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Demenza

Il termine demenza indica un insieme di sintomi che comporta l’alterazione progressiva di alcune funzioni, tra cui memoria, ragionamento, linguaggio.

Aggiornato il 16 set. 2024

Demenza: che cos’è

Con il termine demenza si indica non una malattia, bensì una sindrome, cioè un insieme di sintomi, che comporta l’alterazione progressiva di alcune funzioni: memoria, ragionamento, linguaggio, capacità di orientarsi, di svolgere compiti motori complessi, e, inoltre, alterazioni della personalità e del comportamento. Queste alterazioni sono di severità tale da interferire con gli atti quotidiani della vita.

Così il Committee of Geriatrics del Royal College of Physicians britannico nel 1982 definisce la demenza:

La demenza consiste nella compromissione globale delle funzioni cosiddette corticali (o nervose) superiori, ivi compresa la memoria, la capacità di far fronte alle richieste del quotidiano e di svolgere le prestazioni percettive e motorie già acquisite in precedenza, di mantenere un comportamento sociale adeguato alle circostanze e di controllare le proprie reazioni emotive: tutto ciò in assenza di compromissione dello stato di vigilanza. La condizione è spesso irreversibile e progressiva.

La demenza può essere causata da diverse malattie: Aids, Demenza correlata all’alcool, Malattia di Binswanger, Sindrome di Gerstmann-Straussler-Scheinker, Corea di Huntington, Demenza multi-infartuale, Malattia di Parkinson.

Alcune condizioni che causano la demenza sono trattabili e potenzialmente reversibili: depressione, disfunzioni della tiroide, intossicazione da farmaci, tumore, idrocefalo normoteso, ematoma subdurale, infezioni, alcune deficienze vitaminiche. Queste, se sono diagnosticate in modo tempestivo, possono essere trattate efficacemente. E’ indispensabile pertanto che tutte le persone con deficit mnemonico o confusione siano sottoposte ad accurato accertamento medico.

In altri casi la demenza è causata da malattie neurodegenerative:

La malattia di Creutzfeldt-Jacob (CJD)

È una forma di demenza progressiva caratterizzata da perdita di cellule nervose e degenerazione delle loro membrane che provoca piccoli buchi nel cervello. L’esordio e il decorso sono rapidi. I primi sintomi includono perdita di memoria, alterazioni del comportamento, mancanza di interesse, mancanza di coordinazione. Successivamente possono apparire problemi di vista, movimenti involontari (specialmente spasmi muscolari) e rigidità degli arti. E’ possibile che il malato perda la capacità di movimento e di linguaggio. Colpisce uomini e donne e l’esordio è normalmente tra i 45 e i 75 anni. Può essere ereditaria o infettiva.

La malattia di Pick / Demenza frontotemporale

A differenza della malattia di Alzheimer che colpisce molte aree del cervello, è una demenza progressiva che colpisce aree specifiche: i lobi frontali e temporali. In alcuni casi le cellule del cervello si restringono o muoiono; in altri si ingrossano e contengono i “corpi di Pick“. In entrambe le situazioni questi cambiamenti influiscono sul comportamento del malato. Poichè la lesione avviene nelle aree frontali e temporali del cervello, i primi sintomi coinvolgono sia il comportamento che il linguaggio. Si verificano notevoli cambiamenti nella personalità dell’individuo, che può diventare sgarbato, arrogante, comportarsi in modo sconveniente, in sostanza non rispettare le convenzioni sociali. Può perdere interesse nella propria igiene personale, distrarsi facilmente, ripetere continuamente la stessa azione. Talvolta diventa incontinente nei primi stadi della malattia.

I problemi del linguaggio possono andare dalla diminuzione alla perdita totale di parola. Sintomi comuni sono la balbuzie e la ripetizione delle parole degli altri. Può avere difficoltà a seguire una conversazione; sono colpite anche la lettura e la scrittura. Nelle prime fasi della malattia i problemi del comportamento e quelli del linguaggio possono apparire separatamente; quando la malattia progredisce questi due problemi si sovrappongono. Diversamente dal malato di Alzheimer, chi è affetto dalla malattia di Pick è orientato nel tempo e conserva la memoria nelle prime fasi. Negli stadi avanzati di malattia si presentano i sintomi generali della demenza, come confusione e perdita di memoria e vengono perse le capacità motorie. La malattia di Pick colpisce sia uomini che donne; ha generalmente inizio tra i 50 e i 60 anni di età, e ha una durata media di 6-8 anni. Si sa poco delle cause e i fattori di rischio devono ancora essere identificati. Nella maggior parte dei casi la malattia è sporadica; molto raramente è coinvolto un gene autosomico dominante (cromosoma 17) che può essere trasmesso di generazione in generazione. Questa forma di malattia colpisce intorno ai 40 anni di età. Attualmente non esiste una terapia risolutiva e il decorso non può essere rallentato.

La malattia a corpi di Lewy

È una forma di demenza progressiva caratterizzata dalla presenza di strutture anormali nelle cellule del cervello chiamate “corpi di Lewy” (la malattia fu scoperta nel 1912 da F.H.Levi, il cui nome divenne Lewy nella traduzione dal tedesco). Queste strutture sono distribuite in varie aree del cervello e sono composte in gran parte da una proteina chiamata alfa-sinucleina, il cui meccanismo di formazione è sconosciuto. Diversamente dalla malattia di Alzheimer in cui i neuroni muoiono, nella malattia a corpi di Lewy solo il 10-15% dei neuroni scompare e i rimanenti non funzionano. E’ la seconda più comune causa di demenza negli anziani (15-20% di tutte le demenze). Può svilupparsi sola o insieme alla malattia di Alzheimer o di Parkinson. Il quadro clinico è simile a quello della malattia di Alzheimer: progressiva perdita di memoria, linguaggio, ragionamento e altre funzioni mentali come il calcolo. Il malato può sperimentare difficoltà con la memoria a breve termine, a trovare la parola giusta e a seguire il filo del pensiero. Talvolta può essere depresso e ansioso. La malattia a corpi di Lewy è diversa dalla malattia di Alzheimer perchè il suo decorso è di solito più rapido. Lo stato di confusione che i malati sperimentano può variare considerevolmente, persino nel corso della stessa giornata. Sono comuni le allucinazioni visive (vedere cose che non sono reali) e queste possono peggiorare nei momenti di maggiore confusione. Diversamente dalla malattia di Alzheimer i problemi di memoria possono essere assenti nelle fasi iniziali. Alcune caratteristiche della malattia a corpi di Lewy possono assomigliare alla Malattia di Parkinson e sono: rigidità muscolare, tremori, movimenti scoordinati. I farmaci, specialmente, alcuni sedativi, possono peggiorare questi sintomi. La malattia colpisce sia uomini che donne; non se ne conosce la causa e non sono stati identificati fattori di rischio. Attualmente non esiste una terapia risolutiva. Per alcuni sintomi, come la depressione e le allucinazioni può essere utile una terapia farmacologica.

Incidenza

Il costante innalzamento dell’età media determina la maggiore incidenza delle patologie neurodegenerative tipiche dell’invecchiamento (demenze), che compromettono le capacità di attenzione, concentrazione, memoria, ragionamento, calcolo, logica, orientamento, con ripercussioni sull’individuo e sulla sua famiglia (disturbo neurocognitivo). Fino a qualche decennio fa la demenza conclamata era considerata una condizione senza ritorno ma, con il procedere delle ricerche sul SNC e in ambito neuropsicologico, si è avuta una maggiore conoscenza delle caratteristiche di questa patologia, una migliore differenziazione delle sue forme e, di conseguenza, un approccio di tipo terapeutico.

La demenza di Alzheimer rappresenta, il 54% di tutte le demenze, con una prevalenza nella popolazione ultra sessantacinquenne del 4,4%.  La prevalenza di questa patologia aumenta con l’età e risulta maggiore nelle donne, che presentano valori che vanno dallo 0,7% per la classe d’età 65-69 anni al 23,6% per le ultranovantenni, rispetto agli uomini i cui valori variano rispettivamente dallo 0,6% al 17,6%. I tassi d’incidenza per la demenza di Alzheimer osservati in Europa indicano un incremento nei maschi da 0,9 casi per 1.000 anni-persona nella fascia d’età 65-69 anni a 20 casi in quella con età maggiore di 90 anni; nelle donne, invece, l’incremento varia da 2,2 nella classe d’età 65-69 a 69,7 casi per 1.000 anni-persona in quella maggiore di 90 anni (Ministero della Salute, 2013).

Ad oggi si pone sempre di più l’esigenza di formulare una diagnosi precoce, di implementare programmi di prevenzione e di stimolazione delle abilità cognitive residue, di fornire supporto al caregiver/nucleo familiare del paziente affetto da disturbo neurocognitivo. Sono numerosi ormai gli studi che dimostrano l’efficacia di interventi di stimolazione cognitiva e gli effetti positivi sono comprovati sia sul paziente – con miglioramento del funzionamento cognitivo e dei disturbi emotivo-comportamentali – sia sul caregiver, riguardo alla qualità di vita e alla sfera relazionale.

Demenza: il morbo di Alzheimer

La malattia di Alzheimer è una demenza. La demenza o deterioramento cognitivo cronico-progressivo è una conseguenza comportamentale di una patologia acquisita con andamento ingravescente, in cui il declino delle funzioni cognitive interferisce con le attività della vita di tutti i giorni (Vallar e Papagno, 2011).

La malattia di Alzheimer è il tipo di demenza più diffuso, rappresentando il 50-60% dei casi. La prevalenza interessa la popolazione al di sopra dei 65 anni di età con maggior incidenza nelle donne; l’età di esordio può raggiungere i 45 anni.

La demenza di tipo Alzheimer è caratterizzata da una modalità di esordio subdolo e insidioso. Il decorso della malattia di Alzheimer è graduale e progressivo con declino delle facoltà cognitive, le quali si ripercuotono pesantemente sullo stile di vita, sull’autonomia e sulla sfera sociale della persona affetta.

La diagnosi di questo tipo di demenza è effettuata per esclusione, ossia quando i deficit cognitivi non caratterizzano altre condizioni patologiche del sistema nervoso centrale o non sono attribuibili agli effetti di una o più sostanze. La diagnosi è probabilistica e la sua certezza è raggiungibile soltanto attraverso l’esame post- mortem del cervello, evidenziando la presenza di placche senili e degenerazione neurofibrillare. L’accuratezza della diagnosi, tuttavia, risulta essere piuttosto soddisfacente grazie alla combinazione degli esami clinici, di neuroimmagine e soprattutto neuropsicologici.

La malattia di Alzheimer è stata descritta per la prima volta nel 1906. Lo psichiatra e neuropatologo tedesco Alois Alzheimer descrive il caso di una sua paziente, Auguste Deter, la quale presentava segni di decadimento cognitivo, allucinazioni e perdita delle competenze sociali. L’esame autoptico post-mortem della paziente, rivelò il quadro istopatologico caratteristico di questa malattia, ossia la presenza di grovigli neurofibrillari e placche amiloidi.

L’ eziopatogenesi della malattia di Alzheimer, ancora oggi, non è del tutto chiara e definitiva. Le diverse ipotesi formulate mettono in evidenza diversi fattori che possono interagire tra loro. Tra questi, ad esempio, i fattori genetici, l’invecchiamento, agenti tossici e fattori vascolari.

I fattori di rischio della malattia di Alzheimer sono:

  • L’avanzamento dell’età
  • Il genotipo della Apoliproteina E (ApoE)
  • Sesso femminile
  • Bassa scolarità

I fattori di protezione dalla malattia di Alzheimer sono:

  • Alto livello d’istruzione
  • Svolgimento della regolare attività fisica
  • Limitato consumo di alcolici
  • Dieta mediterranea

I fattori prognostici della malattia di Alzheimer sono:

  • Età di esordio (un esordio precoce è correlato a un’evoluzione più rapida)
  • Precoce comparsa di segni extrapiramidali
  • Manifestazioni psicotiche
  • Disturbi del linguaggio (confermato fattore predittivo dell’evoluzione)

La malattia di Alzheimer è caratterizzata da alterazioni strutturali che colpiscono il cervello. Queste conseguenze cerebrali possono essere considerate microstrutturali e macrostrutturali.

L’esame istopatologico rivela la fondamentale presenza delle placche amiloidi e dei grovigli neurofibrillari. Nel cervello affetto da Alzheimer queste due lesioni si presentano in misura maggiore e in aree cerebrali diverse rispetto al cervello di soggetti con invecchiamento sano.

Le placche amiloidi sono depositi anomali di un peptide detto β-amiloide. Queste placche si sviluppano nello spazio extracellulare e i neuroni adiacenti ad essi si presentano rigonfi e sformati. La presenza delle cellule della microglia evidenza un tentativo di rimozione delle cellule danneggiate e delle placche amiloidi. Gli studi a livello genetico sono fondamentali poiché il peptide β-amiloide deriva dal taglio di una proteina precursore detta β-APP, la quale viene codificata da un gene localizzato sul cromosoma 21.

I grovigli neurofibrillari sono lesioni che si sviluppano nel citoplasma del neurone. Mutazioni nel gene tau possono modificare il modo in cui la proteina tau si lega ai microtubuli, i quali permettono ai neuroni di trasportare sostanze. Gli intrecci neurofibrilllari sono, dunque, costituiti da depositi fibrosi dovuti ad accumuli intracellulari delle proteine tau anormali.

Nel corso degli anni, l’intero corpo umano va incontro a progressivi cambiamenti dovuti all’invecchiamento. Queste alterazioni coinvolgono anche il cervello.

Il normale invecchiamento assume un aspetto fortemente patologico nella malattia di Alzheimer. La caratteristica cerebrale più importante è l’atrofia dovuta alla perdita progressiva dei neuroni.

Le tecniche di neuroimmagine funzionali e strutturali sono estremamente fondamentali per lo studio della struttura e/o funzionalità del cervello. La tomografia assiale computerizzata (TAC) e la risonanza magnetica per immagini (RMI) evidenziano una riduzione del volume e del peso della sostanza cerebrale nei pazienti affetti dalla malattia di Alzheimer rispetto ai soggetti sani.

L’atrofia, oltre che a condurre ad un allargamento dei solchi cerebrali e ad una dilatazione ventricolare, colpisce soprattutto il lobo temporale mediale. In quest’area l’ippocampo risulta maggiormente danneggiato. L’atrofia ippocampale riflette i deficit mnestici e di disorientamento, caratteristici della demenza di Alzheimer.

La perdita neuronale si verifica anche nella neocorteccia. L’ulteriore atrofia corticale può essere legata a meccanismi di non uso. Infatti, accanto a fenomeni di morte cellulare che interessano in realtà solo un numero limitato di aree cerebrali, il problema forse più serio, per le conseguenze che provoca, è l’atrofia cellulare e la riduzione di attività di cellule nervose ancora vive (Moro e Filippi, 2010).

Le fasi degenerative del morbo di Alzheimer

La progressione del morbo di Alzheimer è inesorabile. Gli esperti hanno sviluppato delle “tappe” per descrivere come le abilità di una persona cambino, rispetto alla loro normale funzionalità.

Questo quadro, caratterizzato da sette fasi, si fonda su un sistema sviluppato da Barry Reisberg, M.D., direttore clinico del Dementia Research Center (Centro di Ricerca sull’Invecchiamento e la Demenza) della New York University School of Medicine:

Fase 1: Funzionalità normale

La persona non soffre di problemi di memoria. La visita effettuata presso un medico non mostra alcuna prova di sintomi di demenza.

Fase 2: Declino cognitivo molto lieve

È possibile che si tratti di normali cambiamenti legati all’età o dei primi segnali del morbo di Alzheimer)

La persona potrebbe segnalare la sensazione di avere vuoti di memoria – dimenticando parole familiari o la posizione di oggetti di uso quotidiano. Tuttavia, nessun sintomo di demenza può essere rilevato nel corso di una visita medica oppure da amici, familiari o colleghi di lavoro.

Fase 3: Declino cognitivo lieve

Un lieve declino cognitivo (il morbo di Alzheimer in fase precoce può essere diagnosticato con questi sintomi in alcune, ma non in tutte le persone).

Amici, familiari o colleghi di lavoro iniziano a notare delle difficoltà. Nel corso di una visita medica accurata, i medici possono essere in grado di rilevare problemi di memoria o di concentrazione. Le difficoltà più comuni di cui alla fase 3 includono:

  • Evidenti difficoltà a trovare la parola o il nome giusto
  • Problemi a ricordare i nomi quando vengono presentate nuove persone
  • Difficoltà notevolmente maggiori nello svolgere dei compiti in contesti sociali o di lavoro
  • Dimenticare cose appena lette
  • Perdere o non trovare un oggetto di valore
  • Aumento dei problemi di programmazione o organizzazione

Fase 4: Declino cognitivo moderato

Questa fase identifica il morbo di Alzheimer lieve o in fase precoce.

A questo punto, una visita medica accurata dovrebbe poter rilevare chiari sintomi in diversi ambiti:

  • Dimenticanza di recenti eventi
  • Compromissione della capacità di eseguire calcoli aritmetici mentali impegnativi – ad esempio, il contare a ritroso da 100 di sette in sette
  • Maggiore difficoltà a svolgere compiti complessi, quali, ad esempio, la pianificazione della cena per gli ospiti, il pagamento delle bollette o la gestione delle finanze
  • Dimenticanza della propria storia personale
  • Carattere sempre più lunatico o riservato, soprattutto in occasione di situazioni socialmente o mentalmente impegnative

Fase 5: Declino cognitivo moderatamente grave

Questa fase identifica il morbo di Alzheimer moderato o in stadio intermedio.

Le lacune nella memoria e nel pensare diventano evidenti, e le persone cominciano ad avere bisogno di aiuto per svolgere le attività quotidiane. In questa fase, chi è affetto dal morbo di Alzheimer potrebbe:

  • Non essere in grado di ricordare il proprio indirizzo o numero di telefono oppure la scuola superiore o l’università presso la quale si è laureato
  • Confondersi sul luogo in cui si trova o sul giorno attuale
  • Avere problemi con l’esecuzione di calcoli aritmetici mentali meno impegnativi – ad esempio, il contare a ritroso da 40 di quattro in quattro, oppure da 20 di due in due
  • Avere bisogno di aiuto per scegliere un abbigliamento adeguato per la stagione o per l’occasione
  • Ricordare ancora particolari significativi su se stessi e la loro famiglia
  • Non necessitare ancora di assistenza per mangiare o andare in bagno

Fase 6: Declino cognitivo grave

Questa fase identifica il morbo di Alzheimer moderatamente grave o in fase media.

La memoria continua a peggiorare, possono aver luogo cambiamenti di personalità; le persone hanno bisogno di notevole aiuto per svolgere le attività quotidiane. In questa fase, tali individui potrebbero:

  • Perdere la consapevolezza delle esperienze più recenti e di ciò che li circonda
  • Ricordare il proprio nome, ma avere difficoltà a ricordare la propria storia personale
  • Distinguere i volti noti e non noti, ma avere difficoltà a ricordare il nome di un coniuge o di una persona che l’assiste
  • Avere bisogno di aiuto per vestirsi correttamente e, in caso di mancato controllo, compiere errori quali indossare il pigiama sopra i vestiti da giorno o indossare scarpe sul piede sbagliato
  • Vivere l’esperienza di grandi cambiamenti nei modelli di sonno – dormire durante il giorno e diventare irrequieto di notte
  • Avere bisogno di aiuto nel gestire certi dettagli dell’igiene personale (ad esempio, tirare lo sciacquone, pulirsi con la carta igienica o smaltirla correttamente)
  • Avere problemi sempre più frequenti nel controllare la vescica o l’intestino
  • Vivere l’esperienza di notevoli cambiamenti di personalità e di comportamento, tra cui la sospettosità e le fissazioni (come credere che la persona che l’assiste sia un’imbrogliona) oppure comportamenti incontrollabili o ripetitivi, come torcersi le mani o fare a pezzetti i fazzoletti di carta
  • Tendere a vagare o perdersi

Fase 7: Declino cognitivo molto grave

Questa fase identifica il morbo di Alzheimer grave o in fase avanzata.

Nella fase finale di questa malattia, la persona perde la capacità di rispondere al suo ambiente, di portare avanti una conversazione e, in seguito, di controllare i movimenti. L’individuo può ancora utilizzare parole o frasi. In questa fase, è necessario molto aiuto nella cura personale quotidiana, tra cui mangiare o andare in bagno. Possono andare perdute le capacità di sorridere, di sedersi senza supporto e di sorreggere la propria testa. I riflessi diventano anomali. I muscoli diventano rigidi. La deglutizione diventa compromessa.

La demenza frontotemporale pre-senile (FTD)

Negli ultimi 15 anni si è assistito ad un aumento dei casi di demenza frontotemporale pre-senile (FTD). Si tratta della quarta forma più frequente di demenza dopo il morbo di Alzheimer, la demenza vascolare e la demenza a corpi di Lewy.

Diversamente dalle ultime tre che tendono ad esordire dopo i 65 anni, la demenza frontotemporale pre-senile tende ad esordire attorno ai 40 anni e a progredire molto più velocemente degli altri quadri. L’aumento dei casi di demenza frontotemporale pre-senile rappresenta un dato di allarme visto l’esordio in un’età in cui il paziente è nella piena attività della sua vita famigliare, relazionale e lavorativa.

Storicamente, le caratteristiche cliniche del quadro di demenza frontotemporale pre-senile furono delineate dallo psichiatra tedesco Arold Pick (Pick, 1982). Il disturbo si può manifestare in tre diverse varianti a seconda delle aree cerebrali inizialmente coinvolte dal deterioramento: afasia non-fluente progressiva, dove degenera inizialmente l’area della produzione del linguaggio ovvero la corteccia frontale dorsolaterale; demenza semantica, dove degenera inizialmente l’area della conoscenza semantica ovvero la corteccia temporale; demenza frontotemporale a variante comportamentale. Quest’ultima forma esordisce con il degenero delle aree responsabili del comportamento sociale, dell’inibizione degli impulsi e del comportamento strategico ovvero le cortecce orbito-frontali e frontali ventro-mediali.

Data la riduzione del funzionamento in queste aree, i sintomi visibili assomigliano molto ai quadri psicotici come nel caso di ottundimento emotivo, mancanza di empatia, irritabilità, aggressività, antisocialità, comportamento di accumulo, stereotipie verbali e motorie, o ai quadri bipolari come nel caso di apatia, ipomania e disinibizione (Bathgate et al., 2001).

Vista la somiglianza delle manifestazioni sintomatologiche, la demenza frontotemporale a variante comportamentale viene spesso diagnosticata all’esordio come un disturbo psichiatrico e il paziente viene solitamente inviato ad un medico psichiatra o ad una struttura psichiatrica. A seguito di questo invio, spesso il paziente intraprende un periodo di ricovero o di consulto periodico con lo psichiatra in cui assume una terapia farmacologica indicata per le psicosi, nel caso prevalgano i sintomi simil-psicotici, o per il disturbo bipolare, nel caso prevalga l’ipomania o la disinibizione.

È facile pensare che il trattamento psico-famacologico per altre patologie diverse da quella in atto possa complicare il quadro e contribuire a mascherare per lungo tempo la sindrome primaria, ritardando la diagnosi e i possibili interventi. Trattandosi di un processo di degenerazione delle cortecce cerebrali, il disturbo continuerà a peggiorare coinvolgendo sempre di più aree di funzionamento cognitivo, emotivo e motorio per i quali la terapia psicofarmacologica non è indicata e nemmeno sufficiente per gestire la complessità delle conseguenze del disturbo. La diagnosi precoce ha la funzione di attivare immediatamente tutti i servizi necessari per limitare danni fisici, economici, emotivi e/o di sviluppo emotivo patologico se sono presenti dei minori, e accompagnare il paziente e la sua famiglia nella gestione del disturbo nel modo più efficace possibile.

La completa incosapevolezza del paziente dei propri sintomi e comportamenti di imitazione e dipendenza ambientale sono aspetti caratteristici della demenza frontotemporale pre-senile che non si riscontrano nella psicosi e nel bipolarismo. L’esame neuropsicologico è necessario per individuare il funzionamento delle capacità esecutive e confermare o escludere la diagnosi. Una volta posta la diagnosi l’intervento preferibile è la presa in carico del paziente da parte di una equipe formata da uno psichiatra, un neurologo e un geriatra, l’attivazione di supporto psicologico, sociale e legale alla famiglia.

Demenza e depressione

Nell’arco degli ultimi anni c’è stato un notevole mutamento nella considerazione dei sintomi depressivi degli anziani, si è passati da una visione pessimistica che li considerava come un aspetto insito nell’invecchiamento a un approccio che li ritiene l’espressione di una patologia indipendente da esso e per la quale possono essere messi in atto interventi terapeutici efficaci (Anderson, 2001).

Il riconoscimento precoce, la diagnosi e l’inizio del trattamento della depressione negli anziani presenta varie opportunità di migliorare la qualità di vita, di prevenire la sofferenza o la morte prematura e di mantenere livelli ottimali delle funzioni e dell’autonomia.

In alcuni casi il confine tra demenza e depressione è spesso incerto. Sebbene la relazione tra demenza e depressione sia stata oggetto di ricerche nel campo della psichiatria geriatrica negli ultimi decenni, le considerazioni cliniche sono in continua evoluzione.

Le attuali conoscenze in quest’area sono iniziate con i lavori di Roth (1955) e Post (1962) che hanno postulato che demenza e depressione costituiscono due disturbi separati e distinti. La difficoltà nel distinguerli è stata enfatizzata da Kiloh, che ha ripreso nel 1961 il termine introdotto da Maddem (1952) di pseudodemenza con il quale descrive un quadro clinico caratterizzato da una sintomatologia sovrapponibile a quella della demenza primaria, ma in realtà secondario a depressione e solitamente reversibile.

La diagnosi di pseudodemenza si basa sull’assenza del substrato organico specifico della demenza e sulla sua reversibilità. La diagnosi differenziale tra le fasi iniziali della demenza e un disturbo depressivo ad insorgenza tardiva può risultare difficile per la contemporanea manifestazione sia di sintomi cognitivi, come deficit mnesici e la scarsa concentrazione, sia di altri sintomi, quali l’apatia, il ritiro sociale e la scarsa energia.

Più recentemente le conoscenze tra demenza e depressione propendono verso l’evidenza che la depressione con sintomi cognitivi reversibili possa costituire un prodomo per la demenza, piuttosto che un distinto e separato disturbo. Un’altra possibilità è che la depressione possa costituire un fattore di rischio per la demenza.

L’importanza della depressione in corso di demenza è sottolineata dalle sue conseguenze. Poiché la depressione costituisce una condizione potenzialmente reversibile, il suo trattamento potrebbe evitarle. Le sue conseguenze sono un peggioramento della qualità di vita, una maggior compromissione nelle attività giornaliere, una maggior predisposizione a sviluppare disturbi fisici, una precoce istituzionalizzazione e un maggior peso a carico dei caregivers.

La frequente coesistenza tra le due condizioni ha stimolato la formulazione di diverse spiegazioni circa la loro possibile associazione.

Una di queste è la depressione come espressione del processo demenziale. Secondo questa spiegazione la depressione apparirebbe non come una sindrome autonoma, patogenicamente distinta dalla demenza di Alzheimer come richiesto dalla comorbilità, ma come una costellazione di sintomi, espressione dello stesso danno biologico che sottende il processo demenziale o i meccanismi biochimici correlati. Sono state avanzate due ipotesi per spiegare la correlazione tra sintomi depressivi e sintomi cognitivi:

  1. La prima ipotesi postula che la depressione possa rappresentare un prodomo della demenza, piuttosto che un disturbo distinto, che può precedere anche di molto tempo l’esordio del deficit conclamato. In altri termini, alcuni pazienti potrebbero essere portatori di una demenza subclinica in cui la depressione transitoria agirebbe come sorta di rilevatore precoce dell’affezione sottostante. Un possibile meccanismo risiederebbe nella perdita di neuroni noradrenergici, riscontrabile sia nella demenza di Alzheimer che nella depressione.
  2. La seconda ipotesi postula che la depressione agisca come fattore di rischio per un’evoluzione demenziale.

L’altra spiegazione possibile è che la depressione sia un’entità clinica indipendente dal processo demenziale: per poter usare correttamente il concetto di comorbilità, le sindromi in causa devono essere reciprocamente distinguibili dal punto di vista patogenetico. Secondo alcuni autori le modificazioni neurochimiche che si accompagnano ai quadri di depressione maggiore nel contesto di una demenza primaria sono qualitativamente diverse da quelle associate alla demenza, corroborando così i criteri diagnostici del DSM-5 per depressione maggiore in demenza primaria. Alcuni autori, seguendo un criterio ex adiuvantibus, sottolineano che la sintomatologia depressiva nel demente risponde spesso all’uso della terapia antidepressiva suffragando tale ipotesi. Infatti, se i sintomi depressivi appartenessero al quadro demenziale, la risposta tenderebbe ad essere assente e solo un eventuale trattamento del disturbo cognitivo potrebbe risolvere la sindrome affettiva. È stato postulato che la depressione maggiore nella demenza di Alzheimer si associ ad una preesistente vulnerabilità al disturbo dell’umore non espressa in precedenza, slatetizzata dalle modificazioni cerebrali in corso di demenza primaria.

Certamente la depressione, sia che preceda o accompagni la demenza, è fonte di sofferenza e disabilità non solo per il paziente ma anche per il caregiver e necessita pertanto di una terapia appropriata indipendentemente dal suo possibile effetto preventivo. Differenziare in modo chiaro depressione e demenza, come si è visto, è molto difficile perché le due sindromi presentano alcuni sintomi che si sovrappongono.

Gli elementi che differenziano la depressione dalla demenza sono il suo esordio di solito rapido e individuabile e la consapevolezza del soggetto depresso dei propri sintomi cognitivi e della loro gravità. La demenza di Alzheimer, invece esordisce progressivamente ed il paziente non è consapevole della gravità dei propri disturbi. Il paziente depresso è molto dettagliato nel presentare le proprie difficoltà e incapacità, non fa nessun tentativo per risolvere i problemi mnesici e appare triste quando si confronta con situazioni che lo mettono in difficoltà. La perdita degli interessi e l’anedonia sono globali, il rallentamento riguarda tutte le abilità e l’intensità dei disturbi lamentati non è correlata al disturbo cognitivo effettivo. Nella demenza il soggetto, invece, è poco lamentoso, tende a sminuire le proprie incapacità, cerca in ogni modo di sopperire ai deficit mnesici e rimane indifferente di fronte a situazioni che possono metterlo in difficoltà. Sono assenti i sintomi vegetativi tipici della depressione e vi è un rapporto diretto tra disturbi cognitivi manifesti e comportamento.

Per fare diagnosi differenziale è necessario valutare longitudinalmente sia i sintomi depressivi che le funzioni cognitive. Le scale più utilizzate per valutare il tono dell’umore nell’anziano sono la GDS, la HAM-D e la Cornell Depression Scale.

La diagnosi differenziale della pseudodemenza depressiva dalla demenza primaria è fondamentale in quanto la prima, se opportunamente riconosciuta, curata e trattata, costituisce solitamente un disturbo solitamente reversibile.

Il trattamento della demenza

Le linee guida per il trattamento della demenza e del deficit neurocognitivo associato prevedono la combinazione di terapie farmacologiche e di terapie non farmacologiche.

Terapia farmacologica

La scelta del farmaco dipende dalla tipologia di demenza da cui è affetto il paziente. In generale, i farmaci considerati di elezione sono gli inibitori dell’acetilcolinesterasi (donepezil, galantamina, rivastigmina) e glutammatergici (memantina). Per i disturbi emotivo-comportamentali associati le classi di farmaci attualmente impiegate sono quelle degli antidepressivi, degli antipsicotici atipici di seconda generazione e gli stabilizzatori dell’umore.

Terapia non farmacologica

Nel corso degli ultimi vent’anni hanno ricevuto un’attenzione crescente le terapie non farmacologiche, in primis la riabilitazione neuropsicologica. Questo interesse sembra legato principalmente  diversi fattori: efficacia relativa ed effetti avversi gravi della terapia farmacologica, maggiori conoscenze sui meccanismi del disturbo neurocognitivo e della plasticità cerebrale, numerose sperimentazioni con prove di efficacia di trattamenti non farmacologici.

La riabilitazione neuropsicologica è un processo di stimolazione cognitiva rivolto al soggetto con disturbo neurocognitivo atto a:

  • ridurre i deficit cognitivi e  i disturbi emotivo-comportamentali:
  • rallentare o stabilizzare la progressione della malattia;
  • conservare il più possibile l’autonomia del soggetto;
  • migliorare il funzionamento sociale e lavorativo;
  • ridurre il carico gestionale e lo stress del caregiver.

L’intervento di riabilitazione neuropsicologia prevede sedute individuali o di gruppo (massimo 5 persone) da 45 minuti, a cadenza settimanale/bisettimanale, con somministrazione di schede cartacee e/o esercizi computerizzati, divisi per dominio cognitivo, volti a potenziare le abilità residue ed a acquisire strategie di compenso per le abilità deficitarie.

Training cognitivo per le demenze

Il training cognitivo per le demenze prevede programmi complessi che allenino attraverso specifiche attività i processi cognitivi danneggiati o che potenziano le abilità residue, ma che possono anche includere metodi di compensazione, come l’utilizzo di strategie e strumenti, e di gestione dei sintomi emotivo-comportamentali conseguenti alla patologia cerebrale.

Il training congnitivo consiste nella somministrazione ripetuta e guidata di esercizi disegnati appositamente per stimolare specifiche funzioni cognitive, e comprende esercizi per l’apprendimento di materiale verbale o visuo-spaziale, esercizi per la memoria procedurale, per la memoria episodica o spaziale, esercizi per l’attenzione sostenuta e divisa, esercizi per il problem solving, esercizi per le capacità prassiche, gnosiche e così via.

Nelle persone con una malattia degenerativa il training cognitivo per le demenze ha la funzione di agire per rallentare il deterioramento cognitivo.

Per quanto riguarda il trattamento delle demenze si è assistito ad un utilizzo sempre maggiore e sempre più precoce di tecniche di stimolazione cognitiva, con risultati positivi nel rallentamento del deficit cognitivo, tanto che molti training cognitivi rientrano ormai nei programmi sanitari di alcuni paesi.

Nei programmi riabilitativi rivolti a persone con deficit cognitivi in seguito a cerebrolesioni invece, i training cognitivi hanno lo scopo di recuperare e compensare, ove possibile le abilità compromesse.

La riabilitazione cognitiva è un concetto molto ampio e si basa sul concetto di plasticità cerebrale ovvero la capacità del cervello di modificarsi e ristrutturarsi in risposta all’ambiente e a nuovi stimoli. La pratica ripetuta di specifiche abilità cognitive può guidare il cervello nella riorganizzazione funzionale vicariando le abilità perse a causa della lesione o rinforzando le abilità preservate.

Bibliografia

  • Federazione Alzheimer Italia “Le schede informative. Panorama delle demenze”. DOWNLOAD
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