazione tra narcisismo, capacità di leadership (valutate dai colleghi/sottoposti) e “saggezza” in un gruppo di 77 impiegati in una scuola superiore australiana.

La saggezza è stata definita come “la visione più profonda della condizione umana e dello scopo della vita” (Baltes & Staudinger, 2000), e le persone sagge sono state descritte come “bilanciate, competenti nelle relazioni,  impegnate per il proprio benessere come per quello degli altri e della società, con conoscenza, giudizio e capacità superiori di dare consigli” (Ardelt, 2004; Baltes & Staudinger, 2000; Sternberg, 1990).

Da un punto di vista psicologico, la saggezza è un costrutto che comprende diverse sfaccettature. Nel paradigma di Berlino (Baltes & Staudinger, 2000; Staudinger, Smith, & Baltes, 1994), il metodo più comunemente utilizzato per misurare la saggezza, viene richiesto alla persona di “pensare a voce alta”,  rispetto al modo in cui risolverebbe un problema assegnato. In particolare, sono state identificate 5 componenti della saggezza: conoscenza sui contenuti della vita, conoscenza procedurale sulla vita, collocazione temporale rispetto al corso della vita, relativismo di valori e priorità e riconoscimento e gestione dell’incertezza.

La capacità di leadership è stata valutata secondo i punteggi che i colleghi attribuivano ai partecipanti in quanto a capacità di essere modello di ideali e comportamento, capacità di motivare i sottoposti, di stimolarli a pensare in modi nuovi e  di considerare le loro necessità individuali.

Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze. Immagine: © 2011-2012 Costanza Prinetti
Articolo consigliato: Narcisismo e Leadership: gli svantaggi delle apparenze.

I risultati delle analisi hanno mostrato che le persone con alti livelli di narcisismo vengono valutati dai colleghi come peggiori leader. Rispetto alla saggezza, invece, le uniche dimensioni che si sono mostrate rilevanti a determinare un buon leader sono la capacità di gestire le situazioni incerte e il relativismo di valori e priorità. Mentre la gestione dell’incertezza è stata correlata a buone capacità di leadership, però, sembra che quello che viene apprezzato in un buon leader sia la rigidità di valori, anziché un relativismo.

In questo senso, i colleghi possono aver valutato la flessibilità come indecisione e incapacità a prendere una strada determinata. Nello stesso senso, infatti, sembra che questi abbiano premiato chi in mezzo all’incertezza sa destreggiarsi bene. È interessante anche notare come le due componenti di esperienza all’interno del costrutto di saggezza non si siano rivelate cruciali nella valutazione di un buon leader.

Sembra allora che, almeno con riferimento al campione che questa ricerca ha preso in considerazione, la caratteristica che più viene apprezzata nelle persone che dovrebbero tenere il timone della nave sia la fermezza, sia nella linea di azione che davanti a possibili imprevisti: sapere che qualcuno ha presente in modo stabile la linea da seguire e che sa destreggiarsi con abilità nell’incertezza probabilmente abbassa i livelli di sconosciuto e permette di esplorare il terreno conosciuto con una minore ansia.

ARGOMENTI CORRELATI:

PSICOLOGIA DEL LAVORO NARCISISMORAPPORTI INTERPERSONALI

 MONOGRAFIA: LEADERSHIP NEGLI SPORT DI SQUADRA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Intersoggettività e corpi in relazione: tra psicopatologia e neuroscienze – SOPSI 2014

Maria Sansone, Scuola Cognitiva di Firenze

 

 

SOPSI 2014 

Report dal Simposio:

Intersoggettività e corpi in relazione: tra psicopatologia e neuroscienze

G. Northoff, V. Gallese e M. di Giannantonio

 

SOPSI 2014 - Intersoggettivita e corpi in relazioneSempre più attuale e di validità euristica è l’integrazione tra le evidenze provenienti dalle neuroscienze con i dati emergenti dall’attività clinica. Fin dalla nascita della psicanalisi si ipotizzava un’integrazione in tal senso: “…tutte le nostre idee psicologiche un giorno saranno presumibilmente basate su substrati organici…” (“Progetto per una psicologia Scientifica” S. Freud 1898).

Il dialogo tra psicopatologia, psicoterapia, psichiatria e neuroscienze ha degli antenati illustri: Spitz (1946) ha indagato le reazioni dei bambini ospedalizzati, i coniugi Harlow (1958) hanno studiato la deprivazione affettiva dei primati, Kandel (2011) ha indagato, in diverse specie animali, come la mancanza di un “imprinting affettivo” porti ad alterazioni nello sviluppo del sistema infiammatorio. Recenti ricerche neuroscientifche hanno evidenziato una particolare costellazione neurologica e di relazione tra aree del nostro cervello identificata nel Default Mode Network (DMN). Quest’ultimo è definito resting mode cioè “cervello che non funziona”, che non agisce e che, verosimilmente, è un precursore della consapevolezza interna. Il resting mode è uno stato in cui il soggetto è ad occhi chiusi, è vigile ma non dorme e non è sottoposto a performance.

Il Default Mode Network ha due funzioni: mind wandering (mente che vaga e riflette su se stessa) e self-protection (auto protezione). Quando il cervello è attivo su task specifiche l’attivazione del DMN diminuisce e torna a livelli normali quando il task è terminato. Un sottoinsieme di task specifici incrementano l’attività del DMN: introspezione, riflessione soggettiva, attivazione della memoria, recupero della memoria episodica.

Il Default Mode Network è in antitesi a External Control Network (Boly et al., 2007; Uddin et al., 2009) ovvero una costellazione neuronale relativa al controllo esecutivo implicato con la presa di coscienza dell’ambiente esterno. Il Default Mode Network gioca un ruolo importante nei meccanismi specifici della memoria, nell’integrazione delle informazioni, nell’attenzione. Sono emerse evidenze che mettono in relazione il DMN con specifiche patologie psichiatriche. In particolare, nel caso della Schizofrenia troviamo una minore attivazione dei task esterni ed una minore de-attivazione del Default Mode Network durante la ricezione di nuovi stimoli (Sjoerd J. H. et al, 2013).

Una prospettiva neuroscientifica sul rapporto tra corpo e intersoggettività viene introdotta dal Prof. Gallese per far luce sugli aspetti fenomenici di alcune condizioni psicopatologiche, in particolare per ciò che concerne la psicosi schizofrenica. Per studiare l’impatto della psicopatologia sul concetto di sé dobbiamo fare riferimento a vari livelli di complessità. Il concetto di sé è un correlativo ovvero, per essere definito, implica la necessità di confrontarsi con qualcosa che è altro da sé. Questo introduce come elemento fondamentale cioè la relazione come necessaria allo sviluppo fisiologico del sé. Dunque un disturbo della costituzione del sé ha come conseguenza necessaria anche un disturbo della relazione con l’altro. Uno degli interrogativi che guidano le ricerche di Gallese è: come costruiamo l’evidenza naturale del mondo degli altri? Nello studio delle variabili implicate nella costruzione del sé ci si è sempre focalizzati sugli aspetti più sofisticati dell’intersoggettività, quelli legati al mezzo linguistico. L’ipotesi è che uno dei meccanismi di base sia il meccanismo di simulazione volto a mappare il comportamento, le emozioni e le sensazioni dell’altro, direttamente sulle proprie rappresentazioni in formato corporeo (simulazione incarnata).

L’intensità con la quale si attiva il meccanismo di rispecchiamento è significativamente superiore quando avviene durante l’esecuzione dell’azione rispetto a quando l’esecuzione della stessa è osservata. Il meccanismo quindi è sensibile alla soggettività in quanto si attiva diversamente se l’atto è eseguito o osservato. Il sistema mirror non viene ritrovato solo nell’area premotoria frontale o parietale posteriore, ma anche nella corteccia somatosensoriale e nell’insula. Quindi, anche per le emozioni o per le sensazioni, gli stessi siti corticali che si attivano per l’esperienza soggettiva si attivano anche quando assistiamo all’espressione di queste emozioni o sensazioni nel corpo degli altri. La simulazione incarnata è un tentativo di descrivere a livello funzionale tutti questi meccanismi diversificati che caratterizzano circuiti diversi del nostro cervello ma che condividono questa stessa modalità di funzionamento.

L’ipotesi dunque è che questo meccanismo funzionale di base non sia confinato al dominio dell’azione ma comprenda altri aspetti della intersoggettività come emozioni e sensazioni. Il nostro cervello “riusa” risorse per mappare le azioni altrui sulle nostre rappresentazioni motorie così come lo facciamo per mappare le emozioni e sensazioni altrui sulle nostre rappresentazioni viscero-motorie e somatosensoriali.  Il fatto che venga implicato un formato corporeo, non proposizionale, in questa mappatura porta a definire questa operazione: simulazione incarnata. Sé e altro da sé appaiono, dunque, correlati a livello del corpo. Questi meccanismi ci connettono implicitamente nella relazione con l’altro. Come accennato prima, il sé si può studiare a vari livelli e un modo per concepirlo è quello di partire dagli aspetti più germinali, ovvero legati alla corporeità intesa come potenzialità di azione. Noi sappiamo che il sistema motorio del nostro cervello si attiva sia quando mettiamo in atto un’azione ma anche quando pensiamo di mettere in atto un movimento, quando osserviamo gli altri agire, quando osserviamo oggetti manipolabili o quando ascoltiamo la descrizione verbale di un’azione.

Secondo Gallese e collaboratori il sistema motorio svolge, dunque, un ruolo nell’integrazione delle informazioni multimodali relative al sé. Si ipotizza che a livello del sistema motorio corticale avvenga la prima integrazione degli stimoli tattili, acustici e visivi che avvengono a contatto o in prossimità delle parti corporee che quella stessa parte del sistema motorio controlla in termini di movimento. Questa integrazione multimodale operata dal sistema motorio potrebbe svolgere un ruolo fondamentale nel promuovere la formazione di questo primo livello di base del sé (il livello più basso è definito da Parnas come ipseità).

E’ possibile attribuire ai disturbi del sé un ruolo cruciale per comprendere la Schizofrenia. Sappiamo, infatti, che i pazienti schizofrenici mostrano problemi nel discriminare tra la voce propria e altrui, difficoltà nel discriminare tra stimoli tattili autoprodotti o provenienti dall’esterno ed un’alterata percezione del proprio corpo. In un esperimento sono state indagate le rappresentazioni delle proprie parti corporee e, nello specifico, si è andati ad indagare il riconoscimento di foto di parti del proprio corpo (es. mano, piede) e di oggetti personali (telefono, scarpa), in soggetti ad esordio psicotico e in soggetti sani.

I pazienti sani mostrano un vantaggio nel riconoscimento sia delle proprie parti corporee che dei propri oggetti, mentre gli schizofrenici non hanno lo stesso vantaggio a causa di questa anomala esperienza del sé. Gallese sottolinea come il sé sia il risultato di un processo che verosimilmente comprende in maniera funzionale, fisiologica e connessa l’attività della totalità del cervello. Tuttavia sottolinea come non sia un caso che le aree del Default Mode Network siano sistematicamente coinvolte quando qualsiasi attività mentale o la sua assenza abbia una forte connotazione autoriferita. Quindi insieme al Prof. Northoff sono andati a studiare nei pazienti con esordio psicotico le aree dell’insula e della corteccia premotoria. In queste regioni hanno osservato un anomalo incremento della connettività funzionale tra corteccia premotoria e una componente del DMN (corteccia cingolata posteriore).

I confini del sé corporeo appaiono più sfumati nel paziente con esordio psicotico, e un aspetto di questa minore nitidezza del confine corporeo è testimoniata da un’alterata funzionalità a livello dell’insula posteriore e delle cortecce premotorie. 

 

ARGOMENTI CORRELATI:

NEUROSCIENZESCHIZOFRENIA

CONGRESSO SOPSI 2014

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Frequenti incubi nell’infanzia potenziali indici di futuri tratti psicotici in adolescenza

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Secondo una recente ricerca dell’Università di Warwick, i bambini che soffrono di incubi frequenti o di spaventi notturni presentano un maggior rischio di avere esperienze psicotiche durante l’adolescenza.

Lo studio, pubblicato sulla rivista Sleep, mostra che i bambini che riferiscono di avere incubi notturni frequenti prima dei 12 anni hanno tre volte in più di probabilità di soffrire di esperienze psicotiche durante la prima adolescenza. Allo stesso modo, anche i bambini che fanno esperienza di terrori notturni raddoppiano il rischio di presentare allucinazioni e deliri nell’adolescenza. Anche bambini più piccoli, tra 2 e 9 anni, che mostrano frequenti incubi notturni segnalati dai genitori presentano il doppio di rischio di sviluppare esperienze psicotiche.

Gli incubi sono comuni nei bambini, ma la loro incidenza decresce con l’aumentare dell’età del bambino. Essi di solito compaiono durante il sonno REM, ovvero la seconda parte del sonno.  Coloro che ne hanno fatto esperienza, hanno familiarità con la sensazione di svegliarsi improvvisamente con un senso di paura, preoccupazione e palpitazioni.

I terrori notturni, che sono un disturbo del sonno, differiscono dagli incubi e si verificano durante il sonno non-REM. Quando un individuo sperimenta un terrore notturno si ritrova seduto sul letto urlando, in uno stato di panico, senza alcuna motivazione particolare e senza aver compiuto un’azione volontaria. Nei casi più estremi vi sono testimonianze di ematomi sugli arti e di rapidi movimenti involontari del corpo. I bambini, comunque, si svegliano alla mattina ignari della loro “attività” durante la notte.

Il Professor Dieter Wolke ha spiegato: “Non vogliamo certamente preoccupare i genitori con questa notizia, poiché 3 bambini su 4 sperimentano incubi in giovane età. Tuttavia, la presenza di incubi per un periodo prolungato di tempo o di attacchi di terrori notturni, può essere un indice precoce di qualcosa di più significativo durante la maggiore età.”

Il campione è stato valutato 6 volte dai 2 ai 9 anni. La probabilità di vivere esperienze psicotiche durante l’adolescenza aumenta con l’aumentare dell’incidenza degli incubi. Coloro che hanno riportato un solo periodo di incubi ricorrenti presenta solo un 16% di rischio, mentre quelli che hanno riportato 3 o più periodi prolungati di incubi durante lo studio presenta un rischio del 56%.

Al contrario, problemi legati all’addormentamento, frequenti risvegli notturni o insonnia non presentano alcun legame con esperienze psicotiche più tardive.

La Dottoressa Helen Fisher ha aggiunto: “Il miglior consiglio è quello di cercare di mantenere uno stile di vita sano che promuova il benessere del sonno del bambino, creando un ambiente che permetta la migliore qualità del sonno. Una sana alimentazione è un parte fondamentale di questo, ad esempio evitare le bevande zuccherate prima di andare a dormire; inoltre è importante eliminare eventuali stimoli inopportuni dalla camera da letto, che si tratti di televisione, videogiochi o altro. Questo è il cambiamento più pratico che si possa fare”.

Lucie Russell, direttore della campagna YoungMinds, afferma infine: “Questo è uno studio molto importante perché tutto ciò che possiamo fare per promuovere l’identificazione precoce di segni di malattia mentale è fondamentale per aiutare i migliaia di bambini che soffrono. L’intervento precoce è fondamentale per aiutare i bambini a non sviluppare una malattia mentale radicata quando raggiungono l’età adulta”.

 

ARGOMENTI CORRELATI:

DISTURBI DEL SONNOPSICOSIBAMBINI E ADOLESCENTI

ARTICOLO CONSIGLIATO:

I DISTURBI DEL SONNO E LA LORO INFLUENZA SUL DISAGIO PSICO-SOCIALE

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Un training sul reappraisal cognitivo per adolescenti con disturbi depressivi.

 

Rome Workshop on Experimental Psychopathology

Lo sviluppo di un training sul reappraisal cognitivo

per adolescenti con disturbi depressivi.

Experimental Psychopathology Rome 2014

TUTTI I REPORTAGES DAL WORKSHOP DI ROMA

Il Rome Workshop on Experimental Psychopatology ha avuto come filo conduttore la ricerca scientifica su popolazione clinica, dimostrando come sia necessario portare nuove evidenze in campo psicologico anche in situazioni e con campioni non sempre facilmente raggiungibili.

Tra i vari e interessanti interventi presentati, quello della dr.ssa Platt, ha sicuramente il merito di essere il frutto di una ricerca complessa, mirata a creare un nuovo paradigma relativo al reappraisal cognitivo, testarlo con un training creato ad hoc e misurare al contempo la risposta neurale del campione testato in una situazione realistica di stress.

Il presupposto teorico della ricerca è costituito dal Diathesis – stress Model, teoria psicologica che sottolinea l’effetto di variabili sia biologiche sia ambientali, quali stress psicosociali, nell’insorgere di problematiche psicologiche (Lazarus, 1993). Nel modello presentato, in particolare, si evidenziano gli effetti di fattori genetici e contestuali sulla disregolazione emotiva, causa della depressione in età adolescenziale.

Il paradigma del reappraisal cognitivo, elaborato grazie ad uno studio pilota, è centrato sugli effetti di tale strategia di regolazione sull’interpretazione degli eventi (maggiormente neutrale e meno negativa) e sul tono umorale, a sua volta meno compromesso.

Nella ricerca presentata, il campione dello studio era costituito da trenta adolescenti, 15 soggetti sani e 15 con diagnosi di depressione. Il compito, fortemente ecologico, consisteva nella presentazione della foto di un coetaneo attraverso una chatroom. Il soggetto, dopo aver eseguito il training sul reappraisal, dichiarava se fosse interessato o meno a iniziare una conversazione con lo sconosciuto e successivamente riceveva a sua volta un feedback (positivo o negativo) dal compagno virtuale. A feedback negativo, gli veniva chiesto di applicare le strategie di reappraisal apprese o, in alternativa, il soggetto non riceveva alcuna istruzione.

I risultati hanno dimostrato che l’umore deflesso e le credenze negative si riducevano in entrambi i gruppi: questo dimostra che il training risulta efficace, probabilmente però al netto del disagio psicologico, visto che non sono state evidenziate differenze tra i due campioni. Dal punto di vista funzionale, inoltre, gli adolescenti del campione clinico hanno mostrato un’attivazione migliore delle aree collegate alla regolazione emotiva (giro frontale superiore sinistro, amigdala sinistra e ippocampo, lobo parietale inferiore destro): tale dato è stato interpretato dalla ricercatrice come una conseguenza della grande plasticità neuronale che caratterizza la fascia d’età testata.

Le implicazioni cliniche di tale ricerca sono rilevanti; innanzitutto è stato sviluppato un nuovo strumento utile a rinforzare le strategie di reappraisal cognitivo in età adolescenziale. In secondo luogo, i dati funzionali ottenuti incoraggiano l’applicazione di tecniche di neurofeedback e possono essere d’aiuto nell’ottimizzazione dei trattamenti attualmente applicati. In generale, la ricerca conferma l’efficacia clinica di trattamenti di ristrutturazione cognitiva anche per adolescenti con disturbi depressivi.

Nonostante la ricerca presenti alcune limitazioni, quali la numerosità del campione o l’assenza di adeguate misurazioni alla baseline, i risultati presentati, ma soprattutto la metodologia seguita dal gruppo di Oxford mostrano risvolti e prospettive utili per future ricerche, da svolgersi con una procedura che garantisca, come in questo caso, validità ecologica alla procedura.

TUTTI I REPORTAGE DAL WORKSHOP DI ROMA

 

 ARGOMENTI CORRELATI: 

REAPPRAISALDEPRESSIONEADOLESCENTINEUROFEEDBACK

TUTTI I REPORTAGES DAI CONGRESSI

BIBLIOGRAFIA:

Ai Confini delle Diagnosi: La Disforia di genere – SOPSI 2014 – LGBT

Valentina D’Acquisto

 

 SOPSI 2014 

Report dal Simposio:

 Ai Confini delle Diagnosi: La Disforia di genere

 

 

SOPSI 2014 - Disforia di GenereSi è compreso quanto la Disforia di Genere sia una patologia dall’eziologia, dall’inquadramento e dalla valutazione estremamente complessi.

L’esempio del C.I.D.I.Ge.M. e di molti centri simili insegna tuttavia come un approccio  multidisciplinare, nel quale lavorano in sinergia psicologi, psichiatri, endocrinologi, urologi, medici chirurghi, possa portare a un sensibile e significativo miglioramento della qualità di vita della persona transessuale.

All’interno del Presidio Ospedaliero “Molinette” di Torino è presente, dal 2005, il centro C.I.D.I.Ge.M (Centro Interdipartimentale Disturbi dell’Identità di Genere – Molinette) che si occupa della valutazione e del trattamento dei Disturbi dell’Identità di Genere. Si è strutturato come polo d’eccellenza riconosciuto dalla Facoltà di Medicina e come punto di riferimento per l’intera regione Piemonte.

Nel primo intervento (Dott.ssa C. Baietto ) è stata messa in luce la difficoltà che comporta una diagnosi in età pediatrica di Disforia di Genere.

I criteri del DSM-V per DIG (Disturbo dell’Identità di Genere) in età infantile sono rigidi. Il DIG è una condizione poco conosciuta e dall’eziologia incerta: si applica uno modello interpretativo bio-psico-sociale.  Pochi sono gli studi che si sono occupati di indagarne l’insorgenza trattandola in alcuni casi come una sindrome molto rara, in altri come frequente, con un’incidenza che si aggira attorno al 2-3% della popolazione pediatrica.

Nella fascia di bambini che va dai 2 ai 12 anni vi è un’incidenza doppia nei maschi rispetto alle femmine, mentre in adolescenza il divario si appiana. L’insorgenza può essere molto precoce (intorno ai 2 anni), oppure tardiva (9-10 anni), con caratteristiche differenti.

I bambini del primo gruppo possono esprimere con molta forza i propri comportamenti crossgender e si arrabbiano molto se ostacolati.  Col passaggio all’età puberale, tuttavia, si è stimato come in circa l’80% dei soggetti con diagnosi accertata vi sia una graduale accettazione del proprio sesso biologico e una strutturazione omosessuale nell’orientamento di genere.

Disturbo dell’Identità di Genere – “Mi Arrangio a Essere Lesbica”. - Immagine: © auremar - Fotolia.com
Articolo consigliato: Disturbo dell’Identità di Genere – “Mi Arrangio a Essere Lesbica”

Diversa è la situazione per i bambini con un’insorgenza tardiva, per i quali vi sarebbe una tendenza a mantenere nel tempo le caratteristiche della disforia e a rinforzarle al momento della comparsa dei caratteri sessuali secondari.

Seguono gli interventi della Dott.ssa G. Zullo (psicologa) e della Dott.ssa A. Gualerzi (psichiatra) nei quali è stato illustrato il lungo percorso di valutazione diagnostica e presa in carico del soggetto adulto con Disturbo dell’Identità di Genere.

Sono stati innanzitutto declinati i significati di sesso, genere e identità sessuale:

Sesso: rimanda a criteri biologici, ovvero tutte quelle caratteristiche anatomiche e fisiologiche che indicano se si è maschi o se si è femmine;

Genere: costrutto psicologico che cambia e si modifica a seconda delle epoche e dei contesti culturali;

Identità sessuale:

identità di genere – continuo e persistente senso di sé come maschi o femmine

ruolo di genere – espressione esteriore dell’identità di genere, ovvero tutto ciò che facciamo per comunicare agli altri la mascolinità o femminilità

orientamento sessuale – modalità di risposta agli stimoli sessuali: può essere eterosessuale, omosessuale, bisessuale.

Nel caso di un DIG i tre costrutti sopra elencati non coincidono e il soggetto transessuale può esperire una grande sofferenza e un disagio, al punto da desiderare di modificare il proprio corpo per rientrare nel genere desiderato.

Presso il centro C.I.D.I.Ge.M.  il percorso di transizione si enuclea in diversi step:

− valutazione psicodiagnostica – durata 6 mesi:

i soggetti che afferiscono al servizio sono sottoposti a colloqui di accoglienza nei quali vengono specificati l’iter di adeguamento e prenotate le prime visite. In un secondo momento iniziano la valutazione psicologica, psichiatrica ed endocrinologica per l’accertamento dell’idoneità al percorso di riassegnazione del sesso.  Concludono questa prima fase un’accurata anamnesi (con particolare attenzione al periodo infantile, all’esordio, ai giochi, all’abbigliamento, ecc.), un’esplorazione dell’area della sessualità e una somministrazione di reattivi psicologici (Rorschach, MMPI II, test di livello come WAIS-R e Matrici di Raven)

− Real Life Experience (RLE) – durata 12 mesi:

inizia con l’assunzione della terapia ormonale e la persona comincia a sperimentarsi nel ruolo di genere verso cui si orienta. Durante questo periodo vengono effettuati colloqui individuali espressivo-supportivi volti all’esplorazione dei vissuti del transessualismo e di sostegno in merito ai cambiamenti corporei.

Le modificazioni corporee comportano un cambiamento nella propria identità fisica con un forte investimento sul corpo, per il cui esito vi è incertezza. Vi è, inoltre, una ridefinizione del proprio ruolo di maschi e di femmine a seguito della comparsa dei caratteri sessuali secondari femminili nelle MtF e maschili nei FtM.

Presso il Centro, da maggio 2005 a dicembre 2013, vi sono stati circa 400 ingressi. Ci sono stati 39 drop-out e 47 dimissioni per non congruità con i criteri diagnostici di Disforia di Genere. Attualmente in psicodiagnosi ci sono 21 pazienti (con prevalenza di FtM), mentre in Real Life Experience il numero sale a 70 con prevalenza di pazienti MtF.

Durante il dibattito sono emerse alcune questioni interessanti relative alla valutazione e all’inquadramento psichiatrico del Disturbo dell’Identità di Genere:

1. deve essere utilizzata una certa cautela diagnostica poiché, a differenza degli altri disturbi, questi pazienti non arrivano all’attenzione con dei sintomi specifici quanto piuttosto con una diagnosi autoriferita;

2. si tratta di uno sviluppo psicologico atipico oppure di uno sviluppo in senso psicopatologico? E come si spiega il fatto che sia l’unico disturbo sul quale si interviene chirurgicamente? Si è di fronte a una condizione medica o psichiatrica? Il dibattito in tal senso è ancora aperto ma ci si sta confrontando su una eventuale depatologizzazione della Disforia di Genere;

3. è assente una testistica specifica  e l’obiettivo del clinico e dell’equipe non è la guarigione o la remissione dei sintomi, ma l’adeguamento del sesso al fine di un miglioramento della qualità di vita del paziente.

Segue, infine, l’intervento della dott.ssa C. Manieri, endocrinologa, che affronta la disforia di genere da un punto di vista medico.

L’obiettivo del paziente è quello di acquisire le sembianze del sesso desiderato attenuando quelle del sesso di appartenenza: ciò è possibile grazie all’assunzione della terapia ormonale a base di testosterone per i pazienti FtM (Female to Male)e a base di antiandrogeni ed estradiolo per le MtF (Male to Female).

I pazienti iniziano la terapia ormonale prima dell’intervento chirurgico nel periodo della Real Life Experience per poi assumerla in dosi ridotte ma costanti per tutto il resto della vita.

I cambiamenti negli FtM e nelle MtF sono progressivi: negli FtM già dal primo mese si assiste alla scomparsa del ciclo mestruale con possibili spotting successivi dei quali è importante informare i pazienti. Il peso corporeo, in condizioni alimentari corrette, aumenta solitamente di 1 o 2 kg., si assiste a un aumento della massa magra e della peluria, all’abbassamento del tono della voce e a una distribuzione del grasso corporeo in senso maschile. Già nei primi 6 mesi la cute diventa più seborroica e il clitoride aumenta considerevolmente di volume.

Nelle MtF, invece, i cambiamenti vanno nella direzione di una riduzione nella crescita dei peli e della barba, di una scomparsa delle erezioni e del blocco della spermatogenesi; si assiste anche a una riduzione del peso corporeo e a una ridistribuzione dell’adipe in senso femminile. L’unica modificazione sulla quale gli ormoni hanno un’azione relativa è il tono della voce.

Mentre per i cambiamenti sopra citati la tempistica è di circa 6 mesi, per l’aumento del volume della mammella i pazienti dovranno attendere l’anno.

A conclusione del simposio si è compreso quanto la Disforia di Genere sia una patologia dall’eziologia, dall’inquadramento e dalla valutazione estremamente complessi.

L’esempio del C.I.D.I.Ge.M. e di molti centri simili insegna tuttavia come un approccio  multidisciplinare, nel quale lavorano in sinergia psicologi, psichiatri, endocrinologi, urologi, medici chirurghi, possa portare a un sensibile e significativo miglioramento della qualità di vita della persona transessuale.

ARGOMENTI CORRELATI:

LGBT – LESBIAN GAY BISEX TRANSGENDER

CONGRESSO SOPSI 2014

Disforia di genere - small
Disforia di Genere

La Funzione Riflessiva nel terapeuta per il trattamento di pazienti borderline

 

 

 

La funzione riflessiva del terapeuta. - Immagine: © Eugen - Fotolia.comLa mentalizzazione, costrutto simile a quello della metacognizione (Semerari et al., 2003), è definita come capacità di concepire gli stati mentali altrui come spiegazioni del comportamento (Fonagy, Target, 2006). I disturbi dove è presente una difficoltà nella mentalizzazione sono in particolare la schizofrenia e il Disturbo Borderline di Personalità

La mentalizzazione è una capacità adattiva che permette agli esseri umani di intessere legami sociali e affiliativi importanti (Brüne, Brüne-Cohrs, 2006; Fonagy, Target, 2006) ed ha un substrato neurologico ben preciso (Brüne e Brüne-Cohrs 2006).

I disturbi dove è presente una difficoltà nella mentalizzazione sono in particolare la schizofrenia e il Disturbo Borderline di Personalità (Fonagy, Bateman, 2006), oltre che tutti gli  altri disturbi di personalità.

Uno degli obiettivi della terapia con pazienti con difficoltà nella mentalizzazione è quello di comprendere gli stati emotivi del paziente nonché le reazioni interpersonali che li hanno generati. In questo modo sarà possibile tracciare i cicli interpersonali disfunzionali che si vengono a creare tra il paziente e gli altri con cui intesse relazioni sociali e che, prima o poi, si riproporranno in terapia tra paziente e terapeuta. Il terapeuta in grado di mentalizzare sarà capace di riconoscere che sta cadendo in un ciclo interpersonale disfunzionale attraverso la comprensione del proprio stato mentale e di quello del paziente  e di validarne lo stato emotivo piuttosto che allarmarsi come potrebbe accadere ad esempio con un paziente con DBP che minaccia un acting-out.

Quanto detto suggerisce l’idea che la mentalizzazione sia un’abilità clinica che il terapeuta deve necessariamente possedere, senza la quale non può esserci una genuina comprensione del paziente.

Recentemente c’è stato interesse riguardo la comprensione della mentalizzazione e del suo ruolo nel setting terapeutico: una ricerca ne chiarisce l’importanza.

Ensink et al. (2013) hanno cercato di comprendere se un training specifico possa aumentare la Funzione Riflessiva di terapeuti all’inizio della loro attività clinica nel lavoro con pazienti con Disturbo Borderline di Personalità.

La ricerca ha coinvolto 48 studenti di psicologia clinica che sono stati assegnati casualmente o al training per la mentalizzazione o al training didattico.

Il gruppo sul training didattico è stato condotto da un professore di psicologia clinica utilizzando lo stesso metodo formativo seguito nel corso di specializzazione post-lauream in psicologia clinica. Gli obiettivi della formazione didattica erano: formulare una diagnosi in base ai criteri del DSM tenendo presente i sintomi e i comportamenti riferiti dal paziente, rintracciare modelli eziologici e infine elaborare un piano di intervento.

Il training sulla mentalizzazione è stato tenuto da un professore esperto nelle abilità di mentalizzazione. Durante il training gli studenti venivano incoraggiati ad esprimere loro impressioni ed emozioni nei confronti del caso clinico presentato: in una prima fase gli studenti imparavano a riconoscere e a differenziare le loro reazioni, in particolare quelle reazioni che li allontanavano da una reale comprensione degli stati emotivi del paziente; in una seconda fase sono stati incoraggiati ad esplorare le emozioni che hanno sperimentato mettendosi nei panni del paziente, a descriverle, per poi giungere ad una comprensione dei sintomi come conseguenza delle dinamiche comportamentali.

I risultati dello studio hanno importanti implicazioni per la formazione post-lauream degli studenti di psicologia clinica: infatti hanno evidenziato che un breve training per la mentalizzazione produce un incremento della Funzione Riflessiva (FR) in terapeuti impegnati nel lavoro con pazienti con DBP; la sola formazione didattica ha invece prodotto un peggioramento della Funzione Riflessiva del terapeuta allontanandolo dalla comprensione degli stati mentali e dei comportamenti del paziente con DBP.

Lo studio ha avuto il merito di evidenziare che un training per la mentalizzazione è in grado di produrre un miglioramento nella FR del terapeuta ma non chiarisce al momento quali siano le implicazioni per il paziente e per l’esito della terapia.

 

ARGOMENTI CORRELATI:

MENTALIZZAZIONEDISTURBO BORDERLINE DI PERSONALITA’IN TERAPIA

ARTICOLO CONSIGLIATO:

LA FUNZIONE RIFLESSIVA NEL PAZIENTE E NEL TERAPEUTA

 

 

BIBLIOGRAFIA:

Il lato vivo di The Walking Dead – Psicologia e TV series

 

 

Il lato “vivo”di The Walking DeadThe Walking Dead è sicuramente una serie che si presta a molte riflessioni… sulla vita e sulla morte, sulla capacità dell’uomo di affrontare entrambe, anche se a fatica, per poi essere annientato da una via di mezzo, sconosciuta, per la quale (per ora) non ha trovato soluzioni praticabili e risorse spendibili.

SPOILER ALERT! ATTENZIONE, VENGONO SVELATE PARTI DELLA TRAMA

Per quei pochi di voi che non la conoscono, The Walking Dead è una serie televisiva americana di enorme successo, a dire il vero la più vista di sempre, che narra le avventure di un gruppo di sopravvissuti a un’epidemia letale… o quasi. L’intero genere umano è infatti affetto da una malattia che trasforma i morti in non morti, esseri incapaci di parlare o pensare e privi di qualsiasi volontà, se non quella di nutrirsi selvaggiamente di carne umana.

Detta così suona un po’ come uno di quegli horror splatter americani, girati con poco budget e altrettanta scarsa fantasia, in realtà ci ritroviamo nel mezzo di una narrazione che, tra colpi di scena e psicologia non troppo spiccia, tiene incollati allo schermo.

The Walking Dead è sicuramente una serie che, come fu anni fa per Lost, si presta a molte riflessioni… sulla vita e sulla morte, sulla capacità dell’uomo di affrontare entrambe, anche se a fatica, per poi essere annientato da una via di mezzo, sconosciuta, per la quale (per ora) non ha trovato soluzioni praticabili e risorse spendibili.

Tuttavia, nonostante i protagonisti appaiano effettivamente senza speranza, il tema della resilienza, la capacità dell’essere umano di riprendersi da un trauma o da traumi cumulativi, si impone al telespettatore dalla prima puntata. Rick, il protagonista, si sveglia da solo in una stanza di ospedale, i fiori appassiti sul comodino, un silenzio surreale nei corridoi, una porta sprangata sulla quale qualcuno segnala “non aprite, morti all’interno”.

Già solo per questo alcuni di noi mollerebbero la spugna, aprirebbero la suddetta porta, e getterebbero al vento il proprio istinto di sopravvivenza. Ma non Rick, e come lui molti altri, vedovi, vedove, madri senza figli e figli senza madri, persone rimaste sole al mondo, che continuano a lottare, a sopravvivere.

Ed è qui che nasce in me la prima di tante domande: cosa fa la differenza tra quelli che decidono di resistere e quelli che si sparano un colpo in testa e la fanno finita subito? Seppure nel mio piccolo, penso che una parte della risposta possa trovarsi in quelle che Ellis chiamerebbe tolleranza alla frustrazione e all’incertezza , ovvero le capacità che ci permettono di sopportare e gestire sentimenti negativi e disturbanti e di accettare il rischio che deriva dall’assenza di controllo.

Detto in soldoni, mi viene da pensare che se tu, umano post-apocalittico, tolleri di avere costantemente paura, di doverti guardare giorno e notte le spalle, di poter perdere tutto da un momento all’altro e di non sapere se arriverai fino a domani… beh, sopravvivi.

The Walking Dead fa riflettere sull’umanità delle persone, che si dividono in pietosi e spietati, quelli che ti salvano e quelli che ti uccidono, a seconda, nella maggior parte dei casi, della via più sicura per la sopravvivenza.

Ci fa pensare poi ad una società, quella americana ovviamente, che, nonostante infarcita di idee di appartenenza e condivisione, di invincibilità e “yes we can”, si sgretola e perde la sua identità poche settimane dopo il contagio. La società post-apocalittica che The Walking Dead descrive è fatta di piccoli gruppi, uniti solo dal bisogno di sopravvivere e dalle stesse idee sul come farlo, o, al massimo, di rari e superficiali tentativi di aggregazione, guidati e puntualmente portati al fallimento da singole identità, fattesi troppo forti o troppo disturbate per lasciare spazio ad altro e ad altri.

In questo scenario, probabilmente solo per esigenze narrative, si ricava uno spazio l’amore, che risorge più forte di prima e al quale i protagonisti si aggrappano, forse per  mantenere in vita la speranza, forse per crearne di nuova quando tutto è perduto. A questa forza i protagonisti non sanno resistere, nonostante significhi mettere in gioco sentimenti tanto forti quanto la morte li rende fragili, dimostrando che, sebbene sicuramente “NON bastiamo a noi stessi”, in due possiamo fare già qualcosa.

Tra questi piccoli spunti di riflessione, frutto della mia passione ormai pluriennale per il telefilm, ne sorge ora un ultimo e più recente. Esistono ancora gli eroi? La società che ha partorito Spiderman, Superman, Batman e tanti altri, può pensare un telefilm privo di eroi, proprio quando ce ne sarebbe tanto bisogno? Ormai alla quarta stagione, il telefilm non presenta a tutti gli effetti questa figura. È vero, c’è Rick, ma la sua missione non è salvare l’umanità, bensì portare al sicuro il suo ristretto gruppo di amici, che spesso si sgretola senza troppi problemi.

E al genere umano, quindi, chi ci pensa? In “Io sono leggenda”, film per molti versi simile a questa serie tv, Will Smith si rintana in casa finchè non trova una cura e riesce a farla arrivare, tra mille peripezie e al costo della vita, al centro di accoglienza in cui, ordinatamente, la società americana resiste.

The Walking Dead ci presenta uno spaccato di vita molto diverso, in cui l’obiettivo è semplicemente sopravvivere, piuttosto che tornare a vivere, e questo, a dirla tutta, ci deprime un po’, perché si sa che, in fondo, i sogni sono più affascinanti della cruda realtà.
Nonostante tutto questo, nella puntata del 24 febbraio si apre una speranza: il Sergente Ford, apparso di recente nella trama, ha la missione, forse altruistica, di portare in salvo un medico che conosce le cause del contagio. Che altro dire, quindi, se non “Forza Sergente Ford”!?!

ARGOMENTI CORRELATI:

TELEVISIONE E TV SERIESMORTE SOCIETA’ & ANTROPOLOGIA

ARTICOLO CONSIGLIATO:

The Walking Dead: tra tendenza storica ed universo umano

Croce e Delizia dell’essere Genitori: come e quando rende felici? – Psicologia Sociale

 

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

Genitorialità & Felicità: un matrimonio felice, un conto in banca sicuro e buon sonno possono rendere felici le mamme e i papà.

Essere giovane, single, avere un bambino con problemi comportamentali o di sviluppo, o essere il genitore non affidatario sono tutti collegati a minore felicità dei genitori, anche se tutti i genitori, anche quelli giovani e i single, dichiarano di avere una vita più ricca di significato e scopo rispetto a quelli senza bambini.

Chi è più felice: i genitori o non genitori ?

Domanda sbagliata.

La vera questione, dicono i ricercatori in psicologia sociale, è : quando i figli rendono i genitori felici e quando non lo fanno? E ancora, quali sono i genitori più felici?

La questione genitorialità è stata affrontata la scorsa settimana in occasione della riunione annuale della Society for Personality and Social Psychology ad Austin, Texas.

Complessivamente è emerso che diventare un genitore in età più avanzata è collegato con la felicità , così come lo è (prevedibilmente) la sicurezza finanziaria .

Gli studi che tentano di confrontare i genitori e non genitori hanno raccolto risultati diversi: che i bambini rendono le persone più felici, ma che i bambini rendono le persone meno soddisfatte del loro matrimonio; che i genitori sono i meno felici, ma mentono riguardo a se stessi.

La sfida più grande nel rispondere alla domanda sta nel fatto che le persone che scelgono di avere figli e quelle che scelgono di non averne sono diverse fin dall’inizio: i ricercatori non possono assegnare casualmente alcune persone a una condizione o all’altra per vedere cosa succede!  Inoltre anche i fattori esterni possano influenzare la felicità.

Ad esempio, a 45 anni, l’86% delle donne e l’84% degli uomini hanno dei bambini, rendendo i non-genitori una minoranza: questi non-genitori potrebbero dover affrontare giudizio o critiche per il fatto di non avere figli e questo potrebbe ridurre i loro livelli di felicità .

Uno studio pubblicato sulla rivista Psychological Science nel gennaio 2013 , rivela che i genitori , in media , erano solo un po’ più felici rispetto ai non -genitori.

Ma le differenze nella felicità erano piccole, così che i ricercatori si sono rivolti alle ricerche precedenti per scoprire cosa fa la differenza tra un genitore felice e uno meno felice. Hanno esaminato studi che comparavano genitori e non genitori, studi che hanno seguito non genitori mentre sono diventati genitori, e studi che hanno comparato la felicità dei genitori nella genitorialità con quella nel fare altre cose.

I risultati , presentati ad Austin, ci dicono che un matrimonio felice, un conto in banca sicuro e buon sonno possono rendere felici le mamme e i papà.

Essere giovane, single, avere un bambino con problemi comportamentali o di sviluppo, o essere il genitore non affidatario sono tutti collegati a minore felicità dei genitori, anche se tutti i genitori, anche quelli giovani e i single, dichiarano di avere una vita più ricca di significato e scopo rispetto a quelli senza bambini. 

Inoltre non c’è un’età ideale per avere figli che garantisca una perfetta felicità, anche se alcuni studi segnalano i 30 come età di beatitudine finanziaria e coniugale.

ARGOMENTI CORRELATI:

GRAVIDANZA E GENITORIALITA’PSICOLOGIA SOCIALE

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

David Clark sull’efficacia delle psicoterapie per la Fobia Sociale – Rome Experimental Psychopathology

 

Rome Workshop on Experimental Psychopathology

David Clark: Developing new psychological treatments:

on the interplay between theories, experimental science and clinical innovation

Experimental Psychopathology Rome 2014

Tra le letture magistrali alla quali abbiamo assistito durante il Workshop a Roma molto interessante è risultata alle nostre orecchie quella tenuta da David Clark, il quale ha esposto dei risultati sull’efficacia di diverse terapie in particolare per quanto riguarda il trattamento della Fobia Sociale.

Infatti è stato esposto il modello di Clark e Wells (1995) che si focalizza su tre principali punti della fobia sociale: il focus interno dell’attenzione, l’utilizzo di informazioni interne per dedurre come si appare agli altri ed infine i comportamenti di sicurezza utilizzati dai pazienti.

L’intervento proposto da Clark prevede un protocollo specifico personalizzabile in base al paziente che abbiamo di fronte. Il protocollo prevede:

–      esercizi esperienziali per dimostrare gli effetti contrari dell’attenzione focalizzata su di sé e dei comportamenti di sicurezza;

–      l’utilizzo di video come feedback per correggere l’idea negativa della propria immagine;

–      training attentivi per promuovere l’uso di un focus esterno;

–      esperimenti comportamentali per testare le predizioni temute nelle situazioni sociali, in particolare nel momento in cui non si mettono in atto comportamenti di sicurezza o non ci sono i risultati temuti;

–      indagine per scoprire il punto di vista degli altri sui risultati temuti;

–      infine lavori di memorizzazione per ridurre l’impatto di un possibile trauma sociale.

 

All’interno del protocollo mancano quelli che sono dei punti fondamentali della terapia Cognitivo-Comportamentale come l’esposizione graduale, la valutazione dell’ansia nelle situazioni temute, la registrazione dei pensieri fatti dai pazienti o l’utilizzo di social skills training.

Clark riporta però dei dati (Clark, Ehlers et al. 2006) di studi sull’efficacia del trattamento della Psicoterapia Cognitiva che mostrano come l’intervento da lui esposto sembra avere dei risultati migliori nel trattamento della Fobia Sociale, rispetto ad un trattamento basato sull’esposizione del paziente alle situazioni temute. Inoltre la Terapia Cognitiva sembra essere superiore non solo all’utilizzo dell’esposizione, ma anche a due diversi tipi di gruppi CBT testati, alla psicoterapia interpersonale, alla psicoterapia psicodinamica e ad altri trattamenti anche di tipo medico.

I risultati portati da Clark sembrano portare degli ottimi spunti per un trattamento della Fobia Sociale e per l’utilizzo di tecniche diverse dall’esposizione graduale spesso utilizzata.

TUTTI I REPORTAGE DAL WORKSHOP DI ROMA

 

 ARGOMENTI CORRELATI: 

 FOBIA SOCIALEPSICOTERAPIA COGNITIVAVIDEO FEEDBACKTERAPIA METACOGNITIVA

TUTTI I REPORTAGES DAI CONGRESSI

BIBLIOGRAFIA:

Maggior rischio di malattie mentali nei figli nati da padri in età avanzata

L’orologio biologico umano con il suo ticchettare scandisce il tempo a disposizione per appagare il desiderio di genitorialità: di fronte agli aspiranti genitori in età avanzata si agita infatti lo spettro della menopausa e del rischio aumentato che i propri futuri figli nascano affetti da malformazioni congenite; ma non solo.

Il journal JAMA Psychiatry ha recentemente pubblicato lo studio di un team di ricerca guidato da Brian M. D’Onofrio dell’Indiana University che ha osservato come figli nati da padri over 45 abbiano, rispetto a figli nati da padri di 20-24 anni, un rischio maggiore di sviluppare alcune malattie mentali quali psicosi, autismo, disturbo bipolare, disturbo da deficit attentivo, nonché di avere maggiori difficoltà scolastiche e una maggior tendenza all’abuso di sostanze.

Lo studio ha preso in considerazione un vastissimo campione composto da 2,6 milioni di persone nate in Svezia dal 1973 al 2001 ed è stato condotto in maniera molto rigorosa ed accurata: nonostante i ricercatori abbiano controllato per qualsiasi variabile venisse loro in mente (età della madre, livello di istruzione dei genitori, reddito, etc.), le analisi dei dati hanno sempre mostrato un chiaro pattern di aumento di rischio di sviluppare malattie mentali con l’aumentare dell’età paterna.

Come si spiega questo aumento di rischio?

Una delle ipotesi più plausibili potrebbe essere la seguente: a differenza delle donne che nascono con un numero prestabilito di ovuli, negli uomini vi è una continua produzione di spermatozoi e quindi si verificano molti più cicli di duplicazione del DNA rispetto alla gametogenesi femminile. Un maggior numero di cicli di duplicazione implica un aumento della possibilità che si verifichino degli errori casuali (mutazioni de novo) che si accumulano di ciclo in ciclo: più si va avanti con l’età quindi, maggiori sono le mutazioni de novo a cui si va incontro e che si trasmetteranno alla propria prole. La maggior parte di queste mutazioni sono innocue, ma alcune sono state collegate a disturbi mentali. Ciononostante il contributo delle mutazioni de novo al rischio di sviluppare disturbi mentali è probabilmente piuttosto ridotto rispetto ad altri fattori e la vera sfida futura è proprio questa, riuscire a comprendere quali altre variabili entrano in gioco nel determinare le differenze di rischio tra i figli nati da genitori giovani e figli nati da genitori in là con l’età.

ARTICOLI SU GENETICA E PSICHE


The new report, which looked at many mental disorders in Sweden, should inflame the debate, if not settle it, experts said. Men have a biological clock of sorts because of random mutations in sperm over time, the report suggests, and the risks associated with later fatherhood may be higher than previously thought. The findings were published on Wednesday in the journal JAMA Psychiatry.

“This is the best paper I’ve seen on this topic, and it suggests several lines of inquiry into mental illness,” said Dr. Patrick F. Sullivan, a professor of genetics at the University of North Carolina, who was not involved in the research. “But the last thing people should do is read this and say, ‘Oh no, I had a kid at 43, the kid’s doomed.’ The vast majority of kids born to older dads will be just fine.”

 

Mental Illness Risk Higher for Children of Older Fathers, Study Finds

Consigliato dalla Redazione

rischio malattie mentali figli nati da padri età avanzata Immagine - © Matthew Cole - Fotolia.com -2
Children born to middle-aged men are more likely than those born to younger fathers to develop any of a range of mental difficulties (…)
Tratto da: New York Times

 

Per continuare la lettura sarete reindirizzati all’articolo originale … Continua  >>

 


Adozioni: una proposta per la Valutazione Psicodiagnostica dell’Idoneità

di Amelia Rizzo.

 

 

Valutzione psicodiagnostica nelle adozioni . - Immagine: © jannoon028 - Fotolia.comLa valutazione della coppia genitoriale è un processo di delicata importanza.

Esso deve tenere conto non solo delle capacità genitoriali del singolo, ma del funzionamento complesso della coppia: dalla modalità relazionale alla gestione dei problemi, dall’espressione dell’affettività alla capacità di dare sostegno al nutrimento fisico e al soddisfacimento dei bisogni psichici dei figli. (Brodzinsky & Schechter, 1990).

Nella valutazione della coppia che desidera adottare è necessario tener conto dell’eventuale presenza di strutture psicopatologiche, che possono manifestarsi in diversi gradi: dalla scarsa consapevolezza della responsabilità, alle difficoltà relazionali, fino alla ben più grave possibile presenza di una perversione.

Lo psicologo che si accinge alla valutazione dell’idoneità pertanto ha necessità di più strumenti per giungere ad un giudizio più o meno favorevole (Elliot, 1995).

Il primo di essi è il colloquio. Attraverso questo strumento, vanno indagate specifiche aree relative non solo alle pregresse e personali esperienze genitoriali, ma anche alle dinamiche relazionali del momento presente. Come sappiamo, la modalità relazionale dei propri genitori, nel rapporto con la figura materna e successivamente paterna hanno un ruolo fondamentale e specifico nello sviluppo della psiche individuale e tendono ad essere modelli di attaccamento riproposti nell’età adulta all’interno della coppia e nella relazione con i propri figli (Bronfenbrenner, 1986). Pertanto, è necessario indagare le esperienze infantili, relative alla famiglia di origine. Essa è stata calorosa e accogliente o fredda e rigida? Il clima emotivo era ostile o addirittura violento?

Non trascurabile è a tal proposito il ruolo dell’osservazione. E’ indubbio infatti che il contesto della valutazione spinga i potenziali genitori ad assumere un atteggiamento conforme alla desiderabilità sociale (Wegar, 2000), che tuttavia non coinvolge il comportamento non verbale e le modalità con cui i soggetti si relazionano con lo psicologo a prescindere dal contenuto che esprimono.

Non ultima per importanza vi è lo strumento più prezioso: la valutazione psicodiagnostica. Considerando i diversi piani della comunicazione e della organizzazione di personalità dei genitori sarebbe opportuno affiancare alle scale autocompilate uno strumento proiettivo. Si ipotizza che un quadro sfaccettato e scandito su più livelli (autovalutazione vs. proiezione) possa offrire una valutazione più completa possibile. Pertanto potrebbero essere utilizzate:

Una scala per la valutazione del funzionamento e della soddisfazione di coppia come ad esempio il Marital Adjustment Test (Locke & Wallace, 1959). Si tratta di un Questionario self-report di 15 item che valuta lo stress coniugale, l’adattamento intrarelazionale e la concordanza fra i coniugi su alcuni comportamenti interpersonali, relazionali, affettivi e sessuali, adottati nella vita coniugale, ad es.: Handling Family Finances; Matters of Recreation; Demonstration of Affection; Friends; Sex Relations; Conventionality; Philosophy of Life; Ways of dealing with in-laws. Tuttavia, a causa della sua revisione datata, le capacità psicometriche potrebbero essere limitate.

In alternativa può essere utilizzato il Marital Communication Inventory (Bienvenu, 1987). Il questionario (uno in versione maschile e uno in versione femminile) è costituito di 46 item che producono sia i punteggi relativi alle sei sottoscale  (ostilità relazionale, apertura, empatia, gestione dei conflitti, stima e dialogo fra i partner); sia un punteggio globale relativo alla comunicazione e alla capacità di risoluzione dei conflitti.

Ancora, ci è utile un questionario per la valutazione della personalità, come l’MMPI – 2 (Hataway & Mc Kinley, 1990), utile peraltro nella valutazione delle componenti psicopatologiche principali (scale di base) e per alcuni aspetti relativi all’identificazione e alla soddisfazione coniugale (scale supplementari e di contenuto).

Una scala di valutazione dell’umore, come ad esempio il Profile of Mood States (Mc Nair et al., 1971).

Un reattivo proiettivo, quale nello specifico il R.O.T. (Phillipson, 1955). Al di là infatti della percezione soggettiva riportata dal paziente, il contesto di valutazione richiede una esplorazione profonda delle relazioni oggettuali, quali rappresentazioni interne degli altri e della qualità ed investimento affettivo nelle relazioni monodiche, diadiche, triadiche e gruppali.

Infine, per concludere, è utile sottolineare che oltre al processo di valutazione, sarebbe necessario, in caso di avviamento della procedura di adozione esplorare con periodici follow up, lo stato della coppia e lo sviluppo delle relazioni familiari complesse, in un monitoraggio che sia anche e soprattutto supportivo (Von Korff & Grotevant, 2001).

 

 

ARGOMENTI CORRELATI:

ADOZIONI GRAVIDANZA E GENITORIALITA’PSICODIAGNOSTICA

ARTICOLO CONSIGLIATO:

L’IMPORTANZA DI RICOSTRUIRE LA PROPRIA STORIA: FATTORE DI PROTEZIONE NELLE ADOZIONI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

I Disordini del Comportamento Alimentare nelle diverse età della vita (pt.2) – SOPSI 2014

Daniela Gusella. Studi Cognitivi Milano

 

 

SOPSI 2014

Report dal Corso ECM:

I disordini del comportamento alimentare nelle diverse età della vita:

aspetti psichici e fisici.

Interventi del Dott. Tortorella e della Dr.ssa Favaro

 

LEGGI IL REPORT SULLA PRIMA PARTE DELLA SESSIONE PLENARIA

SOPSI 2014 - Disordini del Comportamento AlimentareIl funzionamento cognitivo nei termini di stile di pensiero di pazienti anoressiche è caratterizzato da scarsa flessibilità, bassa coerenza centrale (deficit che si riscontra anche nel disturbo autistico), scarsa memoria visiva ed eccessiva attenzione ai dettagli, tutte caratteristiche che sono alla base del disturbo dell’immagine corporea che insieme ad una rallentata inibizione delle risposte comportamentali determinano il comportamento impulsivo.

La sessione plenaria sui Disturbi Alimentari prosegue con l’intervento del Dott. Alfonso Tortorella, che affronta il tema dell’anoressia e dell’obesità. Un primo dato allarmante riguarda l’incidenza dell’obesità nella popolazione della Repubblica di Nauru, nel pacifico meridionale. Secondo le ultime stime infatti il 94,5% della popolazione è in sovrappeso e ben il 71,7% è affetto da obesità. Il sovrappeso e l’obesità sono una piaga che sta dilagando in varie zone del mondo e che i vari paesi cercano, con politiche e misure differenti tarate sulla base della cultura di appartenenza, di combattere.

In America, ad esempio, la compagnia area American United Airlines ha stabilito che le persone obese dovessero pagare per due.

Entrando nel vivo del simposio vengono analizzate le correlazioni tra l’obesità e l’abuso di sostanze e viene evidenziato come bassi livelli di dopamina portino ad una vulnerabilità nei confronti delle sostanze (drug and food) le quali a loro volta portano ad un adattamento delle aree dopaminergiche striatali incrementando la tolleranza alla sostanza e quindi una vulnerabilità alla stessa.

Nora Volkow in uno studio del 2002 analizza le relazioni presenti tra dopamina e obesità rilevando che la disponibilità dei recettori D2 è ridotta nei soggetti obesi; nello specifico si è rilevata una relazione inversamente proporzionale tra il BMI e il numero dei recettori a livello D2: maggiore è il BMI minore è il numero di recettori D2.

In uno studio del 2005 la Volwok mette a confronto il binge eating disorder e la dipendenza da sostanze: entrambe hanno delle conseguenze a livello sociale, portano a stress e perdita di controllo.

L’ultimo intervento della sessione sui disturbi del comportamento alimentare è tenuto dalla dr.ssa Favaro che espone alla platea quali sono i cambiamenti a livello cognitivo lungo l’arco della vita in pazienti affette da anoressia nervosa.

Il funzionamento cognitivo nei termini di stile di pensiero di pazienti anoressiche è caratterizzato da scarsa flessibilità, bassa coerenza centrale (deficit che si riscontra anche nel disturbo autistico), scarsa memoria visiva ed eccessiva attenzione ai dettagli, tutte caratteristiche che sono alla base del disturbo dell’immagine corporea che insieme ad una rallentata inibizione delle risposte comportamentali determinano il comportamento impulsivo.

Un altro aspetto tipico di pazienti anoressiche è la scarsa empatia, intesa come una difficoltà a riconoscere gli stati emotivi altrui, e ciò si riscontra soprattutto nelle situazioni di particolare sottopeso, mentre sembra essere in parte recuperata nel momento in cui avviene un recupero del peso. Tuttavia viene sottolineato il limite di questa ricerca, che fa riferimento a casistiche diverse non essendo uno studio longitudinale.

Si sono riscontrati dei deficit anche per quanto concerne le abilità decisionali. Queste possono essere classificate secondo due ordini di categorie: vi è la dimensione fredda (decisioni razionali) calda (decisioni emotive) e vi è l’aspetto veridico (che riguarda i vantaggi o gli svantaggi cui può portare una decisione) e quello adattativo (quando la scelta viene effettuata in modo da rimanere aderenti alle proprie aspettative, è qui che subentra la condizionabilità). A livello decisionale è come se vi fosse un ritorno all’infanzia, in cui le nostre scelte sono condizionabili perchè non siamo ancora in grado di stabilire cosa ci piace e cosa no non avendo ancora dei gusti definiti.

Un interrogativo però rimane: tutte queste alterazioni sono legate a caratteristiche precedenti alla malattia o sono una conseguenza della malattia stessa, legate a malnutrizione e stress? Uno studio ci aiuta in parte a rispondere a questo interrogativo: è emerso infatti che pazienti anoressiche sia sottopeso che normopeso presentavano funzioni cognitive con punteggi significativamente bassi rispetto ai controlli e che le pazienti anoressiche normopeso, però, non presentavano differenze rispetto ai controlli sani per quanto riguarda l’empatia.

Un’ulteriore conseguenza della compromissione delle funzioni cognitive riguarda la risposta alla terapia ovvero: questo funzionamento cognitivo che impatto ha sull’esito del trattamento?

La flessibilità cognitiva è un importante predittore: per migliorare la prognosi, indipendentemente dalla gravità del disturbo, può quindi essere utile pensare a degli interventi mirati a incrementare la flessibilità cognitiva.

 LEGGI IL REPORT SULLA PRIMA PARTE DELLA SESSIONE PLENARIA

 

TUTTI I REPORTAGES DAL CONVEGNO SOPSI 2014

ARGOMENTI CORRELATI:

DISTURBI DEL COMPORTAMENTO ALIMENTARE – ED

ANORESSIA NERVOSA – AN – BINGE EATING DISORDER – BED – ALIMENTAZIONE

 

Per dieci minuti di Chiara Gamberale, Feltrinelli 2014 – Recensione

Francesco Aquilar

Per dieci minuti

Chiara Gamberale , Feltrinelli 2014

 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

Per dieci minuti di Chiara Gamberale, Feltrinelli 2014. - Immagine: copertinaL’impianto narrativo è formidabile: alla paziente protagonista, disperata perché è appena stata lasciata dal marito e licenziata dal lavoro, la psicoterapeuta propone di svolgere un gioco per un mese: dedicare dieci minuti al giorno a fare una cosa che non ha mai fatto.

E, per quanto le sedute continueranno ad essere svolte ogni lunedì, il bilancio psicoterapeutico dell’esperienza si farà solo a fine mese. Il romanzo è il diario di queste esperienze.

Il racconto è asciutto, ben descritto, gradevolmente umoristico e autoironico al punto giusto, pieno di riflessioni garbate che assomigliano a morbide pennellate impressionistiche significative. E’ pieno di belle persone, che sono i personaggi che circondano e accompagnano Chiara nelle sue esperienze.

La protagonista si chiama Chiara come l’autrice, e parla in prima persona. E’ palesemente una paziente, una brava paziente, con le conoscenze e le capacità di osservazione e di auto-osservazione tipiche dei pazienti in psicoterapia. E’ sicura della relazione con la sua terapeuta.

Si dichiara uscita dall’anoressia, e fa continue osservazioni semplici e intelligenti sulla realtà esterna in rapporto con la realtà interna: come si fa a volersi bene senza farsi troppo male? (pag. 47); le ossessioni non si offendono se le trascura (le dice la psicoterapeuta a pag. 97); scrivere è semplicemente il mio unico rimedio all’esistenza (pag. 104); quando fanno qualcosa per noi, gli altri ci consegnano o ci tolgono un’occasione? (pag. 114); da quando la vita è vuota, non mi ero mai accorta che fosse così piena (pag. 141); è una persona che vorrei passare il resto della vita a vederla ridere (pag. 166); il meglio della vita sta in tutte quelle esperienze interessanti che ancora ci aspettano (pag. 168).

Non è tanto importante che la psicoterapeuta e la protagonista si affidino alla filosofia di Rudolf Steiner (1861-1925), anche se l’epigrafe di partenza è una sua citazione paracognitivista: “In ogni essere umano esistono facoltà latenti attraverso le quali egli può giungere alla conoscenza del mondo”.

Quel che può essere particolarmente interessante per noi psicoterapeuti cognitivo-comportamentali, oltre l’aspetto letterario, è l’interpretazione che possiamo farne e l’utilizzazione eventuale con i nostri pazienti.

Innanzi tutto, l’impostazione è decisamente comportamentista: esci da una situazione difficile attraverso un’esperienza comportamentale da valutare insieme, terapeuta e paziente. Poi: il suggerimento comportamentale viene presentato come un gioco, un gioco cooperativo, un gioco che può servire ad allargare la mente e soprattutto a gestire un momento emotivamente difficile e tragico, nel vissuto della paziente. Ancora, anche lo sviluppo del romanzo può essere interpretato in maniera decisamente cognitivista: per quanto il bilancio totale dell’esperienza si farà dopo un mese, settimana per settimana c’è nel dialogo terapeutico un accompagnare la paziente ad uscire dal suo stato mentale problematico, e un tentare di renderla consapevole delle sue risorse, che sono maggiori di quanto creda.

Le osservazioni diffuse nella narrazione, inoltre, potrebbero essere utilizzate come uno strumento di riflessione in più per i nostri pazienti: c’è un ottimismo sottile implicito malgrado tutto, una fiducia che riesce a rivitalizzare anche le esperienze più negative, una ristrutturazione delicata e sistematica in positivo persino dei momenti e degli stati d’animo più dolorosi.

Infine, due parole sullo stile letterario: grande conoscenza tecnica del procedere romanzesco, con numerose citazioni implicite di alto livello; il collegarsi alla comunità dei lettori appassionati, di tutto il mondo e di tutti i tempi, malgrado le differenze notevoli che esistono tra le singole persone. Leggiamo per noia, per curiosità, per scappare dalla vita che facciamo, per guardarla in faccia, per sapere, per dimenticare, per addomesticare i mostri tra la testa e il cuore, per liberarli (pag. 109).

Leggiamo anche, si potrebbe aggiungere, per aumentare la nostra consapevolezza, la nostra capacità di descrizione dei fenomeni esterni e interni, la nostra capacità di cimentarci con le relazioni significative e la nostra integrazione tra pensieri, emozioni, comportamenti e progetti.

Decisamente un gran bel piccolo libro, Per dieci minuti di Chiara Gamberale, che riconferma anche la presenza ormai acquisita della psicoterapia nel sociale, nel letterario, nel culturale e nei mezzi di comunicazione di massa, come un elemento imprescindibile dell’esperienza di elaborazione mentale multimodale ed etica, più che mai necessaria nell’era post-moderna.

ARGOMENTI CORRELATI:

LETTERATURA PSICOTERAPIA COGNITIVA COMPORTAMENTISMO 

LEGGI TUTTE LE RECENSIONI DI STATE OF MIND

BIBLIOGRAFIA:

Solitudine due volte più dannosa dell’obesità – Psicologia e Terza età

 

– FLASH NEWS-

Rassegna Stampa - State of Mind - Il Giornale delle Scienze Psicologiche

La solitudine può essere due volte più dannosa dell’obesità. Questo il risultato di uno studio secondo il quale la solitudine può avere un impatto devastante sulle persone anziane.

I ricercatori hanno osservato più di 2.000 individui di 50 anni e più, e hanno scoperto che quelli soli avevano quasi il doppio delle probabilità di morire durante lo studio (lungo sei anni) rispetto a quelli che non erano soli.

Rispetto alla media dello studio, quelli soli avevano un rischio maggiore del 14% di morire: questo significa che la solitudine ha un impatto sulla morte precoce circa due volte superiore a quello dell’obesità. La povertà aumenta il rischio di morte prematura del 19% .

I risultati indicano una crisi a venire: la popolazione invecchia sempre di più e le persone vivono sempre più da sole e lontano dalle loro famiglie.

Precedenti studi hanno collegato la solitudine ad una serie di problemi di salute: dalla pressione alta, al sistema immunitario indebolito, a maggiore rischio di depressione, infarto e ictus .

Nel suo libro “Loneliness” John Cacioppo , psicologo all’Università di Chicago , sostiene che il dolore della solitudine è simile al dolore fisico e che il mondo sta vivendo uno “tsunami d’argento”, come se i baby boomer avessero raggiunto l’età pensionabile.

I ricercatori hanno anche scoperto che alcune persone erano felici nonostante una vita solitaria. Altri ancora si sentivano soli e soffrivano l’impatto della solitudine sulla salute, anche con la famiglia e gli amici vicino. I risultati indicano che la gente aveva bisogno di sentirsi apprezzata e coinvolta da chi sentivano vicino, e che la sola compagnia non era sufficiente.

ARGOMENTI CORRELATI:

MORTETERZA ETA’ RAPPORTI INTERPERSONALI

 

 

BIBLIOGRAFIA:

 

Esordio Psicotico: Cognitive Impairment indicatore di Vulnerabilità Genetica? – SOPSI 2014


SOPSI 2014 

18° Congresso della Società Italiana di Psicopatologia

La Psicopatologia e le età della vita – Torino 12-15 Febbraio 2014

 

COGNITIVE IMPAIRMENT E PSICOSI:

SINTOMI ADDIZIONALI O INDICATORI DI VULNERABILITA’ GENETICA?

UNO STUDIO SU PAZIENTI AL FIRST EPISODE PSYCHOSIS

Sartorio C.1, Tripoli G.1, Sideli L.1, La Cascia C.1,2, Seminerio F. 2, Marinaro AM. 2, La Barbera D. 1,2

1Dipartimento di Biomedicina Sperimentale e Neuroscienze Cliniche, Sez. di Psichiatria, Università di Palermo

2U.O. Psichiatria, A.O.U.P. Paolo Giaccone, Palermo 

 ARGOMENTI CORRELATI:

NEUROPSICOLOGIAPSICOSI

TUTTI I POSTER DEL CONGRESSO SOPSI 2014
I REPORTAGES DAL CONGRESSO SOPSI 2014

TYM test: strumento di screening per il deterioramento cognitivo

Sara Anaclerio 

 

TYM Test:

un contributo alla validazione di uno strumento di screening per il deterioramento cognitivo

 

PREMIO STATE OF MIND 2013

TYM test: strumento di screening per il deterioramento cognitivo

La ricerca si è in particolare soffermata sulla taratura dello strumento tenendo conto dell’influenza di variabili come l’età, il livello di scolarità e il genere di appartenenza, sui punteggi del test e confrontando le prestazioni al Tym con un gold standard, l’MMSE in questo caso attuando un controllo anche rispetto alla variabile tono dell’umore.

Riassunto

Il deterioramento cognitivo costituisce un processo di progressivo declino e  tende a manifestarsi coinvolgendo più aree cognitive, generalmente esso appare altamente correlato all’avanzare dell’età. In ambito clinico si è mostrato particolare interesse, negli ultimi anni, per un stadio intermedio tra l’invecchiamento normale e quello di tipo patologico.

Questa area intermedia, in sostanza, tende a comprendere delle alterazioni a livello della memoria, e un declino cognitivo tuttavia non compromesso in maniera significativa; il deterioramento cognitivo lieve, rappresenta, ad ogni modo, “un periodo diagnostico ambiguo durante il quale non è chiaro se i deficit cognitivi moderati predicano effettivamente la demenza” (Panza et al, 2006).

L’importanza di definire con chiarezza questa area è stata sottolineata da esiti di alcuni studi (Chertkow te al, 2008) (Tuokko, Frerichs e Graham, 2003) che hanno stimato una percentuale di rischio di conversione in demenza pari al 50% e a distanza di cinque anni (ib). Appare chiaro quanto possa essere fondamentale attuare misure di prevenzione, a partire da queste situazioni limite al confine tra invecchiamento normale e patologico.  Negli ultimi anni si sta diffondendo, in particolare, la tendenza ad utilizzare o richiedere l’impiego di strumenti di valutazione cognitiva che fornisca una visione globale dello stato cognitivo del paziente, che richieda tempi di esecuzione contenuti e che siano facilmente somministrabili, o meglio, non richiedano un particolare training da parte dell’esaminatore.

In linea con questa tendenza, nel presente lavoro di tesi viene presentato il Tym test, un test di screening di deterioramento cognitivo che pare rispondere ai criteri sopra menzionati. La ricerca si è in particolare soffermata sulla taratura dello strumento tenendo conto dell’influenza di variabili come l’età, il livello di scolarità e il genere di appartenenza, sui punteggi del test e confrontando le prestazioni al Tym con un gold standard, l’MMSE in questo caso attuando un controllo anche rispetto alla variabile tono dell’umore.

Alla ricerca ha preso parte un campione normativo composto di 174 soggetti suddivisi in base ai criteri di età, anni di scolarità e genere.

Ai soggetti è stato somministrato l’MMSE in un primo momento,  il TYM test successivamente ed infine la BDI e la GDS, due strumenti di misura del tono dell’umore. I dati ricavati sono stati sottoposti ad analisi statistiche. I risultati mostrano come il fattore età eserciti un’influenza significativa sulle prestazioni al TYM test, in special modo su una fascia di età compresa tra i 30 e i 60 anni. Tale risultato è stato confermato dall’analisi delle prestazioni al MMSE mostrando la validità di costrutto del TYM test.

ARGOMENTI CORRELATI:

PSICODIAGNOSTICA   DEMENZA

PREMIO STATE OF MIND 2013

ARTICOLO CONSIGLIATO:

Il Metacognitive Functions Screening Scale – MFSS-30 – Psicologia

 

TYM test: un contributo alla validazione di uno strumento di screening per il deterioramento cognitivo

    Autore: Sara Anaclerio – Relatore: Prof.ssa Maria Fara De Caro

 

Abstract

Cognitive impairment is a process of gradual decline and tends to occur involving more cognitive areas , generally it appears highly correlated with advancing age . In clinical settings it is shown a particular interest in recent years , for an intermediate stage between normal aging and that of pathological type . This intermediate area , in substance , it tends to include alterations in the level of memory and cognitive decline , however, does not significantly compromise ; mild cognitive impairment , is , in any case , ” an ambiguous diagnostic period during which it is not clear if cognitive deficits moderate dementia actually preach ” ( Panza et al, 2006) the importance of clearly defining this area was underlined by results of some studies ( Chertkow you al, 2008) ( Tuokko, Frerichs and Graham, 2003) who estimated a percentage of risk of conversion to dementia of 50% and at a distance of five years ( ib ) . It seems clear as it may be essential to implement prevention measures from these extreme situations on the border between normal and pathological aging . In recent years it is spreading , in particular , the tendency to use or require the use of tools of cognitive assessment that provides a global view of the cognitive status of the patient, which requires execution times and content that are easily administrable , or better , do not require special training by the examiner .

In line with this trend, in this thesis is presented Tym test, a screening test of cognitive impairment that seems to meet the criteria mentioned above. The research is particularly focused on the calibration of the instrument taking into account the influence of variables such as age, educational level and gender of belonging, on test scores and comparing the performance to Tym with a gold standard, the ‘ MMSE in this case implementing a control even with respect to the variable mood. Looking took part in a normative sample consists of 174 subjects divided according to the criteria of age , years of schooling and gender.

The subjects were administered the MMSE at first the TYM test later and finally the BDI and the GDS two instruments measuring mood . The data obtained were subjected to statistical analysis . The results show that the age factor significant influence on the performance at the TYM test , especially on a beam between the ages of 30 and 60 years. This result was confirmed by the analysis of performance on MMSE showing the construct validity of the TYM test.

Key Words: MCI, impairment, memory, elders, TYM test.

 

Introduzione

Con l’incremento dell’aspettativa di vita si sta verificando a livello globale, da diversi anni, un’ inversione di tendenza rispetto a quella che, nel dopo guerra, aveva portato ad un imponente incremento nelle nascite. Oggi, piuttosto, appare più comune occuparsi del fenomeno dell”ageing boom”. L’estensione della durata della vita, oltre a racchiudere in sè l’immagine del progresso e della salute, anche relativamente al raggiungimento di soglie di età che in passato apparivano una chimera, porta con sé anche una serie di problemi nella gestione delle problematiche fisiche o cognitive in cui gli anziani, inevitabilmente, si ritrovano quotidianamente a vivere. L’incremento dei tassi di invecchiamento della popolazione porta con sé, al di là degli irreversibili cambiamenti tipici dell’età, anche all’allargamento di quella fascia comprendente soggetti che, se da un lato mostrano livelli di funzionamento cognitivo al di là della soglia della normalità, d’altra parte non possono neanche rientrare in un quadro di patologia. All’interno di questa fascia rientra il concetto MCI, come vedremo all’interno della presente ricerca, tale concetto viene definito da Panza (Panza et al. 2006) come “ un periodo diagnostico ambiguo durante il quale non è chiaro se i deficit cognitivi moderati predicano effettivamente la demenza”.  L’aggiornamento diagnostico in ambito clinico, sta subendo, negli ultimi anni un cambiamento progressivo in questa direzione: forte è la necessità di disporre di strumenti da un lato semplici e rapidi da somministrare, ma , allo stesso tempo anche efficaci. Si è pertanto, rivelato fondamentale l’elaborazione di nuovi strumenti diagnostici che racchiudano caratteri come: la semplicità di somministrazione, la rapidità nel calcolo dei punteggi e anche, da non sottovalutare, la gradevolezza da parte dell’anziano nei confronti dello strumento diagnostico.

Nel presente lavoro si tratterà del TYM test, questo strumento rientra tra gli strumenti di screening breve, ideato per rispondere a esigenze sopra menzionate. Lo strumento racchiude diverse domande aventi per oggetto l’indagine di diverse funzioni cognitive, dalla memoria, al linguaggio all’orientamento spaziale, al calcolo. Il test ritrova ampio impiego in ambito clinico, in modo particolare nella discriminazione dell’MCI. Il presente lavoro vuole costituire un contributo alla validazione del Tym test su campione normativo in linea con le attuali esigenze di aggiornamento degli strumenti diagnostici che richiedono un sapere sempre più aggiornato nel diagnosticare la fase pre-clinica della demenza Negli ultimi anni si sta diffondendo, in particolare, la tendenza ad utilizzare o richiedere l’impiego di strumenti di valutazione cognitiva che fornisca una visione globale dello stato cognitivo del paziente, che richieda tempi di esecuzione contenuti e che siano facilmente somministrabili, o meglio, non richiedano un particolare training da parte dell’esaminatore.

 

Metodo

Il lavoro ha preso forma dalla formulazione di due fondamentali ipotesi; in primo luogo è stato ipotizzato che il fattore età eserciti un’influenza significativa sulle performance cognitive, in secondo luogo si è voluto verificare come il fattore genere non eserciti alcuna influenza sui risultati.

Alla ricerca ha preso parte un campione composto da 174 soggetti la selezione è avvenuta tenendo conto delle variabili: età, livello di scolarità e genere di appartenenza. Per la variabile età sono state considerate fasce comprese tra i 20 e gli oltre 88 anni (X 55,42 E ΔS 14,85) e livelli di scolarità dai 0 agli oltre 13 anni (X=10,87 ΔS=4). Il campione è stato raccolto anche sulla base dell’appartenenza al genere; al fine di ottenere un campione omogeneo si è rivelato utile prelevare parte del campione dall’UTE (Università Terza Età) e dal Centro per anziani di Mola di Bari. Al campione di ricerca selezionato sono stati somministrati, in un primo momento, il “Mini Mental State Examination” un test composto da 30 domande  comprendenti 4 consegne sull’orientamento orientamento temporale, 6 domande su Orientamento spaziale, una prova di memoria immediata, una di attenzione e calcolo, memoria di richiamo, una di linguaggio e una di prassia costruttiva. Successivamente è stato somministrato il Tym test, uno strumento compilabile in maniera autonoma dal soggetto, composto da orientamento personale, spaziale e temporale del paziente, la seconda prova valuta l’ abilità di scrittura su copia, la terza prova indaga la conoscenza semantica, la quarta si sofferma sulla capacità di calcolo, la quinta valuta la fluenza verbale, la sesta la capacità di categorizzazione, la settima valuta abilità di denominazione scritta di oggetti, l’ottava e la nona prova si soffermano sulle abilità visuo-spaziali, la decima sul richiamo del materiale precedentemente appreso. Successivamente sono stati impiegati degli strumenti per la misurazione del tono dell’umore: BDI (somministrato ai soggetti con età inferiore ai 65) e la Gds ( somministrata ai soggetti con età superiore ai 65 anni). La BDI è uno strumento composto da 21 domande che prevedono 4 o 5 alternative di risposta rispetto al fattore somatico-affettivo (perdita di interessi, perdita di energie, modificazioni del sonno, e nell’appetito, agitazione e pianto) e il fattore cognitivo concernente le manifestazioni cognitive della depressione (pessimismo, senso di colpa, autocritica, autostima). La Gds comprende, invece, 30 domande; la procedura di somministrazione prevede che l’esaminatore legga ad alta voce le domande e che il soggetto esaminato risponda con un “SI” o con un “NO”.

Tutti i soggetti hanno firmato il modulo del consenso informato al trattamento dei dati, i test sono stati somministrati ai singoli soggetti per volta disponendo di un setting silenzioso e luminoso. Per cominciare si è somministrato l’MMSE, successivamente si è proseguito con il Tym test. Questo strumento prevede che possa essere compilato in maniera autonoma affiancati dallo sperimentatore il cui compito è assicurarsi che tutte le procedure siano state comprese in maniera chiara e che tutte le consegne siano portate a termine. Qualora il paziente mostri delle difficoltà in una prova l’esaminatore può aiutarlo con dei suggerimenti che dovrà segnare su un foglio in modo da poterli contare in seguito

Nel caso in cui in presenza di problemi di tipo fisico, il paziente non possa scrivere, l’esaminatore può compilare le risposte che egli darà a voce.

Non sono previsti limiti di tempo per la compilazione del test da parte del paziente, tuttavia, nel caso in cui il paziente si blocchi su una prova, nonostante i suggerimenti dell’esaminatore, egli deve incoraggiarlo ad andare avanti con le altre prove. Per finire, è stato somministrato uno strumento valutante il tono dell’umore, in particolare la BDI per soggetti con età inferiore ai 65 anni e la Gds con soggetti con età superiore ai 65. Il primo strumento è composto da 21 domande a risposta multipla (5 possibilità di risposta), per ogni risposta si assegna un punteggio, il punteggio complessivo indica il livello di depressione presente; la Gds è, invece, utilizzato con pazienti geriatrici consiste in 30 domande con modalità di risposta di tipo dicotomico (si; no). Anche in questo caso il punteggio complessivo indica il livello di depressione registrato da normale, moderato lieve e severo.

L’analisi è stata effettuata impiegando il software statistico SPSS 18 (Statistical Package for Social Science versione 18) attraverso cui sono state calcolate delle statistiche parametriche. L’impiego di queste statistiche presuppone che vengano rispettate determinate condizioni (Ercolani 2007) tra cui, il campione deve essere ottenuto tramite campionamento casuale, le osservazioni devono essere tra loro indipendenti, all’interno della popolazione, la variabile indagata deve seguire la distribuzione normale e, infine,  la variabile deve essere misurata almeno su una scala ad intervalli equivalenti, cioè su scale metriche. Le statistiche  impiegate comprendono: il test F di Fisher mediante il calcolo dell’ANOVA applicato su 111 soggetti per verificare eventuali differenze significative tra varianze partendo da un’ipotesi di omogeneità tra varianze e considerando un livello di significatività del 5% (p<0,05). Questo strumento non permette, tuttavia, di individuare quale tra le medie del campione preso in esame tenda a mostrare differenze significative, sono state pertanto calcolate le statistiche relative ai confronti multipli post-hoc.  Tali confronti sono stati effettuati in un momento successivo utilizzando il test di Tuckey; questo  permette, rispetto all’ANOVA, di individuare con precisione quale media differisca rispetto alle altre, operando una serie di confronti tra i valori. Questo tipo di analisi consente di  esercitare un controllo sull’errore diprimo tipo I. I confronti sono stati effettuati su 111 soggetti suddivisi in relazione al fattore età, preso in considerazione in questo studio. In relazione a tale fattore  i soggetti sono stati suddivisi in tre classi di età, la prima comprendente una fascia tra i 30 e i 49, la seconda fascia di età costituita da persone con età tra i 50 e i 69 e , infine la terza fascia includente soggetti aventi dai 70 anni in su. Mediante il calcolo del coefficiente di Tukey sono stati effettuati dei confronti tra le classi di età evidenziando quale presentasse, nel confronto, tra loro differenze significative. I confronti sono stati condotti in considerazione delle variabili relative all’età, TYM test e MMSE . E’ stato, infine, calcolato il coefficiente di correlazione r di Pearson che consente di individuare quale, tra le due variabili messe a confronto,  influisca sull’altra. Le correlazioni sono state calcolate operando un confronto tra i punteggi ottenuti al TYM test e MMSE sulla base della seconda variabile analizzata in questo studio ossia il genere e relativamente al campione complessivo.

 

Risultati

Dall’analisi dell’ANOVA sono state individuate differenze significative nelle varianze relativamente a quasi tutte le variabili esaminate all’interno dello studio con esclusione del tono dell’umore. Le variabili di interesse: età, MMSE (nella forma grezzo e corretto)  e TYM hanno messo in luce delle differenze significative tra varianze considerando un livello di significatività pari allo 0,5% (p<0,05 ). I confronti multipli post-hoc sono stati condotti prendendo in considerazione la divisione del campione per fasce di età. Come accennato poco sopra, sono state individuate 3 fasce di età, ciascuna fascia è stata confrontata con le altre confronti operati tra le medie   test mostrano un dato in comune. In particolare differenze significative sono state riscontrate nel confrontare la classe di età 1 con la classe di età 2. Rispetto a quest’ultima e alla terza fascia i valori riportati in tabella non mostrano la presenza di differenze significative. Un dato interessante da notare è la tendenza, mostrata in particolare, dal TYM test ma anche dall’MMSE. In particolare per un p <0,05 si ammettono delle differenze significative rispetto alle medie dei punteggi in relazione alle classi di età sopra menzionate. Rispetto alle classi di età 2 e 3 (dai 50 agli oltre 80 anni) non sono state riscontrate differenze significative, anzi dai confronti emerge come queste due fasce tendano a costituirne una intera.   Queste considerazioni portano a confermare l’ipotesi che presume l’influenza del fattore età sulle performance al TYM test, questo effetto risulta statisticamente significativo per la fascia di età compresa tra i 30 e i 69 anni. Sulla base della seconda ipotesi di ricerca, sono state analizzate le correlazioni relative alle differenze di genere  confrontate con le correlazioni relative alle perfomance dell’intero campione il grafico a dispersione

Partendo dalla variabile età relativamente al campione complessivo, sono state registrate  correlazioni negative tra la variabile età e TYM test, questo dato conferma come con l’incremento dell’età le performance al TYM test tendano a subire delle variazioni in negativo Valori di correlazione negativi appaiono maggiormente evidenti nel momento in cui si passa all’osservazione tra i due generi (r= -0,545; r= .0,520) per un livello di significatività pari allo 0,01 quindi per p<0,01. Una correlazione negativa è stata riscontrata allo stesso modo confrontando performance all’MMSE. Anche in questo caso il fattore età influisce in maniera negativa sulle performance, i due test si comportano allo stesso modo Il coefficiente r di Pearson è stato calcolato anche affiancando performance al MMSE E TYM test, operando un confronto relativamente ai generi, in questo caso sono emerse delle correlazioni positive (r=0,300; r= 0,456) Infine è stato calcolato il coefficiente di correlazione relativamente al TYM test e MMSEsull’intero campione ed è emersa  una correlazione positiva tra i due test, in sostanza il TYM tende a mostrare un elevata validità di costrutto.

 

Discussione

L’analisi del valore F di Fisher ha mostrato differenze significative tra varianze in relazione ai fattori  di interesse: età, MMSE  e TYM test, si può per tanto dedurre come all’interno dei gruppi considerati le varianze tendano a mettere in evidenza la presenza di differenze significative, queste differenze sono state meglio evidenziate nei confronti post-hoc

Dal calcolo del coefficiente HSD di Tukey, considerando la suddivisione del campione per fasce di età ( classe di età 1: dai 30 ai 49 anni; classe di età 2 dai 50 ai 69 anni; classe di età 3 oltre 70 anni), sono emerse differenze significative tra le prime due fasce di età considerate, questo porta a dedurre come il TYM test tenda a discriminarle in maniera efficace. In altre parole, rispetto ad una fascia compresa tra i 30 e i 69 anni il TYM mostra sensibilità al cambiamento dell’età, questo è facilmente attribuibile ai significativi cambiamenti che percorrono questo arco temporale. Differentemente,  non sono apparse differenze statisticamente significative operando un confronto tra la seconda e la terza classe si età. Il TYM test tende a non mostrarsi discriminativo tra queste due fasce, la distinzione operata nella suddivisione delle classi non appare. In altre parole il TYM considera la fascia di età compresa tra i 50 e gli oltre 70 anni come un’unica grande classe. E’ interessante notare come l’MMSE  tenda a mostrare la stessa tendenza. Entrambi gli strumenti tendono a discriminare il fattore età, tuttavia questa si mostrerebbe significativa in particolare prendendo in esame la prima fascia e la seconda. La fascia di età compresa tra i 30 e i 69 anni risulta quindi ben discriminata dal TYM test;

Le correlazioni misurate tramite coefficiente r di Pearson hanno mostrato come il fattore età tenda a influenzare negativamente le performance al TYM test portando a confermare l’ipotesi di partenza, ossia dell’influenza significativa dell’età sulle performance al TYM test; tale risultato è rafforzato nel momento in cui le correlazioni sono state misurate sull’MMSE, anche in questo caso negative.

Rispetto alla seconda ipotesi come previsto non eisistono significative differenze di genere nei risultati ai test, portando a confermare nuovamente l’ipotesi di ricerca.

GRAFICO 1

GRAFICO 2

Bibliografia

  • Chertkow H, Massoud F, Nasreddinne Z, Belleville S., Joanette Y., C. Bocti, D. Drolet, V. Kirk, M. Freedman e H. Bergam (2008),” Diagnosis and treatment of dementia :3. Mild cognitive impairment and cognitive impairment without dementia”, in Canadian Medical Association Journal, 178, n10, pp.1273-1285.
  • Panza F,  D’introno A,  Colacicco AM,  Capurso C,   Pilotto A ,  Gagliardi G, P Scapicchio PL,  Scafato E,  Capurso A,  Solfrizzi V. La pre-demenza: diagnosi e prognosi del mild cognitive impairment in G. Gerontol 2006; 54 (Suppl 2 ):31-43.
  • Tuokko H,  Frerichs R,  Graham J. (2003),“ Five –years follow-up of cognitive impairment with no dementia”, in Archives of Neurology, 60, n.4, pp.577-582.

 

AUTORE: 

Sara Anaclerio, Dottoressa in Psicologia Clinica.
L’ estratto proposto è stato ricavato dal lavoro di tesi magistrale intitolato “TYM test un contributo alla validazione di uno strumento per lo screening del deterioramento cognitivo”. La ricerca  si è svolta presso l’ambulatorio di Psicologia Clinica e Neusopsicologia del Policlinico di Bari e si è conclusa con la discussione dei risultati  in seduta di laurea presso l’Università degli studi di Bari Aldo Moro il 10 Luglio del 2012. Il presente lavoro, inedito, consiste in un contributo alla validazione del TYM test, uno strumento di screening del deterioramento cognitivo, ed è stato curato in vista di una possibile standardizzazione italiana del test.

TORNA A INIZIO PAGINA

cancel