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Alzheimer e Demenze: oltre la stigmatizzazione

Le persone con demenza sono spesso oggetto di stigma e, insieme alle loro famiglie, interiorizzano le rappresentazioni negative che vengono loro attribuite

Di Anna Finocchietti

Pubblicato il 13 Ott. 2020

La stigmatizzazione delle persone con demenza ha importanti conseguenze su credenze, emozioni e comportamenti delle famiglie e dei loro cari, in particolare nei primi stadi della malattia.

 

Il termine ‘demente’ deriva dal latino e significa privo di mente, pazzo, folle, insensato, irragionevole. Il termine ha un valore semantico dal potere fortemente stigmatizzante: definire una persona priva di mente, folle, porta ad identificarla con l’etichetta che le abbiamo attribuito; si tratta di un processo di ‘distorsione’ cognitiva cui ne consegue che facilmente la persona malata venga trattata da parte di istituzioni, comunità, familiari come fosse la sua ‘etichetta’, come se dal momento della diagnosi la sua identità fosse appunto quella di ‘demente’.

Nel DSM 5 viene in parte superata la diagnosi di demenza, preferendo quella di Disturbo Neurocognitivo (DN), ma il termine non è comunque del tutto scomparso.

La malattia di Alzheimer, di cui maggiormente si parla, è solo una delle forme di disturbo neurocognitivo e ci si riferisce spesso ad essa in modo ipergeneralizzato.

Nel nostro paese le persone con diagnosi di DN sono stimate in circa 1 milione di cui 600.000 affette da malattia di Alzheimer. In Francia si stima che ogni anno vengano diagnosticati più di 100.000 nuovi casi. Una vera pandemia.

Ma per quanto i DN, e in particolare la forma Alzheimer, siano non solo così diffusi ma con previsioni di forte incremento nei prossimi anni, anche in relazione al progressivo invecchiamento della popolazione, sulla malattia non c’è ancora sufficiente informazione.

Il Rapporto Mondiale Alzheimer 2019 di Alzheimer’s Disease International (ADI) ha pubblicato i risultati di un sondaggio condotto in 155 Paesi in tutto il mondo su un campione di 70.000 persone comprendente malati, familiari, personale medico e non. I risultati dell’indagine hanno evidenziato una diffusa e preoccupante assenza di conoscenza riguardo i DN nonché convinzioni distorte anche tra il personale sanitario. Tra queste l’idea che non si possa fare nulla per prevenire la malattia, credere che non sia opportuno coinvolgere nella vita quotidiana le persone con DN e che possano solo essere messe ‘da parte’ (60% degli intervistati). Il dato trova conferma in quanto affermato da molti dei malati intervistati che riferiscono di sentirsi ignorati dal personale sanitario.

Come affermano Quattropani e Coppola (2013):

Se per il decadimento del corpo esistono filtri, sieri e ampolle medicamentose che rivitalizzano pelli avvizzite, per una mente che decade, che si deteriora non resta che l’isolamento, l’impotenza, spesso l’indifferenza.

Le credenze negative, stereotipate, amplificano gli aspetti di progressiva perdita non solo di memoria ma di tutte le abilità cognitive ed emozionali, dell’autosufficienza, dell’incapacità e della dipendenza ed influiscono considerevolmente su come le persone si relazionano al malato.

La malattia di Alzheimer è associata ad un insieme di rappresentazioni negative e riduttrici cui ne consegue che la persona che ne è affetta viene disumanizzata, desocializzata (Ngatcha-Ribert N. 2004).

Tutto ciò ricade sulla qualità della vita non solo del malato ma anche delle famiglie che trovano difficoltà nel sentirsi ascoltate, comprese e quindi nel chiedere aiuto, nell’aver fiducia di trovare una risposta ai propri bisogni.

La rappresentazione sociale delle demenze, per quanto finora abbiamo detto, porta a processi di stigmatizzazione.

La nostra mente è ‘progettata’ per garantire la sopravvivenza e a tale scopo necessita di un’alta capacità predittiva rispetto ciò che può accadere nell’ambiente. Tale capacità previsionale è possibile attraverso la costruzione di rappresentazioni, di mappe di sé stessi, degli altri e dell’ambiente. Questo implica processi di semplificazione della realtà attraverso classificazione, categorizzazione, discriminazione, esclusione. Questo processo normale può però portare anche a rigide stereotipizzazioni, pregiudizi, discriminazioni nei confronti  di individui aventi caratteristiche sociali indesiderabili. Di fatto quindi alla stigmatizzazione.

La stigmatizzazione è un processo per cui una persona viene valutata secondo delle caratteristiche ‘devianti’ in rapporto al contesto sociale e culturale di appartenenza, di conseguenza la sua identità sociale ne viene distorta e l’individuo viene sistematicamente escluso da diversi tipi di interazioni sociali. Le persone con demenza sono ancora troppo spesso oggetto di stigma e, insieme alle loro famiglie, interiorizzano le rappresentazioni negative che vengono loro attribuite (Raffard S.,Valery P., Gély-Nargeot MC. 2012). Questo ha importanti conseguenze su credenze, emozioni e comportamenti delle famiglie e dei loro cari in particolare nei primi stadi della malattia. Si può ad esempio provare vergogna per comportamenti bizzarri esibiti in pubblico dalla persona malata, ma vergogna anche per essere ammalati di una malattia che ci espone ad atteggiamenti negativi da parte degli altri che non ci riconoscono più soggetti ‘capaci’, ‘intelligenti’, ‘prestazionali’ ma solo ‘malati’ dimentichi di sè e del mondo esterno.

I pazienti affetti da Demenza di Alzheimer sono così voci mute, immagini di persone che gradualmente sbiadiscono, si perdono, non solo fattualmente nel vagabondaggio, ma psichicamente (…) Morire di questa malattia è un lento cancellarsi dal mondo (Quattropani, Coppola, 2013).

Le famiglie si chiudono nel loro dolore, sentono su di loro lo stigma, lo introiettano, hanno difficoltà a chiedere aiuto, sono drammaticamente sole nella gestione del malato, spesso ‘infantilizzato’, curato nei suoi bisogni fisici ma non compreso in quelli psicologici. Eppure, come alcuni studi dimostrano (Garolfi S., Lerda S. 2013), la persona malata di Alzheimer

preserva una soggettività che cerca di difendere strenuamente sin dalle prime fasi della patologia e tutto il sistema di cura a cui è affidata la presa in carico dell’anziano avrebbe il dovere clinico ed etico di sostenere questa capacità. (Quattropani, Coppola)

La persona con Alzheimer si trova sempre più, con il progredire della malattia e la conseguente perdita della memoria, a vivere in un mondo che perde significati, che non è più prevedibile, cerca così di dare un senso, una coerenza, una nuova narrazione di sé attraverso ricordi privi di connessione combinati in modi un po’ ‘surreali’, espressi con un linguaggio sempre più impoverito e connotato da una dimensione più affettivo-emotiva che cognitiva. Non è ‘perdita’ di senno, perdita di tutto quanto culturalmente associamo all’intelligenza, alla produttività, all’efficienza, alle capacità relazionali. E’ l’unico modo possibile per il malato di sostenere ciò che resta della propria identità, il ‘Chi sono’, ‘Qual è la mia storia’.

Gli studi che hanno esplorato in che misura il sé e l’identità persistono nelle persone con malattia di Alzheimer sono ancora pochi ma alcuni di questi suggeriscono prove della persistenza del sé nella malattia nei diversi stadi (Caddell L.S., Clare L., 2010).

Riconoscere l’identità della persona malata, vederla come persona unica e di valore, con le sue emozioni, i suoi bisogni, i suoi desideri, le sue preferenze significa allora superare le etichette sulla demenza, gli stereotipi, lo stigma e tutto quanto abbiamo visto ne consegue. Significa creare condizioni per una migliore qualità della sua vita, per una ‘convivenza sufficientemente felice’ (Vigorelli P., 2018).

Pertanto:

Un cambiamento della percezione e dell’idea della malattia di Alzheimer e delle altre malattie neurodegenerative celebrali deve essere una priorità al fine di favorire l’accompagnamento dell’invecchiamento problematico (Raffard S. et al., 2012).

 

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RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI
  • Caddell, L.S. e Clare, L., (2010), The impact of dementia on self and identity: A sistematic review, Clinical Psychology review 30 (1), 113-126.
  • Garolfi, S. e Lerda, S., (2013), L’identità oltre i ricordi perduti, Rivista di Psicologia Individuale, n.74: 69-95.
  • Ngatcha-Ribert, L., (2004), Maladie d’Alzheimer et societé: une analyse des représentations sociales, Psychologie et NeuroPsychiatries du Vieillissement, 2: 49-66.
  • Quattropani, M.C, e Coppola,E., (2013), Dimenticare se stessi. La continuità del sé nei pazienti Alzheimer, Piccin, Padova.
  • Raffard, S., Valéry P. e Gély-Nargeot M.C., (2012), Stigmatizzation in Alzheimer’s disease, a review, Geriatrie et Psychologie Neuropsychiatrie du Vieillissement, settembre.
  • Vigorelli, P., (2018), Alzheimer. Come parlare e comunicare nella vita quotidiana nonostante la malattia, Franco Angeli, Milano.
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